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Roma – Cittadinanza attiva – Premio delle buone pratiche di educazione alla sicurezza e alla salute Vito Scafidi

Roma
9.30 Inizio lavori

Saluti
Stefania Giannini, Ministro dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca*

Relazione introduttiva
Adriana Bizzarri, Coordinatrice Nazionale della Scuola di Cittadinanzattiva

10.45 Interventi e premiazione delle scuole

Modera
Alex Corlazzoli, giornalista, maestro, scrittore
Partecipano:
Giuseppe Brescia, VII Commissione Cultura, Scienza, Istruzione – Camera dei Deputati
Cinzia Caggiano , Fortunato e Paola Scafidi, genitori e sorella di Vito
Elena Centemero, I Commissione Affari Costituzionali – Camera dei Deputati
Manuela Ghizzoni, VII Commissione Cultura, Scienza, Istruzione – Camera dei Deputati
Alessandro Mastrocinque, Vice Presidente Confederazione Italiana Agricoltori
Antonio Morelli, presidente del Comitato Vittime S. Giuliano di Puglia
Titti Postiglione, Dipartimento della Protezione Civile
Giorgio Rembado, Presidente Associazione Nazionale Presidi

Conclude
Anna Lisa Mandorino, Vice Segretario generale di Cittadinanzattiva

Saranno presenti studenti, insegnanti e dirigenti scolastici delle scuole vincitrici e di quelle che avranno ricevuto menzioni speciali, che illustreranno i rispettivi progetti. Nel corso della premiazione verrà presentato il filmato contenente le clips dei progetti vincitori e menzionati.

Chiusura dei lavori ore 13.00

"Perchè l'UE rischia di tingersi di nero", di Piero Ignazi

Il Front national di Marine Le Pen in Francia e il Partito della libertà di Geert Wilders sono oggi i primi partiti dei rispettivi Paesi: entrambi sono accreditati di più del 20% dei voti alle prossime elezioni europee: il Fn sopravanza sia un partito socialista boccheggiante dopo la serie di passi falsi della presidenza e del governo, sia un partito gollista tramortito dagli scandali; e il Pvv di Wilders supera sia i liberali che i socialisti.
Sulla loro spinta arriverà una compatta falange estremista al Parlamento di Strasburgo? Per quanto queste previsioni possano inquietare, i consensi che la destra radicale potrebbe conquistare in tutta Europa inducono a considerazioni meno pessimiste.
In realtà la marea montante che tanto impressiona si limita ad alcuni Paesi. Alle ultime elezioni politiche svoltesi nei 28 Stati membri dell’Ue sono arrivati in Parlamento solo 11 partiti estremisti sui 18 che superano l’1% dei voti. Di questi 18 partiti solo la metà ha incrementato i propri consensi in rapporto alle precedenti elezioni: l’altra metà, invece, ha perso voti. E ancora, i grandi balzi in avanti — più di 5 punti percentuali — sono limitati a pochi casi, e solo l’Fpo austriaco (la formazione erede di Jorg Haider) è andato sopra il 20% dei voti.
L’allarme va quindi riconsiderato alla luce di questi dati. In fondo alcuni grandi Paesi — Spagna, Polonia, Germania e Gran Bretagna — sono privi di partiti estremisti: la Polonia ne aveva due (il Partito dell’autodifesa e la Lega della famiglie polacche) ma ora sono praticamente scomparsi; la Germania ha da tempo sradicato la possibilità di una ripresa di movimenti radicali grazie al suo impegno di prevenzione, controllo ed educazione civica; e la Gran Bretagna ha visto alle ultime elezioni locali il definitivo tracollo del British national party le cui prospettive di ascesa avevano così inquietato i britannici. Per quanto riguarda il Regno Unito, il partito euroscettico dell’United kingdom independence party non rientra certo nella famiglia politica degli estremisti di destra. Il suo atteggiamento anti-Ue per quanto inflessibile non è nutrito degli stessi stimoli che motivano l’euroscetticismo di un Front national o di un Fpo. E lo stesso vale per il M5S, per quanto la sua confusione sull’Europa sia somma.
Ricalibrato così il rischio di un Parlamento europeo tinto di nero, rimane il fatto che queste elezioni possono innescare una dinamica pericolosa. A partire dalla Francia. Oltralpe il successo politico- mediatico di Marine Le Pen è incontestabile. Con una abilissima opera di rinnovamento della immagine e del discorso politico il Fn ha dismesso la sua espressione aggressiva e minacciosa. Per meno della metà dei francesi ormai il Front national non rappresenta più un pericolo, mentre fino al 2010 più del 65% lo considerava tale. Ora il cordone sanitario intorno al partito si è allentato. Più della metà degli elettori gollisti vedono con favore l’ipotesi di alleanze e accordi locali col Fn. Questo grazie anche ad alcune variazioni significative che Marine Le Pen, più o meno strumentalmente, ha introdotto nelle sue argomentazioni in merito alla laicità, al riconoscimento di alcuni diritti civili e al ruolo dello Stato. Tant’è che il 10-15% degli elettori del presidente François Hollande pensa di passare al Fn alle prossime elezioni europee. E altrettanto vuole fare il 20% di coloro che si collocano all’estrema sinistra. Lo sfondamento a sinistra e il recupero a destra riproducono la formula vincente dei partiti antisistema. Se al Fn riesce questa impresa e diventa veramente il primo partito di Francia, allora il suo esempio rischia di essere contagioso e di produrre un’onda nera tale da sconvolgere gli equilibri politici di molti Paesi europei.
È per questa ragione che anche in Italia, dove la Lega nord si sposta sempre più all’interno dell’estremismo populista, dovremmo adottare, come in Germania, iniziative pubbliche di contrasto nei confronti delle ideologie anti-liberali e anti-democratiche dei partiti anti-sistema. Anche noi, benché ci piaccia dimenticarlo, abbiamo avuto un regime autoritario. Ma a parte la retorica resistenziale, non è stato fatto nulla per contrastare il risorgere di quella mentalità; anzi venne tranquillamente accolto in Parlamento un partito chiaramente nostalgico ad appena tre anni dalla fine della guerra.
Le forze estremiste che entreranno nel Parlamento di Strasburgo non saranno tali da determinare la politica europea. Ma il loro clamoroso successo in un grande Paese come la Francia può avere un effetto leva su quei vasti settori di opinione pubblica attratti dal discorso anti-egualitario ma ora accasati in altri partiti o lontani dalla politica.
È per prevenire questo rischio, latente anche in Italia, che le istituzioni dovrebbero seguire la rotta indicata dalla Germania con le sue iniziative sui pericoli del radicalismo e dell’estremismo politico. La sottovalutazione in questi vent’anni delle pulsioni illiberali e anti-sistemiche (rappresentate soprattutto dalla Lega) ha prodotto un terreno ricettivo dell’estremismo e del populismo. Questa volta le pulsioni sono andate, fortunatamente, verso il Movimento 5Stelle, ma ad un altro tornante potrebbero prendere altre e ben peggiori direzioni.

La Repubblica 21.03.14

"Non pianti e sogni ma mete possibili. Cinque idee per rilanciare la cultura" di Gian Arturo Ferrari

Grami restano i tempi per la cultura, ma non privi di qualche spiraglio di luce. Che sarebbe sbagliato trascurare. Il presidente del Consiglio è tornato a più riprese e da varie angolazioni sul nodo educativo-formativo. Con passione e con calore, occorre dire, il che non è ancora nulla, ma è già qualcosa. Il provvedimento sull’edilizia scolastica, per ora solo un annuncio, ha certo un tonificante sottotesto cantieristico, ma l’idea che le scuole debbano essere decorose e possano anche essere belle è, per l’Italia, una rivoluzione. Anche la cultura insomma, da sotto il suo sudario di noia compunta, inizia a riscuotersi, percorsa dal vento dell’attesa.
È il momento dunque di fissare alcuni punti e tirare alcune linee, a scanso di equivoci e di future delusioni.
Primo: l’insieme e non le parti. Il vero è l’intiero, diceva il compianto Giorgio Guglielmo Federico Hegel, ossia la verità è il tutto. La cultura di un Paese, e nello specifico del nostro, è fatta certo di vari e diversi settori, ciascuno con le sue gelose peculiarità, ma quel che conta è la visione e il funzionamento dell’insieme, la fisiologia e non l’anatomia. Dunque bisogna abbracciare in un solo sguardo formazione professionale e scuola, università e ricerca, tutela del patrimonio e industria culturale, promozione ed espressione artistica. Cose lontanissime, ma unite — non dimentichiamolo — nel vissuto, specie delle nuove generazioni.
Secondo: non pianti e non sogni, mete raggiungibili. Diamo per letta la litania delle nostre disgrazie. La formazione professionale che non c’è. I test Pisa (Program for international students assessment) dove arriviamo tra gli ultimi d’Europa. Il numero dei laureati troppo basso. I muri di Pompei che crollano (ma adesso si rubano anche gli affreschi…). Gli acquirenti di libri che da circa metà che erano sono diventati il 37%, cioè poco più di un terzo, della popolazione adulta. Le nostre maggiori imprese librarie (la principale tra le industrie culturali) che nel ranking mondiale arrivano dopo il trentacinquesimo posto. Guardiamo invece i nostri vicini di banco — tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli, cioè i Paesi a noi comparabili — e siccome copiare qui si può e in alcuni casi si deve, vediamo di allinearci alla loro media nei principali indicatori. E cerchiamo però anche di dire in quanti anni ci vogliamo arrivare.
Terzo: soldi. Come, a quel che si dice, il Milan (io sono interista), non spendiamo poco, spendiamo male. Forse, mettendo insieme tutta la nostra spesa in cultura, si può trovare il modo di distribuirla meglio. Ha ragione il presidente del Consiglio a lamentare la perdita di dignità e prestigio sociale degli insegnanti, ma per restituirli, stante che non si può imporre una nuova tassa, bisogna sottrarre risorse a qualcos’altro. Cioè a qualcun altro. A chi, di preciso?
Quarto: le belle idee. Sulle quali vorremmo chiedere una moratoria. Ringraziamo di cuore per le tre i, per gli ukase sui libri digitali nelle scuole, per i bonus e i buoni di sconto che poi non sono buoni e non sono di sconto. E non dimentichiamo i certami, o campionati, tra primi della classe per determinare il super primo della classe regionale e il super primissimo nazionale. Ringraziamo, ma stiamo contenti così.
Quinto e ultimo: politica, politica, politica. La gestione della cultura, nel senso ampio che noi intendiamo, non è materia per specialisti. È politica, una delle porzioni più pregiate della politica, dato che in ultima analisi crea, valorizza e infine mette a profitto il fattore umano, il capitale umano. C’è dunque bisogno di politica, cioè di scelte, di indirizzi, di priorità, di tenacia, ma anche di prezzi pagati. E dietro alla politica c’è bisogno di pensiero politico, in assenza del quale il discorso sulla cultura diventa vanità e vacuità. Il destino culturale dell’Italia — che è forse la parte maggiore del suo destino — va pensato, meditato e deciso, non improvvisato. Non può essere e non sarà solo il risultato di mosse agili e fortunate.

Il Corriere della Sera 21.03.14

"Il valore prevalente dei servizi di cura", di Chiara Saraceno

Chi è gravemente invalido, perciò non in grado di provvedere da sé ai propri bisogni quotidiani (lavarsi, vestirsi, prepararsi il cibo, mangiare, andare in bagno, ecc.), ha diritto a ricevere un sostegno dalla collettività per far fronte, appunto, a questi bisogni? Nella maggioranza dei Paesi europei la risposta è affermativa. A prescindere dal reddito individuale o famigliare, a chi è gravemente invalido viene garantita una qualche forma di ausilio per poter svolgere le attività basilari della vita quotidiana. Le differenze tra Paesi riguardano da un lato il livello di generosità, dall’altro il modo in cui questo ausilio è garantito e i criteri per accedervi. In alcuni paesi — ad esempio quelli scandinavi e l’Olanda — esso è garantito tramite i servizi, residenziali o domiciliari, modulati a seconda della intensità del bisogno. In altri, come in Francia e più recentemente Spagna e Portogallo, sulla base del livello di invalidità viene definita una indennità che va spesa per acquistare servizi di cura certificati. In questa direzione si sta muovendo anche l’Olanda, in alternativa all’offerta diretta di servizi, in nome della libertà di scelta. In altri Paesi ancora, come in Germania, si può scegliere tra servizi e assegno di accompagnamento.
Quest’ultimo, di valore inferiore ai servizi, può essere utilizzato come si desidera. In Italia dal 1980 c’è l’assegno di accompagnamento, la cui destinazione non è vincolata. Inoltre, a differenza che negli altri Paesi ove il sostegno è graduato, solo la non autosufficienza totale dà diritto all’assegno di accompagnamento, anche se i criteri per accertarla non sono standardizzati e possono variare di fatto da una commissione medica all’altra. Questa mancanza di standardizzazione, non solo i veri e propri imbrogli, spiegano la diversa incidenza degli assegni di invalidità a livello territoriale.
Da anni è in corso nel nostro Paese una discussione tra gli addetti ai lavori sulla opportunità di trasformare l’assegno di accompagnamento in un voucher servizi, analogamente a quanto è successo in Francia e in parte Spagna e Portogallo. Questa trasformazione avrebbe due effetti positivi: favorire un mercato regolare dei servizi di cura creando nuovi posti di lavoro e sollevare le famiglie (in particolare le donne), specie nei ceti più modesti, dalla necessità di provvedere alla cura in proprio. In assenza di decisioni politiche in questa direzione, di fatto molte famiglie hanno operato informalmente questa trasformazione, utilizzando l’indennità di accompagnamento per finanziare almeno un po’ di cura. Come è stato osservato da diverse studiose, il fenomeno è esploso in concomitanza con l’inizio dei flussi migratori nel nostro Paese, ove la regolazione della domanda e della offerta è stata affidata pressoché esclusivamente alle periodiche “regolarizzazioni” dei lavoratori migranti. Questa mancanza di regolazione, tuttavia, non ha solo lasciato tutti i soggetti coinvolti esposti al rischio di sfruttamento. Ha anche lasciato la disponibilità di accedere a cure non famigliari, o di poterne condividere una parte, alle risorse e alle priorità, non tanto della persona non autosufficiente, ma dei suoi famigliari. L’indennità di accompagnamento, infatti, nelle famiglie a basso reddito è spesso intesa come un’integrazione di una pensione o di un reddito famigliare insufficienti, più che come uno strumento per soddisfare i bisogni di cura di chi la riceve.
Con la spending review l’assegno di accompagnamento è entrato nell’elenco delle misure su cui si possono effettuare tagli sostanziosi, trasformando il sostegno nella vita quotidiana a chi non è autosufficiente in una misura legata al reddito, individuale e famigliare. Stante che, per essere finanziariamente efficace, la soglia di reddito dovrebbe essere relativamente bassa, migliaia di individui e famiglie in condizioni modeste sarebbero lasciati senza alcun sostegno a fronteggiare situazioni di grave debolezza. Mentre la standardizzazione dei criteri e il controllo degli abusi è doverosa, questa sarebbe una decisione sbagliata, non solo sul piano dell’equità, ma anche dal punto di vista dell’obiettivo di sostenere la ripresa dell’economia e del mercato del lavoro. Meglio utilizzare queste risorse per favorire la creazione di un mercato regolato dei servizi di cura. Molte famiglie perderebbero una integrazione di reddito, ma avrebbero in cambio servizi, invece di rimanere senza l’uno e gli altri.

La Repubblica 21.03.14

"Ma il nodo è il Fiscal Compact", di Nicola Cacace

Ripetita iuvant! A pochi giorni di distanza dal monito di Angela Merkel a Matteo Renzi «bene la tua promessa di rispettare il vincolo del 3%, ma ricordati anche gli altri vincoli», stamane il commissario della Ue Barroso ed il presidente Van Rompuy hanno ripetuto il monito a Renzi «ricordati il rispetto anche degli altri vincoli». Quali sono gli altri vincoli? Il deficit zero del Pil, malauguratamente trasformato in art.81 della Costituzione e, soprattutto, il Fiscal Compact.

Questo avviene mentre tutto il dibattito politico e mediatico italiano è incentrato sul 3%, sulla possibilità di sforare il deficit 2014 dall’attuale 2,7% al 2,9%, che significherebbe la possibilità di avere subito disponibili 3,2 miliardi per le riforme economiche. Perché si parla così poco degli «altri vincoli»? Perché non li si conosce? O è un pericoloso caso di «ignoranza attiva», quello che Goethe giudicava «non esserci altro caso più pericoloso»: i nostri politici non hanno ancora capito bene che non è il 3% il problema, Bruxelles ci potrà sicuramente concedere un 0,2% di sforamento purché noi ci impegniamo a rispettare il Fiscal Compact, senza parlare dell’altro assurdo vincolo del deficit zero, malauguratamente trasformato nell’articolo 81 della Costituzione. Si dà il caso che il Fiscal Compact potrà funzionare solo a due condizioni: a) che l’economia reale cresca almeno dell’1%, cosa difficile già quest’anno a giudicare dalle previsioni di Confindustria e degli organismi internazionali; b) che ci sia un inflazione minima intorno al 2%, al posto della quasi deflazione attuale. Perché questo? La formula del Fiscal Compact impone che, dal 2015 il rapporto debito/ Pil passi dal 133% del 2014 al 129,3% del 2015. Perché 129,3%? Perché, dice il F.C. «il rapporto debito/Pil attuale di 133% deve essere ridotto al 60% in 20 anni, cioè, a partire da quest’anno, di 73/ 20= 3,7 punti del Pil, pari a 61 miliardi annui se il Pil nominale non cresce, a 40 miliardi se il Pil nominale cresce dell’1%, a 20 miliardi se il Pil nominale cresce del 2%, a poco più di un miliardo se il Pil nominale cresce del 3%. Quest’ultimo caso è un obiettivo possibile ma difficile se non si riesce ad attivare un minimo di crescita reale, 1%-1,5%. Allora è questo il discorso che Renzi dovrà fare a Bruxelles, «cari signori, io voglio rispettare il Fiscal Compact, ma il suo rispetto richiede un minimo di crescita, impossibile senza due-tre anni di investimenti pubblici e quindi senza un minimo di tolleranza sui deficit di bilancio».

Tertium non datur. Se nei prossimi uno-due anni il governo eccederà nei tagli di spesa – l’agenda Cottarelli va vista anche in questa luce, non solo in quella, sempre presente, che i tagli «riguardino solo gli altri», ma anche in quella, poco discussa sinora, degli effetti recessivi dei tagli di spesa – e lesinerà negli investimenti pubblici, nessuna ripresa reale del Pil superiore all’1% e nessuna ripresa dei prezzi almeno dell’1,5%, sarà possibile, così come nessun rispetto del Fiscal Compact. Solo se a Bruxelles ignorassero l’a,b,c delle leggi di mercato – più che di economia, liberale o keynesiana che sia – impedendo al governo una politica minimamente keynesiana per rilanciare il Pil, non resterebbe che l’altra, extrema ratio, allungare da 20 a 40 anni il timing del passaggio del debito al 60% del Pil. Quest’ultima sarebbe comunque una non soluzione, condannerebbe l’Italia all’ultimo atto di un film del declino già visto altre volte nella storia, come nella grande depressione del 1929 che durò più di 10 anni e si «risolse» solo con fascismo, nazismo, la II guerra mondiale e 40 milioni di morti. Non si possono mettere le mutande alla storia (se non si vuol rischiare di restar senza mutande)!

L’Unità 21.03.14

"Tagli facili e tagli pericolosi", di Paolo Baroni

Arrivare a risparmiare 34 miliardi su un bilancio dello Stato che ne assorbe più di 700 sulla carta non dovrebbe essere un gran problema, perché alla fine stiamo parlando di un 5% scarso di spesa. Ciò non toglie che quello della spending review che il governo sta avviando si presenti come un vero e proprio percorso di guerra, fatto comunque di trabocchetti, ostacoli burocratici, prassi da scardinare, ma soprattutto volontà politiche da affermare e imporre ad ogni livello.

Partendo dal presupposto che il Paese non può più permettersi sprechi, le 70 pagine messe a punto dal «commissario straordinario per la revisione della spesa» Carlo Cottarelli forniscono al governo il menù completo dei possibili interventi, da pure e semplici azioni di «efficientamento» a veri e propri tagli, come quelli ipotizzati sulle pensioni (e già esclusi da Renzi). Sarà banale dirlo, ma mai come in questa occasione il pallino è in mano alla politica. Al governo. Al presidente del Consiglio Matteo Renzi, che già in altre occasione ha dimostrato che quando vuole sa e può procedere con l’energia di una schiacciasassi.

La lista «ideale» dei risparmi, degli interventi da mettere in campo e delle riforme da avviare, però, è molto articolata e che ben si comprende come in passato altri governi abbiano preferito la via breve (e spesso molto brutale) dei tagli lineari. Se non si procede così, l’altra strada che si può percorrere è quella che suggerisce Cottarelli: prima si fa una mappatura completa di tutte le voci «aggredibili» e poi si procede con interventi molto focalizzati, si potrebbe dire chirurgici.

Il programma messo a punto in questi mesi presenta difficoltà crescenti. Su 33,9 miliardi di risparmi che si pensa di conseguire in tre anni, ben 12,1 arrivano da interventi di efficientamento diretto. Ad esempio basterebbe concentrare in poche centrali d’acquisto, 30-40 contro le attuali 32 mila (!), il grosso delle forniture pubbliche per arrivare a risparmiare ben 7,2 miliardi. Senza tagliare sulle quantità, senza provocare danni «collaterali», ma semplicemente per effetto delle economie di scala. Per procedere basta la decisione politica, per gli acquisti come per gli affitti degli immobili, consulenze ed auto blu, i corsi di formazione e gli stipendi dei dirigenti.

Alzando il tasso di complessità degli interventi si arriva al capitolo «Riorganizzazioni», una manovra che in tre anni potrebbe portare a farci risparmiare altri 5,9 miliardi: a patto che si riformino le province (500 milioni di risparmi) e di conseguenza si adegui la rete di prefetture, vigili del fuoco e capitanerie di porto, si accelerino le sinergie tra i corpi di polizia (1,7 miliardi al 2016) e si mandi avanti il progetto della digitalizzazione della pubblica amministrazione (fattura elettronica ed altro) che vale altri 2,5 miliardi. Con i «costi della politica» (organi di rilevanza costituzionale, Comuni, Regioni e partiti) si possono recuperare altri 900 milioni. E qui, se ad esempio sparisce il Cnel non muore nessuno, ma forse abolire l’Istituto per il commercio estero non rende un buon servizio alla promozione del nostro export.

I problemi più rilevanti arrivano con gli ultimi due blocchi di misure. Per quanto «inefficienti» il taglio di una serie di altri trasferimenti impatta direttamente con l’economia reale e a volte anche con le tasche dei cittadini. Per Cottarelli questa voce «vale» altri 7,1 miliardi. Giusto colpire abusi su pensioni di invalidità e indennità d’accompagnamento (400 milioni in tutto), ma tagliare 3 miliardi di trasferimenti alle imprese non può non produrre effetti negativi sul sistema produttivo. Idem i 3,5 miliardi che si potrebbero ricavare «rifilando» gli stanziamenti destinati al trasporto pubblico locale (2 miliardi) e alle ferrovie (1,5 miliardi). Perché se è vero che anche in qui abbiamo molte spese fuori linea rispetto alle medie Ue, l’esperienza ci insegna che alla fine si finisce solo col tagliare i servizi (bus e treni) o con aumenti di tariffe.

Secondo blocco delicato, le «spese settoriali» (difesa, sanità, pensioni), valore 7,9 miliardi. Qui il rischio che si tocchi carne viva è concreto. Si può decidere di non farne nulla, come sulle pensioni (2,9 miliardi il pacchetto completo di cui 1,5 solo per effetto di una nuova indicizzazione degli assegni) o si può tirare dritto. Come sulla Difesa, F35 ma non solo, sapendo però che una parte importante dei 2,5 miliardi che si vogliono togliere da questa voce poi sono tolti essenzialmente alle nostre industrie del settore. Anche qui si può razionalizzare molto, a patto di sapere cosa si sta facendo.

La Stampa 21.03.14

"Difesa, sospesi i pagamenti su quattro F-35 previsti a febbraio. Via libera al saldo per altri cinque velivoli", di Gianandrea Gaiani

Dopo giorni di dichiarazioni e indiscrezioni circa i programmi militari destinati ad affrontare la scure della “spending review”, primo tra tutti il controverso acquisto dei cacciabombardieri statunitensi F-35, ieri Il Consiglio Supremo di Difesa ha congelato tutto almeno fino alla fine dell’anno. Riunito al Quirinale sotto la presidenza del Capo dello Stato, il Consiglio ha rimandato ogni decisione in termini di tagli ai programmi miliari (che quest’anno assorbiranno circa 5,5 miliardi di euro) alla messa a punto di un Libro Bianco già anticipato dal Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che dovrà determinare le linee guida della Difesa, dai compiti richiesti dal Paese ai mezzi e fondi necessari per espletarli.

“Il Consiglio è dell’avviso che il disegno complessivo della riforma trovi espressione in un Libro Bianco” si legge nel comunicato emesso al termine del Consiglio al quale hanno partecipato ai anche il premier Matteo Renzi, i ministri di Esteri, Economia, Sviluppo Economico e Difesa oltre al capo di stato maggiore della Difesa.

Anche se, a quanto riferito, non si è discusso di F-35 o di altri programmi specifici, l’impressione è che l’attesa del Libro Bianco consenta di prendere ancora tempo impedendo decisioni radicali quali il dimezzamento dei jet americani da 90 a 45 emerso nei giorni scorsi come una concreta possibilità caldeggiata peraltro dal PD e dallo stesso Renzi ma subito contrastata dalle pressioni statunitensi.

In attesa del Libro Bianco il Ministro Pinotti ha però confermato ieri in un’intervista che non verranno effettuati ulteriori acquisti di F-35 ufficializzando così il blocco alla tranche dei pagamenti relativi ai contratti per i velivoli di prossina acquisizione. “Oggi abbiamo sospeso i pagamenti delle tranche, facciamo una moratoria, in attesa dei risultati dell’indagine conoscitiva del Parlamento” ha detto alla trasmissione ‘Le invasioni barbariche’ su La7. ”Di fronte alle preoccupazioni – ha aggiunto – si può vedere se è il caso di ridimensionare”

Uno stop peraltro già previsto quando iniziò l’indagine conoscitiva sui programmi di acquisizione di armamenti varata l’anno scorso dalle Commissioni Difesa parlamentari. Da quanto riferito da fonti ben informate saranno però sospesi solo i pagamenti degli anticipi sui 4 F-35 della tranche 10, previsti a febbraio, mentre verranno invece completati i pagamenti in corso per i 5 velivoli delle tranche 8 e 9 .

La spesa per l’acquisto degli F-35 vale da sola circa mezzo miliardo di euro all’anno mentre molte delle misure ventilate nei giorni scorsi per “fare cassa” o tagliare la spesa militare non sembrano poter avere altrettanta efficacia. Certo altri programmi d’acquisizione potrebbero subire decurtazioni ma contare sulla vendita di 385 basi e caserme in surplus potrebbe risultare illusorio considerato che gli enti locali non dispongono di liquidità e i privati non sono certo incoraggiati dai vincoli posti su molti immobili e dall’andamento del mercato. Anche la vendita della portaerei Garibaldi non si preannuncia facile. La nave è stata ammodernata 9 anni or sono ma ha comunque oltre 30 anni di vita ed elevati costi di gestione e manutenzione pari a circa 150 mila euro al giorno quando è in navigazione. Troppi per il bilancio della Marina che dispone anche della più moderna portaerei Cavour (200 mila euro di costo di gestione per un giorno di navigazione) e che dovrebbe comunque radiare il Garibaldi quando entrerà in servizio una nuova portaelicotteri da assalto anfibio. L’onerosità e l’età rendono difficilmente vendibile la portaerei Garibaldi anche se sono circolate voci di un interesse dell’Angola e degli Emirati Arabi Uniti. Il Paese africano non ha però le capacità di gestire navi così grandi e complesse e il Paese arabo non dovrebbe avere l’esigenza di disporre di simili unità operando nelle acque ristrette del Golfo Persico. La nave sarebbe adatta alle esigenze di alcuni Paesi dell’Asia Orientale, area dove è in atto un massiccio riarmo navale, ma in ogni caso la vendita della nave potrebbe fruttare non più di qualche decina di milioni di euro considerando anche la concorrenza degli spagnoli che cercano da tempo di piazzare sul mercato la loro portaerei, la Principe de Asturias, radiata tre anni or sono a causa della spending review. Affari più consistenti verrebbero invece determinati per le aziende italiane dai contratti conseguenti l’acquisto della portaerei per l’ammodernamento, la gestione degli apparati imbarcati e l’addestramento del personale. Il rischio concreto è però che la portaerei Garibaldi e molte caserme dismesse non trovino alcun mercato e se siano condannate alla demolizione generando come unico utile il risparmio sulle spese di esercizio

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Il Sole 24 Ore 21.03.14