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"Europee, sì alla parità di genere Ma entra in vigore solo nel 2019", di Claudia Fusani

Sul gran tavolo delle riforme, incardinato al Senato, si comincia a fare un po’ di ordine. Complice, anche, il gradimento europeo al piano Renzi. Sono cinque i dossier che scottano, e ballano. Ciascuno, a suo modo legato agli altri.
La prima casella risolta è quella della legge elettorale europea che viene licenziata (tra ieri sera e stamani) dopo giorni di stallo. Sconfitta, ancora una volta, la parità di genere. Con buona pace del Pd che ieri pomeriggio a maggioranza, ma segnando l’ennesima spaccatura (capofila la senatrice Lo Moro), ha rinunciato al principio dell’alternanza nel voto europeo del 25 maggio. La legge lo stabilisce ma a partire dal 2019. Per ora ci si deve accontentare del fatto che se il cittadino elettore esprimerà tre preferenze, una dovrà essere per forza una donna. Come sempre, nulla è quello che appare. Il vero «pericolo» – dal punto di vista di Fi e Pd – di questo testo era però la soglia di accesso che veniva abbassata dal 4 al tre per cento. Una vera iattura per Forza Italia che, nel caso, avrebbe «disperso qualcosa come sei punti percentuali di consenso». Blindata la soglia, che resta al 4%, sono stati accontentati ancora una volta tutti coloro che non vogliono legarsi ad impicci di genere nella formazione delle liste.

In cambio di questo passo avanti, il Pd renziano ha portato a casa il via libera sul disegno di legge Delrio, il secondo dossier che scotta, che abolisce nei fatti le province. Per palazzo Chigi era un punto dirimente. Lo stallo durava da settimane e il rischio era di tornare a votare per le Province nell’election day del 25 maggio. Una beffa per chi ha fatto di semplificazione, riforme e tagli il core business del suo mandato politico. L’accordo raggiunto ieri pomeriggio tra centrodestra e centrosinistra cancella le Province: non ci sarà la scheda elettorale; i presidenti restano in carica in quanto commissari (il che risolve qualche problema a Fi e Ncd che insieme hanno 48 presidenti di Provincia in carica) così come gli assessori ma con stipendi più bassi; cancellati i consigli provinciali. Fermo da settimane in commissione Affari Costituzionali, il ddl Delrio (che sarà poi integrato dalla riforma costituzionale del Titolo V che abrogherà le Province) ieri sera è stato votato a oltranza in seduta notturna e settimana prossima avrà il via libera dell’aula.

Sul tavolo restano i tre dossier più pesanti: legge elettorale, riforma del Senato che significa fine del bicameralismo e riforma del Titolo V, quella parte cioè della carta costituzionale che ha subito varie modifiche a partire dagli anni settanta, terminate nel 2001 e che nei fatti ho moltiplicato i poteri delle Regioni e di conseguenza gli sprechi soprattutto sulla Sanità.

Il Pd farà una direzione la prossima settimana. Incrociando le dichiarazioni del capogruppo Luigi Zanda con indiscrezioni filtrate da alcune riunioni con Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, nel Pd sembra essere stato raggiunto l’accordo per cui «la precedenza adesso viene data alla riforma del Senato insieme a quella del Titolo V». I renziani vorrebbero concludere l’iter delle legge elettorale ma sono disponibili a un passo indietro incardinando la riforma del Senato insieme a quella del Titolo V. La bozza Renzi, le 40 pagine presentate mercoledì scorso, «sono un buon punto di partenza». Il senatore pd Nicola Latorre, convertito al renzismo, è ottimista anche sui contenuti: «Bisogna ancora discutere un po’ sulla funzioni, ma siamo a buon punto». Il Senato non darà più la fiducia, diventerà Assemblea del- le autonomie, sarà composto da consiglieri regionali eletti nelle singole regioni, avrà 21 nominati dal Presidente della Repubblica. Tra le funzioni, la possibilità di proporre leggi (da approvare entro 60 giorni alla Camera), il voto su riforme costituzionali, modifiche alla legge elettorale, leggi europee. Il Pd vorrebbe inserire anche i diritti civili.

Questo schema, per tempi e contenuti, non sta bene a Forza Italia. «Finocchiaro proporrà di anteporre il Senato all’Italicum ma noi ci opponiamo» avverte un senatore. Ma i problemi degli azzurri nei prossimi giorni sono altri. Riguardano Berlusconi, la sua agibilità politica e la tenuta stessa del partito. Appoggiare le riforme sembra, per Fi, una strada obbligata.

L’Unità 19.03.14

"Ricchi e poveri più lontani", di Laura Matteucci

La ripresa economica «non sarà probabilmente sufficiente » in Italia per porre fine alla profonda crisi sociale e del mercato del lavoro. C’è bisogno di investimenti per «un sistema di protezione sociale più efficace che permetta di evitare che le difficoltà economiche diventino sempre più radicate nella società». Nel rapporto annuale sugli indicatori sociali dell’Ocse, il focus sull’Italia fa emergere, ancora una volta, la gravità delle nostre difficoltà rispetto a quelle degli altri Paesi in esame. Procedere ad investimenti per un welfare più sicuro, dunque, è tra le prime raccomandazioni, per «assicurare supporto ai gruppi più vulnerabili», sostiene l’Ocse, ricordando che «da lungo tempo si dibatte in Italia di un sussidio di disoccupazione universale e di reddito minimo garantito ». Il problema è legato anche al crollo del reddito medio, quantificato in circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando ad un livello di 16.200 euro pro capite nel 2012. L’Italia, questo il punto, ha sofferto più di tutti la recessione. Nello stesso tempo, infatti, nell’eurozona gli stipendi sono calati di 1.100 euro. Tanto che la percentuale di italiani che dichiara di non avere abbastanza soldi per acquistare cibo è balzata al 13,2% dal 9,5% ante-crisi, contro una media europea dell’11,5%.
DISUGUAGLIANZE MARCATE
«La notevole riduzione dei redditi – spiega l’Ocse – riflette il deterioramento delle condizioni nel mercato del lavoro, in particolare per i giovani». Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato dal 6% al 12,3%, con un balzo per i giovani ad oltre il 40%. Con un livello del 55%, la percentuale di persone in età lavorativa occupate è la quarta più bassa tra i 34 Paesi dell’Ocse. Tra il 2007 e il 2013, la disoccupazione è aumentata ad un tasso di 5.100 lavoratori per settimana, «e più di un quinto dell’aumento totale della disoccupazione nell’eurozona è dovuto all’Italia». Tra i giovani, allarma anche il livello di Neet (né studenti né occupati): più di 1 su 5 tra i 15 e i 25 anni, un tasso di inattività «più elevato che in Messico e Spagna, e il terzo più alto tra i Paesi dell’Ocse, dopo la Grecia e la Turchia». Nonostante questo, l’Italia ha una spesa di circa un terzo inferiore alla media europea e Ocse per trasferimenti sociali ai cittadini (assegni di disoccupazione o sussidi alle famiglie). Allo stesso modo, la spesa per servizi quali corsi di formazione e assistenza nel cercare lavoro, è circa la metà della media europea e Ocse, e si è ridotta ulteriormente tra il 2007 e il 2009. E i giovani non hanno diritto ad alcun sussidio né servizio. Il loro ritardo nel guadagnare la propria indipendenza «contribuisce al notevole ritardo nella formazione dei nuclei famigliari»: il tasso di fertilità rimane a 1,4 figli per donna, ben al di sotto del numero di figli necessario a mantenere costante il livello della popolazione, pari a 2,1 per donna. Inoltre, con meno di tre persone in età lavorativa per ogni adulto over 65, l’Italia ha il secondo più basso tasso di sostegno tra i Paesi Ocse e molto al di sotto della media, 4,2 lavoratori per anziano.
Anche l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, come già la Germania di Angela Merkel, appoggia i primi passi su lavoro e fisco del governo Renzi, ma avverte che il Paese ha «urgente bisogno di riforme» per un sistema previdenziale impreparato ad affrontare le conseguenze della crisi. Il problema è complesso: l’Italia è entrata nella crisi finanziaria con un sistema di previdenza scarsamente preparato ad affrontare un forte aumento della disoccupazione, soprattutto di lungo periodo, e della povertà. Meno di 4 disoccupati su 10 ricevono un sussidio di disoccupazione e l’Italia è il solo Paese Ue assieme alla Grecia privo di un comprensivo sistema nazionale di sussidi per gruppi a basso reddito. Le famiglie più abbienti hanno maggior accesso ai benefici dal sistema di protezione sociale rispetto ad ogni altro Paese in Europa. E il rischio è la radicalizzazione delle disuguaglianze. «Con una diminuzione nei redditi del 12% in totale tra il 2008 e il 2010, il 10% più svantaggiato della popolazione ha subito perdite molto superiori rispetto al 10% più ricco, per il quale la perdita è stata pari al 2%».

L’Unità 19.03.14

"Fotografia dell'Università italiana: meno fondi e lontana dall'Europa", di Corrado Zunino

Il primo dossier Anvur su università e ricerca, a tre anni dalla nascita dell’Agenzia (ministeriale) di valutazione, ci dice che negli ultimi dieci anni statisticamente rilevati (1993-2012) la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita dal 5,5% al 12,7% e la quota dei laureati italiani tra i giovani (25-34 anni) è salita dal 7,1% al 22,3%, dimostrando che l’università è diventata accessibile e possibile per larghi strati della popolazione. Il problema è che non solo si parte da valori più bassi del resto dell’Europa sviluppata, ma il divario tende a crescere. Nell’Unione europea, in media, i laureati nella fascia “età da lavoro” oggi sono il 25,3%, in Francia il 42,9%, nel Regno Unito il 45%. Ancora nel 2008 avevamo uno scarto con la Ue di 11,8 punti percentuali (?), nel 2012 è salito è del 12,7% (?).

Sui diplomi di secondo livello (la maturità) siamo in linea con la Ue: 77,6% (età presa in considerazione 20-24 anni). Meglio di Spagna e Germania, peggio di Regno Unito (81,3%) e Francia (84%). Lo scarto, ecco, si verifica nell’ingresso in ateneo. E tra i giovani immatricolati il divario con l’Unione è contenuto (4%), la questione dell’università italiana è che non sa parlare a un pubblico adulto, altrove invece recuperato. Gli immatricolati con almeno 25 anni di età sono solo l’8% del totale, contro un valore medio del 17%. E la quota si va riducendo.

Nelle scelte delle matricole (iscrizioni al primo anno) scende (-4%) la facoltà di Lettere e Filosofia, cali più contenuti si registrano per Sociologia, Giurisprudenza, e Scienza della formazione. Incrementi superiori al punto percentuali si conteggiano per Medicina, Scienze matematiche e fisiche, Ingegneria. Crolla il Sud nelle immatricolazioni (-30%) e si assiste all’emigrazione di studenti verso gli atenei del Centro (soprattutto) e del Nord-Est. Infine, il dossier rivela che c’è un rapporto stretto tra il buon voto alla maturità e il portare a termine il ciclo di laurea.

Equilibri finanziari. Negli ultimi anni buona parte degli atenei italiani ha ridotto alcuni squilibri e il sistema universitario è stato ricondotto su un sentiero di sostenibilità economica, nonostante il calo delle risorse a disposizione. “L’ammontare degli investimenti appare nel complesso insoddisfacente nel confronto internazionale”, sostiene l’Anvur, che chiede “una riflessione ampia sulle dimensioni ottimali o almeno minime necessarie del sistema universitario e sulle risorse da investirvi”. Autonomia responsabile, è il principio ispiratore.

Dal 2009 il finanziamento complessivo del ministero dell’Istruzione al sistema universitario si è ridotto di un miliardo di euro: -13% in termini nominali, – 20% in termini reali. La riduzione delle risorse è stata resa sostenibile dalla riduzione del personale, soprattutto dei docenti ordinari, e dal blocco delle progressioni stipendiali. Il rapporto studenti-docenti si è riportato, oggi, su valori elevati. Nei prossimi cinque anni usciranno per pensionamento 9.000 docenti, il 17% del totale: “Sarà necessario assicurarne il ricambio per salvaguardare l’assolvimento del carico didattico e di governo degli atenei e il potenziale di ricerca del paese”.

Le università. Le 67 università statali italiane accolgono il 92% del totale degli iscritti (1,7 milioni). Quindi, ci sono 18 università non statali e 11 telematiche. Oltre il 40% degli studenti è iscritto agli undici grandi atenei del paese (40.000 studenti) e quasi il 70% frequenta uno dei 26 atenei “storici” fondati prima del 1945.

I dottorati di ricerca, importati nel nostro ordinamento solo nel 1982, hanno a lungo stentato, e in parte stentano ancora, a trovare un loro equilibrio e una loro fisionomia, ma costituiscono ormai un imprescindibile terzo livello della formazione terziaria.

Il numero complessivo di diplomi di laurea – triennali, ciclo unico, magistrali e diplomi del vecchio ordinamento – è stabile intorno ai 300 mila dalla metà dello scorso decennio. Nel 2011 sono stati rilasciati 169 mila diplomi di laurea triennale, 87 mila di laurea magistrale, 27 mila di laurea magistrale a ciclo unico e ancora 17 mila diplomi del vecchio ordinamento. La metà dei laureati ha conseguito la maturità classica o scientifica e la distribuzione dei voti di maturità dei laureati è decisamente più sbilanciata verso i valori più elevati di quanto non avvenga per gli immatricolati: c’è un rapporto tra successo accademico e voto conseguito alla maturità.

La composizione del complesso dei laureati per ripartizione geografica è rimasta stabile: dopo una flessione della quota degli atenei del Nord a vantaggio di quelli del Mezzogiorno, negli ultimi anni sembra delinearsi una inversione di tendenza. Emerge nell’ultimo decennio un ulteriore incremento della quota di laureati di genere femminile, che rappresenta ormai il 59% del totale.

I laureati. Tra il 1993 e il 2012 la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita di 7,2 punti percentuali. Tra i giovani in età compresa tra i 25 e i 34 anni del 15,2%. Incrementi rilevanti, che mostrano come l’istruzione terziaria non sia più limitata a una ristretta fascia di persone. I confronti internazionali, tuttavia, mostrano come l’Italia risulti ancora tra i paesi con la più bassa quota di persone in possesso di un titolo terziario, anche tra i più giovani, e come lo scarto rispetto ai valori medi europei nel tempo si sia (lievemente) allargato.

Le differenze con gli altri paesi dipendono dalla mancanza nel nostro paese di un’offerta di corsi di livello terziario (la laurea) di carattere professionalizzante, percorsi che nel resto d’Europa hanno un peso del 25% sul totale. L’offerta formativa da noi non permette alternative, dopo la maturità, tra un corso di laurea a contenuto prevalentemente teorico e l’abbandono degli studi. Un terzo degli immatricolati abbandona o cambia corso di studio dopo il primo anno: c’è un deficit nell’orientamento formativo e pure nella preparazione degli studenti. Quasi il 40% tra quanti si iscrivono a un corso di laurea triennale non conclude gli studi. Su 100 immatricolati solo 55 conseguono il titolo, contro il 70% europeo (il Regno Unito è al 79%). Il corpo delle lauree triennali è contraddistinto ancora da alti tassi di abbandono e di fuori corso, i cui laureati solo in poco più della metà dei casi proseguono gli studi iscrivendosi ai corsi magistrali.

Sul mercato del lavoro, la laurea, nonostante diffuse convinzioni contrarie, continua a offrire migliori opportunità occupazionali e reddituali rispetto al solo diploma di maturità.

Gli immatricolati. Dopo essere cresciuto di 54 mila unità tra l’anno accademico 2000-2001 e il 2003-2004, il numero degli immatricolati italiani si è poi ridotto di 69 mila fino al 2012-2013 (-20,4%). La flessione è stata contenuta tra i più giovani, in età compresa tra i 18 e i 22 anni (-7,6%), molto pronunciata tra gli studenti con 23 anni e oltre (-76%).

A fronte di un numero di maturi sostanzialmente stabile tra i 445 e i 455 mila, il tasso di passaggio all’università dei 18-19enni si è ridotto di 3 punti percentuali dal 2009, nonostante la crisi economica abbia ridotto le opportunità di lavoro al completamento degli studi secondari. Il calo degli immatricolati si concentra negli atenei del Centro e del Mezzogiorno e tra i diplomati degli istituti tecnici, che negli ultimi nove anni sono passati da 105 mila a 57 mila a causa di un calo del numero dei maturi e dei tassi di passaggio all’università. A fronte di una riduzione media del 20%, nelle università del Nord il numero delle matricole universitarie è sceso del 10%, negli atenei del Centro del 25, nel Mezzogiorno del 30.

Gli immatricolati che scelgono un ateneo in una regione diversa da quella di residenza nel 2011 erano il 21,8%, 1,4 punti in più rispetto al 2006. Il 25% degli immatricolati residenti nelle regioni del Sud e delle Isole sceglie un ateneo di un’altra ripartizione territoriale: il loro saldo migratorio è pari a -20,8% e -22,5% rispettivamente. È positivo per il Centro (+23,6%), per il Nord-est (+13,6) e per il Nord-ovest (+9,3).

La ricerca. Il più ampio processo di valutazione della ricerca mai condotto nel nostro paese conferma che l’Italia si caratterizza per una spesa in ricerca e sviluppo tra le più basse tra le grandi economie industriali. Il ritardo è dovuto principalmente alla spesa del settore privato, la metà della media europea. Anche le risorse pubbliche risultano inferiori alla media: lo 0,52% del Prodotto interno lordo, 0,18 punti in meno rispetto alla media dei paesi Ocse. Un gap di 3 miliardi di euro, un terzo delle risorse pubbliche oggi investite. Alle minori risorse corrisponde un minor numero di ricercatori e un minor potenziale di innovazione. . La quota dei fondi ottenuti è inferiore alla quota di contribuzione al budget dell’Unione: non riusciamo a riprendere neppure quello che stanziamo. Poche risorse investite e pochi ricercatori si traducono necessariamente in una minor capacità di competere per le ingenti risorse che l’Europa sta investendo in ricerca. Il tasso di successo dei ricercatori italiani e le risorse complessivamente ottenute risultano molto modeste. Il sistema nel suo complesso, caratterizzato da un’ampia presenza di enti di ricerca al fianco delle università, mostra tuttavia nei settori scientifici, dove più facile è il confronto internazionale, una qualità delle pubblicazioni che si colloca a ridosso dei principali paesi europei. Inoltre, in rapporto alle risorse investite e al numero dei ricercatori, la quantità e la qualità della ricerca appaiono elevate, segno di una produttività più che adeguata e di una vitalità che merita di essere valorizzata.

La Repubblica 19.03.14

"Scuole: già 5mila lettere dai sindaci, al via 500 interventi", di Massimo Frontera

«Sono oltre 500, su 692 in totale, gli appalti di edilizia scolastica assegnati alle imprese, tra quelli finanziati dai 150 milioni del decreto “Fare”». Intanto, sulla scrivania di Matteo Renzi sono arrivati 5mila nuovi progetti inviati dai sindaci in risposta all’invito del premier a segnalare “una scuola da finanziare in ogni comune”.
Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza e sottosegraterio all’Istruzione, in predicato per ricevere la delega sull’edilizia scolastica dal ministro, Stefania Giannini, riferisce gli ultimi aggiornamenti sul “cantiere scuola” cui sta lavorando il governo. E annuncia anche una novità: lo sblocco, dopo una lunga quiescenza, del programma di scuole da realizzare con i fondi immobiliari: quasi 38 milioni da assegnare a 18 comuni per realizzare nuovi e moderni complessi con l’aiuto della finanza immobiliare. «Il decreto è pronto per la firma», assicura Reggi.
Cominciamo dal programma dei 150 milioni, i cui cantieri vanno affidati entro il 30 aprile, pena la revoca dei fondi. «Il ritmo delle assegnazioni è elevato – conferma Reggi – quindi non faremo ulteriori proroghe, dopo quella che ha posticipato al 30 aprile il termine iniziale del 28 febbraio». «Il meccanismo ha funzionato – sottolinea Reggi – e anche i poteri speciali affidati a sindaci e presidenti di Provincia».
La graduatoria completa conta però 2.515 progetti. Gli altri 1.823? «Li finanzieremo, vediamo con quali risorse: servono 318 milioni per esaurire la graduatoria, troveremo i soldi».
Intanto già prende forma un un nuovo e più consistente “parco progetti”, tutto da esplorare. «Renzi ha già ricevuto 5mila lettere da parte dei sindaci che segnalano un intervento da finanziare», fa sapere ancora Reggi. «Il lavoro da fare è di capire a fondo di quali interventi stiamo parlando, in modo da assegnarli a uno dei vari ambiti che compongono la gamma di misure attuative per l’edilizia scolastica».
Cioè? «Ci sono vari strumenti che sono più o meno adatti a finanziare l’iniziativa, a seconda di alcuni elementi: se il comune ha o non ha i soldi, se ha o non ha il progetto, se ha o non ha gli spazi finanziari di deroga al patto di stabilità. Questo lavoro lo farà l’unità di missione incardinata a Palazzo Chigi, ma sia chiaro che daremo una risposta a tutti i comuni».
Quanto ai fondi immobiliari, lo sblocco della graduatoria è imminente: «Il ministro firmerà a brevissimo il decreto – conferma Reggi –. I fondi andranno a 18 comuni». Tra i più grossi ci sono Firenze, Bologna e Reggio Emilia. «Bologna sarà la prima a partire perché ha già pronto il bando per selezionare la Sgr».

Il Sole 24 Ore 19.03.14

"Ezio Raimondi. La prospettiva di un critico tra Caravaggio e Heidegger", di Francesco Erbani

Ezio Raimondi raccontava spesso che la sua carriera di filologo, di critico della letteratura, iniziò con la storia dell’arte. Giovane maestro elementare in attesa di partire per la guerra, seguiva a Bologna le lezioni di Roberto Longhi su Masaccio e Masolino. Longhi spiegava come Masaccio si fosse fatto da parte nella Cappella Brancaccio a Firenze e perché avesse lasciato il campo a Masolino. Dipendeva da un buco e da un chiodo. Erano il centro focale di un’immagine prospettica e mentre per Masaccio la prospettiva era una intuizione approssimativa – così diceva Longhi – per Masolino «assumeva il senso potente di una concezione spaziale del tutto nuova». Immense questioni: che però muovevano i loro passi da un buco e da un chiodo.
Raimondi, che ieri è morto quattro giorni prima di compiere novant’anni, era uno studioso capace come pochi di intrecciare linguaggi diversi, di transitare con scioltezza, grazie a una intelligenza fluente, da Dante ad Heidegger, da Céline a Caravaggio. Parlava come scriveva, si diceva di lui. E studiava come veleggiasse fra una sponda e l’altra, trascinato da una facoltà della comparazione e dell’associazione, un vento incessante che lui governava con naturalezza in un mare apparentemente senza confini. Non smarrendo mai, però, il senso del dettaglio, dell’accertamento puntuale: il buco e il chiodo.
Nato a Lizzano in Belvedere (il paese di Enzo Biagi), studi bolognesi, tesi di laurea sulle Familiares di Francesco Petrarca con Carlo Calcaterra, lo stesso professore di Pier Paolo Pasolini («ci avvicendavamo nella stanza del professore, però non più che uno sfiorarsi di fantasmi», raccontava), Raimondi era orgogliosamente ancorato alle proprie umilissime origini – il padre calzolaio, la madre donna delle pulizie. La carriera letteraria non era in antitesi con l’ambiente familiare: «Mi sentivo di dare continuità a quelle ragioni e a quel modo di essere. Entrando da adulto nel mondo del sapere, prolungavo il senso profondo della parola e del silenzio coltivato da quelle persone culturalmente modeste».
Ha insegnato a Bologna e a Baltimora, New York, Berkeley, Los Angeles. È stato professore e poi amico di Francesco Guccini. Ha diretto l’associazione Il Mulino. Ha pubblicato saggi su Alfieri, Machiavelli, Tasso, Manzoni, su Kafka, Gadda, D’Annunzio, Moravia… Ha analizzato le poetiche del Novecento e la retorica («l’arte di parlar bene, non solo il luogo delle falsificazioni»). È stato un intellettuale nel senso più rotondo del termine, uno specialista che andava oltre le raffinatissime competenze specifiche. Per lui la letteratura, diceva citando Hugo von Hoffmansthal, «custodisce l’eterno presente del passato e un critico letterario deve pensare che un testo non è il passato, ma il presente, incarnato in un oggetto fragile ma individuato». Grande cultore della civiltà tedesca, padroneggiava Ernst Robert Curtius e Martin Heidegger. Attraverso il primo, incrociato fin dal dopoguerra con la lettura di Francesco De Sanctis, si affezionò all’idea che la letteratura europea era un sistema trasmesso nei secoli grazie allo strumento della retorica, e che dentro quel sistema c’era anche la letteratura italiana: «Individuando il nostro posto in Europa, potevamo riacquistare la dignità perduta con la “morte della patria”». In fondo, aggiungeva, la letteratura «mi apparve come la parte migliore della nostra tradizione, un po’ come per Curtius lo spazio medievale europeo era il luogo di una fuga intellettuale dagli orrori del nazismo». Quanto ad Heidegger, confessava di aver espunto dal suo pensiero l’elemento nietzscheano e di aver dato maggior risalto «al tema dell’uomo comune: le sue parole offrivano, ai miei occhi, dignità e forza filosofica all’arrabattarsi quotidiano».
La letteratura è sempre un movimento in avanti, diceva. La tradizione va conservata, insisteva, ma continuamente messa in discussione, altrimenti diventa uno stereotipo. E ricondurre un testo ai suoi antecedenti non ne annulla l’individualità, bensì rintraccia l’individualità attraverso il rapporto con l’antecedente. «Ogni vita vera è un incontro », diceva prendendo l’espressione da Martin Buber. E se lo è per le persone non può non esserlo anche per i libri. Il suo insegnamento aveva una forza magnetica, che si sostanziava in una parola limpida, tanto scorrevole al punto che sembrava non dovesse finire mai, anche quando si era ridotta a una flebile voce. Che si riferisse a Guittone d’Arezzo o a Osip Mandel’stam.
O che si riferisse al paesaggio e al patrimonio storico-artistico, di cui aveva preso a occuparsi con costanza e competenza al punto da essere nominato presidente dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia Romagna, un incarico assolto con una freschezza e una sensibilità sorprendenti in un uomo di studi apparentemente distanti. Raimondi elaborava pensieri fecondi sulla memoria trasmessa dai beni culturali e sulla loro tutela – beni culturali che ai suoi occhi comprendevano anche il vastissimo repertorio dialettale, per il quale auspicava la cura dovuta a un oggetto vivo. La sua concezione del paesaggio attingeva agli studi più accreditati, alla frequentazione di un grande geografo come Lucio Gambi, dal quale ereditava l’idea che il paesaggio, appunto, non era tanto elemento originario, vergine, «bensì entità condivisa fra natura e cultura, il risultato di un’operazione che chiedeva, anche da parte dell’analista, strumenti altrettanto adeguati». Quegli strumenti di cui Raimondi, anche in età avanzata, non smetteva di dotarsi, spinto dalla curiosità intellettuale e dal desiderio di condividere sempre le ragioni degli altri.

La Repubblica 19.03.14

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Raimondi da Dante a Manzoni La critica come avventura totale
Grande italianista, voleva «rendere razionale l’irrazionale», di Paolo Di Stefano

Ezio Raimondi è morto a Bologna alla vigilia dei novant’anni. Era nato a Lizzano in Belvedere il 22 marzo 1924.
Dal 1968 è stato più volte Visiting Professor nelle università di Baltimora, New York e California
Dal 1975 ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Bologna.
È stato a lungo presidente della Associazione di Politica e Cultura del «Mulino» di Bologna e Presidente del Consiglio editoriale della stessa casa editrice.
Tra le sue opere più note: «Il romanzo senza idillio», «Metafora e storia», «Le figure della retorica», «Tecniche dalla critica letteraria», «Anatomie secentesche», «Il concerto interrotto», «La retorica d’oggi», «Un’etica del lettore», «Il senso della letteratura», Ha diretto le riviste «Convivium» e «Lingua e stile».

È stata lunga la strada percorsa da Ezio Raimondi, che tra qualche giorno avrebbe compiuto novant’anni. Una strada partita da Bologna e terminata a Bologna. È stato un percorso lungo e faticoso, specialmente agli inizi. Un padre calzolaio senza negozio, che lavorava in casa: suo figlio Ezio parla della sua signorilità d’altri tempi, ma potrebbe parlare di sé. Stessa eleganza austera. Diversamente da suo padre, però, Ezio Raimondi non era chiuso in se stesso, come pago del suo lavoro. Raimondi aveva forse ereditato dalla madre, una donna di servizio venuta giù dall’Appennino, quella «energia tranquilla, ma vera», che gli ha permesso di costruire lentamente la sua straordinaria vita intellettuale fino a diventare autentico maestro di critica letteraria per tante generazioni di studenti e studiosi. Partendo, come si diceva, da un’infanzia difficile vissuta in via del Borgo, in un caseggiato povero. Papà Adolfo lo voleva artigiano, mentre mamma Dolfa impose il suo slancio costruttivo e volle mandarlo a scuola.
Il piccolo Ezio ha una vita parallela, sin dalla tenera età vive, più che in casa sua, presso una coppia di vicini senza figli. Il ragazzo ha due padri, quello che parla di più e lo stimola è l’altro, il signor Baratta, un operaio specializzato piuttosto colto che legge il «Corriere della Sera», lo porta a teatro e gli fa conoscere il canto: «Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni». Quando la casa, il 25 ottobre 1943, viene abbattuta dai bombardamenti, comincia una vita nomade. Il padre muore nel ‘45 per malattia, la madre non ha lavoro e il ragazzo fa il correttore di bozze in un giornale. «Ero alle due torri quando vidi arrivare i primi soldati polacchi. Con la Liberazione eravamo rimasti soli, ma pensavo che allora la storia si sarebbe data in modo tranquillo e ascendente». Intanto, madre e figlio trovano alloggio in una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme.
È lì che il giovane Raimondi, dopo aver frequentato le magistrali ed essersi iscritto a Lettere, appronta la sua tesi di laurea, una ricerca su Codro e l’umanesimo bolognese stabilita con il vecchio critico letterario ed erudito Carlo Calcaterra, lo stesso con cui si sarebbe laureato Pasolini sul finire del ‘45. È la madre partigiana che lo sostiene e lo incita. Gli regala la storia letteraria di Flora quando vede la pubblicità della Mondadori sui giornali. Ma intanto Ezio frequenta già la biblioteca dell’Archiginnasio, ha imparato il tedesco e subito dopo la guerra divora Sein und Zeit di Heidegger, ricevuto in regalo da una ragazza, legge per conto proprio Baudelaire, Kierkegaard e Stefan George, si avvicina alla letteratura americana tradotta dalla Medusa e dal Corbaccio, Faulkner soprattutto, scopre Kafka: «Per me, che non avevo fatto parte del mondo borghese liceale, ogni incontro era una sorpresa». Il suo cuore però, negli anni universitari, batte per Roberto Longhi: frequenta con passione le sue lezioni, ma quando il grande critico d’arte gli propone la tesi di laurea, Ezio rinuncia per motivi economici. Il suo ceto gli suggerisce di andare verso la letteratura e non verso una disciplina che sente troppo raffinata per garantirgli un futuro sicuro. Confesserà poi un’altra ragione: l’ironia di Longhi gli faceva paura.
Se ci siamo soffermati sui preliminari, è perché Raimondi non dimenticherà mai le sue origini, anzi sarà su quelle che fonderà la propria consapevolezza anche di studioso dalla bibliografia sterminata. Se n’è andato qualche giorno dopo la morte di Cesare Segre e con la loro scomparsa si chiude un’epoca in cui il rapporto tra etica e letteratura è stato quasi una necessità biologica, iscritta in biografie travagliate, spesso tragiche. Come Segre, anche Raimondi incontrerà nell’immediato dopoguerra il maestro di filologia Contini: ne ricaverà un insegnamento orientato più verso la critica verbale che verso la filologia-filologia. «Di Contini — diceva — mi colpì molto la capacità di tenere insieme attenzione alla parola e problemi interpretativi. Nella crisi dello scientismo ottocentesco, il problema allora era quello di accantonare il positivismo conservando le esigenze positive della ricerca. La questione specifica della letteratura, per Contini, stava nel rapporto tra razionale e irrazionale. E la sua critica verbale tentava di razionalizzare l’irrazionalità». Certo, per Raimondi, che passa dai classici alla contemporaneità internazionale, il testo letterario non è terreno di sperimentazioni scientiste (non sarà uno strutturalista), anzi per lui la critica sarà sempre «approssimativa e provvisoria, in funzione di un fenomeno individuale». Poca teoria: l’interpretazione è nel dialogo che il lettore riesce a intrattenere con l’opera. Il lettore operando nella solitudine e nel silenzio stabilisce un confronto individuale con il testo e con la tradizione in un dialogo «pluralistico e perciò antiautoritario». Da qui la forte tensione etica, si direbbe quasi spirituale, nella intima relazione con la letteratura.
Fatto sta che Raimondi, diversamente da tanti suoi coetanei, spazia sin dagli anni Quaranta, oltrepassando ogni ambito specifico. Le letture eterodosse che la biblioteca gli concedeva lo portano ben presto verso autori poco frequentati in Italia, in particolare i romantici tedeschi. Ma Raimondi riesce a giovarsi dei rapporti umani come pochi: amico di Franco Serra (lo studioso di filosofia tedesca che nel ‘48 tornando dalla Germania gli mette in mano l’opera di Curtius) e del poeta e francesista Giuseppe Guglielmi, che lo indirizza, tra l’altro, verso la lettura di Céline. Negli anni Cinquanta, dopo avere ottenuto l’insegnamento alla Facoltà di Magistero (1955), Raimondi incontra gli amici del Mulino, crocevia di liberalismo, socialismo riformista e cattolicesimo, per lui una seconda università, che lo apre al confronto con scienziati, con giuristi, con storici. «Il Mulino mi permetteva — disse — di dare senso politico al mio lavoro culturale senza farmi diventare un politico. L’ipotesi del gruppo era di procedere con una mentalità di riforme: e per me la scoperta della sociologia fu un modo per sostituire alla filosofia anche idealistica una forma di discorso più diretto alla realtà, interpretando il mutamento e dando prova di razionalità etica». Al Mulino, edizioni comprese, è rimasto legato per la vita. Divenne quella la sua casa, dopo l’esperienza di insegnamento negli Stati Uniti e il ritorno a Bologna, nel cui ateneo dal ‘75 ha insegnato Letteratura italiana. La sua passione irresistibile gli fece guadagnare l’appellativo ironico di «libridinoso», mentre gli allievi più impertinenti ne sottolineavano l’eloquio fluviale e ampio anagrammandone nome e cognome in «Inizia e dormo», ben sapendo piuttosto che quella fluvialità cordiale li avrebbe inchiodati all’ascolto.
Raimondi è stato definito uomo di prospettive, non di appartenenze. Lo dimostrano i suoi studi, che vanno da Dante a Gadda e Calvino, fino a Kafka, Faulkner e DeLillo, passando per il Rinascimento e il Barocco, sui campi di ricerca retorica prediletta. Nei suoi saggi sui Promessi sposi (Il romanzo senza idillio è del 1974) vengono messe alla prova le istanze narrative per rivelarne l’ironia come misura del «vero», la composizione multiforme che passa dal dramma al comico, la discontinuità e le contraddizioni, i giochi prospettici. Studiando l’amato Renato Serra, ha messo in rilievo quel che più gli stava a cuore: l’etica collettiva come vero motore della grande letteratura.

Il Corriere della Sera 19.03.14

"Tornano gli scatti d’anzianità nella scuola ma è “incubo esodati” per 4000 insegnanti", di Rosaria Amato

Resta lontana la pensione per gli “esodati della scuola”. La Ragioneria dello Stato ha bocciato la proposta di legge di Manuela Ghizzoni (Pd) e Maria Marzana (M5S) che avrebbe risolto la questione “quota 96”, permettendo di andare in pensione a circa 4.000 insegnanti bloccati due anni fa dalla riforma Fornero. Il problema sono le coperture (300 milioni di euro suddivisi in 35 nel 2014, 105 nel 2015, 101 nel 2016, 94 nel 2017 e 82 nel 2018): il Parlamento le aveva individuate nel “Fondo esodati”. Ma per la Ragioneria si tratta di una copertura inidonea, perché finanzia «oneri certi con economie di entità eventuale ed incerta. «È il solito rito — commenta il segretario della Cgil Scuola Domenico Pantaleo — l’ennesima proposta di legge che non viene accolta per la copertura finanziaria. E anche l’ennesima dimostrazione che la riforma Fornero
è iniqua».
Eppure la giornata in Parlamento si era aperta bene per gli insegnanti: la Camera ha infatti approvato in via definitiva il cosiddetto decreto salva-scatti, che proroga gli automatismi stipendiali del personale della scuola. «Soddisfazione» per il via libera da parte del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che però chiede anche una soluzione sulla “quota 96” «che permetta di non restare nel guado e nell’incertezza ». Amareggiata Manuela Ghizzoni, che ha proposto la legge sia nella passata che nell’attuale legislatura: «Il testo è stato ampiamente rivisto — spiega — lo abbiamo modificato proprio per ottemperare ai rilievi della Ragioneria. Abbiamo quantificato la platea dei beneficiari, grazie alla collaborazione con il Miur: visto che molti in questi due anni sono andati in pensione con il contributivo, rinunciando a una buona percentuale dell’assegno, ne rimangono solo 4000. Non ci aspettavamo questa bocciatura». Altrettanto amareggiato il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd): «È una vicenda che nasce da lontano: la legge Fornero ha ignorato il fatto che gli insegnanti vanno in pensione il primo settembre, è la loro unica “finestra”. Invece la riforma ha considerato solo chi maturava la quota 96 (60 anni di età più 36 di anzianità) entro l’1 gennaio. Gli insegnanti sono stati tagliati fuori: in senso tecnico non sono esodati, perché continuano a lavorare, ma sono stati privati di un diritto. Se si permettesse loro di andare in pensione, tra l’altro, si potrebbero assumere 4.000 giovani».
La relatrice del provvedimento, Barbara Saltamartini (Ncd), dopo la bocciatura del Mef ha proposto la presentazione di un atto parlamentare di indirizzo politico, votato all’unanimità, «affinché il governo si attivi immediatamente per trovare le risorse necessarie per risolvere, in via definitiva, il problema». Ora la soluzione è nelle mani del Mef: «Abbiamo espresso parere non favorevole alla copertura individuata dal Parlamento — spiega il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta — perché l’idea di togliere risorse a una fascia così debole ci sembra sbagliato. Inoltre i risparmi del “Fondo esodati” saranno quantificabili solo alla fine dell’anno. Certo, questo è un tema annoso che va risolto: nei prossimi giorni faremo le verifiche con i ministeri interessati e con l’Inps per capire se è possibile calcolare i risparmi subito, altrimenti cercheremo un’altra soluzione».

La Repubblica 19.03.14

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La «trappola» Fornero resta per 4mila prof, di Bianca di Govanni
Costa troppo. Mandare in pensione i 4mila insegnanti che avevano i requisiti per il ritiro (la cosiddetta quota 96) due anni fa e sono rimasti intrappolati dalla riforma Fornero non è possibile. Almeno per ora. Questo è il «verdetto» della Ragioneria dello Stato, arrivato proprio nel giorno in cui Montecitorio ha dato il via libera al decreto che assicura gli aumenti per gli scatti di anzianità degli insegnanti che erano stati messi in forse dai tecnici del Tesoro, tanto da chiederne la restituzione nel dicembre scorso. Insomma, tra Istruzione e Economia c’è una partita doppia, finita uno pari.

Resta il nodo dei pensionandi, anche se continua la battaglia dei parlamentari di maggioranza che in commissione alla Camera hanno presentato una proposta di legge (prima firmataria Manuela Ghizzoni, Pd) per risolvere una volta per tutte il destino dei prof in servizio forzato. Lo stop di via XX Settembre non ha fermato i deputati, che ieri hanno annunciato la presentazione di un atto parlamentare di indirizzo politico «affinché il governo si attivi immediatamente per trovare le risorse necessarie per risolvere, in via definitiva, il problema – ha spiegato Barbara Saltamartini (Ncd), autrice della proposta – Sono contenta che la richiesta sia stata accolta e votata all`unanimità da parte di tutti i gruppi e che il prossimo martedì il presidente Boccia metterà in calendario la votazione della risoluzione. A questo punto mi aspetto dal governo una soluzione definitiva».

I numeri della Ragioneria non sono leggeri, soprattutto a regime. Per l’Inps si valutano oneri pari a 35 milioni di euro nel 2014, 105 milioni nel 2015, 101 milioni nel 2016, 94 nel 2017 e 82 nel 2018. Insomma, a spanne si raggiunge il mezzo miliardo a regime. «Allo stato – si legge nel parere della Ragioneria – non risultando economie accertate a consuntivo che possano fare fronte ai maggiori oneri valuta- ti per l’attuazione del provvedimento, non può considerarsi idonea una copertura finanziaria di oneri certi con economie di entità eventuale ed incerta». Tradotto: non si può fare. Immediata la replica del presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia. «Sugli insegnanti di “Quota 96” il ministero dell’Economia sta commettendo un grosso errore – si legge in una nota – È gravissimo non capire che mandare in pensione tutti quegli insegnanti che, per un errore della riforma Fornero sono stati penalizzati nonostante avessero tutti i requisiti, vorrebbe dire spalancare le porte della scuola a 4000 giovani. Per questo motivo la settimana prossima voteremo in commissione Bilancio la risoluzione proposta da Barbara Saltamartini, relatrice in commissione del- la proposta di legge Ghizzoni, sostenuta all’unanimità e che, personalmente, condivido in pieno. Mi auguro che il Mef trovi le risorse per sanare questa mancanza e possa cambiare idea sul tema altrimenti gliela farà cambiare il Parlamento».

TENSIONI

Parole di fuoco, destinate ad aumentare la tensione tra parlamento e governo, che avrà un peso politico considerevole, considerando l’importanza che il premier riconosce all’istruzione. Che 4mila giovani in- segnanti si vedano preclusa la strada verso la stabilizzazione per via di un pasticcio burocratico della riforma non è certo un passo avanti per il sistema Italia. Il tassello scuola, poi, è solo una parte del grande caos seguito al varo della legge Fornero, approvata in fretta e furia per placare gli attacchi della speculazione sui mercati nei confronti dell’Italia. Co- sì si produsse prima la platea (ancora indefinita) di esodati, poi questa dei docenti ancora in servizio. «Ancora una volta la riforma Fornero mostra tutti i suoi limiti e l’ingiustizia di cui è portatrice per migliaia di lavoratrici e di lavoratori, a partire da quelli della scuola oggetto della ‘quota 96’ – dichiara Renata Polverini (Fi), vice presidente della commissione Lavoro – La Ragioneria, che oggi nega la copertura per circa 4.000 insegnanti rimasti prigionieri della riforma, dovrebbe calcolare tutti i danni che la riforma ha prodotto costringendo il Parlamento a continue coperture economiche, anche ingenti, per soste- nere le giuste ragioni dei cosiddetti esodati. Mi sembra, invece, che prevalga una logica miope e burocratica che è necessario superare strutturalmente rivedendo la normativa varata dal governo Monti per renderla, così come ho anche proposto assieme ad altri colleghi, più flessibile ed anche economicamente valida per lo Stato».

L’Unità 19.03.14

Marianna Madia: “Subito il tetto al cumulo redditi-pensioni d’oro”, di Francesca Schianchi

Nei primi venti giorni da ministro ha scelto di non intervenire nel dibattito, anche quando è stata tirata in ballo per la sua gravidanza, rinviando il momento di dire la sua ai primi atti esecutivi del suo ministero. Così, ieri, dopo aver firmato una circolare che dà attuazione a una norma del precedente governo per cui i lavoratori pubblici non possono cumulare lavoro e pensione oltre 311 mila euro (lo stipendio del primo presidente di Cassazione), il ministro della Pubblica amministrazione e la Semplificazione, Marianna Madia, ha deciso di raccontare cosa sta facendo. Partendo da un dato: che il suo primo atto sia questo, non è per niente casuale.

Perché ha voluto questo come suo primo atto da ministro?

«E’ una scelta politica, per segnalare una priorità: l’attenzione all’equità sociale e al tema di un’intera generazione esclusa. In un’epoca in cui oltre il 40% dei giovani non trova lavoro, un milione e mezzo di persone, tra pubblico e privato, cumula lavoro e pensione. Capisco chi ha pensioni basse, ma ritengo non sia etico quando il cumulo porta a soglie di reddito molto alte».

Il tetto di 311 mila euro è comunque molto alto…

«Io sarei d’accordo ad abbassarlo. E il premier ha già detto che non hanno senso, nel pubblico, redditi superiori a quello del presidente della Repubblica. Ora la circolare, che il precedente ministro non aveva ancora voluto fare, rende operativa una norma, questo non significa che non si possa intervenire successivamente».

La norma vale però solo per i dipendenti pubblici…

«Per i dipendenti privati non si può intervenire sul reddito da lavoro, ma da deputata avevo presentato una proposta per agire sulle pensioni: chi percepisce una pensione oltre 6 volte la minima e continua a lavorare, deve lasciare metà pensione allo Stato. È una proposta che non impegna il governo. Ma bisogna affrontare il tema».

Intanto, anche il suo ministero dovrà mettere mano alla spending review…

«Mi impegno a portare avanti il piano di Cottarelli, ma credo che la spending review debba andare di pari passo a una visione. Immagino una razionalizzazione che porti a rimuovere blocchi, a riportare dinamicità e nuove energie nella Pubblica amministrazione».

Come farà? Molti prima di lei si sono scontrati con forti resistenze…

«Mi sento forte del fatto che questa è una delle priorità della nostra squadra di governo».

Per aprile è annunciata la riforma della P.a: a che punto siete?

«Ci stiamo lavorando, a breve andrò in Parlamento a dare le linee programmatiche, che toccheranno vari aspetti. Di certo, la riforma conterrà il tema dell’accesso alla dirigenza, perché è importante ripartire dall’alto e non dal basso. E credo non abbia senso che i dirigenti restino inamovibili nello stesso posto fino a fine carriera».

A proposito di dirigenti, toccano a lei nomine importanti…

«Come il presidente dell’Istat e i 4 membri dell’Anticorruzione: dobbiamo ancora definire le modalità, ma la mia intenzione è di richiedere autocandidature per dare trasparenza a processi che finora non l’hanno avuta. Con l’invio del curriculum, ma soprattutto vorrei che chi si candida descrivesse il progetto che ha in mente per quella particolare posizione».

Sta partendo il Jobs Act di cui anche lei s’è occupata, già ci sono critiche dei sindacati…

«C’è un tema di rilancio dell’economia a cui si lega il desiderio di tutti di aumentare i contratti a tempo indeterminato. Nel frattempo, le scelte di Poletti vanno nella direzione giusta, anche valorizzando la maggior parte del lavoro della segreteria del Pd, e possono comunque essere migliorate nei tecnicismi in Parlamento».

Un’ultima cosa: ha letto che c’è chi ritiene inopportuna la nomina di un ministro incinta?

«So di essere in un momento di maggiore debolezza fisica, anch’io mi sono posta il problema. Ma fa parte dei rischi che si è assunto questo governo: se metti in gioco dei 30enni, può capitare che ci sia pure una donna incinta. Certo se avessimo continuato come sempre a nominare dei 60enni, il tema non si sarebbe posto…»

La Stampa 18.03.14