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"Fondi europei fuori dai vincoli libertà di spesa ai Comuni virtuosi", di Valentina Conte

Mettere fuori dal patto di stabilità degli enti locali i fondi strutturali europei, o meglio la parte cofinanziata dall’Italia di quei fondi. E premiare i soli Comuni virtuosi, consentendo loro di spendere quanto hanno in cassa per aggiustare le scuole, rifare le strade, investire. Il governo Renzi prova ad allentare i vincoli europei, senza violarli. Fermo restando dunque il tetto invalicabile del 3% nel rapporto tra deficit e Pil (che però nel 2016 dovrà essere ricondotto a zero, dunque pareggio di bilancio), l’urgenza immediata per il premier è quella di dare ossigeno al territorio. Le due strade individuate – e all’esame di Palazzo Chigi – rispondono allo scopo. Ma la prima porta a Bruxelles, via Berlino. E potrebbe essere oggetto di confronto già domani, quando Renzi incontrerà la cancelliera Merkel. La seconda strada, tutta interna, conduce al tavolo con gli enti locali. A partire da quello in agenda per giovedì prossimo con l’Anci, l’associazione dei Comuni guidata dal sindaco Fassino.
«Cambieremo il patto di stabilità interno per consentire ai nostri figli di avere scuole degne di questo nome, ma senza sforare alcun vincolo», ha annunciato ieri Renzi da Parigi, dopo l’incontro con Hollande all’Eliseo.
LA PROPOSTA ERRANI
Nelle stesse ore in cui a Bologna il presidente della conferenza Stato-Regioni, Vasco Errani, chiedeva al governo di escludere i fondi europei dal patto di stabilità interno, «altrimenti è chiaro che non potremo spendere le risorse» e «senza interventi pubblici il Paese non è in grado di fare un salto». Si può fare? Non senza il beneplacito dell’Europa. I fondi strutturali Ue sono già fuori dal patto, proprio perché mirati agli investimenti. Non così le risorse italiane che li accompagnano (i fondi per essere spesi devono essere cofinanziati dal Paese membro per il 50%).
NOVE MILIARDI DA SPENDERE
Tanto per fare un esempio, il cofinanziamento italiano dei vecchi fondi non ancora spesi, relativi al periodo 2007-2013, è pari a 9 miliardi da sbloccare in due anni (2014-2015) prima di perderli definitivamente. Se fossero fuori dal patto di stabilità interno – quell’insieme di tetti di spesa fissati ogni anno dal 1999 nella legge di Stabilità, l’ex finanziaria, per tradurre a livello locale il limite europeo e nazionale del 3% tra deficit e Pil – darebbero più di
una boccata d’ossigeno a Regioni e Comuni. Ma non sono i soli denari che Renzi può chiedere a Bruxelles di scomputare dal patto.
GLI EX FAS VALGONO 15MILIARDI
Ci sono anche i fondi Sviluppo e Coesione (ex Fas, fondi per le aree sottosviluppate). Tutti soldi nazionali che tra residui e stanziamenti di cassa valgono 15 miliardi tra 2014 e 2015 – calcola la Uil, Servizio politiche territoriali – e possono essere investiti per l’85% nelle regioni meridionali e per il 15% in quelle settentrionali.
Diverso il discorso del premio ai Comuni buoni, quelli in pareggio o addirittura in avanzo di bilancio che però non possono spendere quanto hanno in cassa perché chiamati ad attenersi alle regole del patto. Regole cieche che oggi non distinguono tra buoni e cattivi. Anzi vincolano tutti i sindaci allo stesso modo, senza guardare a chi tra loro ha fatto i compiti a casa e chi no. Il premier Renzi vorrebbe scardinare questo meccanismo (e lo può fare senza chiedere a Bruxelles), fermo restando i saldi nazionali da osservare (il 3%). Dunque premiare chi ha i conti a posto, consentendogli di spendere oltre i limiti del patto di stabilità. E nello stesso tempo obbligare i Comuni in rosso a seguire un percorso di risanamento, prima di mettere nuovamente mano al portafogli. Per fare un esempio, mille comuni lombardi hanno “in cassa” circa un miliardo di euro.
Però ben 367 Comuni (su oltre 8 mila totali) sono in situazioni di dissesto o pre-dissesto, vicini cioè al default. Tra questi Alessandria, Roma, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Parma, Frosinone.
IN ROSSO 1200 MUNICIPI
E anche Venezia non è messa benissimo. Senza contare poi i 1.200 Municipi in “rosso”, dunque in debito, come Torino e Catania. Certo, aprire un tavolo politico per individuare i buoni e i cattivi – capace intanto di avviare un serio monitoraggio dell’esistente – non è cosa semplice. Ma squadra dei sindaci al governo – come ama ricordare Renzi coordinata da Graziano Delrio, ex sindaco ed ex presidente Anci, pensa di farcela. Dovrà partire dalle regole attuali di calcolo del patto, assai bizzarre: le Regioni hanno un tetto annuo alla spesa (esclusa la spesa sanitaria che però pesa per il 60%), mentre Comuni e Regioni hanno un “saldo obiettivo” tra entrate e uscite, distinto tra spese correnti e investimenti.
Una babele.

La Repubblica 16.03.14

"Permessi e divieti sul Circo Massimo non si difendono così i Beni culturali", di Paolo Fallai

Sì, no, forse. Povero Circo Massimo, addossato al colle Palatino, da quando ospitò il ratto delle Sabine è uno dei luoghi più discussi di Roma. Anche per l’evento musicale dell’anno, il concerto dei Rolling Stones, unica data italiana il 22 giugno, la scelta della spianata di 620 metri ha scatenato uno scontro di pareri.
Entusiasta il sindaco Ignazio Marino che vuole trasformarlo in «un luogo di riferimento per i grandi eventi culturali». Nettamente contraria la Soprintendenza archeologica che denuncia «rischi per la conservazione del patrimonio archeologico». Ma il «no» della massima autorità chiamata a vigilare sulla conservazione della Roma archeologica è stato superato dal «sì» del direttore regionale del ministero per i Beni culturali, Federica Galloni. Ha ragione Edoardo Sassi che ieri, sulla cronaca di Roma di questo giornale, ha rivelato per primo lo scontro: il ministero contro il ministero. Condito da altri pareri: quello favorevole della Soprintendenza ai beni architettonici, che ha competenza ma solo per la parte paesaggistica, e quello della Sovrintendenza capitolina, retta da un «interim» e che difficilmente avrebbe potuto smentire il suo sindaco.
Ma chi decide su luoghi così delicati e fragili? Non è la prima volta che la Soprintendenza perde la sua battaglia, tanto che in Campidoglio, hanno sottolineato, «non dà mai parere favorevole». E infatti l’area è stata occupata dai festeggiamenti per gli scudetti della Roma (2001) e della Lazio (2002), dai Genesis (2006) e da Lady Gaga (2011). Il sindaco Marino sembra intenzionato a usare il Circo Massimo come fosse cosa sua. Ma allora la Soprintendenza dello Stato che ci sta a fare? E in caso di danni all’area archeologica — come avvenne nel 2001 — chi ne risponde? La Soprintendenza l’ha messo nero su bianco: il Campidoglio se ne assume la responsabilità. Basta questo a giustificare la posizione un po’ farisaica di un ministero per i Beni culturali, che da una parte scatena l’allarme sui rischi e dall’altra autorizza l’evento? Roma meriterebbe un po’ più di chiarezza.

Il Corriere della Sera 16.03.14

“Il Jobs Act va bene così tra 10 mesi vedrete i risultati”, di Luisa Grion

Ecco ministro parliamo dei paletti levati: aumentare le possibili proroghe di un contratto a termine da una a 8 volte entro 36 mesi senza dovere nemmeno specificare le causali, è o no, come dice Susanna Camusso della Cgil, un inno alla precarietà?
«No, perché queste modifiche permetteranno all’azienda di assumere con maggiore tranquillità e daranno ai lavoratori maggiori possibilità di ottenere tre anni continuativi di lavoro».
Tre anni con il cuore in gola ogni quattro mesi per l’attesa del rinnovo e con l’impossibilità di ottenere un mutuo in banca?
«Chiariamo una cosa: oggi di contratti a termine che durano 36 mesi ne vedo in giro pochissimi. Le aziende, temendo vertenze proprio sulla causalità, mandano a casa i ragazzi dopo pochi mesi e ne assumono altri al loro posto. I paletti previsti dalla riforma Fornero avevano il giusto obiettivo di limitare l’uso dei contratti temporanei, ma hanno prodotto l’effetto inverso. Questa situazione merita di essere difesa? Allora io, come ministro non ho capito nulla ».
Secondo lei il lavoro si crea aumentando la flessibilità?
«No, ma oggi il 67,9 per cento delle assunzioni è a termine. Devo partire da qui e dal fatto che nel quarto trimestre del 2013 ci sono stati circa 2,3 milioni di avviamenti di rapporti e oltre 3 milioni di dismissioni. Il mercato del lavoro è una porta che gira, devo cercare di stabilizzarla. Se facilito l’azienda nel rinnovare il contratto allo stesso ragazzo per tre anni di fila, è più probabile che alla fine dei tre anni – sempre che la domanda di lavoro persista – quell’imprenditore decida di assumerlo a tempo indeterminato, visto che il contratto a termine, quanto a contributi, è più caro dell’1,4 per cento. Poi so che la ripresa ha bisogno di altro e che l’impresa assume solo quando è sicura di dare lavoro. Per questo – oltre al decreto – il governo ha promosso investimenti, ha messo soldi nelle buste paga, ha sbloccato l’edilizia scolastica ».
Ma essere osannato dagli industriali di Torino, che parlano di misure «perfette», e criticato dal sindacato le crea qualche imbarazzo?
«Mi assumo le responsabilità delle scelte fatte. Susanna Cammusso, lo so, è in buona fede, fa bene il suo mestiere e se ha dei dubbi è giusto che li faccia pesare. Io ci ho pensato bene, perché di certo la derugulation non è la mia mentalità. Ma avere norme giuste che non producono effetti o ne producono di contrari è peggio.
Guardo ai fatti, ai numeri e ai processi e vedo che oggi – pur di non dover rispondere a quel vincolo che lo obbliga ad assumere il 30 per cento degli apprendisti formati prima di chiederne altri – l’azienda manda a casa i ragazzi prima del previsto, senza dar loro nemmeno la qualifica. Io sono più interessato
al futuro di quei ragazzi che alla perfezione della norma».
La Cgil vi chiede di cancellare il decreto e vi offre collaborazione sul contratto unico, accettate la proposta?
«No, il decreto va avanti così. Poi certo, non siamo infallibili e il dibattito in Parlamento farà il suo corso».
Da precarietà in precarietà, cosa farete per i co.co.co e la marea di partite Iva di cui fino ad ora non vi siete occupati?
«Ce ne occuperemo quando affronteremo la partita dei contratti e l’obiettivo che ci muove è chiaro: non permetteremo finzioni».
Parliamo di cassa integrazione in deroga. Per coprire le esigenze del 2014 manca un miliardo, lo avete trovato?
«No, ho segnalato il problema e il governo troverà la soluzione ».
Ma visto che la cassa in deroga è destinata a scomparire come funzionerà il sussidio universale di disoccupazione?
«La riforma degli ammortizzatori sociali si muoverà attorno ad un criterio cardine: ognuno dovrà avere un ruolo. Nessuno starà a casa aspettando il sussidio, sarebbe troppo facile fare come nel passato: ti do quattro soldi e tu non rompi le scatole. Il principio che muove l’intera politica di questo governo – si parli di carcerati, anziani, immigrati – è che tutti dovranno avere un ruolo. Metteremo assieme – come già succede nel mio ministero – il welfare e il lavoro, due temi che sono strettamente correlati visto che due terzi dei problemi che insorgono nel primo sono causati dalla mancanza del secondo. Chi avrà diritto ad un sostegno, perché senza occupazione o in difficoltà, dovrà restituire alla collettività il favore ottenuto. Sarà un vero e proprio cambio di mentalità rispetto ai lavori socialmente utili, perché lì il comune ti pagava se facevi qualcosa, qui ti rimetti in gioco. Stiamo già lavorando con i sindaci e con il terzo settore, prenderemo spunto da esperienze già attivate in singoli municipi per costruire un modello comune. Anche questo sarà un modo per cambiare il Paese».
Oltre al Paese, dice il Premier Renzi, bisogna cambiare anche l’Europa. Ma come riusciremo a convincerla a modificare le regole se il nostro debito pubblico continua a correre?
«Legge elettorale, riforme istituzionali, lavoro, pubblica amministrazione: abbiamo un obiettivo al mese, già stiamo dimostrando che siamo cambiati, che ora crediamo che le cose si possano fare. Comunque sono convinto, come Renzi, che anche l’Europa debba cambiare: se continua così perderà il suo posto nel mondo».

La repubblica 16.03.14

"Via Fani è ancora un mistero", di Gero Grassi

Quanti misteri sono ancora senza risposta nel caso Moro? Tanti, tantissimi. Dal commando di via Fani al covo in cui fu tenuto prigioniero il presidente Dc, alle stesse lettere inviate a familiari e politici. Il Pd chiede una nuova commissione d’inchiesta. Ecco perché. La domanda legittima è perché dopo 36 anni ancora una indagine? La risposta semplicissima: perché la verità non è ancora emersa e lo dice anche la Magistratura. «La verità è più grande di qualsiasi tornaconto. La verità è sempre illuminante e ci aiuta ad essere coraggiosi», diceva Moro. Ho letto interamente gli atti dei processi Moro e delle diverse Commissioni e per il Gruppo Pd della Camera ho realizzato una sintesi testuale perchè il Pd vuole la verità sul caso Moro. Chi è interessato può leggerla e scaricarla sui siti www.deputatipd.it e www.gerograssi.it link Aldo Moro.

Anzitutto la dinamica dell’eccidio di via Fani. Non tutti i partecipanti sono stati individuati, soprattutto quelli che non facevano parte delle Brigate Rosse. Addirittura il brigatista Alessio Casimirri, che partecipa all’agguato, è in Nicaragua, non è mai stato arrestato e lo Stato non ha mai chiesto l’estradizione, anzi ha speso oltre un miliardo e mezzo per mandargli agenti dei servizi segreti a trovarlo, mai si è capito il perché.

Dove è stato tenuto prigioniero Moro? I brigatisti dicono in via Montalcini, a Roma. Le perizie della magistratura accertano, con prove, che le prigioni so- no almeno due. Perché i brigatisti non dicono la verità?

Chi fa parte della intellighenzia che scrive i documenti delle Brigate Rosse e che si riunisce in una abitazione di Firenze?

Quali i rapporti tra i componenti del Comitato del ministero degli Interni che si occupa del caso Moro durante i 55 giorni e la P2, considerati i tantissimi piduisti presenti?

Perché diversi generali dei carabinieri e altissimi magistrati nel periodo del rapimento si incontrano con Gelli nella sua villa di Arezzo per discutere del caso Moro?

È vero che durante i 55 giorni al Ministero degli Interni entra tale ingegnere Lucani, in realtà Licio Gelli?

Perché all’interno della magistratura si verificano divisioni devastanti tanto che il Procuratore Capo della Repubblica di Roma ed il Sostituto Procuratore che segue l’inchiesta nemmeno si parla- no e lo dimostrano in occasione dell’episodio del Lago della Duchessa, quando il Sostituto non segue il Procuratore al Lago, dichiarando di sapere che il comunicato n.7 delle Br è falso?

Quali i rapporti tra le Brigate Rosse e la banda della Magliana, la camorra, la mafia e la ’ndrangheta? La magistratura accerta che il famoso comunicato Br n. 7 è realizzato da Tony Cucchiarelli, capo della banda della Magliana. Un affiliato della ’ndrangheta dichiara di sapere il perché della scomparsa dalla scrivania del giudice del rullino fotografico scattato subito dopo l’eccidio di via Fani. Un affiliato di Cutolo dichiara che in via Montalcini la camorra aveva proprie abitazioni usate come rifugio.

Quale la verità sulla seduta spiritica di via Gradoli? Chi fa la soffiata come si chiede il giudice Priore? Perché nessuno sa dell’esistenza di via Gradoli a Ro- ma, nonostante il 18 marzo ci sia già stata una ispezione della polizia, nonostante il prefetto Parisi dispone di quattro appartamenti in via Gradoli e i Servizi segreti italiani hanno appartamenti nella strada?

Perché don Antonello Mennini, vice-parroco della chiesa di Santa Lucia a Ro- ma e latore di diverse lettere delle Br non si è mai fatto interrogare dalle diverse commissioni d’inchiesta, rifugiandosi dietro il suo stato di ministro del Culto?

È vero, come sostiene Luciano Guerzoni, capo ufficio stampa di Moro, che don Antonello si reca nella prigione e gli porta la comunione al presidente Moro?

Quali influenze hanno avuto nel rapi- mento o nell’omicidio la Cia, il Kgb, l’Ira, il Mossad, la banda Baider Meinhof e i servizi segreti bulgari e cecoslovacchi? La testimonianza positiva di Alberto Franceschini non è mai stata smentita.

Mario Moretti ed Alessio Casimirri sono brigatisti o uomini dei Servizi Segreti? Franceschini e Curcio sostengono, senza ombra di dubbio, che Moretti è un infiltrato e che i carabinieri troppe volte hanno evitato il suo arresto.

Chi ha l’intera copia del memoriale Moro ritrovato in via Montenevoso a Milano nell’ottobre 1978? Perché è stato fotocopiato fuori dall’appartamento senza la presenza del giudice? Perché tutti quelli che hanno visto o letto il Memoriale sono stati tragicamente uccisi: i generali Dalla Chiesa e Galvaligi, il colonnello Varisco, Chichiarelli, Pecorelli ed infine la morte sospetta del colonnello Bonaventura, il giorno prima la sua audizione in Commissione?

Perché il giudice Pomarici non ha mai creduto al senatore Flamigni quando questi gli diceva che in via Montenevoso c’era ulteriore materiale delle Br, ritrovato dopo 12 anni da un muratore? Perché i carabinieri e il giudice hanno sostenuto che l’appartamento di via Montenevoso era stato scarnificato mattonella per mattonella, impedendo per dodici anni la scoperta?

Perché nell’omicidio Dalla Chiesa gli autori del delitto rubano la borsa che il generale porta sempre con sè dai tempi del rapimento Moro e poi si recano nella sua abitazione prelevando dalla cassaforte documentazione riservata? Quale?

Perché quando pare che si stia profilando la liberazione di Moro, il 9 maggio 1978 in via Caetani si trova il corpo senza vita del presidente Moro? Chi lo uccide? Dove? A che ora?

Dice Eleonora Chiavarelli, vedova Moro, alla Commissione nel 1980: «L’onorevole Moro, da penalista, non avrebbe approvato la condotta dei brigatisti; però avrebbe voluto distruggere o rimuovere le cause che portavano i ragazzi a fare cose di questo genere, in modo che potessero esprimere il loro pensiero, la loro sfiducia e tutto quello che volevano dire con armi proprie, con quelle dell’uomo che parla e fa valere la propria intelligenza, il peso della propria persona matura».

In tutta la Puglia e nell’intera Italia (Verona, Roncade, Maserada sul Piave, Milano, Napoli, Cagliari, Ancona, Salso- maggiore, Vicenza, Venezia, Verbania, Cuneo, Casale Monferrato, Mantova, Benevento, Battipaglia e tantissime al- tre città) il Gruppo Pd della Camera ha organizzato e programmato manifesta- zioni nel corso delle quali racconto ai cit- tadini «Chi e perché ha ucciso Aldo Mo- ro».

Circa due ore di religioso silenzio da parte dei tantissimi presenti, quale omaggio ad una persona mite e buona come Aldo Moro.

*Vicepresidente gruppo Pd alla Camera

L’Unità 16.03.14

"Berlinguer perchè ti abbiamo voluto bene", di Eugenio Scalfari

Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.
Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.
La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.
Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.
La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ‘77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.
Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica.
Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.
Oltre alle interviste su Repubblica accettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.
In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.
Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.
Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.
Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».
Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninista stalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.
Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.
***
Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare — dissi io in quel punto — che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».
Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».
Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».
Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983).
«Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».
Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.
Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.
Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».
Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.
C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

La Repubblica 16.03.14

"Ma la vera partita si gioca in Germania", di Andrea Bonanni

Se si esclude l’ultimo governo di Berlusconi, a cui Sarkozy neppure rivolgeva la parola, tutti i primi ministri italiani degli ultimi anni, Monti, Letta e adesso Renzi, sono arrivati a Parigi freschi di nomina per annunciare una nuova “entente” italo-francese in nome della crescita da contrapporre al rigore della cancelliera Merkel. Nel frattempo, l’unico Paese che sia riuscito a crescere davvero è stata la Germania. Il copione si è ripetuto, con qualche piccola variazione, anche ieri in occasione della visita di Matteo Renzi all’Eliseo.
Certo, la tentazione di cercare una sponda francese per arginare lo strapotere tedesco in Europa è non solo comprensibile ma anche perfettamente logica. E il presidente Hollande anche questa volta si è prestato volentieri al gioco ricordando che i programmi dei due governi «hanno molti punti in comune». In effetti da anni Francia e Italia annaspano per non affogare l’una sotto il peso del deficit e l’altra sotto il peso del debito. Ed è vero che, essendo deficit e debito calcolati in rapporto al Pil, solo aumentando la ricchezza prodotta attraverso una robusta crescita economica si può sperare di ridurre il peso relativo di queste zavorre.
Ma l’esperienza insegna che difficilmente, unendo due debolezze, si riesce ad esprimere una forza in grado di condizionare quella, sempre crescente, della Germania. Anche perché Parigi, immancabilmente, nei momenti cruciali resta comunque saldamente aggrappata all’asse franco-tedesco e al trattamento preferenziale che questo le garantisce. Un occhio di riguardo non solo nel consesso delle istituzioni e dei governi europei, che hanno generosamente offerto alla Francia due anni di proroga per rispettare il Patto di stabilità mentre all’Italia non concedono il minimo sconto, ma anche da parte dei mercati finanziari, che nel pieno della crisi hanno mantenuto al minimo lo spread tra i titoli di stato francesi e tedeschi mentre il nostro differenziale volava al punto di sfiorare la bancarotta. E questo nonostante i fondamentali francesi e italiani non fossero poi così distanti.
Matteo Renzi, però, è tutto fuorché ingenuo. E di certo non si fa illusioni sul fatto che l’intesa franco-italiana possa andare molto al di là dei legittimi slogan da campagna elettorale di due statisti affiliati al Pse a poche settimane dalla sfida delle Europee. Se veramente avessero voluto sfidare la Germania, Francia e Italia avrebbero potuto farlo sul fronte dell’Unione bancaria, una riforma davvero essenziale per la crescita economica di tutto il Continente ma sulla quale Berlino recalcitra da anni. E invece, nonostante le richieste di aiuto che arrivano a Roma e a Parigi da parte del Parlamento europeo, su quel fronte il preteso asse italo-francese è rimasto a fare da spettatore di fronte alle bizze e ai veti dei tedeschi.
La ragione di tanta prudenza è che la vera sfida per Matteo Renzi, e lui lo sa benissimo, sarà l’incontro di domani con Angela Merkel. È alla Cancelliera che il premier italiano deve far accettare la rischiosa scommessa che ha in mente sul futuro del nostro Paese. Il suo progetto è noto: utilizzare il margine di manovra di mezzo punto del Pil che ci separa dal fatidico tre per cento e rinunciare ad alzare l’avanzo primario per dare fiato all’economia e ottenere il consenso sociale che gli consenta di varare la lunga serie di riforme che l’Europa ci chiede da tempo.
La Commissione europea, ancor prima che il nuovo governo entrasse in funzione, ci ha già mostrato il semaforo rosso. La situazione del nostro debito è talmente grave, dice Bruxelles, che non possiamo utilizzare il margine di manovra e siamo obbligati a rafforzare il nostro avanzo primario. Nel dettarci queste condizioni, la Commissione non fa che applicare le regole che noi stessi abbiamo sottoscritto e gli impegni che furono assunti dal governo Berlusconi-Tremonti. Ma la forza dei suoi veti le viene non solo e non tanto dall’autorità conferitale dai Trattati, quanto dalla diffidenza dei mercati, che di fronte ad uno sbandamento dei conti pubblici italiani sanzionato da Bruxelles potrebbero decidere di rialzare lo spread riportandoci sull’orlo della bancarotta.
Per questo il sostegno di Angela Merkel e della Germania è cruciale per Renzi e per l’Italia. Se la Cancelliera dovesse decidere di appoggiare la scommessa del nostro governo, troveremmo a Bruxelles giudici meno severi, come è già accaduto alla Francia, alla Spagna e all’Olanda. Ma soprattutto una garanzia politica della Germania sulla manovra del-l’Italia tranquillizzerebbe i mercati finanziari, come è successo a favore della Francia nei momenti più difficili della crisi. In questo caso un sia pur ridotto scostamento dal percorso di risanamento dei nostri conti pubblici non verrebbe immediatamente sanzionato da un rialzo dello spread che annullerebbe qualsiasi beneficio per la nostra economia e qualsiasi speranza di rilanciare la crescita.
La Germania fino ad oggi ha sempre ostinatamente rifiutato di garantire con le proprie finanze i debiti altrui. Ma, al di là delle garanzie finanziarie, ci possono essere garanzie politiche che hanno sui mercati un effetto quasi altrettanto importante. Angela Merkel lo sa bene e fino ad ora ha usato questo strumento con raffinata maestria. Ora dovrà anche lei misurarsi con «l’effetto Renzi». E dal risultato di quel confronto dipenderà il nostro destino.

La Repubblica 16.03.14

"La differenza che può salvarci", di Claudio Sardo

Dalla dignità delle donne dipende anche quella degli uomini, hanno scritto l’8 marzo le promotrici di Snoq (Se non ora quando?) libere, chiedendo di cominciare un cammino insieme. Sì, donne e uomini insieme. Con le loro differenze, oltre le paure di questi decenni, gli opportunismi, i ritardi, le cadute per «ideare e realizzare un mondo condiviso». Così la più grande rivoluzione antropologica degli ultimi secoli – la libertà delle donne, appunto – potrà continuare a dare i suoi frutti di cambiamento e scongiurare un esito di omologazione. «Il femminismo – sottolinea il documento – ha determinato la fine del patriarcato. Il dominio incontrastato degli uomini, almeno nelle nostre società, non ha più alcuna autorità, ma la libertà conquistata ci dice che la separazione non è più utile a cambiare la realtà esistente. Dobbiamo pensare e sperimentare insieme idee e strumenti per realizzare la condivisione alla pari, nelle relazioni familiari, lavorative, politiche. Le paure e le insicurezze reciproche possono spingere a fare a meno dell’incontro con l’altro o con l’altra. A pensarci come individui onnipotenti pronti a comprare sul mercato quello che ci manca. Questo possibile esito del gigantesco cambiamento che le donne hanno prodotto ci inquieta».
Non è possibile rifiutare la sfida. Anche dalla dignità degli uomini dipende quella delle donne. È vero che tutto ciò suona stonato all’indomani del voto della Camera, che ha bocciato le norme sulla parità di genere. Il Senato dovrà riparare. Non stiamo parlando di «quote», ma di qualità della rappresentanza e della democrazia (e forse le parlamentari potrebbero ora trasgredire alla regola di emendare solo entro il perimetro degli accordi tra partiti, dicendo chiaramente che è la doppia preferenza di genere il sistema che garantisce i migliori risultati e la maggiore libertà per gli elettori). Comunque, il tema proposto da Snoq libere, e ripreso su l’Unità da Sara Ventroni, è molto più impegnativo, cruciale, e ricomprende al suo interno la questione democratica. L’omologazione è la grande minaccia del nostro tempo. E la differenza femminile è uno straordinario strumento di difesa. Un’opportunità offerta alla società intera. Solo che la società sappia usarla, e non cerchi di cancellarla per ignoranza, per paura, magari con violenza.

L’omologazione oggi non è sospinta da un potere coercitivo. I poteri hanno volti seducenti, usano la forza del denaro, le opportunità offerte dalla tecnica, la persuasione del pensiero unico. Ma il paradosso del nostro tempo è che l’omologazione viaggia anche sui binari delle nostre libertà. Le libertà hanno rotto tabù, gerarchie, barriere. Hanno promosso diritti, mobilità, espansione. Ma non hanno impedito l’aumento delle diseguaglianze, e oggi ci scopriamo sempre più impotenti sulle decisioni che contano davvero. L’iper-democrazia può trasformarsi in dispotismo. Gli strumenti a nostra disposizione ci danno un senso di onnipotenza. Eppure in tanti si sentono disperati. Onnipotenti e disperati: è il brodo di coltura dell’individualismo nichilista, l’anticamera della solitudine, la premessa dell’omologazione.

La libertà femminile ha dato in questi decenni un senso nuovo all’eros, all’amicizia, all’amore. Non è stata, non è affatto indolore per gli uomini. La nostra vita è stata percorsa da cambiamenti profondi e veloci. Che hanno prodotto ferite. E il terremoto continua. Ma la differenza resta una ricchezza, una possibilità di riscatto. Per le donne e per gli uomini. La spinta omologatrice reagisce alla differenza proponendo sfumature del neutro. Neutro-maschile, dice il documento di Snoq libere. In ogni caso la negazione delle differenze è ragione di violenza, di sopraffazione. Le modalità del neutro sono l’altra faccia di un’atomizzazione funzionale al dominio dei capitali impersonali: e rischia di diventarlo anche il radicalismo dei diritti soggettivi, se questi si separano dai diritti sociali, dal senso dei doveri, dalla percezione dell’altro.

Non abbiamo paura del futuro, del mondo, della forza generatrice positiva della scienza. Ma l’umanità deve guidarla. Non essere sottomessa. C’è il rischio di una nuova schiavitù: è cieco chi non lo vede. Ecco perché la differenza di genere è oggi una speranza. La speranza di una cultura nuova. Che abbia il coraggio di partire dall’amore e dalla libertà delle donne e degli uomini. Che costruisca reti di solidarietà tra persone, e non soltanto tra individui. La differenza di genere non esclude le altre diversità ma le comprende, essendo la più radicale e la più procreativa. È aperta alla vita, all’amicizia, al dono, alla gratuità più di ogni altra cosa. Sprigiona forza di cambiamento, voglia di futuro, valori da trasmettere ai figli. Invece viviamo in una società opulenta, che ora teme il declino, ma che da tempo ha smesso di generare. Anche la denatalità è agente di omologazione. Accorcia l’orizzonte. Toglie trascendenza al pensiero e all’azione. L’invecchiamento della società è complice della dittatura del presente e del furto di speranza e di futuro.

Viviamo in un Paese che ha le più deboli politiche per la famiglia, e al tempo stesso non ha neppure una legge che riconosca i diritti delle unioni omosessuali. Abbiamo bisogno di entrambe le cose: invece ci fermiamo agli scontri ideologici. Un cammino insieme di donne e uomini liberi, di madri e padri, di giovani che vogliono vincere la paura, è necessario. È il solo modo per tornare davvero a «crescere». La sfida lanciata l’8 marzo ha una fortissima politicità. Anche la sinistra dovrebbe sentirsi sfidata: senza una nuova stagione di solidarietà tra uomini e donne, non ci sarà una nuova stagione della sinistra. È un illusione pensare che basti il potere per cambiare questa società dopo la lunga egemonia turbo-liberista.

L’Unità 16.03.14