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"Caro Renzi, ecco la scuola che non va", di Adriana COmaschi

Caro Renzi, ecco cosa non va nelle nostre scuole. Famiglie e docenti di Bolo- gna, Modena e Ferrara raccolgono l’invito lanciato dal presidente del Consiglio alla sua prima visita in un aula a Treviso, «segnalate a matteo@governo.it quello che non va». E in attesa di vederlo magari in Emilia, mettono nero su bianco le difficoltà di ogni giorno. Perché la messa in sicurezza degli istituti «non adeguati, talvolta nemmeno dignitosi» è uno dei punti sottoposti al premier. Ma le emergenze hanno anche altri nomi: fon- di per le scuole azzerati, mancanza di in- segnanti di sostegno e per l’alfabetizzazione degli alunni stranieri, classi sovraffollate.

I presidenti dei Consigli di Istituto e di Circolo della provincia di Bologna, comitati genitori, coordinamento insegnanti delle medie e associazioni di Modena, famiglie di alcuni centri in provincia di Ferrara mandano dunque un segnale, per ricordare al Miur del ministro Stefania Giannini che i problemi non si esauriscono con il grande piano di edilizia scolastica, che dovrebbe contare come ribadito ieri dal sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi su 10 mila interventi di riqualificazione («2.500 in una graduatoria del Miur del 2013 per cui sono già stati stanziati 150 milioni. Altri 8mila poi, uno per ogni comune, possono partire subito. Oggi scade il termine per i sindaci per presentare la propria richiesta di intervento»). In cima a la lista dei problemi il mondo della scuola emiliano mette il nodo fondi pubblici, i «10 miliardi sottratti alla scuola negli ultimi anni» e le «risorse per il Migliora- mento dell’Offerta Formativa, tagliate del 30% quest’anno rispetto al precedente».
In concreto, significa che le scuole vanno avanti solo grazie ai contributi delle famiglie, «ai materiali (carta, sapone) da anni forniti dai genitori si aggiungono somme in denaro: in provincia di Bologna pressoché tutti gli istituti sono costretti a chiederli, per le superiori addirittura rappresentano la fonte di finanziamento principale», con in media di un centinaio di euro l’anno. E allora addio ai progetti, «praticamente azzerati»: le uscite didattiche sopravvivono se gratuite, scomparsi i laboratori che un tempo facevano la qualità della didattica, viaggi d’istruzione, sport, teatro resistono se sono le famiglie a pagare. Manca- no le risorse perfino per le ore di recupero di chi ha debiti formativi, anche queste coperte con i contributi ‘volontari’ delle famiglie.

IL DANNO E LA BEFFA

Oltre al danno la beffa: perché tutte le scuole vantano crediti da decine se non centinaia di migliaia di euro dallo Stato, soldi anticipati soprattutto per supplenze brevi. Cifre che i genitori hanno sott’occhio negli organi collegiali, e che vorrebbero vedere restituite. «Il liceo dei miei figli è in credito di 45 mila euro racconta ad esempio Luisa Carpani, presidente dei Consigli di Istituto di Bologna -, ma ci sono istituti superiori a cui sono dovuti anche 135 mila euro». In queste condizioni, «si fa fatica – notano ancora gli autori della lettera – perfino a garantire il normale funzionamento della scuole». Se a questo si aggiunge la riduzione dei fondi per le pulizie, «del 40% solo quest’anno, associata al taglio del personale Ata» si arriva a situazioni come quella «di elementari della provincia dove verranno fatte solo due volte la settimana – racconta ancora Carpani -, di togliere la polvere neanche a parlarne». Altro nodo dolentissimo la carenza di docenti, «in Emilia-Romagna a settembre 2013 c’erano 8-9 mila studenti in più, l’ 1,7% in più mentre gli insegnanti crescono solo dello 0,9%, questo si tra- duce in classi pollaio con anche 32 alunni, pure in presenza di ragazzi disabili».

Un tema rilanciato da Domenico Alta- mura, già coordinatore dei presidi di Bologna e ora dirigente dell’istituto comprensivo 5 con classi dalla materna alle medie. «Servono più risorse umane e più formazione. Siamo del tutto privi di una seria politica di integrazione degli stranieri, che comincia a scuola ma per cui mancano docenti – riassume Altamura -: occorre formare gli insegnanti in servizio e implementare gli organici, per l’alfabetizzazione ma anche per sostegno, dislessia e Bisogni educativi speciali. Nel mio Ic ho 36 bambini certificati: lo Stato mi dà solo 22 docenti di sostegno per 18/24 ore la settimana, il Comune 24 educatori per 36 ore: senza questi ultimi sarei morto, e già così facciamo fatica».

L’Unità 15.03.14

"La comunicrazia che spegne il dialogo", di Giovanni Valentini

La scrittura orale è uscita rapidamente dagli sms e dalle chat, per finire sempre più spesso nelle mail, nei blog e nei più disparati generi di siti web, contagiando anche il giornalismo e la letteratura. (da “Introduzione alla semeiotica dei nuovi media” di Giovanna Cosenza – Laterza, 2014 – pag. 161)
Sappiamo tutti che il “Quarto potere”, celebrato nel film “Citizen Kane” di Orson Welles del 1941, è quello che il potere economico esercita attraverso i mass media, tradizionalmente la stampa e la televisione, per influenzare l’opinione pubblica nei suoi comportamenti e nelle sue scelte. È la “fabbrica del consenso” che negli ultimi vent’anni ha prodotto in Italia il regime televisivo, fondato sulla concentrazione pubblica e privata del duopolio Rai-Mediaset, a cui abbiamo dedicato tanti articoli in queste pagine.
Ma ormai, nella società della comunicazione, si va imponendo sempre più un “Quinto potere”, come s’intitola un film più recente che racconta le vicende di Julian Assange e il caso Wikileaks: il potere dei new media.
A differenza dei giornali e della tv, qui si tratta però di un potere più diffuso, capillare. E quindi, almeno in teoria, anche più democratico, perché esercitato direttamente da tutti i cittadini che navigano su Internet, frequentano i social network, usano gli smartphone e i tablet, come fa anche il nostro giovane presidente del Consiglio nella gestione quotidiana della sua “politica pop”.
Si potrebbe chiamare dunque “Comunicrazia” questo nuovo potere, con un sincretismo che fonde comunicazione e democrazia. Un’attività che trova già un’applicazione nel “citizen journalism”, il giornalismo spontaneo, partecipativo. Ma si espande di giorno in giorno su scala planetaria attraverso la “sbornia mediatica” che coinvolge individui di ogni età, cultura e condizione.
C’è tuttavia qualche rischio in questa tendenza. E deriva proprio dalla facilità di accesso alla Rete, dalla contagiosa eccitazione che ne promana, dalla smania e dall’ebbrezza della comunicazione in tempo reale. È una questione di contenuti, di linguaggio, di toni, accentuata dalla ristrettezza degli spazi nelle mail, negli sms e, in particolare, nei 140 caratteri obbligatori di Twitter.
“Negli ultimi dieci anni – scrive l’autrice del libro citato all’inizio di questa rubrica, docente di Semeiotica all’Università di Bologna – molti studi psicologici hanno sottolineato gli aspetti ossessivi più preoccupanti del bisogno di contatto continuo con gli altri, con un’attenzione particolare agli usi del cellulare da parte dei teenagers”. Ma lei stessa aggiunge che si tratta di “comportamenti sempre più trasversali dal punto di vista generazionale”. E il peggio è che “a volte il bisogno di stare sempre in linea è così impellente da scatenare ansie e comportamenti compulsivi”.
Il fenomeno riguarda almeno tre attività online: il gioco, la frequentazione di siti pornografici e, appunto, lo scambio continuo di mail o di “messaggini”. In tutti e tre i casi, si registra spesso un uso eccessivo fino al punto di trascurare addirittura bisogni primari come la fame e la sete; la frequenza delle crisi di astinenza; l’assuefazione che porta al desiderio di possedere e usare tecnologie sempre più potenti e aggiornate; e infine ripercussioni negative sulla vita sociale dell’individuo, tra cui la tendenza a mentire o a litigare, comportamenti aggressivi, isolamento e stanchezza.
È il trionfo di quella che i linguisti definiscono la “scrittura orale” o “scritto-parlato”, in rapporto all’immediatezza e alla rapidità della comunicazione real time che simula il faccia a faccia. L’autrice del saggio la chiama piuttosto “rinascita della scrittura” e “ipergrafia”: per dire che “si scrive tanto, sempre, troppo, al punto che molti preferiscono scriversi invece di parlarsi”. Una sorta di afasia di massa, insomma, che impoverisce, radicalizza o addirittura spegne il confronto e il dialogo.
Chiunque usi abitualmente le mail, gli sms o — a maggior ragione — i tweet, ne ha fatto sicuramente esperienza personale. La semplificazione degli argomenti è all’ordine del giorno. Il malinteso o l’equivoco è sempre in agguato. Il litigio o la rissa verbale è dietro l’angolo.
Quale può essere, dunque, l’antidoto? Si deve fare affidamento, innanzitutto, su quella che Pierre Lévy, il filosofo francese che ha studiato più a fondo l’impatto di Internet sulla società, chiama l’intelligenza collettiva: e cioè “un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze”. E ovviamente, bisogna stabilire e osservare regole condivise di rispetto reciproco. Ma, come avviene per qualsiasi altro diritto, anche qui vale la regola aurea dell’autocontrollo e dell’autodisciplina: la libertà di comunicare si può imparare soltanto esercitandola.

La Repubblica 15.03.14

Primarie Modena, parlamentari “Si volti pagina, tutti insieme”

Dichiarazione dei parlamentari modenesi Baruffi, Galli, Ghizzoni, Guerra, Pini, Vaccari. I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Giuditta Pini e Stefano Vaccari chiedono di voltare pagina tutti assieme, a due settimane dalle primarie, giudicando “inaccettabili” le accuse rivolte ai Garanti del Pd: “Usare il termine “negazionismo” associandolo alla persona di Aude Pacchioni – dicono – è irrispettoso della sua storia e del suo valore, così come certi giudizi sono irriguardosi verso il lavoro continuato, approfondito e meticoloso, che i Garanti – sia quelli comunali che quelli provinciali – hanno svolto nel corso di queste ultime settimane”. Ecco la loro dichiarazione:

«Il Pd, a Modena come altrove, ha scelto la partecipazione di iscritti ed elettori per scegliere i propri candidati a sindaco: una scelta di democrazia che ci distingue da ogni altro partito e movimento. Ci siamo dati una cornice programmatica comune, delle regole e degli strumenti di garanzia perché la competizione non fosse il far west, ma un confronto aperto di idee e personalità. Sono passate ormai due settimane dalle primarie ed è tempo che le cose riprendano a funzionare: chi ha perso ha il compito di sostenere il candidato che ha vinto, mettendo a disposizione proposte, impegno e relazioni; chi ha vinto deve saper raccogliere anche le istanze degli altri candidati per costruire un progetto comune più forte, rappresentativo e autorevole. I problemi nello svolgimento delle primarie segnalati durante e dopo le votazioni, sono stati esaminati dagli organismi preposti, composti da esponenti democratici autorevoli votati dall’assemblea del Pd qualche mese fa: accostare il termine “negazionismo” a personalità come Aude Pacchioni, è irragionevole e irrispettoso di una biografia personale e di un’autorevolezza preziose, da sempre, per il nostro partito e per questa città, così come certi giudizi sono irriguardosi verso il lavoro dei Garanti svolto nel corso di queste ultime settimane. Ulteriori approfondimenti sono sempre possibili, ma intanto serve un scatto in avanti per voltare pagina tutti assieme: i modenesi non voteranno il Pd per le sue regole interne o per i verbali di una commissione, ma per come sapremo corrispondere ai loro bisogni e interpretare il cambiamento che ci viene richiesto. Persistere invece ancora sul piano del conflitto, anche personale, significherebbe pregiudicare il risultato del Pd, invece che adoperarsi tutti per tutelarlo da strumentalizzazioni e attacchi che hanno superato il livello di guardia. Fare del male al Pd a Modena ha riverberi negativi anche nel resto della provincia, da dove si guarda con crescente preoccupazione a polemiche che si vanno trascinando troppo a lungo. Noi chiediamo rispetto per il Pd e il suo popolo, per le regole che si è dato e per gli organi di garanzia di cui dispone e che hanno operato oggi come ieri con correttezza. E chiediamo a noi stessi come a tutti i democratici (dirigenti, iscritti, elettori) di aprire una campagna elettorale determinata, di ascolto e inclusiva, che parli di Modena e non del Pd, sapendo che l’avversario sta fuori e non dentro di noi. Lo vogliamo fare al fianco del candidato sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli e di tutti i candidati del Pd sul territorio, molti dei quali già in campo nella costruzione del programma: insieme a Francesca Maletti, Paolo Silingardi e ai loro sostenitori, insieme a tutti coloro che vogliono come noi che a vincere sia il Pd e il centro sinistra. La precondizione per provare a vincere è quella di interrompere la polemica interna e, tutti insieme, riprendere il dialogo coi cittadini».

"Forza Italia teme di finire all’angolo", di Ninni Andriolo

Candidato o no, Berlusconi cercherà di giocare un ruolo centrale nella prossima campagna per le europee. Troppo alto il rischio che l’offensiva di Renzi invada il bacino elettorale della rinata Forza Italia. Facendo proprie parole d’ordine che hanno caratterizzato la tradizionale propaganda del Cavaliere – la riduzione delle tasse innanzitutto – e traducendole in impegni concreti, il premier gioca una partita insidiosa e di forte presa mediatica. Berlusconi deve presidiare il suo campo, quindi. Anche per mantenere la forza contrattuale recuperata dopo la decadenza dal Senato. Grazie a Renzi naturalmente, che ha ritenuto imprescindibile l’apporto di Forza Italia per superare il Porcellum e varare le riforme istituzionali. Ad Arcore, però, il pericolo di una marginalizzazione è perfettamente avvertito. I provvedimenti economici annunciati da Renzi hanno ricompattato una maggioranza che si era divisa sull’Italicum. E l’imbarazzo mostrato sulla riduzione dell’Irpef rende evidente la crisi strategica di Forza Italia: Brunetta sul premier che «andrà a sbattere» da una parte, e Carfagna che aspetta «i testi» di Renzi «per giudicare nel merito» dall’altra. Chiaro che gli azzurri non potrebbero votare «no» a misure che riducano le tasse agli italiani. Con una maggioranza compatta, però, il loro «sì» risulterebbe residuale. Un buon risultato alle Europee, in ogni caso: per questo lavora Berlusconi, convinto che l’approdo sarà possibile solo giocando in prima persona e scovando il cavillo giusto per aggirare le ricadute della condanna definitiva che lo aveva costretto ad abbandonare il Senato. L’obiettivo è quello della candidatura in prima persona, l’opzione migliore per tirare la volata agli azzurri e catturare voti. Dopo le elezioni, poi – questa la speranza dei suoi – «ci sarà tutto il tempo per prendere atto di un provvedimento d’inelegibilità» e abbandonare Strasburgo. Berlusconi, in ogni caso, sarà presente con il nome nel simbolo di Forza Italia e «troverà il modo per farsi sentire in campagna elettorale», sempre che venga assegnato ai servizi sociali. A questo «lo costringe» la mancanza di un «delfino» al quale cedere il testimone, di un leader capace cioè di tenere assieme le truppe azzurre. E il deficit di personalità in grado di assumere l’eredità del Cavaliere spinge i fedelissimi a rivelare gli scenari che vengono immaginati ad Arcore. Osvaldo Napoli scommette, ad esempio, sul Pd «che si spaccherà» e su Renzi «che assumerà, d’accordo con Berlusconi, la guida dei moderati». Nel frattempo Forza Italia ondeggia pericolosamente tra i propositi d’opposizione e la «cautela» che consiglia a tutti Berlusconi. Il leader azzurro ritiene indispensabile giocare le Europee per mantenere numeri e forza contrattuale. Quei numeri, d’altra parte, spingono Renzi a non mettere in discussione il patto con il Cavaliere, pena l’impraticabilità di ogni percorso che conduca a una nuova legge elettorale e alle riforme. Prima tra tutte quella del Senato che il premier vuole incamerare al più presto, almeno in prima lettura. Pur di ottenere questo risultato a effetto – il secondo dopo il si della Camera all’Italicum – Renzi è disposto a farsi carico della richiesta dei senatori Pd, e della maggioranza, che ritengono «logico» riformare il Senato prima di dare l’ok definitivo all’Italicum. Il premier ne avrebbe parlato già con Berlusconi e Verdini. Forza Italia sarebbe disponibile ad aggiornare l’Odg delle prossime settimane, ma chiederebbe in cambio la garanzia che la legge elettorale non venga modificata: né preferenze, né abbassamento delle soglie; né modifica del premio di maggioranza. L’unica apertura azzurra riguarderebbe la parità di genere. Ma lì voto di Palazzo Madama sulla leggina che riforma il sistema per le europee, previsto per martedì, potrebbe fornire un grimaldello utile per scardinare il «non si cambia nulla» che si registra sull’Italicum. E per trasferire, magari, la doppia preferenza di genere anche alle politiche nazionali (per Strasburgo in realtà la preferenza che si prospetta è tripla, ma prevede meccanismi di garanzia per le candidature femminili). Pur di non lasciare il tavolo delle riforme e non apparire residuale, Berlusconi potrebbe accettare alla fine «contenuti cambiamenti» al testo dell’Italicum? Si vedrà. C’è chi scommette sul fatto che al Cavaliere prema confermarsi tra i «padri delle riforme» e giocare questo ruolo in campagna elettorale. La stessa che si propone di combattere a dispetto di tutto e di tutti: da leader moderato da una parte, da leader antieuropeo che punta all’elettorato grillino dall’altra. Al di là dei disegni berlusconiani tuttavia, le parlamentari del Pd non intendono cedere sulla parità di genere e sulle ricadute che questa comporterebbe per l’Italicum. E per martedì sera è stata già convocata l’assemblea plenaria delle deputate e delle senatrici democratiche.

L’Unità 15.03.14

"L’azzardo del premier fa superare le divisioni sull’Italicum", di Ninni Andriolo

L’azzardo di Renzi sull’economia miete consensi dentro il Pd, mentre la maggioranza ritrova unità dopo le divisioni sull’Italicum dei giorni scorsi. Le misure annunciate dal presidente del Consiglio su fisco e lavoro tornano a delimitare i confini tra l’alleanza di governo e l’opposizione, spazio politico dove si ricolloca Forza Italia prendendo le distanze con un certo imbarazzo dal premier-«Mandrake» bersaglio degli attacchi di Brunetta. Lega, Fratelli d’Italia, M5S e Fi chiudono, ma Vendola apre le porte alle misure messe in campo da Renzi e annuncia che Sel è pronta «a sostenere quei provvedimenti che combattono la crisi». Se il premier «ha gettato il cuore oltre l’ostacolo» scommettendo sull’impatto mediatico del suoi annunci shock – senza lasciarsi frenare dai conti che ancora non tornano – la sua maggioranza non affonda il coltello nella piaga delle coperture poco chiare o dei numeri che ballano. Pd, Ncd, Scelta civica, ecc. sostengono il presidente del Consiglio senza lasciarsi impressionare dai moniti della Commissione Ue e della Bce. Alla vigilia delle elezioni europee – come ha ammesso lui stesso l’altro ieri – Renzi gioca le sue carte. E le forze politiche che sostengono l’esecutivo entrano nella stessa partita, convinte che il voto di maggio costituirà un test per tutti e per il futuro del governo. Che il premier consideri quell’appuntamento decisivo per rafforzarsi e rafforzare l’obiettivo di «cambiare verso all’Italia» è apparso chiaro dopo le primarie del Pd, a dimostrarlo l’iniziativa messa in campo per marcare netta distinzione dal governo Letta. Guardava anche alle Europee di maggio l’azzardo di sommare assieme la cariche di segretario Pd con quella di premier senza attendere oltre. Da Palazzo Chigi, adesso, Renzi si fa carico di somministrare al Paese la cura degli annunci che producono «ottimismo» e un clima giusto «per far ripartire il Paese», metodi seguiti a suo tempo anche ad Arcore. Ma Gianni Cuperlo, avversario del premier alle primarie per la leadership del Pd, individua «molte cose di sinistra» nelle parole di Renzi su lavoro e fisco. «Il governo ha messo in pista provvedimenti che ridistribuiscono risorse – spiega – Alcuni di questi erano stati incardinati dal precedente governo, ma non c’è dubbio che i mille euro annui per chi ne guadagna fino a millecinquecento mensili, e l’innalzamento del rapporto tra deficit e Pil, come l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, sono segnali che vanno nella giusta direzione». Cuperlo aspetta di esaminare «le misure concrete» tuttavia. «Il Consiglio dei ministri ha ragionato sulla base di una relazione del premier», ricorda. Adesso, però, «bisogna accelerare e concretizzare le misure». La minoranza Pd appoggia «la rotta giusta» scelta dal presidente del Consiglio e «gli obiettivi» che Stefano Fassina considera «condivisibili». Renzi avrebbe a disposizione pochi alibi se il suo azzardo non dovesse andare in porto. Un lasciapassare così ampio, che mette la sordina sugli stessi interrogativi che riguardano la copertura delle misure annunciate – renderebbe difficile rifugiarsi domani nella teoria del complotto. La stessa messa in campo ieri per celare l’imbarazzo di aver sacrificato il principio della parità di genere sull’altare dell’intesa con Berlusconi per la riforma della legge elettorale. Il Sì convinto di tutto il Pd agli impegni del premier su fisco e lavoro, d’altra parte, consentono di sgombrare il campo dalla tesi sull’attacco preconcetto al premier messa in campo alla Camera per ridimensionare l’iniziativa per «migliorare» l’Italicum negli stessi giorni in cui si avvertiva l’ipoteca della «maggioranza allargata» e di Berlusconi. Sulle prossime tappe della riforma elettorale discorso aperto, quindi. «Così come è la legge non affronta alcune questioni sollevate dalla Consulta e i difetti sottolineati da tanti costituzionalisti – ripete Cuperlo – Penso alle soglie, alle liste bloccate, alla parità di genere. Mi auguro che si possa migliorare». E da Alfano in poi, la maggioranza che si ricompatta per sostenere la «frustata» di Renzi sull’economia non rinuncia a perseguire l’obiettivo di cambiare l’Italicum a Palazzo Madama. Questo mentre gli uomini vicini al premier continuano a ripetere che «Renzi si spenderà in prima persona perché i patti (con Berlusconi, ndr.) vengano rispettati». Ma gli ampi settori che hanno già ottenuto modifiche importanti a un testo dato all’inizio per «blindato», puntano a non dare al Cavaliere «l’ultima parola» della maggioranza allargata sulle riforme e sulla legge elettorale.

L’Unità 14.03.14

"La ricerca scientifica, le marche da bollo e gli scontrini del toner", di Marco Bella

Una collega ne­gli ultimi cinque anni, ha portato all’Università contratti per mezzo milione di euro, completa­mente reinvestiti nel suo labo­ratorio. Ma, dal momento che la sua produttività scientifica misu­rata con i parametri Anvur sem­bra non essere sufficiente, non ha ottenuto l’abilitazione da profes­sore associato, anche se insegna da anni. L’acquisto di un toner ri­chiede una quantità di tempo enorme e ingiu­stificata: serve un preventivo, il Cig, poi la ricerca del prezzo mi­gliore sul MEPA (Mercato Elet­tronico per la Pubblica Ammini­strazione). Non va meglio quando serve una marca da bollo. Di fronte a questi racconti, i colleghi esteri sono incre­duli. Per met­tere i ricercatori in condizione di lavorare meglio si potrebbe almeno cominciare a rimborsare senza troppa burocrazia gli scontrini del toner. La differenza La differenza principale con l’estero può essere sintetizzata con il rispetto per il lavoro di ricerca e il vedere i ricercatori come una risorsa, non come un problema.

Quando un’università estera assu­me un nuovo ricercatore, è con­sapevole di fare un importante investimento: quindi ha tutto l’in­teresse a metterlo in condizioni di lavorare e produrre prima e meglio possibile. Un ateneo del Nord Europa, ad esempio, con­corda un pacchetto start up di almeno 50.000 euro più un paio di dottorandi pagati. Dopo il dottorato in Italia, e cinque anni di ricerca tra The Scripps Research Institute di San Diego (California) e Aahrus University (Danimarca), ho vinto un concorso da ricer­catore universitario alla Sapienza Universi­tà di Roma. Il mio primo giorno di lavoro ho ricevuto le chiavi del laboratorio dove avevo svolto la tesi, con i reagenti chimici degli anni Cinquanta e una strumentazione già obsoleta allora, e una tessera per fare 1.000 fotocopie. Nient’altro. Costavo alla collettività, ma apparentemente non interessava che fossi privo degli strumen­ti per lavorare (e produrre) come all’estero. Finalmente ho ottenuto qualche fondo di ri­cerca dal mio Ateneo e ho sviluppato una reazione organocatalizzata (ovvero senza l’uso di metalli di transizione potenzialmente tos­sici) che produce in modo efficientissimo una struttura molecolare complessa tramite una chimica innovativa; nel 2012, un’industria far­maceutica svizzera ha sviluppato un suo pro­cesso chimico basandosi sulla mia reazione. Lo sviluppo di questa reazione ha permesso di ri­durre l’uso dei solventi da 10.000 litri a 200 per ogni Kg di prodotto finale, limitando l’impie­go di materiali derivati da combustibili fossili. Grazie a questi risultati, ho avviato collabora­zioni con alcune industrie e reperito fondi di ricerca: la chimica verdeche amano le indu­strie è la chimica efficiente.

I lacci della burocrazia.

Il mio gruppo di ricerca collabo­ra con un’industria. Ho appena firmato un contratto da 25.000 euro di cui l’università prende subito il 15% ai fini amministra­tivi. In segreteria, mi è stato detto che l’azienda in questione avreb­be dovuto apporre sul contratto una marca da bollo da 16 euro: mi sono vergognato di chiederla, così sono andato in tabaccheria e l’ho comprata di tasca mia.

L’acquisto di un toner non è più semplice: serve un preventivo, il Cig, poi la ricerca del prezzo mi­gliore sul MEPA (Mercato Elet­tronico per la Pubblica Ammini­strazione). Una procedura che ri­chiede una parte enorme e ingiu­stificata del mio tempo: così, per fare prima, finisce che vado in un negozio e pago direttamente i 40 euro per il toner.

Dal momento che costo alla co­munità circa 50.000 euro lordi l’anno, lo Stato non riesce a ga­rantirmi qualche centinaia di euro (di fondi che reperisco io, tra l’altro) da spendere in modo semplice presentando gli scontri­ni come i deputati.

Una mia collega lavora nel cam­po delle analisi delle acque. Ne­gli ultimi cinque anni, ha portato all’Università contratti per mezzo milione di euro, soldi che – tolta la quota che va all’amministra­zione centrale – ha completa­mente reinvestito nel suo labo­ratorio. Ma, dal momento che la sua produttività scientifica misu­rata con i parametri Anvur sem­bra non essere sufficiente, non ha ottenuto l’abilitazione da profes­sore associato, anche se insegna da anni. È così sfiduciata che non è più così convinta di continuare a cercare contratti per il nostro Ateneo, da cui non riceve alcuna gratifica. Io ho ottenuto l’abilita­zione a professore associato, ma solo pochissimi di noi potranno essere chiamati dal nostro dipar­timento.

Quando racconto la mia situazio­ne, i colleghi esteri sono incre­duli, ma purtroppo questa è la prassi comune in Italia. Per met­tere i ricercatori in condizione di lavorare bene – soprattutto quel­li che hanno meno possibilità di interagire con le industrie – ba­sterebbe qualche piccolo sforzo, come quello di rimborsare senza troppa burocrazia gli scontrini del toner. La differenza principa­le con l’estero può essere sintetiz­zata con il rispetto per il lavoro di ricerca e il vedere (e soprattutto sfruttare) i ricercatori come una risorsa, non come un problema. La politica, con pochi interventi mirati a costo zero, potrebbe mi­gliorare enormemente la produt­tività della ricerca italiana.

Noi continuiamo a tenere duro perché i nostri studenti sono per­sone eccezionali: solo questo ci dà lo stimolo ad andare avanti.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su: Universitas, Numero 131 del febbraio 2014. Si ringrazia la redazione di Universitas per il permesso di riprodurlo.

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"Gli stipendi. Manager di stato 500 milioni in meno tetto 248mila euro senza deroghe", di Roberto Mania

In una delle schede preparate dal commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, c’è scritto che i tagli alle retribuzioni statali dovranno riguardare anche quelle dei dirigenti delle «società pubbliche». Vuol dire allargare la platea, andare ben oltre i dirigenti dei ministeri o delle Regioni, i primari degli ospedali, in vertici delle forze armate. La burocrazia in senso stretto. E d’altra parte solo così si può pensare di raggiungere l’obiettivo indicato dal premier, Matteo Renzi, di ottenere 500 milioni di euro di risorse da utilizzare per finanziare il piano di redistribuzione del reddito annunciato mercoledì pomeriggio da Palazzo Chigi.
Perché se è vero che i dirigenti della pubblica amministrazione italiana guadagnano mediamente più dei rispettivi colleghi di Francia, Gran Bretagna e Germania, è anche vero che sono pochi (quelli di prima fascia tra i ministeriali sono circa 300) e che, dunque, per raggiungere un risparmio così imponente bisognerebbe più che dimezzare il loro stipendio. Una strada impervia che permetterebbe di conseguire un risultato del tutto al di sotto delle necessità. Vale la pena ricordare che quando nel 2010 il governo Berlusconi decise di ridurre gli stipendi dei burocrati pubblici “cifrò” quell’operazione a 25 milioni. Un livello decisamente distante dai 500 milioni che ha indicato Renzi. Peraltro la norma del 2010 è stata poi dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale perché determinava «un irragionevole effetto discriminatorio ». E così anche quei 25 milioni non sono arrivati.
È un’altra, dunque, la strada che dovrà imboccare il governo. Alla Ragioneria generale i tecnici sono stati messi in preallarme. Nei giorni scorsi sono state simulate alcune soluzioni soft che però raggiungono con difficoltà i 500 milioni di incasso. Per ora ci si muove con cautela. Sembra che Renzi abbia in mente un nuovo tetto retributivo: non quello del primo presidente della Corte di Cassazione (poco più di 311 mila euro lordi l’anno, sul quale oggi “galleggia” una fetta significativa dei grand commis di Stato), bensì quello un po’ più basso del Presidente della Repubblica che si ferma a circa 248 mila euro l’anno. «È giusto — ha detto ieri Renzi — che un manager della pubblica amministrazione guadagni più del Presidente della Repubblica? ». «No», ha risposto.
È stato il decreto “salva Italia” dei governo tecnico di Monti a introdurre il tetto alle retribuzioni pubbliche. Ma con una serie di deroghe che — per quanto trapela — il nuovo esecutivo punta a superare. O almeno vorrebbe provarci. Perché Monti escluse dal vincolo (che vale per la dirigenza) i manager delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato «che emettono esclusivamente strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati nei mercati regolamentari », cioè obbligazioni. Una norma che ha consentito alle Ferrovie di Mauro Moretti (873.666 mila la sua retribuzione nel 2012) e anche alle Poste di Massimo Sarmi (2,2 milioni nel 2012) di non essere coinvolte. Le Poste dovrebbero essere privatizzate e quindi sono destinate ad uscire nuovamente dal prossimo provvedimento. Si vedrà invece se e in quale modo saranno interessate le Fs, la Rai, la Cassa depositi e prestiti, il cui ad Giovanni Gorno Tempini ha portato a casa nel 2012 oltre un milione di euro, e le decine di controllate: da Invitalia (788.985 nel 2012 per l’ad Domenico Arcuri), all’Anas (750.000 per l’amministratore unico, Piero Ciucci), al Poligrafico Zecca (oltre 600.000 euro per l’ad Massimo Prato), all’Enav (502.820 per l’amministratore unico Massimo Garbini), alla Consap (473.768 euro per Mauro Masi già direttore generale della Rai), alla Consip (475.410 euro per Domenico Casalino), per limitarsi a quelle con i manager più pagati.
E la partita sui super-stipendi pubblici finirà per incrociarsi con quella che si sta aprendo sulle nomine per i vertici delle grandi aziende pubbliche, Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste. D’altra parte era stato lo stesso Renzi, da segretario del Pd e non ancora da presidente del Consiglio dei ministri, a far sapere di essere rimasto sconcertato nel leggere le retribuzioni dei capiazienda pubblici. Dal premier ieri è arrivata un’interessante dichiarazione: «Prima di ragionare dei nomi o del mix tra amministratore delegato e presidente, saremo molto decisi e determinati nel decidere cosa devono fare queste cinque aziende. Non è banale». Nessun nome («su questo non si scherza», ha aggiunto) ma soprattutto: «Prima la missione, la strategia, poi i nomi». Parole che andranno rilette e interpretate perché — va da sé — quella è una frase che non esclude nulla: né la conferma (per Paolo Scaroni dell’Eni e Fulvio Conti dell’Enel sarebbe il quarto mandato e addirittura il quinto per Sarmi) né un cambiamento radicale. Anche se è difficile pensare che la spinta del rottamatore possa fermarsi di fronte alle nomine dei boiardi di Stato strapagati. A metà aprile ci saranno le assemblee, ma le liste di Renzi (e del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan) dovranno essere pronte prima.

La Repubblica 14.03.14