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Un premier nell’era della “poli-tainment”, di Giancarlo Bosetti

Il salto di stile nella comunicazione del primo ministro, tra Renzi e i suoi predecessori, tutti, compreso il già disinibito Berlusconi, è molto alto, tanto che qualcuno potrebbe anche farsi male. Le intenzioni dello show “con slides” sono chiare. Ricordano certi cambi di management nelle aziende decotte, quando arriva il tagliatore di costi (e di teste) che vuole dare un segnale scioccante: niente sarà come prima, la “svoltabuona”. L’annuncio della vendita su e-Bay di 1500 auto o la chiusura di sedi regionali Rai sono questo genere di segnali, anche se di problematica realizzazione. È come nei racconti di duri e spietati capitani d’impresa che chiedono a tutti i“quadri”di lasciare sul tavolo dell’amministratore delegato le carte di credito aziendali. Lo shock in quei casi funziona. E anche la battuta più forte di Renzi è chiara: «Il nostro avversario è chi dice: “Si è sempre fatto così”».
Il manager che prepara il grande down- sizing di solito ha di fronte una platea di scettici o di increduli, che ritengono che poi tutto si aggiusterà e tornerà come prima. In America circola ancora qualche vecchio ingegnere Ibm che non si dà pace del fatto che inventori di impalpabili applicazioni, “aria fritta”, o di tavolette sottili abbiano spazzato via tanti computer grandi e solidi come valigette e, insieme, il loro maestoso ufficio con vista. Ma il nostro presidente del consiglio non aveva di fronte le vittime del taglio – quelli sono sullo sfondo, da qualche parte e scuotono la testa – ma solo i giornalisti, che cercano riscontri tra gli annunci e quel che poi davvero si riesce a fare, e che vogliono notizie sulle coperture. Proprio perché la via è stretta, Renzi ha scelto di dare spettacolo, come mai prima in un annuncio del governo, perché almeno le intenzioni restassero
chiare e memorabili,a cominciare dall’aumento per i salari sotto i 1500 al mese — il tema dominante della colonna sonora — e perché su tutto l’insieme si imprimesse l’idea che il cambiamento è “in-cre-di-bi-le” e “irre-ver-si-bi-le”. Ha trasformato l’annuncio in divertimento, l’informazione in uno show con pesce rosso. Come l’info-tainment, che è già entrato da tempo nella nostra vita con le amenità rosa e nere dei tg, come l’edu-tainment, che vuol dire preziosi strumenti di gioco e apprendimento per grandi e piccini, stiamo tuffandoci nella poli-tainment, ma anche questa ormai parola non nuova nella letteratura politologica, specialmente tedesca (Rudi Renger, Thomas Meyer), e sospettata di affinità con la cosiddetta placebo-politik. Insomma una variante aggiornata e teatrale della propaganda, che peraltro nella vita politica è ingrediente ammesso, purché poi alle promesse seguano risultati, almeno in buona percentuale.
Trattare la politica come intrattenimento è ormai una forma corrente di gestione delle pubbliche discussioni in tv: i talk show sono da decenni condotti in un modo che ha da essere spettacolare e arricchito da risvolti personali, almeno da quando alle tribune politiche con Togliatti, Fanfani e Nenni si è sostituito il Costanzo Show, con tutto quel che ne è seguito. Anche la Bbc ha intitolato “Show-politics” una delle sue trasmissioni popolari, poi diventata “Sunday-politics”:sono dibattiti settimanali in cui si cerca di verificare le conseguenze della politica sulla vita di tutti i giorni.L’uso di sceneggiare le presentazioni in modo da trasformarle in spettacolo e riempire i teatri riguarda anche la divulgazione scientifica e di qualunque genere di serio sapere. La formula Ted, che porta in video le conferenze di importanti accademici, ha bisogno di proiezioni grafiche che rendano divertente la presentazione. E Ted non significa altro che “technology, entertainment, design”: il tema ha bisogno di prendere forma visiva e ritmo nella esposizione. Nel 2007 non per caso il premio Ted è andato a Bill Clinton, di cui è nota la capacità di tenere la scena meglio di qualunque conduttore televisivo. La sua conferenza sulla ricostruzione del Rwanda è sempre visibile su lweb:luci abbassate, sullo sfondo scuro le immagini di Gandhi, Darwin, Madre Teresa: il testo preparato e recitato con il senso dei tempi, con voce e pause impostate, perfettamente dentro il limite dei 18 minuti, lo standard insuperabile di questa formula. Intrattenimenti memorabili erano anche le presentazioni di Steve Jobs, dove anche tempi e immagini erano guidati da una sceneggiatura.
Ora tutti possono permettersi con uno smartphone, se vogliono, queste esibizioni. Si tratta di una comunicazione di massa individuale, come la chiama Manuel Castells, ed è una forma di consolazione per chi non va in televisione, ma finisce per contagiare irresistibilmente anche chi sta al vertice, capi di governo e di stato compresi. Obama si fa un selfie e persino il Papa si presta. Li spinge il desiderio di umanizzare e “disintermediare” la relazione con la gente comune. Ora lo show, con una traccia preparata, e con “design”, ha raggiunto da noi anche il momento ufficiale di una comunicazione di intenzioni del governo. Presto se ne ricaverà un Ted con le luci abbassate, da studio tv?
Personalizzando all’estremo la sua esposizione, Renzi ha alzato la posta del suo rischio personale, che è anche l’ingrediente principale dello spettacolo: se non ci riesco me ne vado. C’è molto scetticismo tra i suoi avversari dichiarati e coperti.Dovrebberomeditare il celebre detto di Einstein, secondo il quale a volte “un problema appare insolubile agli scienziati più esperti fino a che arriva uno sprovveduto e lo risolve”. È chiaro che se lo “sprovveduto” non ci riesce gli scienziati saranno confortati nella loro sofisticata impotenza, un po’ come nei desideri di certi ingegneri della vecchia Ibm davanti ai trionfi di qualche ragazzinofantasioso; se invece lo “sprovveduto” ce la fa, grande sarà la soddisfazione generale, e amaro lo scorno di chi non ci era arrivato mai prima.

La repubblica 14.03.14

Alluvione e sisma, on. Ghizzoni “Importanti passi in avanti, noi non molliamo!”

I nostri territori non sono da soli. Noi del Pd non molliamo! Buone notizie arrivano oggi dal nostro lavoro in Commissione Finanze della Camera durante la conversione del decreto legge che contiene la sospensione delle tasse per le nostre zone alluvionate: sono stati giudicati ammissibili e poi approvati tre emendamenti da me presentati che riguardano sia i territori colpiti dall’alluvione del 19 gennaio che quelli colpiti dal sisma 2012. Andiamo per ordine. Ecco le cose che siamo riusciti a portare a casa: innanzitutto la sospensione delle tasse per le zone alluvionate che avrebbe dovuto scadere il 31 luglio prossimo è stata spostata al 31 ottobre, altri tre mesi che consentiranno a coloro che ancora lottano con il fango e con i suoi danni di avere un altro po’ di respiro.
Poi, è stato riconosciuto un aspetto del danno che preoccupava tante persone: da una parte, abbiamo ottenuto che le frazioni di Modena colpite dalla tracimazione del Secchia rientrassero a pieno titolo tra le zone danneggiate, dall’altra, è stato specificato meglio il tipo di danno che verrà preso in considerazione dalla legge. Non solo il danno acclarato, quindi, ma anche la temporanea inagibilità di abitazioni, studi professionali, aziende e terreni agricoli. Sono comprese, quindi, anche quelle aziende agricole che non hanno stabili, ma solo terreni produttivi. Sono tanti gli agricoltori che ce l’avevano chiesto!
Infine, e questo vale per tutti i territori colpiti dal sisma, è stato dichiarato ammissibile e votato anche l’emendamento che proroga di tre anni la restituzione delle rate dei mutui accesi con le banche per pagare le tasse. Avevamo detto che non avremmo desistito! Che non ci saremmo accontentati della proroga di un solo anno ottenuta a fine 2013. Ecco che siamo tornati alla carica e con primi buoni risultati. Cosa manca ora? Il vaglio della Commissione Bilancio (che dovrebbe arrivare martedì mattina) e poi quello dell’Aula (prevista per giovedì) ma l’approvazione ottenuta oggi in Commissione Finanze ci fa essere molto fiduciosi!
Dopo le buone notizie, vengo ad una meno buona. Non ha superato il vaglio di ammissibilità il corposo emendamento (di 14 pagine: di fatto un organico testo in favore delle popolazioni colpite prima dal terremoto e poi dall’alluvione) messo a punto con il lavoro congiunto degli enti locali, della Regione, del Commissario Vasco Errani per dare gambe normative alle richieste espresse e raccolte nelle zone alluvionate, in ordine agli indennizzi, ai rimborsi, alle procedure per la ricostruzione, alla costituzione di zone franche… L’inammissibilità espressa dal presidente di Commissione Capezzone (è una sua esclusiva prerogativa) è stata giustificata con la volontà di circoscrivere il decreto legge al contenuto originario (e cioè alla sospensione di adempimenti tributari e contributivi). Ne abbiano dovuto prendere atto (e così hanno fatto anche i colleghi di M5S e SEL, i soli insieme a noi che hanno presentato emendamenti – seppur non articolati come il nostro – in favore degli alluvionati). Ma a questo punto le nostre richieste devono necessariamente entrare in un decreto ad hoc, dedicato cioè al territorio modenese, che ha subito prima l’oltraggio del terremoto e poi lo scempio dell’alluvione, da approvare in tempi brevissimi.
Quindi, registrata una positiva convergenza su questi temi con gli altri gruppi parlamentari, dobbiamo lavorare insieme (una mozione? un ordine del giorno?) per far sì che il Governo dica una parola chiara e assuma precisi impegni di fronte ai cittadini danneggiati. Come ho sempre detto: noi del Pd non molliamo!

"Lavoro, nessuna controriforma", di Luigi Mariucci

I titoli del «piano lavoro» di Renzi hanno avuto un primo svolgimento. Di chiaro e positivo c’è la riduzione del prelievo fiscale dei redditi da lavoro e assimilati fino ai 25mila euro lordi. Sono poi annunciate sotto il titolo “semplificazione” alcune misure di immediata attuazione con decreto legge.

Sono misure in tema di apprendistato e contratto a termine. Rilevante è in particolare il tema del lavoro a tempo determinato, che è oggi la forma di assunzione largamente prevalente, nonostante che la legge italiana e le direttive dell’unione europea affermino che “il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. L’istituto del lavoro a termine è stato soggetto a partire dal 2001 a una serie di innumerevoli interventi che hanno reso la normativa particolarmente aggrovigliata e contorta, a seguito di modifiche di volta in volta orientate nel senso della liberalizzazione

ovvero della restrizione o, meglio, della disincentivazione. Tanto da essere oggetto di reiterati interpelli, pareri e circolari ministeriali. L’intervento annunciato introduce due modifiche molto rilevanti: vengono aboliti sia l’obbligo di motivare le particolari ragioni produttive che richiedono una assunzione a termine invece che a tempo indeterminato e gli intervalli temporali disposti tra successive e reiterate assunzioni a termine, introdotte fin dalla legge del 1962 al fine di inibire l’uso fraudolento dell’istituto. In tal modo ad essere schietti si realizza più che una “semplificazione”, certo necessaria, una pressocchè totale liberalizzazione dell’istituto, compensata dal fatto che verrebbe introdotto un limite quantitativo massimo di assunzioni a termine, fissato nel 20% dell’organico complessivo.

Resta da valutare, il che potrà farsi quando si conoscerà il testo del decreto legge, come tutto questo sia compatibile con la formula sopra citata, e di derivazione comunitaria, che definisce il lavoro a tempo indeterminato la “forma comune” di rapporto di lavoro. Tutte le altre misure annunciate dal jobsact in tema di mercato del lavoro verranno invece inserite in un disegno di legge delega. Il che per un verso è positivo, perché ciò consentirà una compiuta discussione pubblica sui temi trattati dalla delega. Per l’altro è negativo

perché è proprio attraverso le leggi delega e i successivi decreti legislativi che nell’ultimo quindicennio si è accresciuto quel caos normativo a cui ora si vorrebbe rimediate, in particolare in tema di ammortizzatori sociali, mercato del lavoro e pletora di contratti atipici e precari.
Viene ora annunciata l’elaborazione, entro 6 mesi dalla approvazione della delega, di un “nuovo codice semplificato del lavoro”. Impresa ardua, tanto suggestiva quanto ambiziosa. Si tratterà di verificare, quando si potranno esaminare i criteri della delega, se si tratta di un progetto mirato ad una autentica razionalizzazione delle normative esistenti, oppure se, come spesso risulta, dietro l’accattivante termine di “semplificazione” non si nasconda il disegno di una contro-reformatio del diritto del lavoro.

L’Unità 13.03.14

"Benefici in busta paga per oltre 10 milioni di italiani", di Roberto Petrini

Circa 80 euro netti in più dalla busta paga di maggio per 10 milioni di lavoratori dipendenti italiani che guadagnano fino a 1.500 euro netti al mese (25 mila euro lordi annui). L’hashtag è: «Dieci miliardi per 10 milioni di persone». Parola del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ieri, durante una conferenza stampa-show con slides ed effetti speciali, seguita ad un Consiglio dei ministri piuttosto breve, ha annunciato il suo piano di riduzione delle tasse che depositerà 1.000 euro all’anno netti negli stipendi dei lavoratori con redditi più bassi (compresi i cococo e gli incapienti sotto gli 8.000 euro: entrambe le categorie sono state espressamente citate da Renzi).
«Con questa operazione ripartirà l’economia», ha annunciato il premier. «Effetti espansivi su crescita e occupazione», ha certificato il ministro per l’Economia Padoan.
Conferma dell’ultima ora: l’ingresso del taglio dell’Irap, dopo la pressante richiesta della Confindustria: la tassa sarà ridotta del 10 per cento per un totale di 2,4 miliardi. Novità sulla copertura: l’aumento e rimodulazione delle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento (non i Bot) che consentirà di recuperare 2,6 miliardi e porterà le aliquote, come ha osservato Renzi, «a livello europeo».
Formalmente non c’è ancora il provvedimento legislativo, ma il premier ha assicurato i giornalisti che il Consiglio dei ministri ha compiuto un «atto irreversibile » approvando la sua «relazione » con «coperture e indirizzo» dell’intervento.
Il decreto arriverà dopo l’approvazione del Def (il Documento di economia e finanza che conterrà la nuova cornice dei conti pubblici e che dovrà essere approvato dal Parlamento): sarà anticipato a fine marzo (dal 10 aprile previsto), quando arriverà anche il dettaglio della spending review, con un percorso che prevede il decreto entro aprile e l’erogazione del bonus nella busta-paga di maggio. «Volevo quella del 27 aprile, prima delle elezioni…, ma sono stato respinto con perdite: non ce l’abbiamo fatta per i tempi tecnici », ha allargato le braccia Renzi e ha aggiunto nello slang della Capitale: «Prima nun ja famo».
Il tema delle coperture complessivamente a disposizione del governo, secondo l’impostazione confermata ieri da Renzi, gira sostanzialmente su spending review
(7 miliardi), Iva che proviene dai pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione (1,6 miliardi), capitali dalla Svizzera e risparmio sulla spesa per interessi. Oltre alla carta più importante, annunciata ieri direttamente dal premier, l’intenzione di superare il rapporto deficit-Pil oggi fissato al 2,6 per cento per portarlo verso il 3 per cento (si recupererebbero così 6,4 miliardi). «Ho letto in questi giorni una polemica sulla copertura semplicemente incredibile.
In-cre-di-bi-le. I soldi per mettere in tasca i 10 miliardi ci sono, anzi il margine è ben oltre i 10 miliardi », ha incalzato il presidente del Consiglio confermando di fatto la cifra dei 20 miliardi.
Il ministro per l’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in termini più precisi, con cautela ma sulla linea di Renzi, come funzionerà l’intera operazione nel 2014 che, partendo da maggio costerà, due terzi dei 10 miliardi cioè circa 6,5 miliardi. La copertura di quest’anno, ha detto Padoan, sarà di «transizione» anche «usando i margini di indebitamento » entro il 3 per cento, per «evitare di entrare nella procedura di deficit eccessivo» ma, ha aggiunto, «nel modo più parsimonioso possibile». Dal 2014, invece, ha osservato il ministro, entreranno a regime i «tagli di spesa permanente». Padoan ha comunque avvertito – e questo è un passaggio da adempiere – che per eventuali scostamenti necessari per l’operazione cuneo «serve l’approvazione della Ue», oltre che quella del Parlamento con la variazione del Def: due passaggi obbligati che hanno richiesto qualche margine di tempo in più. Infine un richiamo sul debito: «E’ al centro delle nostre preoccupazioni» per questo le privatizzazioni, ha concluso il ministro per l’Economia, «continueranno e saranno rafforzate».

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“Entro luglio pagati 68 miliardi alle aziende”, di VALENTINA CONTE

Una pioggia di denari promessi alle imprese. A partire dalla sorpresa Irap, data per sacrificata alla vigilia del Consiglio dei ministri in favore dell’Irpef. E che invece verrà tagliata del 10%, circa 2,4 miliardi in meno, rastrellati da una stangata sulle rendite finanziarie (ma «non si toccano i Bot») la cui aliquota sale dal 20 al 26%, . Il premier Renzi dunque spariglia e decide di non scontentare troppo il mondo imprenditoriale, piuttosto inquieto già nelle ultime settimane del governo Letta. Scegliendo nello stesso tempo una copertura che non dispiace a sinistra. No comment di Confindustria, ieri sera. Ma non c’è dubbio che la promessa di Renzi – accanto alla inattesa sforbiciata Irap – di saldare 68 miliardi di arretrati della Pubblica amministrazione entro luglio (anche grazie al nuovo ruolo della Cassa depositi come prestatore di ultima istanza) è assai clamorosa. Cifra poco credibile però per il ministero dell’Economia (in conferenza stampa il ministro Padoan non ha lesinato dubbi), visto che la stima da cui è tratta – un’analisi campionaria di Bankitalia condotta solo sul lato dei fornitori – viene reputata in via XX Settembre eccessiva.
Dunque l’aliquota che tassa plusvalenze, dividendi e interessi prodotti da azioni, obbligazioni, partecipazioni, pronti contro termine, contratti future e swap, ma anche dai popolari conti di deposito sale al 26%. Per molti di questi prodotti (il risparmio a breve) è quasi un ritorno all’estate del 2011 quando Tremonti abbassò quell’aliquota dal 27 al 20%, portando però sempre al 20% il risparmio a lungo termine, fino a quel punto tassato al 12,5%. E creando così un doppio binario: titoli di Stato al 12,5% e tutto il resto al 20. Ora si passa al 26%. Lasciando però i Bot al 12,5 e i fondi pensioni e tutto il risparmio previdenziale all’11. Una decisione di «buon senso» per Renzi, visto che «se hai 100 euro di azioni pagherai 26 euro di tasse anziché 20», consentendo di limare l’Irap di 2,4 miliardi. Anzi «sarebbero 2,6 miliardi, ma 200 milioni sono da mettere in conto come disinvestimenti ». Tradotto: risparmio che vola all’estero. L’operazione sul cuneo fiscale arriva così a 12,4 miliardi totali: 10 miliardi sull’Irpef, il resto sull’Irap. «Molti imprenditori mi hanno detto che faccio bene a mettere più soldi in tasca alle famiglie», rivelava ieri Renzi. Ma un segnale sull’Irap è comunque arrivato. E comporterà, calcola la Cgia di Mestre, un risparmio medio di 792 euro all’anno per azienda.
Oltre ad Irap e debiti Pa, il pacchetto di misure per le imprese è ampio. Intanto c’è il taglio da 1,4-1,5 miliardi della bolletta energetica per le Pmi, il 10% circa di questa voce di spesa che vale circa 14 miliardi. «Avverrà entro maggio, anche solo con decreti ministeriali, dopo una consultazione con l’Authority dell’energia e le parti interessate, perché qui si tratta di intervenire sugli oneri di sistema», ha spiegato il ministro per lo Sviluppo Economico Federica Guidi. Dunque asciugare gli incentivi alle rinnovabili, ma anche alle aziende energivore e “interrompibili” (pagano meno se non c’è capacità produttiva). Guidi ha poi ricordato che entro il 31 marzo parte la legge Sabatini, predisposta da Letta (incentivi per acquisto di macchinari). E poi «vareremo anche i minibond », ha aggiunto Guidi. Tra le altre misure, il governo rifinanzia con 500 milioni il fondo di garanzia per il credito. Altri 500 milioni vengono messi, dal primo giugno, in un fondo per le imprese sociali del terzo settore. Il credito di imposta per giovani ricercatori raddoppia: 600 milioni in tre anni, «per creare 100 mila posti entro il 2018», si augura Renzi (se ne occuperà Delrio). Dal 16 maggio le imprese pagheranno un miliardo in meno di premi Inail. «Il decreto attuativo è in arrivo», ha detto Renzi (ma la misura era di Letta). Mentre i 5 miliardi tra piano scuola e dissesto idrogeologico valgono da stimolo all’edilizia e alle imprese che si occupano di recupero del territorio. Infine, nei prossimi mesi il governo si impegna a far partire un processo di «fatturazione elettronica», così da evitare per il futuro accumuli di debiti con la Pa, ora di dimensioni cosmiche e a rischio infrazione Ue.

La Repubblica 13.03.14

"Gli avversari spiazzati", di Federico Geremicca

Come al solito, ha spiazzato più o meno tutti: una manovra «di sinistra» mentre i più, non fidandosi delle anticipazioni, pronosticavano provvedimenti con un segno – lo diciamo così per semplificare – «di destra». Non solo. Una conferenza stampa come non se ne erano mai viste a Palazzo Chigi, pirotecnica, informale, leggera, con foto e disegnini che gli scorrevano alle spalle, ma con un annuncio «pesante», di quelli – appunto – mai sentiti in una conferenza stampa di un premier: se il bicameralismo perfetto non sarà superato – ha infatti annunciato Matteo Renzi – considererò conclusa la mia esperienza politica.

Per il presidente del Consiglio – e non solo per lui – questo 12 marzo è una data da cerchiare in rosso. E non solo perché dopo anni di promesse – e a dispetto e nonostante le fortissime tensioni che l’hanno accompagnato nell’aula di Montecitorio – è arrivato il primo sì alla riforma della legge elettorale; ma soprattutto per l’effetto spiazzante determinato dalle misure economiche annunciate. Il rimescolamento di carte, infatti, è stato totale e sorprendente: come a dire che, di fronte alle prime vere decisioni del premier, molti hanno avvertito la necessità (che sia tattica o genuina poco importa) di rivedere giudizi e posizioni.

La prova, in fondo, l’hanno fornita con i loro primi commenti proprio quanti erano (sono) considerati i maggiori critici – se non proprio avversari – del neo-premier. Due nomi su tutti, per intendersi: Susanna Camusso, già protagonista di espliciti conflitti con Renzi, e Stefano Fassina, che in polemica col suo segretario lasciò addirittura la poltrona di viceministro nel governo Letta. Per la leader della Cgil «oggi si può cominciare a festeggiare» e il premier merita «dieci e lode sul piano della comunicazione»; per l’ex viceministro (e oppositore interno di Renzi) «le misure annunciate vanno nella giusta direzione… Finalmente si allenta la morsa dell’austerità».

Si tratta di novità non da poco, di un possibile cambio di clima, tutto da verificare – naturalmente – una volta che saranno noti dettagli e coperture delle misure annunciate. Eppure novità – quelle che sembrano maturare nel «mondo politico» – che non sapremmo dire quanto siano importanti per un premier che sembra continuare ad avere come bussola non il rapporto con i partiti della maggioranza, con i gruppi parlamentari (e perfino con le forze sociali) quanto il suo filo diretto con chi è a casa e lo ascolta via tv o radio, piuttosto che in streaming.

Di questo particolarissimo aspetto si era già avuta netta sensazione durante il teso faccia a faccia con Beppe Grillo (via streaming…) e ancor di più nell’ormai famoso «discorso con le mani in tasca» svolto al Senato in occasione del voto di fiducia. Ieri, tutto ciò è emerso con ancora maggior chiarezza per il linguaggio usato (la polemica con i «gufi»), per gli esempi utilizzati («un libro o una pizza in più» per chi godrà degli aumenti in busta paga) per i toni amichevoli, confidenziali e tutt’altro che ufficiali con i quali ha condotto la conferenza stampa di ieri.

Si era detto e scritto dell’arrivo di un alieno a Palazzo Chigi. Ieri è arrivata una nuova conferma e, naturalmente, le battute e i sorrisini si sono sprecati. Su Matteo Renzi è piovuto di tutto: un imbonitore, una televendita, piuttosto che un premier, una specie di mago Silvan… Ironie. Che in molti casi, forse, sono servite a coprire una qualche crescente preoccupazione. Tornando a casa, infatti, molti di questi «critici seriosi» si saranno forse posti (riposti) delle domande…

A cominciare da quella che oggi appare la principale: perché sono Berlusconi, Grillo e Renzi (in ordine alfabetico) i leader più popolari e votati dagli italiani? Forse perché avendo lungamente sperimentato – e con i risultati noti – tecnici, professori e professionisti della politica, la maggioranza degli italiani è davvero convinta che occorra «cambiare verso». Se fosse così, ci sarebbe poco da ridere e molto da riflettere, intorno a un Paese che ha già dimostrato evidenti propensioni verso i profili forti e i ventennii… Debolezze – a giudizio di chi scrive – che non si sanano con le ironie ma con la serietà, la coerenza e le necessarie autocritiche.

La Stampa 13.03.14

"Lo shock e l'azzardo", di Massimo Giannini

Non è stato quel mercoledì da leoni che si poteva immaginare. Ma nemmeno quel giorno da pecora che si poteva temere. In un giorno solo, Matteo Renzi ha incassato un cospicuo «dividendo » politico. Il via libera della Camera alla riforma elettorale, che con tutti i suoi difetti materiali e costituzionali si rimette comunque in moto dopo otto anni di immobilismo. Il via libera del Consiglio dei ministri al pacchetto «lasvoltabuona », che con tutti i suoi svarioni tecnici e mediatici indica comunque la volontà di accelerare la fuoriuscita dalla crisi.
Depurata da un tasso intollerabilmente alto di autocelebrazione retorica e propagandistica — che per troppe volte lo spinge a parlare di «rivoluzione impressionante per l’Italia » e di «passaggio storico incredibile» — il messaggio del premier in conferenza stampa oscilla tra lo shock e lo spot. Lo shock è evidente. Quando a dieci milioni di poveri italiani a reddito fisso, gravati da almeno cinque anni di saio fiscale, annunci uno sgravio in busta paga da circa mille euro all’anno a partire dallo stipendio del 27 maggio prossimo, l’effetto scossa
è garantito.
Equando alle piccole e medie imprese, stremate da cinque anni di recessione in cui sono bruciati 135 miliardi di ricavi, annunci un taglio di 10 punti dell’Irap finanziato con l’aumento delle rendite finanziarie al netto dei titoli di Stato, l’effetto-svolta è assicurato. Intanto, fai due cose ad alto impatto sociale e perequativo che, se ormai non suonasse così retrò, una volta Norberto Bobbio avrebbe potuto definire con legittimo orgoglio «di sinistra». Per la prima volta dopo molti anni, dai un segnale immediato alla «povera gente» di La Pira, e sposti finalmente un po’ di tassazione dal lavoro alla rendita.
La rottura rispetto al passato c’è, ed è netta. Renzi giustamente non vuole ripetere l’errore di Prodi nel 2006 e di Letta nel 2013, dando poco a tutti. Il «derby» tra lavoratori e imprese, per adesso, si risolve tutto a favore dei primi, e con un piatto non di lenticchie ma di 10 miliardi di euro. Non importa se le stime sugli effetti delle due misure alternative sono discordanti (secondo il Tesoro tagliare l’Irpef produce uno 0,8% di aumento di Pil, mentre secondo Prometeia tagliare l’Irap fa aumentare il reddito nazionale dell’1%). Quello che importa è fare una scelta netta. E Renzi la fa. Ma le buone notizie finiscono qui. Per adesso il presidente del Consiglio lo shock al sistema lo può solo annunciare a parole, e non somministrare nei fatti.
Qui si annida lo spot elettorale. Nelle novità anticipate da Renzi, di operativo ed immediatamente esecutivo c’è assai poco. Gli sconti Irpef, così come lo sgravio Irap, «entreranno in vigore dal primo maggio». Ma questa è solo una promessa, non ancora scritta in alcun provvedimento di legge ma solo nella «relazione» illustrata dal premier ai ministri e poi ai cronisti. E con le «relazioni» non si mangia, né si fa crescere nessun netto in busta paga. Quando saranno presentate le misure concrete? Saranno decreti o disegni di legge? Come nella peggior tradizione tremontiana, il premier glissa e rinvia tutto al varo del Documento di Economia e Finanza.
La stessa cosa vale per le altre «grandi riforme ». Sul fronte politico, il disegno di legge costituzionale che abolisce il Senato non è ancora presentato né incardinato, ma solo trasmesso ai partiti perché ne valutino i contenuti. Sul fronte economico, il famoso «sblocco totale» dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese è affidato a un disegno di legge, i cui tempi medi di approvazione non sono mai inferiori agli 8-10 mesi. Tenuto conto che 22 miliardi li aveva già restituiti il governo Letta nel 2013, e altri 27 miliardi erano già stanziati dalla legge di stabilità, non c’è molto da esultare. Il mitico «Jobs Act», con l’assegno di disoccupazione universale e il salario minimo garantito, è affidato a un disegno di legge-delega, quindi all’erratica volatilità del Parlamento. Tenuto conto che per convertire la vecchia legge delega sul fisco ci sono voluti due anni, non c’è molto da festeggiare.
Al fondo, le poche iniziative reali, che scattano subito, sono quelle che danno attuazione agli impegni già assunti dal governo precedente. Dall’edilizia scolastica all’ampliamento del Fondo di garanzia per le pmi. Dal taglio del 10% delle bollette elettriche alla tutela del dissesto idrogeologico. Poco di nuovo. Se non l’energia e la determinazione che Renzi sprigiona e trasmette, e che diventano il nucleo duro e quasi a se stante della sua missione e della sua comunicazione politica. È attraverso quell’energia e quella determinazione che sei indotto a valutare il capo del governo. È su questa base che lui stesso ti chiede di credergli. Contro tutti quelli che lui chiama «i gufi».
Ma questo è un «atto di fede», più che un «fatto politico». Lo puoi accettare quando ragioni sul futuro dell’Italicum. Molto meno quando rifletti sui conti dell’Italia. E qui sta un altro punto debole della «macchina del consenso» renziana. Le coperture finanziarie restano ancora troppo incerte, e quasi tutte una tantum. Dalla spending review (che per Renzi vale 7 miliardi, mentre Cottarelli la contiene a 3) al risparmio dell’onere per interessi sul debito (che oggi con lo spread a 177 vale X, domani con lo spread a 300 può valere Y). Dalle norme sul rientro dei capitali dall’estero (che qualcuno cifra in 5 miliardi, qualcun altro in 2) al «tesoretto» che ci separa dal tetto del deficit al 3% (che vale lo 0,6% rispetto al Pil, ma non è interamente spendibile). La disinvoltura di Renzi è eccessiva, e stride con la prudenza di Padoan. Soprattutto perché ciascuna di queste coperture implica una correzione del Fiscal compact, e quindi dovrà essere sottoposta al vaglio della Ue. È giusto che il premier voglia negoziare senza complessi con i nostri «tutor» a Bruxelles, tentando anche di rimettere in discussione i paradigmi di un rigore a volte incomprensibile, soprattutto per i popoli d’Europa. Ma queste, finché non sarà chiaro l’esito del negoziato, restano comunque incognite gigantesche, che pesano come macigni sul governo e sulla sua «svoltabuona». Le istituzioni comunitarie, purtroppo, non le convinci con un hashtag, ma con la solidità dell’impegno che assumi, e con la serietà con la quale lo onori.
Per questo, al di là dell’elevata seduzione politica che il suo «manifesto» esercita sull’opinione pubblica (a partire proprio dalla «rinsavita» Cgil di Susanna Camusso), il giudizio sulla manovra va congelato. E va rimandato ad una fase attuativa che sarà fatalmente più lunga di quella che lo stesso premier immaginava, se è vero che adesso proprio lui (che ha fatto della «velocità» la sua cifra di leader) è costretto a spiegare ai giornalisti «se volevate cambiare il mondo domattina con 42-43 decreti legge, ebbene, ve lo dico da laureato in diritto amministrativo, questo è impossibile ». Bentornato nel mondo reale, viene da dire. Soprattutto in una democrazia bloccata come la nostra, il governo non si può esaurire nel comando. Persino il Grande Rottamatore è costretto a sperimentarlo sulla sua pelle. Non è una buona ragione per fermarsi, e desistere di fronte ai «no» di qualunque altra «casamatta del potere ». Ma il compito resta immane in un’Italia ancora sotto stretta sorveglianza, così vicina alla Slovenia e così lontana dalla Germania. Come resta incerto il destino della riforma elettorale, appeso all’«amore» innaturale tra un ex Sindaco e un ex Cavaliere, e sospeso in un Senato che si può trasformare in un Vietnam. Un azzardo nell’azzardo. Che obbliga l’acrobata all’ultimo avvertimento: «Se non supero il bicameralismo perfetto, considero chiusa la mia esperienza politica ». Un altro modo per dire, agli amici e ai nemici; con questo shock-spot provo a vincere le europee, ma se non ci riesco in autunno si torna a votare.

La Repubblica 13.03.14

"A Matteo serve un successo alle europee", di Luigi La Spina

Tra mille agguati e mille affanni la cavalcata di Matteo Renzi si avvia a superare il primo ostacolo, l’approvazione alla Camera della legge elettorale. Ma il successo non dovrebbe illudere troppo il premier, sia perché il passaggio del testo al Senato si annuncia ancor più tempestoso, sia perché è sulla partita economica che si gioca l’azzardo più importante per le sorti del suo governo.

È su questo terreno, infatti, che il neo-inquilino di Palazzo Chigi spera di stringere quella alleanza con la gran parte dei cittadini italiani che potrebbe consentirgli di abbattere le barricate che partiti, a cominciare dal suo, sindacati e Confindustria si apprestano a elevare per opporsi ai suoi progetti. Ecco perché l’appuntamento con le elezioni europee del 25 maggio è fondamentale per Renzi e a questo obiettivo sono subordinate tutte le scelte che, in questi mesi, si appresta a compiere.

Un significativo successo elettorale permetterebbe al premier di far dimenticare «il peccato originale» della sua presa del potere, la manovra di palazzo che ha estromesso Enrico Letta da Palazzo Chigi, ma anche di legittimare nella forma più indiscutibile, quella del consenso democratico, sia i suoi progetti, sia il metodo per attuarli.

Non desta alcuna sorpresa il fatto che Renzi sia riuscito, già nei primi giorni di lavoro del suo governo, a mettersi contro il maggior sindacato del nostro paese, la Cgil e, contemporaneamente, pure la Confindustria. Può essere un rischio mortale per il suo governo, ma è una strada obbligata, perché è la conseguenza logica di una domanda con risposta incorporata: si può lottare contro le corporazioni con l’aiuto delle corporazioni? Ma alla prima domanda, ne segue una seconda: come si fa a pensare di sconfiggere una coalizione di resistenze così formidabili? Anche a questo secondo quesito, c’è una risposta scontata, che risale addirittura ai nostri avi latini: dividendola.

Renzi ha cominciato subito a mettere in pratica questa antica strategia. Con la scelta di privilegiare il taglio dell’Irpef rispetto a quello dell’Irap vuole dividere gli interessi degli imprenditori tra coloro che prevalentemente esportano e coloro che soffrono, sul mercato interno, la debolezza dei consumi. Nello stesso tempo, cerca di separare la dirigenza Cgil della maggioranza dei suoi iscritti, perché alle lamentele di Camusso per la mancata consultazione dei sindacati si prepara a rispondere con una riduzione delle tasse proprio sui redditi più bassi.

Il rifiuto del tradizionale modello concertativo da parte del premier non prevede, d’altra parte, uno scontro totale con le rappresentanze imprenditoriali e sindacali, perché Renzi nega a loro il diritto di veto sui provvedimenti governativi, ma cerca un negoziato, una specie di «do ut des», attraverso il quale esse rinuncino a vantaggi e garanzie ormai insostenibili di quelle categorie «protette», in cambio di concrete contropartite salariali e occupazionali. Anche in questo caso, una proposta con molti rischi da parte del presidente del Consiglio, perché tende ad agevolare le richieste delle aziende e degli iscritti per ridurre i poteri dei vertici confindustriali e sindacali.

Se si considera, poi, l’esigenza primaria di un successo al voto di fine maggio, è ovvia la scelta di subordinare gli interessi dei lavoratori autonomi, meno garantiti, a quelli dei dipendenti statali e delle grandi imprese, più garantiti. È vero che Renzi cerca di allargare il tradizionale perimetro dei consensi al Pd, ma neanche il suo frenetico e spregiudicato trasversalismo politico può fargli dimenticare la necessità di sostenere, innanzi tutto, le categorie sulle quali, da quasi 70 anni, si fonda il suffragio alla sinistra italiana.

Ha suscitato giustificati stupori l’invito che Massimo D’Alema ha rivolto a Renzi per presentare il suo ultimo libro. Se si pensa, però, che anche il primo presidente del Consiglio ex comunista arrivò a Palazzo Chigi con una manovra di palazzo, che anche lui cercò di fronteggiare il potere dell’allora capo Cgil, Sergio Cofferati, che anche lui chiese un voto che sanzionasse la sua legittimità a governare, forse, l’incontro potrebbe assumere un curioso significato. Vista la sconfitta, su tutti fronti, subita da D’Alema nella sua esperienza governativa, sia da Cofferati, sia dal verdetto elettorale, si potrebbe pensare o che l’ex capo della sinistra italiana voglia elargire, in quell’occasione, qualche paterno e beneaugurante consiglio all’ultimo suo successore o preannunciargli, più o meno malignamente, il destino che lo aspetta.

La Stampa 12.03.14