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Di Giorgi «La risolviamo al Senato. Ma Boschi doveva parlare», di Claudia Fusani

«La parità di genere diventerà legge al Senato».
E perché mai visto che il Pd l’ha affossata alla Camera dove avete ampia maggioranza?
«I partiti stanno riesaminando le loro posizioni per recuperare la rottura di ieri. Il premier Renzi è la dimostrazione nei fatti, e non a proclami, del coinvolgimento delle donne nelle giunte e nei consigli di amministrazione. Non ci sono dubbi circa il suo convincimento. E poi, tanto vale ammetterlo:al Senato non c’è il voto segreto e giochi e giochetti saranno più difficili».

Fiorentina, ricercatrice del Cnr, ex assessore della giunta Renzi, Rosa Maria Di Giorgi è stata eletta al Senato un anno fa ed è membro della Commissione parlamentare per la semplificazione. L’anagrafe la mette teoricamente fuori dal cosiddetto cerchio-magico renziano. L’esperienza l’ha fatta però essere tra le prime fedelissime del giovane sindaco.

Delusa per il voto alla Camera?

«È stata un’occasione persa che ha generato grande delusione. Non parlimo di quote meno che mai di colore rosa. È stata bocciata una norma che doveva correggere una grave discriminazione di genere in nome delle garanzie e dei diritti».

C’è un problema di diritti negati. Ma c’è anche un problema politico. Le deputate del Pd lunedì sera hanno protestato e lasciato l’aula. Condivide?

«In genere non amo i gesti eclatanti. Credo che non l’avrei fatto. Detto questo la sconfitta non è stata del Pd ma del Parlamento in genere e dell’Italia. Nel 2014 non siamo ancora in grado di votare una legge che garantisca alle donne pari accesso alla cariche politiche da cui discendono leggi e regole per la vita quotidiana di madri, mogli e donne altrimenti dimenticate».

Se Renzi è un sostenitore della parità di genere, perché non l’ha pretesa dal suo gruppo parlamentare?
«In questo caso il premier non agisce da solo ma nell’ambito di una maggioranza allargata che darà dei benefici perché sosterrà le riforme, ma ha anche dei costi perché costringe a compromessi. Insomma, è noto che Forza Italia e i suoi ambasciatori Brunetta e Verdini non hanno inteso cedere su questo punto e il premier non poteva cambiare unilateralmente l’intesa. È una questione di parole date».

Il fine giustifica i mezzi. C’era però l’accordo sul terzo emendamento che bloccava in percentuali del 60/40 la presenza di uomini o donne nelle liste. Perchè è saltato anche questo?

«Si è parlato di questo accordo nei corridoi del Parlamento ma nessuno lo ha codificato. Le deputate di Forza Italia hanno lasciato intendere lunedì pomeriggio che Berlusconi non sarebbe stato contrario. Nel momento in cui è stata deciso di lasciare libertà di coscienza al voto in aula, è stato chiaro però che nessuno degli emendamenti sarebbe passato».

Libertà di coscienza e voto segreto in un’aula a netta maggioranza maschile sanno di presa in giro. Non crede?
«È vero. Ma ripeto: quel patto non poteva essere cambiato unilateralmente». Torniamo al problema politico. Sono mancati 60 voti, quelli del Pd. Perchè non ha votato compatto?

«Diciamo che nel voto segreto si è potuta consumare qualche rivincita. È chiaro che qualche deputato nemico ha dichiarato in un modo e votato in un altro».

Il nodo dei franchi tiratori. Oggi le preferenze non sono passate per soli 10 voti. E Guerini ha chiamato in aula il governo per avere tutti i voti. Scene che si vedevano ai tempi di Prodi.

«Il recinto della maggioranza è quello che sappiamo, e il Parlamento è quello nato da un sostanziale equilibrio di tre forze. Però chiamarli franchi tiratori è concettualmente sbagliato: c’era libertà di coscienza, non il vincolo di voto. Vuol dire, piuttosto, che anche nel Pd c’è stato chi ha votato secondo coscienza contro i diritti delle donne».

Molte parlamentari si sarebbero aspettate un segnale forte e chiaro dal ministro Maria Elena Boschi che invece ha taciuto.

«È mancata, in questo difficile passaggio, una sua parola. Credo che un risultato l’abbia comunque ottenuto, ossia aver spuntato la libertà di coscienza. Ma non c’è dubbio che ci siano momenti in cui, pur con la prudenza per il ruolo istituzionale ricoperto, si possano dare segnali chiari di consenso. Questo era uno di quei momenti».

Il Senato correggerà l’Italicum?

«Introdurremo la parità di genere. Stiamo già lavorando al testo. Puntiamo sull’alternanza, un uomo e una donna o viceversa. La cosa migliore. Circa i voti, noi donne del Pd siamo 42 su un totale di 107 e i nostri senatori si sono già pronunciati complessivamente in modo positivo. Una riflessione dovrebbe aprirsi anche nel M5S. A palazzo Madama non è previsto il voto segreto e questo potrebbe determinare il cambiamento».

Altre correzioni?

«No, tutto il resto, soglie, sbarramenti, preferenze, appartengono a un patto che non può più essere messo in gioco».

L’Unità 12.03.14

"Tagli Irpef sui redditi bassi risorse da spending e una tantum Interventi anche sull’Irap", di Roberto Petrini

Matteo Renzi tira dritto e assicura: «Il 27 aprile ci saranno 100 euro in più in busta paga». Dopo una giornata al cardiopalma alla ricerca della quadra sulle coperture e sui dettagli delle misure, Palazzo Chigi è ottimista. «Ci sono fino a 20 miliardi, il doppio del necessario». «La più impressionante operazione politica mai fatta a sinistra per il recupero del potere d’acquisto per chi non ce la fa», manda a dire con un tweet il presidente del Consiglio in tarda serata e conia un nuovo hashtag “lasvoltabuona”.
L’attesa è per il consiglio dei ministri di oggi pomeriggio alle 16, dopo una mattinata occupata dal rituale preconsiglio e soprattutto dall’ultimo incontro decisivo con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Dopo le febbrili consultazioni alcuni punti sembrano fermi: l’aumento sarà sulle detrazioni e, dopo il pressing della Confindustria, torna nel menù anche un taglio all’Irap per le imprese.
Il piatto forte sarà tuttavia l’annuncio e l’impegno sul taglio delle tasse (anche se non sarà formalizzato in un articolato) e si metterà in piedi un meccanismo a più stadi per arrivare, dopo il varo del Def e alcuni decreti, alla data fatidica del 27 aprile. Nel mirino ci sono come beneficiari della manovra i lavoratori dipendenti a reddito basso: l’intervento riguarderà coloro che guadagnano sotto i 25 mila euro lordi (cioè circa 1.300 euro netti al mese) e probabilmente sarà più forte intorno ai 15 mila euro lordi annui. Non la spunta, invece, la posizione degli alfaniani che avrebbero puntato anche su un taglio delle aliquote per i redditi medi: misura che avrebbe avvantaggiato anche gli autonomi. Palazzo Chigi in serata la esclude.
Si assesta nella notte invece il pacchetto destinato alle coperture dell’intervento da 10 miliardi a regime ma il calcolo filtrato ieri da Palazzo Chigi parla addirittura di 20 miliardi a disposizione del governo.
La grossa parte, circa 7 miliardi, verrebbe dalla spending review, con interventi selettivi e stabili. Altri 6,4 miliardi arriverebbero dall’ampliamento del deficit dall’attuale 2,6 per cento fino ad arrivare a ridosso della soglia minima del 3 per cento.
La parte one off sarebbe articolata nel modo seguente. Il rientro dei capitali dalla Svizzera fornirà circa 2 miliardi: il decreto sulla volontary disclosure è
in via di approvazione e nelle prossime settimane, in occasione della visita di Napolitano a Berna, potrebbe essere siglato un accordo di scambio di informazioni.
Circa 1,6 miliardi — anche questi una tantum — verrebbero dall’Iva incassata dallo Stato in occasione dei nuovi pagamenti (e della relativa emissione di fatture da parte delle aziende) dei debiti della pubblica amministrazione (oggi ci sarà un disegno di legge).
La terza parte è costituita da i tassi d’interesse, definita «volatile », anche se lo spread sembra ormai ancorato a livelli assai bassi. Il risparmio sarebbe di 3 miliardi: per spenderlo è possibile un anticipo del Def (previsto normalmente per il 10 aprile) a fine marzo in modo da modificarne la struttura e rendere spendibile una parte della minore spesa per interessi prevista per quest’anno.
Le coperture si dividerebbero così dunque in tre categorie: stabili, one-off e variabili. Una manovra che, stando alle parole di Marco Buti, il direttore generale degli Affari economici e monetari della Commissione europea, va
fatta con «attenzione» ma non è da escludere: per Buti, intervistato ieri sera a Ballarò, le una tantum «si possono usare nel breve termine» ma per una riduzione «permanente» bisogna «far seguito con riduzioni della spesa».

La Repubblica 12.03.14

"Il decalogo anti-corruzione", di Roberto Saviano

Negarlo sarebbe colpevolmente ingenuo: ciò che rende l’Italia un Paese in cui sembra non valere più la pena investire e da cui sembra sempre più necessario emigrare è soprattutto la corruzione. Una corruzione che non è il banale istinto a rubare, che razzismi minori imputano alla cultura di un Paese. Non si tratta di episodico malcostume, ma di meccanismi reali, fin troppo tangibili, concreti e diffusi ovunque: una macchina sommersa e infame che garantisce i complici del
sistema e esclude gli onesti.
E spesso trasforma in complici gli onesti: costretti a piegarsi per vedere riconosciuti i loro diritti. Perché chi ne sta lontano vede chiudersi troppe porte. Chi la vuole evitare, vede ridursi la possibilità di accedere ad appalti, cariche, ruoli, affari. La corruzione sembra divenuta il metodo di selezione principale in un paese che non sa più premiare merito e concorrenza. Se non sai chi pagare e quanto pagare, spesso non avrai le autorizzazioni giuste, il documento che ti occorre, l’accesso a una informazione. Chi non paga non verrà eletto. Chi non sa innescare scambi di favori non riceverà scatti di carriera. Chi non entra in questi meccanismi e vuole fare impresa o politica — troppo spesso — si trova davanti muri insormontabili.
Non tutto il paese è così, naturalmente, ma l’Italia, agli occhi di chi ci osserva, è una Repubblica fondata sullo scambio di favori. Il resto del mondo non è certo il paradiso in terra, ma semplicemente molto spesso certe scelte altrove risultano più chiare e soprattutto trasparenti. Magari si conoscono i legami tra finanziatori e finanziati e questo rende più facile potersi orientare nella lettura delle scelte che vengono fatte. Ciò che spesso tendiamo a sottovalutare è che vivere in un paese in cui la corruzione è necessaria per qualunque cosa, anche per ottenere ciò che sarebbe dovuto significa vivere solo nominalmente in una democrazia.
Una democrazia corrotta non è democrazia, perché calpesta il primo diritto: quello dell’uguaglianza.
La scelta di un magistrato da sempre impegnato in prima linea come Raffaele Cantone alla guida dell’Autorità anticorruzione è una nomina importante, potrebbe fare la differenza ma alla sola condizione che anche l’Anticorruzione cambi. Raffaele Cantone deve essere messo nella condizione di poter lavorare, di poter lavorare serenamente, di poter lavorare davvero. Perché il compito è tremendo, l’impresa è difficile, e richiede un lavoro da certosino: costruire una squadra di persone competenti, e poi studiare, monitorare, e provare che ciò che si è ipotizzato corrisponda a realtà. Trovare soluzioni, proporle e fare in modo che vengano accettate da un governo che potrebbe mostrare contraddizioni, attriti e divisioni interne. Le cose da fare sono molte, moltissime, prioritarie e vitali. Ho provato a stilare un elenco di dieci punti, quelli che a me paiono più urgenti, sperando che su questo tema l’attenzione resti costante.
1)
Oltre a Raffaele Cantone ci saranno altri quattro membri: è necessario che siano di alto profilo, perché il lavoro da fare dovrà essere senza attriti e contrasti superflui. Non dovranno essere scelti in quota politica, ma per le loro reali competenze e qualità. Questo punto è fondamentale, da qui parte tutto il lavoro.
2)
Bisogna rivedere in via normativa i poteri del Commissariato per consentire di fare un controllo completo ed efficiente. Ad oggi il Commissariato non ha poteri di intervento immediato reali.
3)
Il governo deve dare poteri sanzionatori per colpire quelle parti delle amministrazioni che non collaborano dando informazioni. I responsabili delle amministrazioni che non consentano i controlli dell’agenzia o che non adempiano agli obblighi previsti dalla legge devono essere sanzionati direttamente dall’agenzia a cui va riconosciuto un potere sanzionatorio analogo altre authority.
4)
Devono essere ampliati i momenti di trasparenza in particolar modo per tutte le attività in cui girano soldi. Gare d’appalto, finanziamenti, grandi eventi, cantieri.
5)
Bisogna allontanare dalle amministrazioni i dipendenti condannati.
6)
È fondamentale prevedere incompatibilità fra cariche politiche e amministrative o di gestione.
7)
Non bisogna attenuare le cause di incandidabilità.
8)
Bisogna modificare i termini della prescrizione per i reati in materia di corruzione.
9)
Introdurre il reato di autoriciclaggio e rendere più severe le pene per il falso in bilancio. Questo reato, infatti, è punito in modo ridotto e solo a certe condizioni. Vengono perseguiti solo enormi falsi molto difficili da individuare.
10)
Modificare la legge contro il voto di scambio.
Tutto questo partendo da un assunto fondamentale: dal 2003, ovvero da quando “l’Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione” è nato, non è riuscito mai ad avere un vero ruolo. Il primo a ricoprire questo incarico fu il magistrato Gianfranco Tatozzi che lasciò la carica dopo poco, per la «scarsa sensibilità» dimostrata rispetto ai temi della corruzione dal governo Berlusconi. Poi arrivarono Bruno Ferrante, Achille Serra e Vincenzo Grimaldi, ma nessuno di loro è riuscito a dare un ruolo incisivo all’azione del Commissario, a monitorare ciò che accade in un paese dove le crisi di governo sono la priorità. Prioritarie anche e soprattutto rispetto alla credibilità del tessuto economico, che in questi anni è stato letteralmente distrutto dalle organizzazioni criminali.
Con Giulio Tremonti l’Alto commissario fu sospeso, per rinascere poi con un nuovo nome “Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”.
Ma il nuovo nome dato non è servito a granché: la verità è che in poco più di 10 anni di vita l’istituzione non ha mai funzionato veramente. Il nuovo governo riuscirà a renderla efficiente? Una struttura del genere, questo deve essere chiaro, non solo all’esecutivo appena insediato ma a chiunque abbia a cuore il futuro dell’Italia, può risultare fondamentale per la capacità immediata di disarticolare i meccanismi corruttivi che regolano segretamente tanta parte della nostra economia. La scelta di Cantone è un gesto di buona volontà ma è solo il primo passo. Raffaele Cantone deve essere messo nelle condizioni di lavorare e con il potere necessario per non trovarsi in un guscio vuoto, alla guida dell’ennesimo ente inutile. Con le sue capacità e la sua storia professionale può davvero essere un valore aggiunto. C’è molto da fare: su questo si misurerà l’operato del governo e dello Stato. Attendiamo.

La Repubblica 12.03.14

"Sempre più laureati senza impiego (e chi ce l’ha guadagna poco)", di Valentina Santarpia

Un laureato impiega almeno un anno per trovare un lavoro, precario e da poco più di mille euro netti al mese: ma se il graduato in questione è donna e, peggio ancora, se ha ottenuto il suo titolo in un ateneo del Sud, i tempi per ottenere un posto dignitoso si allungano e la busta paga, al contrario, si intirizzisce. La — desolante — conferma arriva dal sedicesimo rapporto di Almalaurea, realizzato su 450 mila laureati dei 64 atenei del consorzio, che inquadra il futuro lavorativo di chi, dopo aver raggiunto il massimo livello di istruzione, si confronta col mondo del lavoro, uscendone spesso con le ossa rotte.
Anche se chi ha una laurea resta avvantaggiato rispetto a chi ha raggiunto solo il diploma di scuola media superiore, perché a 5 anni dal titolo solo l’8% dei laureati non lavora, il quadro generale è quello di «una sensibile, ulteriore frenata della capacità di assorbimento del mercato del lavoro». Nel dettaglio: tra i laureati di primo livello (laurea triennale, o breve), il tasso di occupazione è sceso di 4 punti solo nell’ultimo anno, di 16 se si confronta il dato con il 2008: a un anno dal titolo il 66% dei laureati brevi lavora o quantomeno svolge uno stage retribuito. Tra i colleghi magistrali la contrazione registrata è di due punti, e di 11 rispetto al 2008. Tra gli studenti che scelgono di proseguire con la laurea specialistica, infatti, lavorano in 70 su 100. Quelli che stanno messi peggio sono i magistrali a ciclo unico, per lo più studenti dei vecchi corsi di laurea: per loro il crollo è del 3% rispetto al rapporto dell’anno scorso, ma del 23% rispetto all’indagine 2008. E l’analisi delle caratteristiche del lavoro trovato è il segno delle difficoltà che i laureati post riforma hanno affrontato in questi ultimi anni. I contratti a tempo indeterminato hanno avuto un calo, rispetto all’indagine 2008, del 15% tra i triennali, dell’8% tra i magistrali, del 5% tra quelli a ciclo unico. E questi sono dati che rientrano nella media.
Anche se l’indagine non prende in considerazione alcuni atenei importanti — come la Statale di Milano o l’Università di Pisa — restituisce una frattura netta tra un Sud disarmato che arranca, dove i laureati stentano a trovare un’occupazione, e spesso si accontentano di lavoretti poco qualificanti, e un Nord avanzato, dove cominciare a lavorare, o anche frequentare un corso di formazione retribuito, è quasi scontato, e dove gli stipendi sono fino a 200 euro più alti. A parità di condizioni di partenza, chi si laurea all’Università di Reggio Calabria Mediterranea ha il 59% di possibilità di lavorare o di frequentare uno stage pagato, a tre anni dal titolo, percependo 1.045 euro al mese netti. Chi esce dallo Iulm di Milano nell’88,3% dei casi ha un’occupazione dopo tre anni, e la sua busta paga arriva a 1.251 euro. Il tasso di disoccupazione dei laureati così può oscillare dal 28% dell’università calabrese, passando per il 20,4% della II Università di Napoli e il 18,5% di Salerno per arrivare al 3,3% dell’ateneo di Milano S.Raffaele, senza disdegnare Genova (6,5%), Torino e Trieste (8,3%).
Un sistema a due velocità? «Non facciamoci ingannare dalle apparenze — spiega Andrea Cammelli, fondatore di Almalaurea —. Non è detto che gli atenei del Sud siano peggiori, è il sistema imprenditoriale del Sud che non funziona e fatica ad assorbire laureati. Al Nord il 3% dei laureati si sposta per andare all’estero, ma il 18% degli studenti del Sud emigra al Nord per lavoro. A fare la differenza è anche la specializzazione». Quindi, oltre al prestigio dell’ateneo, quando si sceglie il corso di laurea bisogna considerare che i laureati di Ingegneria e delle professioni sanitarie, nonché dei gruppi educazione fisica e scientifico, sono favoriti nella ricerca di lavoro rispetto ai colleghi dei percorsi giuridico-psicologico e geo-biologico. E poi: più giovani, quindi chi si laurea prima, e chi conosce inglese e tedesco, è più ricercato. Il resto, è fortuna.

Il Corriere della Sera 11.03.14

"Più equità contro la crisi", di Ronny Mazzocchi

La prima cosa che balza all’occhio nel dibattito in corso sulle strategie per il rilancio della crescita del nostro Paese è che sin dall’inizio l’opzione della riduzione del carico fiscale è sembrata l’unica ad essere in campo. Non è nemmeno stata presa in considerazione la possibilità di un intervento pubblico diretto dal lato della spesa, capace di attivare consumi e investimenti.

Quindi senza quell’aleatorietà a cui sono invece sottoposte tutte le altre opzioni ancora oggetto di discussione. Si tratta di un autentico paradosso, visto che anche il Fondo monetario internazionale da tempo non perde occasione di ricordare come – almeno in periodi di crisi economica – gli effetti di un aumento della spesa sarebbero di gran lunga più espansivi di quelli che genererebbe una riduzione delle imposte di eguale ammontare. È evidente che le classi dirigenti italiane non si sono ancora emancipate dal paradigma culturale che ha dominato l’ultimo trentennio e che considerava sempre e comunque la manovra della spesa pubblica come una strada impercorribile, vedendo invece nella riduzione delle imposte l’unica via d’uscita ai problemi della bassa crescita e della carenza di posti di lavoro.

Preso atto con rammarico di questo ritardo culturale del nostro Paese e accertato che l’unica alternativa resta quindi quella fra riduzione dell’Irap sulle impre- se e dell’Irpef sui redditi più bassi, bisogna ammettere che quest’ultima si presenta come preferibile sia dal punto di vi- sta strettamente economico, sia sotto il profilo distributivo. Il taglio dell’Irap, infatti, avrebbe sul livello di occupazione gli stessi effetti trascurabili che hanno avuto tutti i precedenti incentivi e sconti fiscali concessi in varie forme alle imprese negli anni scorsi. L’esplosione del numero dei senza lavoro registrato a partire dal 2011 non sembra dipendere dal peso delle imposte, ma dal brusco calo del volume di attività determinato dal crollo della do- manda interna. La diminuzione dell’Irap, lungi dal tradursi in un aumento degli investimenti, si configurerebbe così in un aumento del risparmio delle imprese o, molto più probabilmente, verrebbe utilizzata per ridurre parzialmente l’esposizione debitoria verso le banche. Le ricadute sull’economia nel suo complesso sarebbero modeste e le risorse resterebbero per lo più confinate ai beneficiari del provvedimento.

Al contrario la riduzione dell’Irpef avrebbe effetti espansivi ben maggiori.

Concentrare l’intervento sui redditi più bassi permetterebbe infatti di aumentare il potere d’acquisto a una fascia di popolazione caratterizzata da una elevata pro- pensione al consumo. L’obiezione secondo cui buona parte dello sconto fiscale si tradurrebbe in un aumento dei beni importati con effetti negativi sulla bilancia commerciale è scarsamente fondata: è assai probabile che i pensionati con la mini- ma e i metalmeccanici con familiari a carico utilizzeranno gli 80 euro di sconto per comprare beni di prima necessità piuttosto che beni voluttuari di importazione come un’auto di alta gamma o una lavatrice all’ultimo grido.

Il taglio dell’Irpef avrà effetti sia di breve che di medio periodo. Nell’immediato il rilancio della domanda, generato dall’aumento dei consumi, permetterà alle imprese di rimettere a regime gli impianti finora utilizzati ben al di sotto del loro potenziale. Il rinnovato clima di fiducia consentirà poi ai nostri imprenditori di avviare un ciclo di investimenti capace di rimpiazzare lo stock di capitale ormai obsoleto che costituisce la principale causa del nostro gap di produttività nei con- fronti dei Paesi del centro e del Nord Europa. Questo ciclo virtuoso permetterà poi alle imprese di rientrare in maniera strutturale dalle proprie posizioni debitorie, rafforzando anche la solidità del nostro sistema bancario e finanziario.

Indirettamente il miglioramento della solvibilità degli intermediari determinerà un aumento dell’offerta di credito e una riduzione del costo di accesso al finanzia- mento da parte delle imprese stesse. La ripresa dell’occupazione, invece che il frutto di meri incentivi alle assunzioni sotto forma di sconti fiscali, sarebbe così garantita da un ben più solido processo di crescita economico trainato dalla domanda interna.

Le ricadute positive si avrebbero anche sul fronte redistributivo. Dopo anni di tagli alle prestazioni sociali, di blocchi ai salari e di inasprimento della pressione fiscale sui redditi dei lavoratori dipendenti, il taglio dell’Irpef rappresenterebbe la presa d’atto che solo attraverso una più equa redistribuzione della ricchezza e dei redditi sarà possibile uscire dalla crisi.

L’Unità 11.03.14

Stile pizzeria. Povera Pompei Quando i restauri sono «low cost», di Luca Del Fra

Lo hanno battezzato con ironia «Bella Pompei, pizzeria forno a legna». Con malevolo sarcasmo una villetta abusiva costruita da un geometra della terra dei fuochi. È il restauro della casa del Criptoportico, il primo intervento del Grande progetto Pompei, che arriva dopo quattro lunghi anni dai grandi crolli del 2010 e lascia molte perplessità. Rischia di essere l’ennesima di- sfatta per il sito archeologico che da celebre sta diventando famigerato. Più che gettare la croce su qualcuno, occorrerebbe aprire una seria discussione.

Architetto viennese di nobile famiglia ungherese, Andràs Palffy è considerato per i suoi progetti uno dei guru del restauro architettonico internazionale e non ha dubbi: «L’intervento sul Criptoportico mi sembra distrugga più di quanto non conservi». La premessa è che «In ogni restauro occorre differenziare ciò che è storico dalla struttura che lo conserva: in questo caso ci troviamo di fronte a una ricostruzione in stile disneyano, ma realizzata con mezzi modesti. Se oggi è possibile distinguere i mattoni moderni da quelli antichi, tra due anni quanti visitatori saranno in grado di farlo? Pochi credo».

A stupire Palffy è che «Pur con mezzi semplici si possono realizzare grandi idee, che in questo caso sembrano mancare. E manca anche la grande cultura del restauro italiano». Le idee di Palffy sembrano trovare involontaria conferma nelle parole del responsabile del restauro, l’archeologo Ernesto De Carolis, che spiega come questo progetto nato nel 2007 volesse tenere conto, storicizzandoli, dei precedenti restauri del 1911, quando il Criptoportico venne scavato da Giuseppe Mollo e della fine degli anni 40, quando dopo la guerra si cercò di rimediare ai danni di un bombardamento: ma entrambi gli interventi o seguivano principi divenuti obsoleti o esigenze oggi inesistenti.

Aldilà del progetto, colpisce la realizzazione: «Il risultato è assolutamente inatteso, anomalo e sconvolgente rispetto all’attenta attività di tutela e di cura che ci si attende per un luogo archeologico così consacrato – spiega il professore Marco Dezzi Bardeschi architetto, restauratore, teorico del restauro e sicuramente uno dei più illustri eredi di quella tradizione italiana cui faceva riferimento Palffy.

È impressionato Dezzi Bardeschi per come: «Il monumento/documento (il Criptoportico ndr) sia stato irreversibilmente manomesso dall’intervento, nella sua fragile e precaria consistenza materiale, ben oltre ogni limite del rispetto dovuto al sopravvissuto e alla compatibilità delle parti aggiunte (la nuova copertura di protezione)».

La sua disamina tecnica riguarda l’estensione della presunta restituzione della volumetria originaria e delle «reintegrazioni» murarie e le nuove strutture delle coperture in legno lamellare, davvero fuori misura, e le coperture stesse: «Se questo è il primo della attesa serie dei cinque interventi è un preoccupante (e irreversibile) segnale d’allarme di ciò che, a mio avviso, proprio non si dovrebbe mai più fare: le immagini sono più eloquenti di ogni possibile parola». Dezzi Bardeschi indica un ulteriore punto critico, la modalità dell’appalto «condotta con la logica del massimo ribasso». E non ha torto: l’intervento, costato appena 300 mila euro, è stato aggiudicato con un ribasso di oltre il 56 %, cosa che ha insospettito la procura di Torre Annunziata che, dopo una denuncia dell’Osservatorio su Pompei, ha aperto una inchiesta su questo e altri due appalti aggiudicati sotto il 50% del preventivo.

«Il problema di questo restauro è l’essere stato affidato a muratori e non a restauratori specializzati» spiega, colpito anche lui, Francesco Prosperetti, ultimo Direttore Generale per l’architettura contemporanea del Mibact, e ora alla testa della direzione regionale calabrese.
Effettivamente l’intervento è un Og2, sigla corrispondente a un restauro edile, che possono svolgere le ditte adibite alle riparazioni delle strutture murarie «e non superfici con 2000 anni di storia – insiste Prosperetti -. Quindi si scelgono ditte edili, mentre quelle di restauro italiane, le migliori al mondo, restano senza lavoro e stanno fallendo. Più che al ribasso si poteva puntare all’offerta migliorativa o all’appalto integrato, per apportare migliorie a parità di costi. A Pompei non ce la possiamo cavare così: e le risorse, una volta tanto, ci sono».
L’intervento sul Criptoportico, benché progettato 7 anni or sono, oltre che al ribasso sembra ubbidire anche a una fretta indemoniata: realizzare qualcosa da dare in pasto ai media dopo ben 4 anni dai grandi crolli del 2010, tra cui quello divenuto celeberrimo della casa Armaturarum. E non a caso, mal- grado sia ancora incompleto – mancano la parte decorativa – l’intervento è stato presentato proprio nei giorni di febbraio in cui ricominciavano i crolli.

«La verità è che tutto il Grande progetto è sbagliato: un assemblaggio di progetti fatti da persone e in epoche diverse, senza una vera strategia complessi- va per Pompei» osserva con disappunto ma non senza fondamento Maria Pia Guermandi di Italia Nostra.

Per gestire i 105 milioni di euro di fondi europei, cifra cospicua ma non enorme, è stata costruita una poderosa macchina burocratica e barocca con quattro ministeri, un prefetto, la procura antimafia, Invitalia, i rappresentanti degli enti locali e ora, per non farsi mancare proprio nulla, perfino Finmeccanica. Ma nessuno ha pensato alla cosa più ovvia: un gruppo di lavoro con i più importanti pompeianisti in circolazione che, affiancati dal personale tecnico della soprintendenza, stilassero un piano organico di interventi rapido ed efficace.

Il comunicato che illustra le prime decisioni adottate dopo una riunione con il ministro Franceschini a seguito degli ultimi crolli appare ancora esitante: «Fuffa, in gran parte – taglia corto Guermandi -, senza nulla di nuovo e strategico. Si pensi ad esempio alle “app” commissionate a Finmeccanica, oppure al piano diagnostico che oltre a costare la bella cifra di 8,5 mln di euro, sarebbe pronto quando oramai i tempi per usare i fondi europei saranno scaduti, il che avverrà tra appena un anno. L’unica cosa seria è la messa in sicurezza delle “Regiones” III e IX, ma se ne parla già da due anni come una urgenza e si mo ancora qui».

Tra le misure deliberate c’è la destinazione di 2 milioni di euro per le emergenze: ma fino a 200mila euro per ogni intervento le emergenze non avrebbe- ro bisogno di autorizzazione, e potrebbero essere deliberate dagli stessi tecnici (archeologi e architetti della Soprintendenza) con affidamento diretto senza gara. Eppure, malgrado i ripetuti crolli, questi interventi a Pompei non vengono fatti da anni. Il che riporta a una Soprintendenza, quella di Pompei, Ercolano e Stabia, calcinata da anni di confusione, tra commissariamenti, accorpamenti con la vicina soprintendenza partenopea funzionali a svuotare le casse del sito, e poi da successive separazioni – la più recente risale all’ottobre scorso -, e un personale amministrativo per questo andirivieni oramai in confusione.

Insediato qualche giorno fa il nuovo soprintendente Massimo Osanna: sulla cui nomina pendono numerosi ricorsi alla Corte dei conti. Gli è affiancata la unità operativa, ma per ora inoperante, del Grande progetto Pompei, diretta dal generale dei Carabinieri Giovanni Nistri e dallo storico dell’arte Fabrizio Magani. A loro spetterebbe svelenire la macchina e farla ripartire, o meglio: farla finalmente partire. Perché ai crolli si susseguono governi e ministri, ma per Pompei è sempre l’anno zero.

L’Unità 11.03.14

Italicum e parità di genere: ha vinto il fronte dei conservatori (delle disuguaglianze)

Dopo molti stop and go, la lunga giornata dell’Italicum a Montecitorio si è conclusa con l’affossamento degli emendamenti sulla parità di genere. Uno ad uno sono caduti tutti, da quello sull’alternanza di genere nelle liste a quello sul 50% dei capolista, fino alla soluzione di compromesso che prevedeva una quota di capolista per ciascun genere non superiore al 60%. Le deputate del Pd hanno lasciato l’aula in segno di protesta contro quei compagni di partito che hanno votato contro: almeno 40 i sì mancanti nell’ultimo voto. E la democratica Giuditta Pini non usa mezzi termini per maledire i compagni onorevoli: “che lo spirito di Lorena Bobbit accompagni stanotte i colleghi che hanno bocciato l’emendamento”, scrive in un tweet.

Ma la delusione è amara per tutte le 90 deputate (anche di Fi, Ncd, Sc, Udc e Pi) che hanno firmato nei giorni scorsi un appello ai leader dei propri partiti, scontrandosi con un fronte maschile trasversale più numeroso, compatto e inflessibile del loro. Ed è una dolorosa battuta d’arresto anche per il movimento di donne che, fuori dal Parlamento, ha lavorato per anni alla promozione della democrazia paritaria.

Decisivo è stato con ogni probabilità il voto segreto, ma il naufragio della parità era già annunciato dai tentennamenti di una parte del centrosinistra e dalla contrarietà di gruppi come Forza Italia e Movimento 5 Stelle. Per le posizioni dei pentastellati può valere la colorita dichiarazione anti-quote di Marta Grande: “Noi donne non siamo mica dei panda”. Le ragioni contrarie dei forzisti, nonostante le pressioni a favore degli emendamenti di colleghe di partito come Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo, vengono sintetizzate da Daniela Santanché: “Il presidente Berlusconi ha sempre creduto nelle donne e non c’è bisogno di una legge”.

Dunque eccoci qui. Ha vinto il fronte che alza la bandiera del “merito” e disprezza le “quote”. O altrimenti detto: ha vinto il fronte della conservazione di tradizionali diseguaglianze di potere contro quello che vorrebbe vedere realizzata la piena parità tra donne e uomini, anche nelle istituzioni elettive. Questione di punti di vista. Perché il fronte sconfitto, in fondo, difende un concetto semplice, che ha ben spiegato la democratica Anna Ascani nel suo intervento: “Correre i 400 metri è bello, ma se l’avversario parte 200 metri più avanti, il rischio di arrivare secondo è davvero tanto alto”.

Non di quote infatti si è mai trattato, nelle intenzioni delle firmatarie degli emendamenti: né riserve per panda, né strumenti che premiano il sesso biologico a discapito del merito. In gioco è invece l’applicazione dell’articolo 51 della nostra Costituzione secondo cui: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Dunque perché i sospetti di incostituzionalità degli emendamenti sollevati da deputati contrari, come Piero Longo?

Il punto vero è che le norme per il riequilibrio di genere nella rappresentanza non vanno a detrimento della competenza e del merito (o casomai il problema sta a monte, in una legge elettorale con liste bloccate), ma vanno a sottrarre posizioni di potere agli uomini. Il paese, invece, può trarre solo vantaggio da una democrazia più compiuta. “La realtà è più forte delle opinioni”, ha ricordato Titti Di Salvo di Sel, e quando mancano meccanismi paritari il risultato è sotto gli occhi di tutte e tutti: zero donne nel consiglio regionale della Basilicata, 3 elette su 60 consiglieri in Sardegna.

Niente di fatto dunque, punto e a capo. Saranno contenti, forse, i tanti che in questi giorni hanno scritto che “il problema non è la parità di genere nella legge elettorale, è la legge elettorale”, e che la parità è “una foglia di fico su una legge inaccettabile”. In realtà qui non si tratta di un giudizio sull’Italicum. Le donne che hanno fatto questa battaglia hanno idee diverse in merito. Ma resta a tutte lo sconforto di vedere il Parlamento con la più elevata presenza femminile aggiungere questo macigno alla conta dei possibili difetti della legge: quello di arrestare la breve corsa delle donne dentro istituzioni capaci di dare voce alla metà del paese.

da Europa QUotidiano 11.03.14