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"Un voto contro il Paese", di Sara Ventroni

Chi ha paura delle donne? Il Paese no. L’Italia è pronta. Eppure s’è deciso di andare contro il sentimento del tempo, con il voto segreto in Parlamento, a sigillo di una convenienza camuffata da libertà di coscienza. Così, all’arma bianca, hanno bocciato gli emendamenti alla legge elettorale.

Come se si trattasse di un vezzo. Di un capriccio. E li hanno debellati senza troppi complimenti. Per ogni donna che entra, un uomo deve stare fuori. Non è la jungla, ma la rappresentazione plastica di una legge elettorale, l’Italicum (checché ne dica il relatore Francesco Paolo Sisto: la sentenza della Corte Costituzionale n. 422 del 1995 è stata superata dalla nuova formulazione dell’arti- colo 51 della Costituzione) – a rischio di incostituzionalità, per il premio di maggioranza, e per le liste bloccate. E dunque: se di liste bloccate si tratta, donne e uomini hanno lo stesso diritto di competere per la piena eleggibilità.

Non è una crisi di nicchia, non è una rivolta subalterna. Non è un computo piccolo-piccolo, da ghetto, ma l’indicazione di un correttivo essenziale.

La democrazia non è una quisquilia. O è democrazia paritaria, o non è. E se è paritaria, non lo è solo per nomina glamour, come gesto benevolo, attrattivo ancorché arbitrario. Alla mercé delle fantasmagorie del segretario di partito.

Lo afferma la Costituzione, non un’agenzia di sondaggi. Uomini e donne devono avere pari opportunità. Niente di più, niente di meno. Articolo tre, articolo cinquantuno. Tutto qui. Eppure non siamo ancora qua. In stallo.

Ma c’è chi si è dato da fare per descrivere la battaglia delle donne alla Camera come una questioncina vezzosa, da area protetta, oppure strumentale, di sabotaggio del governo. Non è così.

Pur di fraintendere le donne ci si appella a complotti inconsistenti. Da un buon decennio siamo oltre la vulgata delle quote: le donne, oggi – al netto dell’Italicum – chiedono garanzie formali: tecniche, certo, noiose sicuramente, ma essenziali, per non essere escluse dalla competizione.

Le donne, al varo della legge, chiedevano solo una clausola di garanzia: cinquanta e cinquanta di capilista e alternanza uno a uno nelle liste: misure semplici, cui nulla osta, per garantire a tutti e a tutte le stesse possibilità di competere, per poter esser eletti.

Non è necessario essere dei costituzionalisti per capire che la legge elettorale Italicum non è la migliore delle leggi possibili. Tutt’altro. È piena di difetti: ancora una volta le liste bloccate, ancora una volta un premio incongruo di maggioranza. Emendarla non solo era legittimo, ma doveroso. Eppure, l’attenzione s’appunta sugli emendamenti eversivi, trasversali, delle donne. Come se si trattasse di un sabotaggio. Di un’oscura manovra per manomettere l’azione di governo; o peggio, il futuro degli uomini, obbedienti, che già aspirano al loro posto. Garantito, loro sì, in lista.

No. Non bastano le buone intenzioni dei leader. Non basta il carisma taumaturgico dei segretari di partito che impongono l’olio santo sulle teste delle preferite. Le donne vogliono – in mancanza di preferenze, nel cui caso hanno già pronta, come per la legge elettorale regionale della Campania, la doppia preferenza – le stesse condizioni di partenza.

Le novanta donne vestite di bianco alla Camera da giorni tentano di schivare in ogni modo i fendenti goffi dei luoghi comuni.
Eppure tutti – giornalisti, colleghi onorevoli, opinionisti – le ricacciano nel passato. Al ghetto delle quote. Ma l’unica a vestirsi di rosa è Daniela Santanchè, fuori tempo massimo, provocatoriamente contraria alle misure correttive per rendere la legge effettivamente a norma di Costituzione.

Le donne vestite di bianco non chiedono privilegi. Non reclamano riserve indiane. In modo tra- sversale, dal Pd a Forza Italia, affermano la necessità di esserci in questo passaggio. Perché l’Italia ha già intuito tutto. E perché deve essere chiaro, finalmente, che se il gioco è blindato, le donne vogliono essere della partita, non di meno. E non di più.

Il Paese ha capito. Il Parlamento ha bocciato, sapendo esattamente quello che stava facendo. Ci sono buoni motivi per sospettare che la partita non è persa. Anzi. Semmai si gioca altrove.

L’Unità 11.03.14

"Parte il nuovo Fondo di garanzia per le Pmi", di Giulia Pilla

Il credit crunch è uno delle conseguenze peggiori della crisi, se non altro per l’effetto domino che suscita nelle vita di un’impresa. Una risposta viene dal Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese che da oggi inizia una nuova fase dopo le novità e il potenziamento deciso con il cosiddetto «decreto del fare». Sono stati in- fatti ampliati e semplificati i criteri per accedervi, ampliata anche la platea e alzato il tetto massimo di copertura del debito garantito dallo Stato che può salire fino all’80%. L’obiettivo è sostenere circa centomila pmi.

ADDIO ALLA CARTA

Questa mattina apriranno gli sportelli telematici attraverso i quali poter presentare le domande. Tra le novità c’è infatti quella del superamento della carta: il portale di riferimento www. fondidigaranzia.it resta lo stesso, del tutto nuova invece la piattaforma online per la presentazione e la gestione delle operazioni che consentirà la «de- materializzazione» dei relativi documenti e permetterà di monitorare in tempo reale lo stato delle richieste. Tutte le comunicazioni da e verso il Fondo dovranno essere inviate esclusivamente tramite il nuovo portale o la posta elettronica certificata. Fin qui il metodo. Le novità più importanti riguardano però i criteri: potranno accedere alle garanzie anche alle imprese con bilanci peggiorati per effetto della crisi. Inoltre potranno accedere – ed è la prima volta – i professionisti iscritti agli ordini professionali. Quanto alle percentuali di copertura del Fondo, potranno salire in alcuni casi da un massimo del 70 all’80%.

Non si tratta dell’unica iniziativa messe in campo per sostenere un tessuto produttivo estremamente esposto alla recessione. Spesso accusate di tenere stretti i cordoni della borsa con- cedendo credito solo a chi può offrire garanzie (e quindi non è in difficoltà), le banche si difendono precisando che dal 2009 a oggi sono oltre 400mila le piccole e medie imprese hanno beneficiato delle iniziative messe in campo dagli istituti di credito coordinati dall’Abi. Si tratta – viene spiegato – di uno «sforzo enorme in un momento in cui l’economia italiana ha conosciuto una fase di recessione-stagnazione tra le più profonde e persistenti di quelle registrate negli annali delle statistiche economiche del dopoguerra», riferisce l’associazione delle banche.

«Ciò – prosegue l’Abi – con il risultato della perdita di 9 punti percentuali di Pil, di circa 27 punti di investimenti fissi lordi e di quasi un quarto della produzione industriale – oltre che di una flessione rilevantissima del reddito disponibile delle famiglie e quindi dei consumi». In questo scenario si sono inserite le iniziative che l’Abi ha raccolto in un documento che porterà all’attenzione del governo.

L’azione di intervento si è sviluppata in quattro fasi: dal dare respiro finanziario alle imprese in difficoltà, all’individuazione di imprese sane e con prospettive di crescita, finalizzate al riequilibrio della struttura finanzia- ria per finire col garantire risorse finanziarie alle Pmi che, pur registrando tensioni sul fronte della liquidità, presentavano comunque prospettive economiche positive.

OLTRE 10MILA FALLIMENTI

Iniziative che hanno solo potuto frenare quella che ormai è una vera e propria moria. Gli ultimi dati (purtroppo negativi) sono stati forniti dalla relazione del Garante delle pmi, Giuseppe Tripoli di recente presentata al Par- lamento. Il saldo tra iscrizioni e cessazioni è stato il peggiore degli ultimi anni: oltre 10mila i fallimenti negli ulti- mi 12 mesi, «livello mai raggiunto nel decennio precedente». Nel 2013, a fronte di 1.053 imprese nate al giorno, 1.018 hanno chiuso. E il credit crunch è tra le cause prevalenti il Garante stima, in proposito, costi superiori del 160 % rispetto a una piccola o media impresa concorrente tedesca o francese.

L’Unità 10.03.14

"L’identikit dell’evasore nell’indagine Bankitalia", di Marco Ventimiglia

In Italia la letteratura sull’evasione fiscale è sterminata, così come, ahinoi, le dimensioni del fenomeno. Ciò non toglie che la conoscenza di un reato così penalizzante per l’intero Paese vada continuamente aggiornata. È quello che fa da tempo Bankitalia che ha da poco diffuso le sue ultime rilevazioni al riguardo. E fra i vari dati, che emergono dalle tavole presentate dai responsabili di Via Nazionale nel corso di un’audizione in Senato, a colpire l’attenzione c’è una sorta di identikit dell’evasore tipo nel nostro Paese: di sesso maschile, con età inferiore ai 44 anni, risiede nel Centro Italia e generalmente vive di rendita o è un lavoratore autonomo/imprenditore; ed ancora, non manca il calcolo del maltolto, che indica in 2.093 euro la somma mediamente sottratta al Fisco.

Confrontando i dati dell’indagine di Bankitalia con quelli della Sogei, la società del ministero dell’Economia a cui è affidata la gestione del sistema informativo dell’Anagrafe tributaria, emergono altri dati interessanti. In particolare, viene rilevato che la pro- pensione a evadere l’Irpef in Italia è al 13,5%. La percentuale si ottiene raffrontando il reddito netto pro capite registrato dalla Banca d’Italia (15.440 euro) con il reddito netto pro capite indicato da Sogei (13.356 euro), lo stesso raffronto che porta a quantificare il menzionato imponibile sottratto all’Erario, poco oltre i duemila euro. I più inclini a evadere (83,7%) sono i cosiddetti rentier, cioè coloro che vivono di rendita, che sottraggono al fisco ben 17.824 euro. Infatti, secondo Via Nazionale il loro reddito netto pro capite è di 21.286 euro, mentre secondo il sistema informativo dell’Anagrafe tributa- ria questa cifra «crolla» a 3.462 euro. In questa poco edificante classifica figurano poi lavoratori autonomi e imprenditori (con una propensione al 56,3%) che «evadono» 15.222 euro (secondo Bankitalia il reddito netto pro capite è di 27.020 euro e secondo So- gei di 11.798 euro). Seguono i lavoratori autonomi con lavoro dipendente o con pensione (propensione al 44,6%), che in media non dichiarano al Fisco 16.373 euro (36.745 euro reddito registrato da Bankitalia contro 20.372 euro rilevato da Sogei).

Naturalmente, leggendola in ordine inverso, dalla classifica emergono invece le categorie di cittadini più meritevoli, anche se spesso si tratta di persone che più semplicemente sono oggetto di trattenute fiscali da parte del datore di lavoro o dello Stato. E così, emerge che i meno propensi a evadere sono i lavoratori dipendenti (-1,6%), i pensionati (-0,6%) e i pensionati con lavoro dipendente (-7,7%). Per quanto riguarda, invece, l’evasione Irap e Iva, secondo le rilevazioni della Corte dei Conti citate dalla Banca d’Italia, nella media del triennio 2007-2009 il gettito evaso dell’Irap è stato pari al 19,4% di quello potenziale è si è concentrato nel setto- re dei servizi; escludendo la pubblica amministrazione tale valore sale al 21,6%. Ragionando in termini geografi- ci, per questo tributo la propensione a evadere risulta più elevata al Sud (29,4%), seguono il Centro (21,4%) e il Settentrione (14,7%). Per quanto attiene l’Iva, secondo le stime dell’Agenzia delle Entrate la differenza tra il gettito effettivo e quello potenziale, ha com- portato nel 2011 ad un gettito evaso di circa il 28%. E come per l’Irap, la propensione a evadere si manifesta maggiore nel Mezzogiorno.

La stessa Bankitalia ha sottolineato che «per contrastare l’evasione fiscale in maniera più efficace serve una maggiore tracciabilità delle operazioni economiche, accompagnata da una riduzione degli oneri amministrativi per i contribuenti». In particolare, «aumentare la tracciabilità in tempo reale delle operazioni economiche può favorire una parallela riduzione degli oneri di segnalazione a fini specifici». Nel corso dell’audizione al Senato, Salvatore Chiri, capo del servizio Assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia, e Paolo Sestito, capo del servizio di Struttura economica, hanno affermato che «un’azione più efficace di contrasto non può venire da un aumento degli oneri amministrativi per i contribuenti. Quest’ultimi sono già molto elevati e la loro presenza spesso finisce col favorire le attività sommerse e le organizzazioni produttive informali. Occorre invece mirare a una semplificazione degli adempimenti e a una riduzione dei costi».

L’Unità 10.03.14

Quei meriti poco scientifici", di Giandomenico Iannetti e Paolo Quattrone*

Caro direttore, vengono pubblicati in questi giorni i risultati delle abilitazioni per ricoprire il ruolo di professore nell’università italiana. L’idea è rivoluzionaria: garantire una soglia di qualità minima per l’accesso alla carriera accademica. Si tratta di un corretto tentativo di modificare la deplorevole abitudine di selezionare docenti secondo criteri di appartenenza, basati non su meriti scientifici, ma su meriti altri. È difficile non sospettare che, in alcuni casi, l’uso di metodi in apparenza oggettivi possa costituire un mezzo per garantire, al riparo di una pretesa imparzialità, la persistenza di inveterate prassi clientelari. Decisioni basate su criteri di appartenenza altri saranno legittimate da esteriormente oggettive misure di merito. E un’università dominata da mediocri chiamerà mediocri, se non altro per incapacità di riconoscere l’eccellenza. Che l’accademia funzioni per cooptazione è del tutto appropriato in un ambiente corretto e dal forte controllo sociale. In Italia, l’anomalia è la definizione del criterio di appartenenza, dove il merito scientifico è secondario rispetto a quello altro, e l’impermeabilità del sistema a chi non appartiene a una scuola. Se nel Regno Unito un docente meritevole, per ragioni di esclusiva politica accademica, non dovesse essere selezionato in una certa università, ne troverà altre disponibili ad accoglierlo. In Italia le speranze di ottenere un posto al di fuori della sede controllata dalla propria scuola sono minime. Il risultato è sotto i nostri occhi: un’università la cui competitività internazionale è in caduta libera, con eccellenze isolate, senza capacità di attrarre talenti. I ricercatori all’estero non accettano proposte di rientro. Le recenti statistiche sui vincitori dei generosi consolidator grants dell’Erc sono eloquenti. Gli italiani, con 46 progetti finanziati, seguono i tedeschi (48) e precedono francesi (33) e inglesi (31), risultato notevole che conferma il valore dei nostri ricercatori. Tuttavia, gli italiani sono di gran lunga i più numerosi nel decidere di usare il proprio finanziamento all’estero. Le soluzioni a questi problemi sono ovvie, ma si scontrano con interessi consolidati. Non esiste, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, un’abilitazione nazionale. Le migliori università del mondo non usano criteri quantitativi per assegnare una cattedra. Perché dovrebbe Oxford applicare criteri imposti dall’alto per selezionare i suoi docenti? Tuttavia, queste università sono soggette, con modalità diverse, ad una severissima valutazione ex postdella loro attività di ricerca, soprattutto a livello internazionale. Il valore della ricerca prodotta e la loro reputazione gli permettono di attrarre studenti, finanziamenti e donazioni. La crisi finanziaria ha mostrato che regole, incentivi e finti meccanismi di mercato falliscono. Anche in ambito accademico basterebbe soltanto che ciascuno facesse il proprio lavoro, seriamente e con coscienza della sua ricaduta sociale. Un’utopia, secondo il funzionario della Banca d’Italia che nel film Un eroe borghese dice a Giorgio Ambrosoli che ha ormai capito di essere stato lasciato solo: «Lei ha fatto un lavoro ineccepibile, e questo non glielo perdonerà mai nessuno». In Italia fare il proprio dovere è un peccato mortale.

*Iannetti è docente di Human neuroscience presso University College London, Quattrone è titolare della cattedra di Accounting, governance and social innovation presso l’Università di Edimburgo

da repubblica.it

"Sanità, 1.260 Giorni per una Fattura", di Luigi Offeddu

Raccontata qui a Bruxelles, è una storia che mette un po’ i brividi. Ma è vera, racchiusa in alcuni fogli e tabelle, e sta ora sulle scrivanie della Commissione europea. In questi fogli si parla di sanità: di pace-maker, defibrillatori, valvole cardiache, protesi vascolari, ecotomografi, bisturi e mille altri dispositivi medici che possono salvare una vita. In Italia, in un giorno qualsiasi, un’Asl – Azienda sanitaria locale- può richiederne un’intera fornitura alla ditta o alle ditte private che producono questi materiali: consegna d’urgenza. Le norme Ue dicono che la fattura va pagata in 60 giorni al massimo. Ma se quella Asl è, mettiamo, la «Mater Domini» di Catanzaro, per pagare il suo debito impiegherà in media circa 3 anni e mezzo, per l’esattezza 1.337 giorni (calcolo aggiornato al dicembre 2013); o un po’ di meno, 3 anni e 4 mesi (1.260 giorni), se si aggiorna il calcolo a questi ultimi giorni, nel 2014.
In Italia, solo 5 Asl rispettano i termini dei 60 giorni: Asl Provincia di Pavia (48 giorni), AsL 4 Medio Friuli (56), Asl Città di Milano (59) I.R.C.C.S. Burlo Garofalo di Trieste (60); Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento (61). Le maglie nere spettano invece alla già citata Mater Domini di Catanzaro (3 anni e 4 mesi), all’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza (3 anni e 2 mesi, 1.177 giorni), all’Asl Napoli 1 Centro (2 anni e 9 mesi, 1.086 giorni), all’Azienda sanitaria regionale Campobasso (2 anni e 5 mesi, 916 giorni), e all’Azienda provinciale di Reggio Calabria (2 anni e 4 mesi, 905 giorni). In Regioni come la Calabria, il tempo medio di pagamento dei dispositivi medici è di 833 giorni (con uno scoperto di 384,7 milioni), e in Campania di 440 (con uno scoperto di oltre 562 milioni). In Austria, da un’ingiunzione di pagamento al pagamento effettivo di una fattura sanitaria passano in media 80-90 giorni; in Francia, 240-360; in Germania, 140-160; e in Italia, 410-460. Inutile aggiungere che due, tre anni di ritardo nei pagamenti per un piccolo-medio fornitore possono significare una forma di eutanasia finanziaria.
Le malinconiche cifre sulla parsimonia delle nostre Asl sono state raccolte dall’Osservatorio Crediti del Centro studi Assobiomedica, e sono poi finite a Bruxelles, nel dossier della Commissione europea sui ritardi dei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione italiana affidato al vicepresidente della Commissione e commissario Ue all’Industria Antonio Tajani. Non rappresentano tutto il buco della sanità, né certo tutti i debiti pregressi dello Stato verso le aziende private. Secondo una ricerca svolta dalla Banca d’Italia a fine 2011 su imprese industriali, imprese dei servizi privati non finanziari, e delle costruzioni, il totale del debito pubblico nei loro confronti ammontava allora a 90 miliardi di euro (5,8% del Pil), ed era per metà riconducibile alle Regioni e alle Asl: in questo scorcio di 2014 si parla di 75-80 miliardi, con le «sofferenze» maggiori sopportate sempre dal settore delle costruzioni.
Oggi, 10 marzo, tutte queste cifre torneranno in ballo, poiché questo è l’ultimo termine fissato dalla Commissione europea per il recapito della «lettera di giustificazioni» spedita dall’Italia. La posta in bilancio è (sarebbe) una nuova procedura di infrazione Ue. Pochi giorni fa, Roma ha scritto alla Commissione chiedendo una proroga di un mese nell’invio della lettera: proroga negata. Ieri sera, però, come riferito in un altro articolo, il governo ha spedito la missiva per Bruxelles.
Questo dovrebbe ristabilizzare se non altro i rapporti generali fra Roma e la Commissione. Ma è facile prevedere che il problema dei debiti pregressi continuerà ancora ad avvelenare i rapporti Ue-Italia. Anche perché, più che una questione di statistica, sembra ormai divenuto un fatto di costume, che a Bruxelles viene purtroppo percepito come una nostra tradizione nazionale. E non si tratta unicamente della «solita» Calabria. Il Lazio, 280 giorni in media di ritardi, ha uno «scoperto» nei pagamenti ai fornitori sanitari di oltre 482 milioni di euro. E perfino il Piemonte, con 232 giorni e uno scoperto di quasi 341 milioni, arranca: Nord e Sud uniti nell’insolvenza.

Il Corriere della sera 10.03.14

"10 milioni di poveri. Altrettanti possono diventarlo", di Carlo Buttaroni

Dieci milioni di poveri. Altrettanti che vivono una situazione finanziaria che li porta ogni giorno a cercare di restare disperatamente aggrappati al ciglio di un piano inclinato che li spinge sempre più verso il baratro. È l’esercito dei disperati, di cui fanno parte, fra effettivi e riservisti, quasi 20 milioni di italiani. Un terzo della popolazione alle prese con debiti cui non riesce a far fronte, bollette da pagare e una quotidianità che ha alleggerito di molto il carrello della spesa. Dall’inizio della crisi, gli italiani diventati poveri sono più di 2 milioni, due terzi dei quali lo sono diventati negli ultimi due anni grazie alle politiche «lacrime e sangue». Non è difficile capire chi abbia versato sia le lacrime che il sangue, visto che i numeri sono spietati: il 10 per cento di quello che fu il nostro ceto medio, fatto di dirigenti, famiglie di impiegati con doppio reddito, commercianti e piccoli imprenditori, è scivolato verso la povertà. Poveri e «quasi poveri» che un tempo costituivano le fasce muscolari di un Paese che improvvisamente si è scoperto debole, ripiegato su stesso, indifeso contro quella che si sta rivelando la più terribile tra le epidemie del nostro tempo: la povertà.

D’altronde, diventare poveri è facile: basta una malattia improvvisa, la perdita del lavoro, un investimento andato male e in un attimo ci si sveglia in un incubo, soli, senza alcuna strada che permetta di uscire dalla disperazione. O che possa alleviare la sensazione di sentirsi soffocati e oppressi. Una sensazione che avvolge e svuota l’anima di quello spirito che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi: la speranza. Senza alcuna attesa di riscatto e di ritorno a una vita dignitosa, perché la povertà non è una condanna a termine, ma spesso è «per sempre». Nessun condono, nessuna ultima chiamata. Solo l’assoluta certezza che nessuno aiuterà a rialzarsi da terra chi ha perso il lavoro, chi ha abbassato la serranda del negozio per l’ultima volta, chi ha visto mettere la propria casa all’asta. Non certo le istituzioni, viste ormai come un nemico che si accanisce e che, di volta in volta, assume le sembianze di una cartella esattoriale, di un ufficiale giudiziario, di un ispettore di un qualche ufficio pubblico. Non le banche, supine con i forti e spietate con i deboli, perché c’è sempre qualche occhio da chiudere con il potente di turno, ma una norma inflessibile da rispettare quando c’è da prorogare un prestito a un pensionato o a un piccolo imprenditore in difficoltà. Dalla parte dei deboli e degli ultimi c’è solo il conforto di associazioni che fanno del loro meglio per offrire un piatto caldo e qualche volta un tetto per un «breve periodo di tempo», provvisorio come la vita di chi prima aveva molto e ora non ha più nulla.

Fa impressione vedere alle mense della Caritas persone provenienti da classi sociali assai diverse, che mai forse si sono incontrate e mai si sarebbero trovate insieme se la crisi di cui sono vittime non le avesse costrette a condividere, oggi, la stessa condizione di degradazione personale e sociale. Stupisce che la protesta dignitosa che ogni tanto squarcia gli andamenti dei mercati finanziari e dello spread, sia prevalentemente formata da chi, solo fino a qualche anno fa, poteva vantare stili di vita e livelli di benessere superiori alla media, e che oggi si trova alle prese con strategie di sopravvivenza quotidiana. Persino la tradizionale corrispondenza tra collocazione sociale e comportamento politico non ha più il senso che aveva fino a prima della crisi. Un tempo bastava conoscere il mestiere che uno svolgeva per capire quale partito avrebbe votato. Oggi aggrega soprattutto l’insicurezza, la rabbia, il rancore, insieme a un sentimento di dilagante ineluttabilità che riguarda anche quanti hanno
fortuna di avere un lavoro: se va bene l’attesa è di limitare i danni con un taglio al potere d’acquisto, ma se va male, il posto di lavoro non ci sarà più. Uno sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di un ulteriore generale decadimento economico del Paese.

La crisi che ha colpito l’Italia – come spiega Bonomi nel suo ultimo libro “Il capitalismo in-finito” – ha causato la «desertificazione» di intere aree produttive improntate al fordismo e al post-fordismo. Non a caso, le proteste più imponenti, negli ultimi mesi, sono esplose dove sono terminati lunghi cicli economici positivi: in Piemonte e Liguria, due regioni un tempo autenticamente fordiste e nel Nordest con le sue micro-imprese ormai al collasso. E dopo anni d’impoverimento non può sorprendere che esploda la rabbia tra i piccoli imprenditori di quel capitalismo molecolare nato dopo gli anni Settanta, tra i commercianti, tra gli impiegati, tra gli insegnanti. Una piccola borghesia stressata dal fisco e impoverita dalla crisi, che è difficile trovare alle porte dei sindacati o delle associazioni di categoria, ma che è facile intercettare alla mensa della Caritas. Un luogo dove naturalmente arrivano disoccupati e cassintegrati, ma anche appartenenti alla classe dei «non più»: non più negozianti, non più impiegati, non più piccoli imprenditori. Negli ultimi 5 anni, enormi ricchezze sono scomparse dai radar dell’economia reale e dalle disponibilità del ceto medio produttivo. Oltre 2mila miliardi di euro che hanno preso la strada dell’economia sommersa e illegale, della finanza e dei paradisi fiscali.

Nonostante tanti provino a uscire dalla palude e a inventarsi cose nuove, il declino continua e pare inarrestabile. Anche perché paghiamo il prezzo di una classe politica inadeguata e di una classe dirigente ancor più mediocre, emanazione diretta della prima. Una classe dirigente che gestisce i centri di potere (banche, società pubbliche e partecipate, ministeri, regioni), preoccupata, innanzitutto, di salvaguardare le rendite di posizione. E che usa «annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi» (Censis), pur avendo dimostrato di esse- re del tutto incapace di dare una spinta propulsiva per uscire dal deterioramento economico, scientifico, culturale, sociale.
Ora più che mai c’è bisogno di una politica che metta in agenda la soluzione a questi problemi, perché il tempo è scaduto e non è possibile occuparsi dell’economia del «non ancora» senza risolvere prima, concretamente, il problema di chi «non è più».

L’Unità 10.03.14

"Ma io insisto: ridurre l’Irpef", di Nicola Cacace

La possibilità di dare un sollievo ai milioni di cittadini alla base della piramide dei redditi, oppressi da una diseguaglianza eticamente indecente ed economicamente sbagliata, rischia di impantanarsi nel solito balletto italico: contentare tutti, senza risolvere nulla. Dopo anni di disoccupazione crescente, di consumi anche alimentari calanti malgrado l’aumento della popolazione (i consumi pro capite si sono ridotti molto di più), di milioni di operai, impiegati pensionati, lavoratori non dipendenti che non arrivano a fine mese, un provvedimento di taglio dell’Irpef per i redditi bassi (ma tutti i redditti bassi) sarebbe da privilegiare rispetto ad altre soluzioni in ballo come quella di tagliare «anche» l’Irap alle aziende. Quest’ultima ipotesi, infatti, sarebbe inutile e e ingiusta, perchè «dividere il pollo a metà» (un piccolo pollo, tra l’altro) non avrebbe quell’effetto shock sulla crisi che tutti dicono necessario e perché la crisi ha inciso sui salari e sui guadagni dei meno privilegiati più che sugli utili delle imprese medie e grandi.

La ferita inferta dalla crisi alle masse è così grave che non servono pannicelli caldi, né «mezzi polli»: serve una medicina seria. Eppure, dopo l’annuncio di Renzi di scegliere la soluzione dello sgravio Irpef ai redditi bassi, sono cominciati i distinguo di giornali più o meno schierati, di qualche ministro e di molti industriali. Distinguo legittimi ma ingiustificati. Molte piccole imprese, troppe, sono fallite dall’inizio della crisi per il calo della domanda interna, mentre le imprese medie e grandi, pur soffrendo, non se la sono passata peggio di lavoratori, artigiani, professionisti e piccole imprese, almeno giudicare dall’andamento non malvagio degli utili degli ultimi 20 anni, cui ha corrisposto una sorta di «sciopero degli investimenti» che da anni hanno segno negativo, compresi quelli in macchine e impianti. Enrico Letta aveva preparato un provvedimento, Destinazione Italia, per invogliare gli stranieri a investire da noi, ma avrebbe dovuto indirizzarlo anche agli industriali italiani! Da molti anni gli «Ide», gli investimenti diretti esteri, fatti dai nostri industriali all’estero sono quasi quattro volte superiori a quelli fatti dagli stranieri in Italia. «Gli investimenti esteri? Vanno promossi ma insieme a quelli nazionali. Le imprese italiane hanno circa 70 miliardi di euro attualmente impiegati in strumenti di liquidità. Basterebbe usare quelli per recuperare gran parte degli investimenti perduti negli ultimi anni». Chi parla non è Maurizio Landini, ma Vittorio Terzi, numero uno per l’Italia di McKinsey, che ha diretto la ricerca «Investire nella crescita, idee per rilanciare l’Italia». A Giorgio Squinzi, che chiedeva al premier Letta di presentarsi al congresso di Confindustria «con la bisaccia piena di doni», mi permetto di dire: «Caro presidente, ci dia pure lei qualche buona notizia, qualcosa che gli industriali possono fare per aiutare l’Italia». Gli industriali, al momento, chiedono lo sconto sull’Irap, una tassa ingiusta che speriamo possa essere corretta, magari già dalla prossima riforma fiscale. Ma è giusto disperdere oggi il capitale che si è trovato (speriamo) per dare pochi euro agli industriali invece che 100 euro a chi più ne ha bisogno? Personalmente credo di no.

L’Unità 10.03.14