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"Salviamo i soprintendenti", di Andrea Carandini

Caro direttore, le Soprintendenze fanno discutere, sono ottocentesche, a volte fanno perdere la pazienza; ma non vanno abolite, anzi vanno rafforzate (semmai a danno della burocrazia centrale del Ministero), sostenute e ammodernate. A volte fanno perdere la pazienza agli speculatori, e allora fanno bene. Altre volte fanno male, come quando hanno autorizzato un bruttissimo Museo della Città a Palazzo Pepoli a Bologna( nessuno ha fiatato!) o dicono dei no che solo un certo fondamentalismo giustifica, che non risolvono i problemi della Domus Aurea e di Pompei.
Delle Soprintendenze è lecito discutere, si può anche criticarle, perché i suoi funzionari, che sono i soldati della tutela e che vanno rispettati e ascoltati, non sono sacrosanti come i tribuni della plebe e sovente fanno qualche errore. Ma lo Stato non può assolutamente privarsene, per ragioni costituzionali, visto che la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale è uno dei principi primi sui quali si basa la nostra Repubblica. Alcuni funzionari hanno una mentalità invecchiata, fanno ogni sorta di difficoltà, servono più le loro idee che i bisogni della società, sono rivolti alla conservazione, ma curano poco gestione, comunicazione e libertà della ricerca. È anche vero, però, che non hanno mezzi adeguati per agire e sovente fanno grandissimi sacrifici, sono mal pagati e molti sono passati alle Università, dove si sta forse un po’ meglio e si hanno meno doveri. Il loro compito è tartassato ogni giorno da complicazioni amministrative infinite, che seguono a fatica in labirinti normativi e quando sono giunti sfiniti alla meta, devono spesso ricominciare da capo perché le norme nel frattempo sono mutate.
Le Soprintendenze vanno innanzitutto ringiovanite, quasi tutti i funzionari stanno per andare in pensione. Ma al giorno d’oggi servono non soltanto specialisti nei vari campi (archeologia, storia dell’arte, antropologia, architettura, archivi, biblioteche, ecc.), bensì professionisti che sappiano anche collaborare in gruppi di lavoro, che sappiano comunicare chiaramente con il pubblico, che sappiano risolvere problemi, che abbiano competenze gestionali e informatiche, cioè che siano anche dei manager interessati all’innovazione. Il problema è che nessun governo elabora una strategia per il futuro del ministero per i beni culturali, che ora si trova in un disastro, dopo una serie di ministri che non hanno dato buona prova. Il difficile è essere creativi e innovare senza ricominciare ogni volta da capo, e soprattutto senza buttar via una tradizione gloriosa. Invece l’Italia è piena di talenti sfasciacarrozze, di radicali e ultraconservatori, che nulla muoverebbero, per cui continuiamo come rane a gracchiare nella palude. E invece bisogna agire, con fermezza avendo chiare missione e strategia.
Presidente Fai (Fondo Ambiente Italiano)

Concordo in pieno. Non ho mai pensato che le Soprintendenze debbano essere abolite. Ma piuttosto riformate e rinnovate per valorizzare ulteriormente il nostro patrimonio storico e artistico. (giovanni Valentini)

La Repubblica 10.03.14

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“Tutti i no delle soprintendenze che ostacolano i tesori d’Italia”, di GIOVANNI VALENTINI

Ma non c’è praticamente comune, provincia o regione d’Italia in cui qualche soprintendente non abbia impedito o quantomeno ritardato per anni la realizzazione di una piccola o grande opera, la ristrutturazione di un edificio storico, il restauro di un monumento o di un altro bene artistico e culturale.
È la paralisi della conservazione. Il blocco preventivo, la cautela della tutela. Con le migliori intenzioni contenute nei “pareri” e nelle “prescrizioni”, a volte per prudenza e a volte per paura di complicazioni giudiziarie, la burocrazia delle soprintendenze artistiche e archeologiche imbriglia il recupero e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, contribuendo così a congelare la modernizzazione; a paralizzare l’assetto urbanistico delle città; a bloccare anche i progetti più innovativi e rispettosi dell’ambiente o del paesaggio. E insomma a «incatenare» il Belpaese, per dirla con Matteo Renzi: l’inventario è smisurato e converrà magari approfondirlo anche con il contributo delle segnalazioni dei lettori.
Da sindaco di Firenze, città d’arte e cultura per antonomasia, il presidente del Consiglio s’è scontrato personalmente più volte con questa situazione. Prima la decisione di affittare Ponte Vecchio alla Ferrari per un party; poi la vendita del Circolo del Tennis delle Cascine alla società che lo gestisce, entrambe contestate dalla Soprintendenza; fino al progetto di recupero della Manifattura dei Tabacchi con le due torri da 45 metri: «Spieghino perché dire no a quello e dire sì al Palagiustizia di 74 metri!», sbottò allora l’ex sindaco. E dai tavolini all’aperto in piazza del Battistero, il contenzioso artisticoculturale è arrivato addirittura nel suo ufficio, a Palazzo Vecchio, intorno al dipinto murale
La battaglia di Anghiari di Leonardo nel Salone dei Cinquecento, su cui Renzi avrebbe voluto far eseguire alcuni sondaggi tecnici. «Le soprintendenze – ha detto allora il neopresidente del Consiglio – sono un potere monocratico che non risponde a nessuno, ma passa sopra a chi è eletto dai cittadini».
Appena nominato segretario del Pd, l’ex rottamatore ha avocato a sé il ruolo di responsabile della Cultura e ha rilanciato subito il suo cavallo di battaglia: «Abbiamo la cultura in mano a una struttura ottocentesca, non può più basarsi sul sistema delle soprintendenze ». La questione non è priva naturalmente di un riflesso economico.
Artribune, rivista di arte e cultura contemporanea, valuta addirittura nell’1,5 per cento del Pil il vantaggio che si potrebbe ricavare da una gestione più aperta e moderna del nostro patrimonio.
Troppo spesso, in realtà, le soprintendenze diventano fattori di conservazione e protezionismo in senso stretto: cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo e dell’economia. Oppure, in qualche caso, anche centri di potere personale. La Penisola è piena purtroppo di sfregi alla sua bellezza, al suo patrimonio e al suo paesaggio; ma anche di opere bloccate o incompiute, a causa di ritardi, pastoie e lungaggini burocratiche.
Il fatto è che, come spiega chi conosce bene i meandri del ministero dei Beni culturali, si tratta di una categoria di funzionari dello Stato fortemente politicizzata, composta generalmente da persone anziane, a fine carriera e quindi demotivate. Una struttura capillare, articolata su base provinciale in tutto il territorio nazionale, come le prefetture. Equiparati a ufficiali di Pubblica sicurezza, nell’esercizio delle loro funzioni i soprintendenti possono anche denunciare i presunti trasgressori sul piano penale.
Oltre ai 24 dirigenti di prima fascia, suddivisi in 12 direttori regionali periferici e 12 addetti al ministero (guadagnano circa 6.000 euro al mese), i Soprintendenti sono in totale 157 dirigenti di seconda fascia e hanno uno stipendio tra i 3.000 e i 4.000 euro mensili: 28 amministrativi, 17 archeologi, 38 architetti, 31 archivisti, 18 bibliotecari, 25 storici dell’arte. Sotto di loro, troviamo poi i funzionari (1.500-1.800 euro al mese) che esprimono i loro pareri sui vari progetti e di fatto esercitano un potere di veto, bloccando i lavori che a loro giudizio possono compromettere la tutela dei beni artistici o del paesaggio.
Non manca, tuttavia, qualche esempio di best practice.
Proprio per rendere più snello e trasparente il processo delle autorizzazioni, la Regione Puglia – la prima a dotarsi di un Piano paesaggistico regionale, dopo quello della Sardegna che però era limitato alle coste – ha messo in rete un Sistema informatico integrato e condiviso (Sit Puglia.con). È un vanto dell’Assessore al Territorio Angela Barbanente, vice-presidente della Giunta di Nichi Vendola. Dal 2011, le amministrazioni comunali si registrano sul sito e caricano le informazioni principali sui vari progetti e le varie proposte, comprese le particelle catastali: qualsiasi cittadino può accedere a questa banca dati, controllare lo stato di avanzamento di una pratica e, in forza della trasparenza, confrontare i pareri e le autorizzazioni per verificare eventuali disparità di trattamento. Ma tutto ciò non è stato ancora sufficiente per sbloccare una serie di progetti turistici, tra cui quello per la ristrutturazione della vecchia Colonia marina costruita 70 anni fa dal fascismo a Santa Maria di Leuca o quello per il nuovo porto di Otranto.
Toccherà ora al nuovo ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, affrontare il nodo delle soprintendenze. Quando prese il posto di Walter Veltroni alla guida del Pd come “reggente”, Renzi lo definì ironicamente «il vice-disastro ». Ma oggi, a cominciare dal sito di Pompei sottoposto alla stessa Soprintendenza archeologica di Ercolano e Stabia, è proprio a lui che viene affidato il compito di fermare il disastro artistico e culturale del Paese per riscoprire e valorizzare la nostra Grande Bellezza.

La Repubblica 09.03.14

"Per uscire dalla crisi ridisegniamo la scuola", di Benedetto Vertecchi

Alla base della crescita dei sistemi educativi c’è l’attesa del beneficio che può derivarne ai singoli e alle società nazionali. Può trattarsi di un beneficio morale (com’è stato per la promozione dell’alfabetismo conseguente alla riforma religiosa di Lutero), di carattere materiale (come risposta funzionale al bisogno di disporre di forza lavoro qualificata nelle società in fase di trasformazione produttiva) o, in molti casi, diun misto di benefici morali e materiali, com’è avvenuto in Italia dopo il raggiungimento dell’unità nazionale. Quel che è certo è che, se chi fruisce di educazione non collega al suo impegno qualche tipo di beneficio, non tarda a manifestarsi una caduta di motivazione, che finisce con lo sfociare in uno stato di crisi. Il malessere che attraversa la maggior parte dei sistemi educativi dei Paesi europei (o, comunque di cultura europea, anche se in altre aree geografiche) è in larga misura una conseguenza dell’esaurirsi delle dinamiche che avevano consentito l’espansione, non sostituite da altri fattori motivanti ugualmente carichi di implicazioni per le condizioni di esistenza individuali e per quelle sociali. Di fronte all’incalzare di segnali della difficoltà in cui si sono venuti a trovare i sistemi educativi, ci si è per lo più accontentati di rilevare i sintomi del malessere, senza chiedersi quali ne fossero le ragioni. Sono state accolte interpretazioni della crisi centrate sulla relazione lineare che si è stati in grado di stabilire tra un numero modesto di variabili. Ne è derivato che a bassi livelli di apprendimento da parte degli allievi (variabili dipendenti) si siano fatti corrispondere valori inadeguati di variabili indipendenti,come il corredo professionale degli insegnanti, l’organizzazione delle scuole o il tipo di dotazioni disponibili per la didattica. In altre parole, si è affermato un meccanicismo interpretativo poco disponibile a considerare i fattori di sistema della crisi educativa, che si è preteso di affrontare sulla base di logiche produttivistiche di derivazione aziendale. Ciò non significa negare che anche aspetti critici come quelli menzionati, relativi al personale, all’organizzazione delle scuole e alle dotazioni didattiche, concorrano a complicare il quadro del sistema educativo, ma che se gli interventi si limitassero a introdurre modifiche settoriali potremmo avere effetti contingenti di miglioramento, che però non consentirebbero di uscire dalla crisi. Nelle attuali condizioni di crisi non si può continuare a intervenire sull’educazione scolastica come si sarebbe fatto in periodi di crescita del sistema. Né ha senso continuare a porre l’enfasi sui risultati delle comparazioni internazionali, quando da un lato, in Italia, abbiamo un servizio asfittico, assicurato da insegnanti mortificati nel loro profilo di intellettuali e professionisti, e dall’altro sistemi nei quali le scuole non sono più solo strutture per la trasmissione di una cultura sistematica, ma istituzioni capaci di orientare e sostenere nell’arco della giornata una parte consistente dell’attività di bambini e ragazzi. In altre parole, per uscire dalla crisi occorre ricollocare la funzione della scuola nella società, prendere atto dei cambiamenti intervenuti nella composizione delle famiglie, porsi il problema di assicurare un’educazione che possa fungere da riferimento nell’età adulta, costituire condizioni favorevoli ai successivi adattamenti che comporterà la partecipazione alla vita sociale negli almeno sei decenni tre in più nel corso di un secolo che al momento costituiscono la durata della speranza di vita successiva al paio di decenni dell’adattamento iniziale. Nel ripensare l’attività delle scuole sarà necessario un cambiamento drastico dei criteri valutativi. Il limite di gran parte delle prese di posizione, dall’interno e dall’esterno del sistema educativo, che si sono avute negli ultimi mesi è consistito nel considerare il problema da un punto di vista tutto interno alle scuole. Alla base degli orientamenti espressi c’era l’dea che l’attività delle scuole, e quindi i risultati conseguiti dagli allievi, potesse essere considerata prescindendo da ciò che accade intorno alle scuole, determinando il complesso delle interazioni che ha conseguenze sul profilo cognitivo, affettivo e di relazione degli allievi. Qualcosa del genere poteva affermarsi fino a qualche decennio fa, ma ha sempre meno senso nelle condizioni attuali di vita, soprattutto in Italia dove, per i limiti già rilevati del servizio assicurato dalle scuole, i risultati dell’educazione scolastica appaiono sempre più dipendenti dal condizionamento sociale. La scuola si trova a contrastare sia l’azione delle famiglie, sia quella di fonti di conoscenza e di trasmissione valoriale che non sempre sembrano convergere sui medesimi obiettivi. I messaggi che gli allievi ricevono dall’esterno della scuola si distinguono generalmente per una finalizzazione contingente, mentre la qualità dell’educazione scolastica dipende in massima parte dalla sua persistenza nel tempo. Ne deriva che la valutazione ha senso se non si limita a rilevare, hinc et nunc, il possesso di un certo corredo conoscitivo, ma è in grado di spiegare quanta parte della varianza che si osserva fra gli allievi possa essere riferita a fattori interni o esterni e, fra questi ultimi, a fattori prossimi (come la famiglia o il contesto di vita) o remoti (tali sono i messaggi trasferiti tramite i mezzi perla comunicazione sociale). Occorre identificare indicatori sensibili dell’incidenza dei diversi fattori, per essere in grado di comporre modelli interpretativi che siano preliminari alla definizione di piani di intervento.

L’Unità 10.03.14

"Le macerie degli imperi", di Timothy Garton Ash

Gli avvenimenti in Ucraina possono essere interpretati anche in maniera diversa: come l’ultima tappa della autodecolonizzazione d’Europa. Dopo la demolizione dell’impero sovietico gli europei hanno portato a termine l’opera già iniziata di smantellamento degli imperi austro-ungarico e ottomano.
Compresi gli stati successori, come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Ora è la volta dell’impero russo pre-sovietico. Pensate al presidente russo come a Vladimir, l’ultimo zar.
Smantellare gli imperi è un bel problema. Non sono mica fatti col Lego, smontabili in blocchetti compatti, uno rosso qui uno giallo là. Su che base si decide quale gruppo di individui su quale pezzo di terra diventerà uno stato? Senza dubbio le affinità culturali, linguistiche, etniche e storiche hanno un peso. Come lo hanno i retaggi di accordi diplomatici internazionali da tempo dimenticati e le divisioni interne ad un impero o ad uno stato successore multietnico. Importantissime sono la volontà politica e la leadership sul territorio. Forse più importante di tutto è la sorte storica, quella “fortuna” che Machiavelli definisce “arbitra della metà delle azioni nostre”. È stato un misto di storia, volontà, abilità e sorte che ha portato al Kosovo la sua indipendenza, tuttora non universalmente riconosciuta.
Quest’idea circa lo smantellamento dei vecchi imperi mi colse qualche anno fa visitando il parastato separatista di Transnistria, all’estremità orientale della Moldavia, accanto all’Ucraina. A Tiraspol, la capitale, strana città dallo stile retrò sovietico, mi imbattei in un’imponente statua equestre del feldmaresciallo Alexander Suvorov, celebrato come fondatore della città alla fine del diciottesimo secolo. In precedenza, a Uzhhorod, città sul confine occidentale dell’Ucraina con la Slovacchia, avevo avuto occasione di incontrare il sedicente governo provvisorio della Rus sub-carpatica, o Rutenia, per praticità. Il primo ministro era un professore medico che mi ricevette cortesemente in un piccolo studio dell’ospedale locale. Il ministro degli esteri era arrivato in macchina dalla sua casa in Slovacchia. Il ministro della giustizia preparò il tè. Riuscii quasi a persuaderli a cantare l’inno nazionale che inizia così: “Russi dei sub Carpazi, svegliatevi dal sonno profondo”. Da ridere, direte voi. Operetta! Ma poi la fortuna fa girare il caleidoscopio della storia e ad un tratto appare un paese riconosciuto a livello internazionale chiamato, che so, Moldavia o Montenegro. I suoi figli e le sue figlie cedendo al potere normativo del dato di fatto e fuorviati sui banchi di scuola dai libri di storia nazionalisti crescono dando per scontata la realtà di stato nazione.
Poi però, eversivamente, le frontiere dei vecchi imperi riemergono sulle mappe elettorali delle nuove democrazie, quasi fossero tracciate in inchiostro invisibile. Usiamo i colori per mappare il voto di maggioranza espresso per i partiti e i candidati alla presidenza in quelli che erano nell’Ottocento i territori dei grandi imperi. Per gli ex appartenenti all’impero austro-ungarico e tedesco il colore è l’arancione, per quelli dell’impero russo o ottomano il blu. In Ucraina, Romania e Polonia i partiti e i colori variano, ma il fenomeno è lo stesso.
I liberali sono bravi a enunciare principi universali a favore della pari sovranità e l’autodeterminazione dei singoli individui. Entrano totalmente in crisi quando si
tratta di popoli. Perché i kosovari dovrebbero aver diritto all’autodeterminazione e i curdi no? Perché se vale per la Scozia non vale per la Catalogna? E se vale per la Catalogna perché non per la Padania? Con l’indebolirsi degli imperi e degli stati multinazionali sale il grido “perché noi dobbiamo essere una minoranza nel vostro stato quando voi potreste essere una minoranza nel nostro?” (mutuo la geniale formulazione dell’economista macedone Vladimir Gligorov). Oppure, come ha detto recentemente a titolo di provocazione il nazionalista russo Vladimir Zhirinovsky, se l’Ucraina può fare la sua rivoluzione perché la Crimea no?
Come i lettori ormai hanno appreso dai giornali la Crimea venne donata alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina per ordine di Nikita Krusciov 60 anni fa, nel febbraio 1954, in occasione del tricentenario del trattato di Perejaslav, che i propagandisti sovietici reinterpretarono come segno della “riunificazione dell’Ucraina con la Russia”. Nikolai Podgorny, comunista dell’Ucraina sovietica, definì la decisione di Krusciov come “ulteriore affermazione del grande amore fraterno e della fiducia nutriti dal popolo russo per l’Ucraina”. Oh, oh. Anche se Krusciov non fosse stato sbronzo quando decise, come talvolta viene malignamente insinuato, certo nella sua scelta non ci fu nulla di inevitabile né di “naturale” sotto il profilo storico, o , se è per questo, di “innaturale”. Se non fosse accaduto, la Crimea oggi farebbe parte della Federazione Russa con un’ampia maggioranza di Tartari e Ucraini di Crimea che si lamenterebbero all’insegna del “perché noi dobbiamo essere una minoranza nel vostro paese quando voi potreste essere una minoranza nel nostro”. Ma è accaduto, e la rabbia sale alla rovescia.
Non c’è necessità storica in questi esiti, né giustizia universale, ma da più di un secolo di autodecolonizzazione europea dovremmo imparare due cose. Innanzitutto che dal momento in cui un popolo ha uno stato tendenzialmente non vuole rinunciarvi. Un amico macedone subito dopo l’indipendenza del suo paese dalla ex Jugoslavia mi disse: «Sai, credo che la Macedonia non dovesse diventare necessariamente uno stato indipendente, ma ora che lo è mi piace così». Non a caso il numero degli stati dell’Onu continua a crescere, non a diminuire. Dietro le quinte sono in attesa i membri dell’Unpo, l’Organizzazione della nazioni e dei popoli non rappresentati, tra cui i Tartari di Crimea.
Ancor più importante è la seconda lezione. Come ribadiva il grande antimperialista Mahatma Gandhi, tra mezzi e fini non esiste una netta distinzione. La violenza genera violenza. Le modalità non sono soltanto importanti quanto l’azione; in realtà determinano l’esito finale. Un divorzio di velluto, come in Cecoslovacchia, porta ad una situazione diversa rispetto al divorzio sanguinoso. Lo stesso vale per una convivenza pacifica e volontaria (Scozia e Inghilterra forse?) rispetto ad una forzosa. L’uso della forza porta sempre conseguenze indesiderate. Lo Zar Vladimir può riconquistare il dominio sulla Crimea, ma la sua azione andrà infine a rinforzo dell’indipendenza dell’Ucraina.
Traduzione di Emilia Benghi

La Repubblica 10.03.14

"L'infelicità che acceca", di Mariapia Veladiano

Ero sola. Non potevano vivere in questa disperazione».
Le parole per dirlo le ha trovate lei e forse raccontano tutta la verità possibile su questo dramma che non si può quasi pensare. Una mamma ha ucciso tre figlie, non ha ucciso un neonato che ha appena preso forma nella realtà esterna a sé e può ancora rappresentare l’informe delle paure di una mamma giovane, abbandonata o depressa. Questa volta si tratta di tre bambine, una è quasi una ragazza, tre persone, con un carattere ben preciso, piene di pensieri e progetti e anche capricci le due più piccole, ma ormai limpidamente persone. Amano la mamma, e anche lei le ama. Lo raccontano le sue cure, i vicini, addirittura i social network che continuano a riportare le sue belle parole di mamma innamorata delle figlie e le sagge mature parole della figlia più grande. Questo rimane, bisogna impedire che il male annienti il bene che c’è stato.
Poi le ha uccise, una a una, e per farlo tre volte ci vuole un mare di quella disperazione di cui lei parla. Anzi ancora di più per uccidere con un coltello, perché non c’è la distanza dell’arma da fuoco, o del farmaco, che permette di non vedere gli occhi di una bambina, due, tre, che muoiono. Bisogna vincere una quantità di inibizioni e tabù. Bisogna non vedere proprio per niente quella promessa di felicità, anche per se stessi, che è un figlio. Non poterla vedere e vedere invece qualcosa d’altro: la madre inadeguata che ci si sente, resa orrenda ai propri occhi dall’oltraggio di un abbandono o di una propria incapacità percepita come assoluta. Questo sì lo si può voler uccidere.
Con gesti che annientano anni di cure, giorni di coccole e di orgoglio di genitore, notti passate a vegliare febbri e pianti, pomeriggi trascorsi a preparare cibo e vestiti, a comprare quaderni e scarpette, perché tutto si tenga insieme, tutto deve tenersi insieme.
Giusto per parlare e rassicurarci possiamo addormentarci di luoghi comuni: vendetta per un abbandono, lo si è detto anche qualche giorno fa quando un’altra mamma ha ucciso il proprio bambino dopo essere stata lasciata dal marito, oppure si può parlare di follia, perché sta fuori di noi e mai ci toccherà grazie al cielo, e se ci toccherà non saremo in noi. Ma capita che le mamme uccidano, e anche i papà lo fanno, e ieri ci hanno raccontato che mamme e figli possono uccidere i papà.
Nel modo assolutamente confuso e distorto in cui solo la disperazione può farci sentire, questa mamma ha potuto percepire, certo non pensare, che con quel gesto avrebbe sottratto le figlie alla disperazione presente e futura. Almeno loro non avrebbero vissuto quella infelicità che la possedeva tutta e nemmeno avrebbero vissuto il suo abbandono. Non sarebbero state donne sole e disperate, un giorno. È qualcosa che possiamo capire perché tutti conosciamo la paura.
Poi c’è la violenza, che la nostra società accetta come se fosse scritta sulle sacre tavole della modernità, ma non si può leggere e vedere e respirare violenza verbale, fisica, rappresentata, immaginata e pensare che questo non abbia conseguenze sui nostri comportamenti. Si può pensare che la violenza sia un modo normale per risolvere i problemi. E anche questo ci riguarda.
E poi c’è la solitudine. «Ero sola» ha detto questa mamma. Vive in città, da anni, con tre bambine, con le mamme di scuola e del parco giochi, con i vicini del condominio, con gli abitanti del quartiere. Anche la costruzione di queste nostre solitudini ci riguarda eccome. “Quando accade il male – come ha scritto E.M. Foster – esso esprime l’intero universo”.

La Repubblica 10.03.14

Modena – Corso per le Amministratici: campagna elettorale istruzioni per l'uso

Circolo Pd Madonnina – Via Barchetta 186

Campagna elettorale: istruzioni per l’uso.
Sei lezioni per imparare a comunicare in modo efficace le proprie idee, superando le timidezze ed evitando gli errori. Questo offre alle Democratiche il corso organizzato dalla Conferenza delle Donne della provincia di Modena attraverso lezioni frontali, testimonianze di donne della politica, esempi pratici ed esercitazioni di gruppo. L’obiettivo è rispondere a una semplice domanda: quali sono le cose da fare e quelle da non fare per vincere una campagna elettorale? A rispondere saranno politiche già esperte accompagnate da un team di professioniste della comunicazione che forniranno alle candidate strumenti concreti ed immediati per gestire la propria immagine politica e rafforzare la capacità comunicativa nel periodo elettorale. E poiché la presenza femminile in politica è un valore, impariamo a trasmetterlo efficacemente.

III. ORGANIZZARE LA CAMPAGNA ELETTORALE
Studiare il territorio e l’ambiente, analizzare gli avversari, costituire un team e un comitato elettorale con amici e vo- lontari, ricercare risorse,chiedere la preferenza. Senza pas- sione non si vince.
Porteranno la loro esperienza:
Manuela Ghizzoni, parlamentare PD e Daniela Depietri, con- sigliera comunale Carpi.
Esercitazione pratica: impostare il cartoncino di presentazio- ne per la campagna elettorale, dalla scelta della foto (dove guardo, come sono vestita) al breve testo di accompagnamento.

"Donne e giovani al posto delle ideologie", di Mauro Magatti

Dopo la questione generazionale – simbolizzata dall’ascesa di Renzi che, cavalcando l’idea della rottamazione, ha rapidamente scalato la politica italiana – ecco emergere quella di genere. Con la battaglia sulle quote rosa nelle liste elettorali sono adesso le parlamentari a rendere manifesto ciò di cui sono convinte molte donne italiane: è venuto il momento di coalizzarsi per ottenere quello che l’immobilismo della società italiana impedisce di raggiungere.
Non più operai e artigiani, garantiti e precari, ma giovani e donne: sono dunque demografiche le dimensioni attorno alle quali, nell’Italia contemporanea, si strutturano il discorso politico e la trasformazione sociale. Finite le ideologie, la frammentazione sociale rende difficile trovare punti di aggregazione: il genere, l’età – come altrove o in altri momenti sono stati o possono essere il territorio, la razza o la religione – diventano il coagulo del malcontento e la benzina del cambiamento. Che occorre saper interpretare.Da un lato ci sono i giovani, che stanno pagando in misura sproporzionata il costo del declino della società italiana. I tassi di disoccupazione che sfiorano il 40% , l’espatrio forzoso di decine di migliaia di laureati, i due milioni di ragazzi che non lavorano e non studiano, raccontano di una generazione che bussa e che trova la porta sistematicamente chiusa. Una situazione insopportabile che spinge ormai tanti a smettere persino di bussare.
Vista dal lato delle donne, la situazione non è migliore. L’Italia ha una presenza femminile nel mondo del lavoro non solo quantitativamente più bassa rispetto a quello che accade negli altri Paesi avanzati (con un tasso di occupazione in calo e oggi pari al 46% siamo tra i fanalini di coda in Europa) ma anche qualitativamente discriminatoria: come dimostrano i differenziali salariali a parità di posizione professionale (-15% per le donne) o la distribuzione delle posizioni dirigenziali (dove le donne sono poco più del 10%). Nonostante che, nella popolazione con meno di quarant’anni, rappresentino la parte più istruita, le donne fanno una gran fatica a essere riconosciute per quello che valgono. Così che la «meglio gioventù» dell’Italia contemporanea – in larga parta costituita proprio dalle giovani donne – quella di cui abbiamo più bisogno per risollevarci, rischia di rimanere in panchina, o emigrare.
Si obietterà che questo in Italia è sempre avvenuto. E ciò è senz’altro vero. Ma il problema sta nella mutata condizione storica: oggi i Paesi che riescono a essere più dinamici sono esattamente quelli in cui si è capito che i giovani e le donne costituiscono due gruppi sociali attraverso cui il cambiamento si realizza più facilmente.I primi sono naturalmente portati all’innovazione. Soprattutto in un’ epoca come quella cui viviamo, nella quale assistiamo a continui salti tecnologici. Sappiamo tutti che gli imprenditori più innovativi degli ultimi vent’anni sono per lo più giovanissimi capaci di intuire le nuove possibilità messe a disposizione dalle tecnologie digitali e orientarne le direzioni di sviluppo sulla base della sensibilità ai bisogni sociali inespressi.
In maniera diversa, anche le donne sono sempre più spesso le protagoniste del cambiamento di un mondo avanzato che ha sete di diversità. Si potrebbe dire così: il fatto che siano proprio i giovani e le donne a pagare i costi più alti della crisi è la prova provata del ritardo italiano: bloccando i canali della mobilità sociale, impedendo ai giovani di provare di che cosa sono capaci, umiliando le donne dentro stereotipi del passato, l’Italia dimostra di non aver capito che la sfida da affrontare è quella di creare una società aperta e dinamica. Per questo, non va vista come una stravaganza il fatto che siano proprio il ricambio generazionale e la questione di genere a dettare in questi mesi l’agenda delle politica italiana.Come sempre, occorre poi avere l’intelligenza di cogliere il punto: non è l’essere giovani né l’essere donna a garantire la qualità delle persone né l’efficacia dell’azione.
Il problema è semmai quello di creare assetti sociali in grado di trovare un equilibrio tra la creatività dei giovani e l’esperienza dei più anziani; tra la promozione delle donne nel mondo del lavoro e delle professioni e la protezione di quel nucleo prezioso per la società che è la famiglia; tra la necessità dell’apertura, della velocità, della innovazione e la sapienza della custodia, della lentezza, della tradizione.
Ma della natura di questi equilibri speriamo di poter parlare nei prossimi anni, una volta che, grazie al contributo delle donne e di giovani italiani, saremo tutti insieme riusciti a sbloccare la situazione, portando il nostro Paese fuori dal grave declino in cui versa.

Il Corriere della Sera 09.03.14

"Così sono sfumati 200 milioni per Pompei", di Mattia Feltri

Nel 2011 i francesi erano pronti a investirli per salvare il sito archeologico. Ma chiedevano controlli anti camorra sugli appalti. L’Italia non fornì garanzie. Ora si pensa a una fondazione internazionale «Pecunia non olet», disse l’imperatore Vespasiano al figlio Tito, che gli rimproverava l’intenzione di tassare l’urina raccolta dalle latrine. La pipì puzza, disse Tito. Il denaro no, fu la risposta, e ci sono voluti poco meno di duemila anni perché una massima tanto apprezzata trovasse disprezzo nella spiantata Italia della crisi. All’inizio del 2011 il più grande consorzio francese di multinazionali, Epadesa della Défense, offrì circa duecento milioni di euro al restauro di Pompei, e dopo un anno e mezzo di tribolazioni non se ne fece nulla. La storia si affacciò sui nostri quotidiani e come arrivò sparì, fra stupore e un po’ di indignazione.
È una vicenda nota, nel mondo della cultura, e controversa tranne che nelle origini. Nel 2011, Patrizia Nitti, direttrice italo-francese del Musée Maillol a Parigi, Rue de Grenelle, specializzato in cultura italiana, sta allestendo una mostra su Pompei. È lì che le viene in mente di chiamare una cara amica, Joëlle Ceccaldi-Raynauld, presidente del consiglio di amministrazione di Epadesa e parlamentare. Le avanza una proposta: avvalersi della legge francese sulla defiscalizzazione (pro mecenatismo) e contribuire alla cura del più grande sito archeologico del mondo.

Si tratta – detta in maniera grossolana chiara – di girare parte dell’imponibile dall’erario a Pompei. Joëlle chiede qualche giorno. E settantadue ore dopo dice sì, sono tutti entusiasti. In particolare lo è Philippe Chaix, direttore generale di Epadesa. Oggi Patrizia Nitti ci dà il preambolo: «Il presidente di Epadesa qui vale quanto un ministro. Quando si muove, gli srotolano il tappeto rosso». Stavolta non succede. È Ceccaldi-Raynauld che deve andare a Roma, al ministero dei Beni culturali. Il ministro è Giancarlo Galan, che ha appena preso il posto di Sandro Bondi. Ceccaldi-Raynauld (accompagnata da Patrizia Nitti e dalla senatrice del Pdl, Diana De Feo, ambasciatrice in Italia dell’intervento) si incontra con Mario Resca, ex McDonald’s, direttore generale del ministero, e illustra il progetto: venti milioni di euro all’anno, a crescere, per dieci anni. Nemmeno il Superenalotto.

«Conosco Pompei, ci ho lavorato quattro anni. Quattro anni piuttosto complicati. Ero autrice e relatrice del progetto, anche per via della lingua», racconta oggi Patrizia Nitti. Dice che da subito ci furono «difficoltà di comprensione. Non riuscivo a rendere la portata di Epadesa. Sentivo della diffidenza». Forse contribuirono le lotte di competenze, le gelosie e gli interessi che da sempre agitano il Mibac. I contatti proseguono ma così macchinosi che Epadesa decide di coinvolgere l’Unesco: nel giugno del 2011 viene informata del piano di finanziamento la direttrice generale Irina Bokova. E alla fine di novembre, nella sede parigina dell’Unesco, davanti al direttore per la Cultura, Francesco Bandarin, i rappresentanti di Epadesa e del ministero devono firmare il protocollo. Da pochi giorni a Palazzo Chigi c’è Mario Monti, al Mibac è andato Lorenzo Ornaghi. Ma a Parigi, da Roma, non arriva nessuno.

L’altro atto ufficiale è di quattro mesi più tardi. Joëlle Ceccaldi-Raynauld scrive una lettera a Ornaghi e gli chiede una moratoria. «Mi sembra che nel nostro paese, il periodo attuale non è il migliore per intraprendere degli interventi di sponsorizzazione», scrive fra l’altro. Sta per compiersi la sfida dell’Eliseo fra Nicholas Sarkozy e François Hollande. Dovesse vincere Hollande, come accadrà, Epadesa che è statale sarà sottoposta a spoil system e, in scadenza di mandato, non ci si espone per duecento milioni di euro. Tutto qui? No, c’è ancora qualcosa. Nel giugno del 2012, intervistato dal Mattino, l’ex sottosegretario di Galan, Riccardo Villari, dice: «L’Epadesa aveva offerto duecento milioni per restauri all’interno del sito, ma voleva la certezza che a fare i lavori fossero le imprese del consorzio senza passare per alcuna gara d’appalto. Forse pensavano che con i quattro soldi che ci offrivano si sarebbero potute forzare regole che immaginavano evidentemente flessibili». Notevole: i francesi a lezione di legalità dagli italiani. Purtroppo da Epadesa nessuno parla: nel frattempo sono cambiati i vertici e comunque la questione, dicono, è chiusa. Ad aiutarci è un funzionario dell’Unesco cha chiede l’anonimato: «Il consorzio, per paura della camorra, chiedeva di condividere le gare di appalto, di vietare i subappalti e un presidio di polizia sui cantieri. Non so quanto pesarono le richieste, ma pesarono senz’altro». Oggi Villari aggiunge: «Credo fossero soprattutto terrorizzati dalla burocrazia e dalle guerre infinite dentro il ministero». Fatto sta che i duecento milioni non sono più arrivati.

Fine? Forse no. Philippe Chaix non è più all’Epadesa. Non è stato possibile contattarlo perché in questi giorni è in India. «Non so se la cosa c’entri», dice Patrizia Nitti. C’entri con che? «Philippe mi ha detto che, arrivato alla soglia dei sessant’anni, dopo avere ottenuto onori e guadagni sente l’adrenalina soltanto se ripensa a Pompei. Mi ha detto di aver contattato i suoi maggiori clienti in America, in Cina, in India, e ha già ricevuto numerose disponibilità. Sogna di costituire una fondazione mondiale per Pompei nello spirito della fondazione del Louvre. Potrebbero arrivare soldi, tanti, e un interesse enorme. E adesso a Roma c’è Matteo Renzi». Uno con le orecchie adatte per sentire come suona bene la parola Pompei.

La Stampa 09.03.14