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"Gioventù bevuta. Mezzo milione di adolescenti è a rischio alcolismo", di Maria Novella De Luca

I più stupiti di solito sono i genitori: «Pensavamo che fossero soltanto delle sbronze». Invece il baby alcolista ha gli occhi spenti e la vita segnata. Uno di quei cinquecentomila ragazzini italiani che nella deriva delle notti ubriache di milioni di adolescenti, perdono la testa e i confini della realtà. E poi è davvero dura risalire. Neknominate, eyeballing, binge drinking: il clamore delle sfide mortali a base di liquori pesanti che mietono vittime sui social network, riporta l’attenzione sulla piaga dell’alcolismo giovanile, droga sommersa e sottovalutata. E se i nomi di questi giochi pericolosi (versarsi vodka negli occhi, bere fino a stordirsi, filmare se stessi mentre si ingurgitano litri di birra) suonano ostili a chi ha più di vent’anni, attenzione perché dietro c’è molto altro. C’è la storia di come e quando, in meno di due decenni, le nordiche sbronze collettive del sabato sera abbiano conquistato i riti dei teenager italiani, facendo impennare i numeri di chi finisce nella vera e propria dipendenza.
Dallo sbarco pianificato sul mercato degli “alcolpops” ai micidiali “shortini”, cocktail dolci a pochi euro per bevute seriali che complice l’assenzio arrivano subito alla testa, il “binge drinking” coinvolge oggi oltre due milioni di giovanissimi tra i 16 e i 24 anni, soltanto per citare la fascia d’età più numerosa. E un quarto di questi rischia ogni weekend di saltare il fosso, sono ormai tante le storie di bevitori-ragazzini che affollano i centri alcologici italiani, il 17% delle intossicazioni etiliche registrate nei pronto soccorsi riguarda, addirittura, adolescenti tra i 13 e 16 anni. Gli ultimi a rimetterci la vita sono stati i giocatori del “Neknominate”, il folle drink-game nato in Australia e viralizzato su Facebook, che consiste nello sfidare la morte affogandosi di birra, vino o liquori, e chi ce la fa passa il turno e indica un altro utente del social come prossimo giocatore. Chi spezza la catena viene ricoperto di insulti. Naturalmente i primi gruppi sono fioriti anche in Italia (un ragazzo finito in coma ad Agrigento) si spera che abbiano vita breve nonostante il rifiuto di Fb di rimuoverli dalla Rete. Per fortuna c’è anche chi si ribella, come un diciassettenne romano che respingendo al mittente la sua “nomination” ha postato il suo ritratto accanto ad una bottiglia di latte. Ricevendo a sorpresa non pochi consensi su Facebook.
Ma dietro questi episodi estremi c’è il racconto di una gioventù “ebbra”, l’età acerba che diventa l’età ubriaca, con i suoi corollari di vittime e disabilità. Quel mondo che Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto superiore di Sanità, traduce in dati, cifre, analisi, e non si stanca di andare a discuterne con i ranagergazzi delle scuole. Perché magari loro non ci caschino. «Il bere smodato, il binge drinking è un fenomeno drammaticamente sottovalutato in Italia, a partire dalle famiglie. Per non parlare delle ragazzine che mescolano sbronze e digiuno. “Drunkoressia” si chiama. L’alcol in età giovanile produce danni cerebrali uguali a quelli delle droghe, è anzi un ponte verso molti tipi di sostanze. Ci sono studenti delle scuole medie che abitualmente, prima di entrare in classe, si fermano a bere qualcosa al bar di fronte. Come è possibile? Come mai chi vende loro quel bicchiere non viene fermato e multato? I giovani amano il rischio, si sa, la tecnologia amplifica le loro ritualità, ma il punto è che manca una griglia di controllo e di protezione. E i genitori, terrorizzati dalle droghe, troppo spesso minimizzano di fronte ad un figlio che torna a casa barcollando… ». Invece a volte, ricorda Scafato, “bastano norme rigorose” per dimezzare vittime e lutti. «È stato sufficiente imporre il livello zero di alcol nel sangue ai guidatori al di sotto dei 21 anni, per abbattere il numero degli incidenti stradali legati alla guida in stato di ebbrezza».
Eccola, allora, la movida alcolica, Ponte Milvio, zona Nord di Roma, piazza diventata celebre per i lucchetti dell’amore (poi rimossi) dei romanzi di Federico Moccia. Alle due del mattino una folla di tee- ubriachi vaga tra chioschi e bar accumulando birre e bicchierini di superalcolici (shortini). Caos di moto e di costosissime mini-car. Prezzo delle consumazioni, in piedi, tra i due e i quattro euro. Nessuno si preoccupa dell’età legale al di sotto della quale (sedici anni) sarebbe vietato bere. Gruppi di ragazzine brille camminano abbracciate, la risata facile e convulsa, la voce alterata, il selciato è un tappeto di vetri e chiazze di vomito. Provando a parlarci si ottengono frasi sincopate tipo “mi ubriaco perché è fico”, “perché è divertente”, “ma che dici non sono sbronza”, “fatti gli affari tuoi”. La verità è che così le difese si abbassano, e a forza di andare avanti e indietro per la piazza i gruppi si mescolano, il tasso alcolico facilita gli incontri, l’amicizia, il sesso, anche le risse, le miscele della sbornia comprendono birra, liquori, amari, cocktail, energy drink.
Emblematici i nomi dei famosi shortini: Tricolore, Morte Lenta, Cane rabbioso, Killer, prevedono in dosi variabili sambuca, tequila, whisky, vodka, assenzio, succhi di frutta e a volte aggiunta di alcol puro. «Non bevo sempre, soltanto il venerdì e il sabato – racconta Guido, 17 anni con fare da adulto, gli occhi rossi, la faccia sgualcita – per me è naturale, il resto della settimana sono sobrio, vado bene a scuola, faccio sport, non mi drogo, insomma sono un bravo ragazzo e per i miei genitori va bene così…». L’inizio di una carriera di alcolista, direbbero gli esperti, e chissà veramente cosa sanno i genitori di Guido.
Paola Nicolini, docente di Psicologia all’università di Macerata, ha scritto per “Franco Angeli” il libro “Sentirsi brilli”. E spiega che oggi la sbronza per gli adolescenti non è il bicchiere di troppo che sfugge, bensì “un rito per affrontare la socialità”. «Si beve per esorcizzare preventivamente il dolore di un fallimento, per rendersi simpatici, per essere accettati dal gruppo, perché ci si sente fragili, ma il rischio è che ogni volta c’è bisogno di aumentare le dosi…E spesso i genitori negano, minimizzano, come se in fondo l’alcol non fosse così pericoloso, storie di ragazzi, dicono, con un ottimismo del tutto irreale».
Ed è proprio di questa sottovalutazione del rischio, ma anche delle gravi responsabilità del mercato, che parla Valentino Patussi, responsabile del Centro alcologico regionale della Toscana e di quello dell’ospedale universitario di Careggi. «Il binge drinking nasce dall’immissione nel mondo dei teenager di alcol a basso prezzo, in forme e modi che lo rendessero attraente e fruibile per il loro gusto e le loro tasche. Dunque una precisa strategia commerciale che ha puntato a far consumare liquori ai ragazzi in un’età in cui sarebbe addirittura proibito per legge. E lo Stato su tutto questo guadagna attraverso le accise sull’alcol. Una colpevole contraddizione, di cui però non si parla mai, ma invece noi medici ne vediamo le drammatiche conseguenze sui giovanissimi».
Le cifre dell’Istituto superiore di sanità citano circa 500mila baby alcolisti, ma soltanto una piccolissima parte di questi arriva poi nei centri alcologici. Perché prima di capire che le sbronze del proprio figlio sono l’anticamera della dipendenza, si sono persi anni preziosi. «Aiutare un giovane a smettere di bere – aggiunge Valentino Patussi – vuol dire aiutarlo a capire che ha un problema. Ma è tutto il nucleo che entra nel programma, genitori, fratelli, fidanzate, perché è solo partendo dalle relazioni più intime che si possono modificare i comportamenti ». E forse fermare la sua discesa di baby bevitore nel tunnel dell’alcolismo.

Repubblica 03.03.14

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Se la società ti nega un ruolo, la sbronza diventa palcoscenico
di Umberto Galimberti
I GIOVANI bevono. E questo lo sappiamo. Ma oggi si è diffusa una sorta di gara tra chi beve di più, con ovvia esposizione dei propri primati sui social network che fanno da incentivi e da moltiplicatori delle gare, spesso mortali, perché l’organismo non è in grado di assorbire tutto l’alcol assunto.
I giovani bevono per la stessa ragione per cui molti di loro si drogano, e l’alcol è la droga più economica e la più socialmente accettata. Alla base ci sono ragioni psicologiche e ragioni culturali. Annoiati da una vita che pare a loro povera di senso, cercano in qualsiasi modo di provare emozioni che non trovano nella routine della loro esistenza quotidiana, in quel mondo chiassoso delle discoteche, dove l’alcol facilita i processi di socializzazione, disinibisce la comunicazione, facilita i contatti, abbassa le difese. In discoteca si va in ora tarda, dopo aver già ingerito una buona dose di alcol nei bar, dove ci si trova per combinare la serata. Qui comincia la gara tra chi è più spiritoso, più disinvolto, più in vista, più disinibito, più audace nelle avances. Le ragazze non meno dei maschi, per avere una giustificazione dopo un incontro sessuale casuale e non programmato: “Ero ubriaca”. In fondo il sesso oggi non è più un tabù. Separato e scisso dal sentimento, il sesso è diventato puro piacere fisico, a cui si può accedere più facilmente se la propria psiche è intorpidita e, grazie all’alcol, la coscienza non più tanto vigile.
Fin qui le ragioni psicologiche. Quelle culturali, che a mio parere preoccupano di più, sono da ricercare nel fatto che i giovani oggi vivono sostanzialmente esclusi dal mondo lavorativo e sociale. E siccome di giorno nessuno li convoca, nessuno li chiama per nome, si creano un mondo di notte, tutto loro, per mettere in scena le forze della giovinezza che sono: il corpo, la bellezza, la sessualità, l’eccesso, la sfida, la gara, per diventare protagonisti nel fine settimana, dal momento che durante la settimana vengono sostanzialmente ignorati o vissuti dalla nostra società più come un problema che come una risorsa. E siccome il mondo reale li ignora i giovani ne hanno creato uno virtuale, dove le loro imprese, anche se spesso tragiche, trovano un riconoscimento di cui hanno un estremo bisogno, perché, come tutti sappiamo, senza riconoscimento, non nasce né si costruisce alcuna identità. E se l’identità è negata, resta solo quel surrogato che è la visibilità.

La Repubblica 03.03.14

"Lo Stato spenda di più per ridare fiato all’Italia", di Carlo Buttaroni

La crescita del tasso di disoccupazione arriva come una doccia fredda sulle tiepide speranze di una rapida uscita dalla crisi. Attese alimentate dal miglioramento di alcuni parametri economici, e in particolare dal Pil dell’ultimo trimestre del 2013 che ha registrato un incremento, seppur modesto, dello 0,1%. Entrambi i risultati erano già stati annunciati dalle previsioni e, proprio da queste colonne, abbiamo più volte denunciato il rischio di una ripresa debole senza riflessi positivi sul piano occupazionale. Un andamento che, peraltro, riguarderà tutto il 2014, con una modesta risalita del prodotto interno lordo e una crescita della disoccupazione.

A gennaio l’Istat ha registrato un tasso di disoccupazione del 12,9% che equivale a un esercito di oltre 3,2 milioni di persone senza lavoro. Ma dentro quel «quasi 13 per cento» c’è di più e di peggio, giacché più della metà dei disoccupati è composto da ex lavoratori, da coloro cioè che un lavoro ce l’avevano e l’hanno perso.

Osservando gli andamenti dei due principali indicatori economici, Pil e disoccupazione, è lecito chiedersi perché essi vadano in direzione opposta, e alla crescita del prodotto interno lordo si registri una diminuzione del numero degli occupati. La risposta è semplice: il numero degli occupati diminuisce perché non c’è lavoro. E non c’è lavoro perché la produzione è legata alla domanda e se quest’ultima manca, di conseguenza, cala anche la produzione. Il miglioramento del Pil registrato nell’ultimo trimestre del 2013 deriva, infatti, in gran parte dal miglioramento della domanda estera, cioè dalle esportazioni. Le esportazioni, però, contribuiscono per meno di un terzo al nostro Pil, mentre la restante quota nasce dalla domanda interna, ancora sofferente e fragile.

UN CIRCOLO VIZIOSO

Sulla domanda interna vivono la stragrande maggioranza delle nostre imprese (soprattutto picco- le e medie) e più della metà dei lavoratori. La debolezza della domanda interna, la cui componente principale sono i consumi delle famiglie, si riflette nel calo della produzione industriale, che tra il 2013 e il 2012 è diminuita del 3%. Pertanto, senza una domanda interna che tira la produzione, le imprese devono ridurre i cicli produttivi mettendo i lavoratori in cassa integrazione, licenziandoli o, peggio, chiudendo. La debolezza della domanda interna alimenta, quindi, il circolo vizio- so che ha portato alla drammatica situazione che il Paese sta tuttora vivendo e sulla cui uscita in tempi brevi ormai le speranze si sono molto affievolite.

Se la domanda interna è debole si possono fare tutte le riforme del mercato del lavoro immaginabili, ma nessuna impresa assumerà se non c’è qualcuno in grado di comprare ciò che viene pro- dotto. D’altronde, la regola nelle economie moderne è che la spesa di una persona rappresenta il reddito di un’altra, ed è intorno a questa premessa condivisa che sono cresciute le economie occidentali prima della crisi finanziaria.

Per rimettere in moto l’occupazione e l’economia nazionale, quindi, c’è bisogno soprattutto che la domanda interna (cioè investimenti e consumi) ricominci a tirare la produzione, permettendo alle imprese di ricominciare ad assumere. Naturalmente, c’è bisogno anche di politiche che aiutino a produrre con meno costi e in quest’ottica è importante capire quali sono i bisogni delle imprese, soprattutto le micro, piccole e medie che costituiscono la spina dorsale dell’Italia che produce.

Si pensi ai fattori che incidono negativamente sulla vita di un’azienda: per esempio i costi amministrativi che, nel caso di una piccola impresa, incidono mediamente per il 10%-15% sul costo per unità di prodotto. Questo valore è notevolmente cresciuto con la crisi a causa dell’aumento degli adempimenti e dell’inasprimento della pressione fiscale. Oltre a ciò, le imprese italiane pagano lo scotto d’infrastrutture inadeguate, un costo dell’energia troppo elevato e una burocrazia asfissiante e lentissima che fa lievitare i costi di produzione più della retribuzione di un lavoratore.

Cosa occorre fare, quindi, per uscire dalla crisi? Sicuramente l’opposto delle politiche economiche messe in campo finora, incentrate sul rigore e il contenimento della spesa. Nel momento in cui il settore privato è impegnato in uno sforzo collettivo per spendere meno, le politiche pubbliche devono, infatti, agire per sostenere e stabilizzare la domanda interna. O, per lo meno, non peggiorare la situazione con massicci tagli e aumenti delle aliquote fiscali a carico dei cittadini, com’è successo in questi anni con le «politiche lacrime e sangue». Le politiche restrittive, infatti, si sono sommate agli effetti dei tagli alla spesa privata, innescando una spirale negativa sull’economia.

L’economia, si sa, non è una scienza esatta, e deduce dai fatti le sue teorie. Semmai ce ne fosse stato bisogno, ce ne siamo accorti nel momento in cui gli imponenti apparati di controllo non ave- vano previsto né l’inizio né la durata della crisi. All’inizio del tunnel sono state varate manovre per centinaia di miliardi euro che hanno inasprito la pressione fiscale e ridotto i redditi a disposizione delle famiglie. La teoria dell’«austerità espansiva», cui alcuni ancora credono, è stata contestata persino dal Fondo monetario internazionale. Non solo: le evidenze empiriche mostra- no anche che una variazione nell’imposizione fiscale ha un moltiplicatore minore rispetto alla spesa pubblica. Tagliare le tasse, cioè, può non bastare a far riprendere l’economia, perché buona parte del reddito disponibile aggiuntivo sarà usata per risparmiare o ripagare i debiti, invece che essere spesa. È quindi necessario che, in assenza di fiducia degli investitori e delle famiglie, sia lo Stato a spendere. E in questo senso basta guardare agli studi più recenti sui moltiplicatori di spesa pubblica e tasse, che dimostrano quanto un euro di spesa pubblica in più e di tasse in meno riescono a generare in termini di incremento del Pil.
Essi dimostrano non solo che nell’area euro i moltiplicatori esistono e sono positivi (meno tasse e più spesa
pubblica fanno salire il Pil) ma anche che investimenti e spesa pubblica per consumi di beni e servizi rappresentano la componente della politica fiscale che funziona meglio.

INCERTEZZA E RISPARMIO

Le minori tasse naturalmente fanno bene, ma rischiano di stimolare solo il risparmio perché famiglie e imprese tendono a cautelarsi di fronte a un futuro incerto. È lo Stato, supplendo all’assenza momentanea del settore privato, che deve investire in opere strategiche per rendere l’Italia un paese più moderno, aiutandola così a uscire da un circolo vizioso che uccide per sempre le piccole imprese e il futuro di tanti giovani.

Unità 03.03.14

"Nel gioco d’azzardo un mese di pensione", di Massimo Solani

Più o meno un mese di pensione all’anno per giocare d’azzardo. È quanto spendono, di media, gli over 65 italiani in giochi come Lotto, Superenalotto, Gratta e vin- ci, giochi di carte, slot e video lottery. È il risultato più sorprendente dell’indagine «Anziani e Azzardo», condotta da Gruppo Abele, e Auser Nazionale in collaborazione con Libera che sarà presentata oggi a Torino. Mille interviste in 15 regioni d’Italia, spiega il presidente nazionale Enzo Costa, Auser per «far crescere tra le persone anziane la consapevolezza di quanto possa essere facile cadere nei rischi del gioco d’azzardo patologico che ha ricadute umane e sociali pesantissime». Perché se in Italia la diffusione del gioco d’azzardo ha costi sanitari e giudiziari per lo Stato che raggiungono ogni anno i sei miliardi di euro, la penetrazione del «vizio» fra gli over 65 è costante- mente in aumento. «La ricerca, purtroppo, mette in risalto la capillarità che ha raggiunto oggi il gioco d’azzardo in Italia e ne conferma l’allargamento verso le aree tradizionalmente più indifese, costituite soprattutto da minori, anziani e don- ne. I dati della ricerca – spiega il vicepresidente del Gruppo Abele Leopoldo Grosso – sembrerebbero far emergere stime superiori a quelle generalmente diffuse sulla valutazione del gioco a rischio, sia per frequenza che per volume di giocate».

Tornando ai risultati della ricerca, il 70,7% dei partecipanti all’indagine ha dichiarato di aver giocato almeno una volta d’azzardo nel corso dell’ultimo anno. A riscuotere il maggior consenso fra i giocatori over 65 sono Lotto e Superenalotto (30%) seguiti da Gratta e vinci e lotterie istantanee (26,6%), Totocalcio e totip (15%) giochi di carte a soldi (10,2%), Slot e videolottery (3,8%). I luoghi presso cui si gioca d’azzardo sono prevalentemente le ricevitorie e le tabaccherie (44,9%), seguite dai bar (24%), le abitazioni private (8%) e i centri commerciali (6,4%). Varie le motivazioni per cui gli anziani si avvicinano al gioco d’azzardo si va dal «vincere denaro» (45,3%), al «divertimento» (19,7%) fino alla voglia di «incontrare persone» (8,8%). La quasi totalità dei soggetti intervistati che ha dichiarato di aver giocato almeno una volta nell’ultimo anno è pensionata (92%), con una percentuale di giocatori più alta fra gli uomini (51,6% contro il 40,4% di donne) mentre il titolo di studio più rappresentato è la licenza media (31,2%) seguito dal diploma di maturità (26,4%) e dalla licenza elementare (15,5%). In totale i mille intervistati hanno dichiarato di aver speso per il gioco d’azzardo 589mila euro nell’ultimo anno, per una spesa media procapite che si avvicina ad un assegno mensile della pensione se è vero che il 41% dei casi ha dichiarato di disporre di una cifra inclusa tra 1.001 e 1.500 euro al mese mentre per il 16% il reddito da stipendio o pensione è incluso tra 1.501 e 1.800 euro. Soltanto l’8,2% raggiunge i 2.000 euro mensili mentre il 23% possiede tra 501 e 1.000 euro. Il 5,8%, degli intervistati, infine, ha meno di 500 euro al mese. «Il boom delle varie forme di gioco d’azzardo nel nostro Paese – commenta Alberto Tomasso, segretario generale della Cgil Piemonte – è un fenomeno non recentissimo, ma negli anni ha assunto una dimensione massiccia e, soprattutto, si sono sviluppate forme assai diffuse di vera e propria patologia sociale, che colpiscono fasce di popolazione particolarmente vulnerabili, come i pensionati a basso reddito, i disoccupati, i precari, con un crescente coinvolgimento di giovani». Categorie nelle quali, però, la consapevolezza del rischio appare ancora bassa nonostante, tornando ai dati della ricerca «Anziani e Azzardo», quasi la metà dei giocatori intervistati risultano (secondo la scala di valutazione «Canadian Problem Gambling Index») «a rischio» o «problematici». Per il 16,4%, invece, il gioco d’azzardo sembra già rap- presentare un problema di gravità media o elevata e che richiederebbe un intervento specialistico.

«In un paese in cui crescono tutti gli indici delle vecchie e delle nuove povertà; in cui la disoccupazione ha raggiunto li- velli insostenibili e gli anziani sono sem- pre più a rischio di esclusione per la carenza di servizi sociali il fatturato dell’azzardo ha raggiunto i 90 miliardi di euro – si legge nell’introduzione dell’indagine – L’industria del gioco non avverte la crisi; al contrario si nutre della crisi e della speranza di molte persone, in grande parte anziane, che una vincita possa migliorare la propria condizione di vita. Si è compiuta una trasformazione del costume degli italiani; una trasformazione antropologica, il cui effetto in termini di costi sanitari e giudiziari per lo Stato è stimato in circa 6 miliardi di euro l’anno. Oggi si contano una slot machine ogni 150 cittadini».

L’Unità 03.03.14

Il grande orgoglio

“In queste ore dobbiamo pensare ad altro e lo stiamo facendo. Ma il momento orgoglio italiano per Sorrentino e La Grande Bellezza ci sta tutto”. Così in un tweet il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. “In queste ore dobbiamo pensare ad altro e lo stiamo facendo. Ma il momento orgoglio italiano per Sorrentino e La Grande Bellezza ci sta tutto”. Così il presidente del consiglio Matteo Renzi, con un tweet alle 6 e 18 del mattino, ha commentato la vittoria agli Oscar del film, come migliore film straniero. “In queste ore dobbiamo pensare ad altro e lo stiamo facendo. Ma il momento orgoglio italiano per Sorrentino e ‘La grande bellezza’ ci sta tutto”.

L’Oscar conquistato da ‘La grande bellezza’ “sarà per l’Italia un’iniezione di fiducia in se stessa”.
Ancora su twitter il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini.
“Viva Sorrentino, viva il cinema italiano! – quando il nostro Paese crede nei suoi talenti e nella sua creatività, torna finalmente a vincere. L’Oscar a Sorrentino è la dimostrazione che se in Italia ci si crede ce la si può fare a vincere nel mondo”.

“D’altra parte”, ha aggiunto il neo responsabile della Cultura, “nel mondo globale ciascuno deve investire su cosa lo rende più forte. E su che cosa in Italia dovrebbe investire se non sulla bellezza che ha? Deve investire sulla cultura, la natura, i borghi, l’arte, la qualità della vita. Perché se torniamo a investire su questo torniamo a vincere come Paese”.

www.partitodemocratico.it

"Per le riforme ci vuole un metodo", di Ugo De Siervo

Questa settimana sapremo finalmente se la proposta di modificare il nostro sistema elettorale va davvero avanti, come sarebbe certamente auspicabile. Ma alcune delle tante difficoltà che la proposta sta incontrando dovrebbero far riflettere Matteo Renzi su alcune evidenti debolezze progettuali.

Proprio lui, che si è speso in prima persona per questa importante innovazione, così come per le due riforme costituzionali collegate (bicameralismo e modifica del riparto dei poteri fra Stato e Regioni) che dovrebbero caratterizzare ciò che resta di questa legislatura.

Non vi sono, infatti, solo importanti contrasti «politici» sulla soglia di voti richiesta al partito più votato per far scattare il premio di maggioranza (35%, 37%, 40%?), o per prevedere o no la possibilità di esprimere un voto di preferenza, o per rinviare l’efficacia della legge al momento in cui non esisterebbe più l’attuale Senato, ma pure tutta una serie di carenze ed imperfezioni del testo legislativo che – così com’è attualmente – lo renderebbero praticamente inefficace.

Questa situazione evidenzia il problema, serio e più generale, che finora è mancata una regia adeguata alle politiche istituzionali, così come è già emerso con il «pasticciaccio» delle Province, là dove la fretta di anticipare una futura possibile riforma costituzionale con interventi legislativi ordinari ha prodotto solo una situazione di grande confusione e alcuni danni sicuri, mentre nel frattempo si sarebbe potuto procedere tranquillamente (se davvero convinti) ad una loro eliminazione con una modifica costituzionale.

Se, infatti, il nuovo sistema elettorale è, in un modo o nell’altro, collegato alle scelte che si vogliono fare a livello di assetto del nuovo Senato, i poteri e la composizione di quest’ultimo non possono che scaturire dalle scelte che vanno fatte in tema di rapporti fra lo Stato e le Regioni. Ma allora è evidente che tutto ciò va attentamente pensato in una visione unitaria e poi realizzato con adeguata coerenza.

Non a caso, nel recentissimo incontro con la stampa l’attuale presidente della Corte Costituzionale ha chiaramente insistito sul fatto che l’abnorme crescita della litigiosità fra Stato e Regioni potrà essere fermata non dalla sola indispensabile semplificazione dei criteri di suddivisione delle responsabilità fra queste istituzioni, ma dalla contemporanea creazione di autorevoli «luoghi istituzionali di confronto, allo scopo di restituire alla politica mezzi più efficaci per governare i conflitti centro-periferia». E naturalmente si è ricordato che in tutti i maggiori ordinamenti regionali e federali esiste una seconda Camera rappresentativa delle articolazione territoriali, pur nella diversità dei modelli realizzati.

E’ urgente quindi passare ad una organica e coerente progettazione istituzionale, che possa guidare con efficacia i lavori parlamentari di revisione di due parti della Costituzione, possibilmente con un lavoro contemporaneo nelle Camere sui diversi disegni di legge di revisione, se si vuole davvero risparmiare tempo (almeno in astratto, nelle aule parlamentari si potrebbe far tutto in sei mesi).

Destinata a più che probabile fallimento sarebbe, invece, la riemersione della vecchia proposta di cercare di risolvere il problema nominando un’apposita Assemblea Costituente, incaricata di modificare la seconda parte della nostra Costituzione: infatti vi sarebbero naturali reazioni e diffidenze verso una proposta che vorrebbe eliminare la necessità di maggioranze qualificate, con la conseguente possibilità di poter cambiare in modo agevole ben altro oltre i due temi specificamente urgenti. Non bisogna, infatti, mai dimenticare che nella seconda parte della Costituzione si disciplina anche il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo, il potere giurisdizionale, la Corte Costituzionale, ecc. Una proposta del genere susciterebbe tali e tante reazioni che nell’esame del relativo disegno di legge di revisione costituzionale quanto meno si consumerebbe inutilmente tutto il tempo che potrebbe essere sufficiente per le due modifiche costituzionali urgenti.

La stampa 03.03.14

"Un grave rischio per l’Europa", di Silvio Pons

La crisi in Ucraina era ampiamente annunciata da molto tempo. Non da mesi ma a anni. Le sue radici stanno nella dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, la nascita di uno Stato indi- pendente ucraino non è stata basata su un adeguato sistema di equilibri internazionali tra l’Europa e la Russia. Per oltre un decennio, l’Ucraina ha vissuto una tormentata transizione economica e politica, seguendo un modello di democrazia autoritaria non molto diverso da quello russo, anche se con modalità più pacifiche.

La «rivoluzione arancione» del 2004 ha rappresentato il punto di arrivo di un’onda lunga del crollo del comunismo, rivelando una genuina spinta democratica e riformatrice dal basso. Tuttavia ha anche avuto seri limiti. Non ha prodotto un’autentica stabilizzazione politica, non ha ricomposto le fratture esistenti nel paese e ha fatto anzi emergere rilevanti tendenze nazionaliste.

Da allora l’Ucraina è rimasto un paese frammentato e conflittuale al suo interno, oltre che privo di un chiaro riferimento internazionale. Salvo il legame con la Russia consolidato dagli scambi economici ed energetici e dalla presenza militare russa in Crimea (in base agli accordi post-1991 tra i due paesi, che consentivano a Mosca di mantenere la flotta a Sebastopoli e confermavano l’inclusione della penisola in territorio ucraino, decisa da Chruscev). Un paese sicuramente più complesso di come spesso lo si descrive, perché l’idea che esista una totale spaccatura tra est e ovest come blocchi contrapposti non corrisponde alla realtà e perché le differenze linguistiche e culturali non corrispondono necessariamente a differenze politiche. E tuttavia, una nazione divisa e oscillante tra l’attrazione dell’europeizzazione e l’influenza russa. Come si è visto bene nella protesta di piazza esplosa lo scorso novembre che ha portato alla fuga del capo dello Stato Yanukovich, vincitore delle elezioni nel 2012 ma anche noto per il suo esercizio corrotto, arbitrario e autoritario del potere. Senza dubbio, lo scontro in atto non è soltanto un aspro e sanguinoso conflitto politico. È una lotta per l’anima dell’Ucraina, che perciò oggi rischia una guerra civile.

Come è possibile che la prevenzione di questa crisi annunciata sia stata così inconsistente? Tutti gli attori internazionali ne portano la responsabilità. L’Unione Europea è sempre un facile bersaglio quando si parla di politica estera, ma in questo caso la sua mancanza di preveggenza ha del clamoroso. L’allargamento a Est ha creato un confine rispetto all’Ucraina e alla Russia, ma nel contempo è rimasto uno scenario rivolto a includere l’Ucraina ed escludere la Russia, sotto l’impulso soprattutto del- la Polonia. Il negoziato sul trattato di associazione per l’Ucraina si è svolto ignorando la Russia, ma nello stesso tempo costituisce un impegno debole e reversibile. La politica degli Stati Uniti appare priva di incisività. La presenza della Nato a Est non è soltanto una permanente fonte di tensione con la Russia ma anche un’arma spuntata e controproducente sulla scena ucraina.

La Russia rivendica legittimamente i propri interessi in Ucraina, ma la sua presenza ha costituito una fonte di destabilizzazione di assetti interni già di per sè fragili. Ciò che più colpisce è l’incapacità russa di esercitare un’egemonia sufficientemente accettata, pur disponendo di mezzi economici decisamente superiori a quelli che l’occidente possa (e voglia) offrire. Putin ha in mano una carta più forte di quelle in possesso dell’occidente nell’ambito del soft power, a differenza dell’Unione Sovietica nell’Est europeo un quarto di secolo fa. Ma ne dispone soltanto come strumento di ricatto e condizionamento. Così il risultato non cambia. L’influenza russa viene percepita da componenti fondamentali della società ucraina come il contrario di una prospettiva democratica.

Come è evidente, la situazione nel paese ha già ampiamente varcato la soglia critica. La presenza di due autorità che rivendicano la legittimità del governo, una delle quelli fuggita in territorio russo (Yanukovich), il massiccio intervento in corso di milizie russe in Crimea, l’autorizzazione parlamentare ottenuta da Putin di inviare ulteriori truppe per salvaguardare gli interessi russi (e insieme la popolazione di etnia russa) nella penisola, non lasciano molto spazio all’ottimismo. Si può davvero immaginare l’internazionalizzazione di una guerra civile combattuta da schieramenti inevitabilmente semplificati, filo russo e filo-occidentale? La rottura dell’integrità territoriale dell’Ucraina? Lo smembramento della Crimea e la sua annessione alla Russia? Tutto ciò sembrava impensabile, oggi non lo è più. Qualcuno ha chiamato in causa il ritorno della guerra fredda. Ma ovviamente la guerra fredda non c’entra niente, se non per il suo retaggio negativo sulle transizioni dell’Europa orientale. Non soltanto perché la politica di potenza ha soppiantato qualunque motivazione ideologica. Ma perché siamo dinanzi a un conflitto difficile da contenere e imprevedibile nei suoi esiti. Se non sarà scongiurato nelle prossime ore, il conflitto armato potenzialmente più disastroso che si sia visto in Europa dalla seconda guerra mondiale a oggi.

L’Unità 03.03.14

"La prudenza di Obama, come Kennedy con Cuba", di Sam Tanenhaus

Di colpo lo spettro della Guerra Fredda è tornato. Certi conservatori spingono Obama ad affrontare Putin nella grandiosa tradizione di altri presidenti coi leader sovietici da Stalin a Gorbaciov. Obama quasi l’ha fatto quando ha avvisato «(Mosca) pagherà l’intervento militare in Ucraina». Alcuni insistono che Obama può evitare la guerra civile, dichiarando il sostegno agli ucraini in piazza. Una posizione simile richiama l’“Ich bin ein Berliner” di Kennedy a Berlino Ovest nel 1963, o la visita di Reagan nel 1987 col suo “Tirate giù il muro” indirizzato ai sovietici. Persino Obama sembrava pescare dalla memoria collettiva di vecchie lotte fra superpotenze quando ha dichiarato che l’approccio americano all’Ucraina «non dev’essere visto come una scacchiera da Guerra Fredda dove siamo in concorrenza con la Russia».
L’immagine della scacchiera è una metafora familiare della Guerra Fredda. Però, trae in inganno. Molte scelte ricordate oggi per la lungimiranza, genialità tattica, furono denunciate all’epoca come debolezza. Gesti eclatanti, pubblici valsero meno di altri piccoli, nascosti. Nata con l’età nucleare, la Guerra Fredda fu definita meno dalla conflittualità che dalla cautela, dal compromesso, a volte la ritirata. Anzi, le manovre più costose – in Corea e Vietnam – furono controproducenti, infiammarono le tensioni. La retorica spesso causa problemi. Nel 1952, Eisenhower promise un’aggressiva politica di “liberazione” dal Comunismo. Eppure, optò sempre per la stabilità anziché il conflitto. Quando Mosca inviò l’Armata rossa a Budapest, molti pretesero un’azione: «Cosa fanno l’Occidente e le Nazioni Unite?». Un’eco è nelle parole di McCain, che definisce Obama «il più ingenuo presidente della storia americana», di fronte a Putin che «vuole far risorgere l’impero russo». Eppure, persino la crisi dei missili a Cuba, fu risolta da un accordo segreto: i sovietici non piazzarono i missili a Cuba, Kennedy li ritirò dalla Turchia.
Più o meno lo stesso fece Reagan, con l’emergenza polacca, la repressione di Solidarnosc. Mostrò prudenza. La Polonia e altri satelliti furono liberati, ma questo fu in parte possibile dopo le trattative con Gorbaciov. Calcoli simili ispirano l’approccio di Obama. È forse tempo di disfarsi della metafora della scacchiera. La Guerra Fredda non era affatto un gioco strutturato fra maestri; era un’epoca spaventosa, ad alta tensione; i leader sapevano che un solo passo falso li avrebbe precipitati nell’abisso.

The New York Times

La Repubblica 03.03.14