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"La sfida decisiva ai populismi", di Claudio Sardo

Il popolo europeo ancora non c’è. Il populismo invece avanza. Anzi, i populismi. Diversi tra loro per messaggi, leadership, matrici geografiche e culturali. E tuttavia accomunati da aspettative crescenti, dal vento della crisi che ne gonfia le vele, da parole d’ordine che stanno diventando senso comune. A cominciare dall’avversione all’euro e all’Unione, dalla chiusura delle frontiere agli immigrati, dal no alle tasse e all’intervento pubblico, dall’incessante polemica contro l’establishment. È politicamente scorretto affiancare il Front National della signora Le Pen con il Fidesz del premier ungherese Orban, il Pvv olandese di Wilders con il partito di Grillo, Alternative fur Deutschland con il Fpo austriaco o con le nuove destre scandinave, però sono innegabili i tratti comuni, favoriti anche da quel linguaggio antipolitico che oggi appaga il diffuso senso di frustrazione e di paura.

Alle prossime elezioni saranno i populisti gli avversari politici più insidiosi della sinistra europea. O forse occorre dire, anche in questo caso, delle sinistre nazionali in Europa, perché purtroppo il sogno europeista – sì, gli Stati Uniti d’Europa, unica possibilità per il Continente di giocare un ruolo da protagonista nella globalizzazione – è ancora lontano dalla famiglia socialista che ieri a Roma ha accolto ufficialmente il Pd e annunciato la candidatura di Schulz alla presidenza della Commissione. Sono i populisti gli avversari più insidiosi perché hanno messo radici nelle stesse basi elettorali e sociali della sinistra. Perché mietono consensi nelle fasce più povere, tra i giovani senza lavoro, nella classe media minacciata. Perché condizionano ormai tutti gli attori politici, e dunque anche le forze di sinistra, il loro sistema di valori. Entrato nella circolazione sanguigna nella sinistra, il populismo la spinge verso radicalismi generici, ma difficilmente questo rafforza i valori di solidarietà e uguaglianza, oppure l’efficacia dei programmi di governo. Di solito produce ancor più dipendenza, più rabbia, più solitudine.

Così, nel timore di non farcela a battere i populismi, si diffonde a sinistra la tentazione di scendere a patti. Si dice che ci vorrebbe un po’ più di «populismo di sinistra». Che l’antipolitica va combattuta con astuzia, assorbendone alcune ragioni. Bisogna intendersi: la sinistra deve anzitutto rimettere radici nel «popolo», dove le ha perse. Questo è il vero problema. E per farlo deve riconoscere i suoi errori e i limiti della politica attuale. Non basterà però un gioco di parole o una spruzzata di indignazione per riacquistare la credibilità perduta. È tempo di dire con forza che questa Europa va cambiata. E soprattutto come va cambiata: con investimenti per lo sviluppo, con bilanci comunitari più impegnativi, con maggiore integrazione, con politiche attive per il lavoro e per i giovani, con la difesa e il rinnovamento del modello sociale europeo. La sinistra deve tornare a essere sinistra. Anche quando è al governo. Diversa dai conservatori europei, non appiattita nella gestione dell’Unione intergovernativa, più coraggiosa nel parlare di Europa unita. La candidatura di Schulz sarà un passo avanti se la campagna elettorale avrà il segno dell’Europa «da cambiare». Ma nessuno si illuda che il percorso sia agevole. I populismi non sono un retaggio del passato. Sono una manifestazione della modernità, che si scontra con la globalizzazione ma ne usa gli strumenti. La sinistra italiana lo sa bene, avendo pagato un prezzo alto all’esplosione elettorale dei Cinque stelle. La modernità sta nella comunicazione veloce, nelle ingiustizie della globalizzazione e dell’austerity europea, nell’insostenibilità del vecchio compromesso tra lavoro, welfare, cittadinanza. Per questo sono necessarie nuove politiche. L’impressione è che la famiglia socialista sia consapevole del bisogno di una nuova «politica». Ma le «politiche» concrete, quelle che producono effetti tangibili, appaiono tuttora inibite da poteri e dottrine che sopravvivono al loro fallimento.

E comunque anche le politiche, da sole, non basteranno a rianimare quella competizione tra destra e sinistra, che i populisti negano. Per tornare ad essere se stessa, la sinistra deve far rivivere i propri valori costitutivi. La sinistra è la speranza di una società più solidale e carica di opportunità. È il desiderio di eguaglianza di chi ha di meno. È, al fondo, l’idea che la persona non verrà abbandonata all’individualismo e alla solitudine. O l’Europa tornerà a essere veicolo di questa visione di pace e prosperità oppure soccomberà tra nazionalismi rinascenti e opportunismi intergovernativi. Il nucleo vitale della sinistra sta nell’affermazione dei diritti sociali e delle speranze comunitarie. Gli stessi diritti civili sono il compimento di una società più solidale: laddove invece i diritti individuali diventano il surrogato (magari in versione ultra-radicale) di una sinistra impotente nelle politiche economiche e sociali, allora non ci sarà più argine all’egemonia liberista e al pensiero unico. Per vincere questa partita la sinistra deve rifondarsi. È una partita epocale. Da essa dipenderà l’Europa dei nostri figli. E forse anche un po’ della civiltà del mondo globalizzato.

l’Unità 02.03.14

"Europa, non basta l’autocritica", di Paolo SOldini

La cronaca di ieri ci ha regalato una coincidenza che deve far pensare. A Roma il partito dei socialisti e democratici europei discuteva il futuro dell’Unione, pieno di problemi, certo. Ma è un futuro radicato nella consapevolezza storica di un destino comune che ha per sempre cancellato la guerra dal suolo dell’Europa. Di questa Europa. Nelle stesse ore in Crimea e sugli incerti confini tra l’Ucraina e la Russia comparivano sulle strade i carri armati, preludio di una guerra che forse c’è già. O che forse non ci sarà ma che comunque è possibile, e la possibilità, le paure, gli odi, i risentimenti che essa porta con sé, hanno la stessa dura consistenza dei fatti. Anche la Crimea, l’Ucraina e la Russia sono Europa. E l’idea che si possa distinguere tra questa e quella Europa è un’illusione. Patetica e pericolosa, come appare evidente se si torna con la memoria alle guerre guerreggiate nei Balcani. Non sono passati neppure vent’anni e chissà quanti ne dovranno passare prima che si spengano le braci che covano ancora sotto la cenere degli accordi e degli equilibrismi tra le nazioni e le etnìe imposti dall’Occidente.

Le immagini dei carri armati nelle strade, dei soldati con il mitra puntato sui civili impauriti entrano con la prepotenza nella nostra percezione e ci feriscono perché sono un richiamo alla nostra impotenza; perché, subdole, insinuano il dubbio che non si tratti di storie lontane che non ci riguardano o riguardano, al massimo, la nostra umana sensibilità. C’è, in noi europei di questa Europa, un sottile senso di colpa che nei commenti e nelle dichiarazioni politiche viene sussunto nella categoria dell’Europa che non c’è: l’Unione non ha una politica estera comune e quindi non ha voce nelle crisi, neppure quelle che la sfiorano; i paesi si muovono in proprio e con gli occhi fissati sui propri interessi e le proprie relazioni ed il risultato è questo. L’autocritica è sacrosanta ma non basta. La crisi dentro l’Ucraina e poi tra l’Ucraina e la Russia non è solo il prodotto di un’assenza dell’Europa, ma anche di errori che sono stati compiuti dall’Unione, da alcuni dei maggiori paesi europei, dagli Usa e dalla Nato: le illusioni sollevate dalla prospettiva, fatta balenare agli oppositori democratici, di una rapida integrazione nella Ue per la quale non c’erano le condizioni; le condizioni feroci poste dal Fmi all’ipotesi di un prestito che avrebbe potuto liberare Kiev dal ricatto economico di Mosca; le ripetute spinte delle amministrazioni americane sul possibile allargamento della Nato ad est; le ambiguità colpevoli nell’atteggiamento di diversi paesi europei verso Putin, autocrate da condannare ma partner commerciale corteggiato. E infine una certa incomprensione del carattere assai composito e storicamente condizionato dell’entità statale ucraina, con le servitù militari russe in Crimea, la composizione etnica del paese, i risentimenti tra le diverse regioni, la cecità di fronte alla presenza, nel movimento di rivolta, di componenti ultranazionalistiche e antisemite.
Questi errori non giustificano, ovviamente, l’atteggiamento aggressivo e pericoloso di Mosca che ha registrato una pesante escalation con il voto della Duma a favore dell’annuncio dell’«intervento armato» da parte di Putin e la richiesta di ritirare l’ambasciatore a Washington. Debbono però essere considerati nella ricerca di un assetto che garantisca la tutela dei diritti e delle libertà degli ucraini e quella della stabilità nell’area. Ha fatto bene Martin Schulz a dichiarare, appena eletto dal congresso di Roma candidato alla presidenza della Commissione Ue, che «l’integrità territoriale dell’Ucraina va rispettata» e che «non accetteremo violenze» da parte dei russi. Ma aggiungendo che «deve essere garantita l’autodeterminazione» del paese, di fatto l’esponente socialdemocratico mette in conto anche l’ipotesi di una scissione da parte della Crimea e delle regioni orientali a maggioranza russofona. Schulz sottolinea che la questione non è affare solo di Kiev e di Mosca «ma di tutta la comunità internazionale» e vanno coinvolti «non solo la Ue ma anche gli Usa, l’Onu e l’Osce». È possibile, anche se improbabile, che le pressioni della comunità internazionale facciano recedere Putin. Così com’è possibile che il conflitto porti, alla fine, a una divisione del paese. Ma ciò che gli europei dovrebbero impegnarsi a garantire è che le soluzioni vengano cercate con la garanzia delle organizzazioni internazionali, l’Unione, gli Usa, l’Osce ma, come chiede Schulz, anche l’Onu. Può sembrare una manifestazione di ottimismo incongruo, ma la crisi ucraina, nella quale né la Ue né gli Usa sembrano in grado di mediare, pare dimostrare in modo plateale la necessità che si riprenda l’iniziativa sulla riforma e la rivitalizzazione delle Nazioni Unite.

L’Unità 02.03.14

“Ricorda il meglio di Blair” “No, Tony era tutta un’altra cosa”, di Francesca Paci

Il parere dei corrispondenti stranieri in Italia sul leader del Pd. Se il congresso del partito socialista europeo doveva essere il debutto internazionale di Renzi, il corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung Michael Braun è convinto che il neo premier se la sia cavata bene. O, quanto meno, che abbia stupito con la sua ormai proverbiale velocità: «Bersani aveva sempre caldeggiato l’adesione del Pd al Pse senza riuscire a vincere la resistenza di ex Dc e popolari. Renzi ha giocato come al solito sul fattore tempo, non c’è stato neppure un vero dibattito in segreteria, hanno votato tutti a favore con l’eccezione di Fioroni, detto fatto. Una questione formale perché il Pd era già nel gruppo socialista a Strasburgo, ma l’entrata nel partito è significativa in un momento in cui i socialisti devono rafforzarsi non tanto per sperare di crescere al voto di maggio quanto per non perdere». Braun era già in Italia da due anni quando nel 1998 nascevano i Ds, ha seguito tutti i mal di pancia e le mutazioni genetiche della sinistra italiana: «Da quando è capo del governo Renzi ha aggiustato il tiro soprattutto sull’Europa, ricordo che prima chiamava il patto di stabilità “piatto di stupidità” mentre ieri parlando dell’urgenza di rimettere i conti in ordine anche per i suoi figli ha fatto un discorso digeribile perfino per la Cancelliera Merkel».

Renzi che ricorda Tony Blair, Renzi che può risultare orecchiabile alle Merkel, Renzi nel Pse. Renzi un estraneo, ma per chi? La delegazione spagnola a Roma non si è pronunciata, giura la corrispondente di El Mundo Irene Hernández. Certo, i socialisti sanno di aver accolto un ex democristiano, un outsider: «Ci sono sospetti, è ovvio. Anche nel Pd italiano ce ne sono. La sua posizione sulla liberalizzazione del mercato del lavoro è atipica ma poi Renzi è molto di sinistra sull’Europa, molto più di Grillo e Berlusconi. A me ricorda davvero Tony Blair, non un infiltrato di destra ma uno capace di prendere voti a destra. Forse è per questo che temendo di vedere il Pd andare malissimo al voto europeo ha deciso di “accoltellare” Letta».

Chi non assocerebbe il neo premier italiano al leader laburista promotore della Terza via è il suo connazionale David Willey, corrispondente della Bbc: «Ho notato che al congresso del Pse Renzi ha iniziato a usare parole inglesi, good luck… Scherzi a parte, sebbene sia stato sicuramente colpito dell’esempio di Blair Renzi non lo ricorda: Blair era molto preparato sin dall’inizio mentre Renzi ha buone idee ma dubito che possa riuscire a realizzarle».

Renzi socialista europeo è il solito Renzi, chiosa il corrispondente di Libération Eric Jozsef. Bene e male: «È sciolto, ha parlato di Europa con riferimenti concreti e non retorici diversamente dagli altri leaders. Ha citato anche il calcio che, come l’Erasmus e la moneta unica, è per i giovani il senso ultimo dell’Europa. Poi però la domanda è sempre la stessa, quale sarà la sostanza di quei discorsi? Anche perché all’estero, dove Letta era molto apprezzato per le sue competenze e per l’europeismo, il cambio di passo ha destato un certo stupore». Se dovesse azzardare un parallelo, Jozsef lo declinerebbe in francese: «Renzi è un ibrido tra il Sarkozy del 2007 e la Ségolène Royal dello stesso periodo. Il primo, super energetico, aveva fatto dell’idea di rottura la sua parola d’ordine e dialogava con un elettorato estraneo al suo. L’altra che nel 2006 è stata letteralmente la rottamatrice della sinistra francese prendendosi il partito contro tutti». Poi c’è l’Europa dei governi, dei popoli, dei socialisti: «Il Pse aggiunge la parola democratico al suo nome in ritardo, ancora più in ritardo del Pd italiano, che lo fece vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Ora sembra una scelta di necessità per fronteggiare i conservatori e contenere l’avanzata dei populismi in Europa. Ma oltre a condividere la necessità di riorientare la politica economica e uscire dalla sola austerità, i socialisti italiani, francesi, tedeschi e tutti gli altri dovrebbero anche dire se sono tutti d’accordo su un’Europa federale».
FRANCESCA PACI

"Il Bastone dello Zar", di Franco Venturini

Ora lo riconosciamo, Vladimir Putin. Non è più quello edulcorato che voleva a tutti i costi chiudere in bellezza i Giochi di Sochi. Non è più nemmeno quello silenzioso dei giorni seguenti. Ora la pianificazione è finita, e il giocatore di scacchi che è in lui ha elaborato una strategia consona alle tradizioni russe: sarà l’uso della forza a raccogliere la sfida ucraina e a far sapere, a Kiev come alle capitali d’Occidente, che nulla può essere fatto in Ucraina senza tener conto degli interessi della Russia.
In verità questo ben pochi lo ignoravano, e può far testo l’insistenza con la quale Angela Merkel ha tentato di coinvolgere il Cremlino nella mediazione condotta con poca fortuna dagli europei. Ma una mano tesa per riparare alla micidiale sconfitta di piazza Maidan a Putin non poteva bastare. E allora ecco che soldati senza insegne ma troppo disciplinati e ben equipaggiati per non essere russi si impadroniscono delle infrastrutture strategiche della Crimea. Sono usciti dalla base navale di Sebastopoli, oppure sono giunti dalla Russia mentre Putin concordava con i suoi interlocutori occidentali che l’integrità territoriale dell’Ucraina va salvaguardata? Ormai poco importa, perché Putin ha impugnato un bastone più grosso: si è fatto autorizzare dal Senato di Mosca l’invio in Crimea di altri soldati, senza tuttavia decidere subito il loro trasferimento.
Pare seguire una tattica da manuale, Vladimir Putin. Mostrarsi duro nella tutela dei compatrioti e della flotta di Crimea perché l’opinione interna russa non gli perdonerebbe una esibizione di debolezza, tanto meno in Ucraina. Lasciare però in sospeso il secondo intervento tenendolo a disposizione (per poco) come carta negoziale. E nel frattempo mobilitare le popolazioni russofile dell’est e del sudest dell’Ucraina, come difatti è accaduto ieri, in modo da poter sostenere che gli «estremisti» di Kiev sono isolati.
Ma il punto è che le acrobazie di Putin, per quanto brillanti, non possono nascondere la distanza che separa una rivolta popolare da un intervento armato. Non possono mascherare quella che da parte russa è una reazione ampiamente prevedibile, ma non per questo meno inaccettabile. Putin pensa di ripetere la Georgia del 2008, di mandare le sue forze oltre la Crimea? Sarebbe un temerario se lo facesse, scatenerebbe una guerra civile dalla quale dovrebbe poi districarsi. Favorirà l’indipendenza della Crimea, la sua secessione? È possibile. Ma è più probabile che mentre muove le truppe aspetti al varco una Ucraina sull’orlo del default , alla quale Mosca può ritirare aiuti e sconti sul gas. Nessuno in Occidente, pensa Mosca, vorrà pagare un conto di 35-40 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Questa è la vera, la più potente arma di Putin. Ora tocca all’Occidente raccogliere la sfida.

Il Corriere della Sera 02.03.14

"Università senza ricerca, Paese senza futuro", di Sebastiano Maffettone

​Lo scorso weekend ho visto, come molti italiani, Smetto quando voglio . Un film leggero che racconta una storia pesante. Il cuore della vicenda riguarda i nostri laureati più bravi e il fatto che purtroppo il Paese non sa che farsene. Risultano, come si dice in gergo, overqualified , cioè troppo preparati per il mercato del lavoro che li aspetta. Chiunque, come chi scrive, viva nel mondo dell’università è pienamente, e tristemente, consapevole della situazione. Il problema consiste nel sapere che cosa si possa fare per uscirne. E, innanzitutto, nel rendersi conto dei segnali che non diamo e delle direzioni sbagliate che prendiamo. Di questi errori, teorici e pratici assieme, mi permetto di segnalare i tre che sono all’origine di ripetute proposte di riforma.
Il primo errore sta nell’insistere sul fatto che l’esperienza della research university sia definitivamente al tramonto. università di ricerca sono quelle che, come Harvard e Oxford, impegnano enormi risorse non solo economiche nella ricerca di base. E vedono l’insegnamento come un’attività non indipendente da questa stessa ricerca. Ritengono che la teoria sia un lusso necessario senza il quale anche la prassi perde valore. Queste benemerite istituzioni attraversano davvero un periodo di crisi, ma non si vede chi e che cosa possa prendere il loro posto. Gli esperimenti di e-learning e insegnamento a distanza sono lontani dal raggiungere un livello adeguato.
Il secondo errore consiste nel ritenere che bisognerebbe puntare tutto sul rapporto tra formazione e mercato del lavoro. Nessuno sottovaluta la tragedia della disoccupazione giovanile. Tuttavia, pensare che si risolva il problema dell’università italiana, e più ancora del Paese intero, sfornando solo tecnici possibilmente con laurea breve è una sonora sciocchezza. Non lo dico solo per amore delle humanities o per nostalgia della cultura letteraria di una volta. Ma piuttosto perché mai come adesso l’Italia ha bisogno di creatività e dialogo tra diversi approcci scientifici e tematici. Tutto ciò non lo si ottiene trasformando le università in agenzie interinali, ma gettando le basi per un futuro in cui l’immaginazione aiuti la produzione. Bisogna evitare soprattutto di confondere le acque: i problemi che abbiamo non sono tanto dell’università ma del tessuto produttivo italiano. La proposta di rito di tagliare i fondi alla ricerca non serve quindi a niente, perché è fondamentalmente l’economia del Paese che non funziona.
Il terzo errore dipende dal credere che la competenza accademica e scientifica si possa misurare con standard esterni puramente formali. La sfilza infinita di tabelle, indici, mediane e così via non produce giovani studiosi migliori. Tutt’al più produce specialisti nel farsi inserire nei ranking nazionali e internazionali. Come sa chiunque abbia fatto ricerca, la capacità di farla dipende dalla passione, dal contesto intellettuale e dagli esempi che abbiamo a portata di mano. Non certo dalle classifiche. In tutti i casi, svuotare le istituzioni accademiche di finanziamenti e risorse, come accade ormai da troppo tempo, non può che condurre alla fine dell’attività di ricerca di un Paese, indipendentemente dai criteri di valutazione che si vogliano adottare. Continuando così arriveremo al paradossale mondo in cui tutte le nostre energie si concentrano sul tentativo di «misurare», senza sapere bene come e perché, qualcosa che sta inesorabilmente scomparendo.
Si potrà essere più o meno convinti dalle mie tesi. Certamente, però, ci si chiederà perché questi tre mantra sull’università siano, a mio avviso, così pericolosi. Lo sono perché nel loro insieme tendono ad annichilire la priorità dello studio e della ricerca nell’ambito della formazione accademica. E una conseguenza del genere è assai rischiosa perlomeno per due ragioni. In primo luogo, l’università italiana non è poi così male, soprattutto se si considera l’investimento economico, morale e politico su cui può contare. Avendo avuto l’opportunità di insegnare in alcuni dei migliori atenei del mondo, ho la consapevolezza che gli studenti e ricercatori italiani in media non sono peggio degli altri. Tanto è vero che quando vanno all’estero hanno di solito ottimi risultati. Se noi insistessimo a commettere gli errori di cui ho parlato, invece, peggioreremmo la qualità scientifica del Paese e annulleremmo l’amore per la ricerca dei nostri futuri studenti. In secondo luogo, l’Italia vive un periodo di crisi profonda legato alla presenza di mercati globali che ci rendono comparativamente meno produttivi. L’unico modo per uscirne — in un Paese che gode tra l’altro di una straordinaria storia culturale — consiste nell’investire in capitale umano. Gli errori che ho indicato vanno invece nella direzione opposta.

Il Corriere della Sera 02.03.14

“Subito il commissario contro la corruzione", di Matteo Renzi

Caro Roberto, venerdì mattina, mentre leggevo dalle pagine di Repubblica il tuo articolo appassionato, ho pensato subito alle ragazze e ai ragazzi che ho conosciuto nel mio viaggio nella Terra dei Fuochi. O nei campi sottratti alla criminalità che ho visitato da amministratore, da Canicattì a Corleone, e — insieme a loro — alle tante persone perbene che hanno scelto, “nelle terre di mafia” di fare comunque la propria parte.
Questo meraviglioso esercito di piccoli grandi eroi civili, che abbiamo imparato a conoscere anche grazie ai tuoi racconti, lavora nelle associazioni e nei movimenti contro le mafie; sono gli imprenditori e i negozianti che hanno denunciato le estorsioni rinunciando per sempre a una vita normale; gli scrittori; i giornalisti-giornalisti, per citare la nota scena di Fortàpasc,
la bellissima pellicola che racconta della storia di Giancarlo Siani; gli studenti che coltivano le terre confiscate ai mafiosi, i familiari delle vittime innocenti; le forze di polizia che combattono quotidianamente una battaglia di tutto il Paese.
Ognuno di loro sa perfettamente che non basterà il proprio impegno per vincere la battaglia contro le mafie, eppure ci provano lo stesso. Lo fanno per non rassegnarsi, proprio come fanno associazioni come Libera, a chi dice che tanto mai nulla potrà cambiare. So che tu, insieme a tutte queste persone, vi aspettate che la lotta alla criminalità organizzata diventi per davvero la priorità del governo e delle Istituzioni. Questo impegno io lo assumo.
TUTTI COLORO CHE HANNO INDAGATO SULLE MAFIE,
che le hanno osservate, studiate e raccontate al mondo, tutti i magistrati, i giornalisti e quei politici, che hanno anche perso la vita per combatterle, ci hanno spiegato che il cuore delle organizzazioni criminali è negli affari che conducono, nelle ricchezze che accumulano e ostentano e anche in quel confine sottile, sottilissimo, che esiste tra lecito e illecito con l’appoggio, con il consenso, con la collusione e qualche volta semplicemente con il silenzio di chi riveste ruoli di responsabilità nella politica, nelle amministrazioni e nell’economia. Sono questi i legami che dobbiamo smascherare e recidere. Faremo un lavoro serio e puntiglioso, insieme alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, non solo per capire che cosa sia avvenuto in questi anni nel contesto della crisi economica che ha investito il Paese ma soprattutto per adottare le misure necessarie sul piano legislativo e amministrativo. Con una proposta organica sulla base del lavoro fatto dalla commissione presieduta da Garofoli istituita a Palazzo Chigi, con Cantone e Gratteri, per elaborare strumenti e contributi per rendere più incisiva la lotta alla criminalità organizzata.
Quello che va aggredito, hai ragione, è la «Mafia SpA», presente in ogni comparto economico e finanziario del Paese, al Sud come al Centro-Nord, quell’economia criminale che colpisce imprese e società al collasso, come conferma l’analisi della Direzione Nazionale Antimafia.
E questo fenomeno è favorito anche dalla consapevolezza, da parte degli appartenenti alle organizzazioni criminali, di non rischiare molto sul piano penale, anche perché nel nostro codice penale manca il reato di autoriciclaggio. Il paradosso di un estorsore o uno spacciatore di droga che non viene punito se da solo ricicla o reimpiega il provento dei suoi delitti sarà superato con assoluta urgenza attraverso l’introduzione del delitto di auto riciclaggio.
In questo senso, aggredire i patrimoni mafiosi può essere una delle grandi risposte che il governo è in grado di dare, dal punto di vista economico, per fronteggiare la crisi. Una giustizia più veloce, più efficace da questo punto di vista, è uno degli strumenti che possiamo mettere in campo come Paese per uscire dalla situazione economica in cui ci troviamo.
COSÌ COME OCCORRE RIPENSARE LO STRUMENTO DELLA CERTIFICAZIONE antimafia, che troppo spesso e con troppa facilità si riesce ad aggirare; è necessario, in questo senso, introdurre sistemi di controllo che consentano di individuare la provenienza dei capitali illeciti, anche per debellare il fenomeno dei “prestanome”, ma sburocratizzando il più possibile quest’attività per evitare che diventi un inutile aggravio per gli imprenditori onesti. E’ urgente porre il tema della riforma dell’Agenzia Nazionale Beni Confiscati che oggi è senza capacità di agire con immediatezza ed efficacia: una specie di “carrozzino” pubblico senza mordente, senza strumenti efficaci. Solo nell’ultimo anno i sequestri ammontano a oltre 4 miliardi e le confische a 1 miliardo e mezzo. Bisogna restituire ai cittadini quanto i clan hanno loro sottratto, impiegando quelle risorse, con una logica che deve essere quella di una moderna politica dell’antimafia, e cioè per produrre occupazione e sviluppo. E, per far questo è necessario anche assicurare alle aziende confiscate agevolazioni fiscali e creditizie; un’impresa sottratta alle mafie che fallisce è una sconfitta che lo Stato non dovrà più permettersi.
LE MAFIE S’INFILTRANO NEGLI ENTI LOCALI e ne condizionano l’andamento, a danno dei cittadini, al Sud come al Nord, solitamente lasciando paurosi dissesti.
Per questo nei prossimi mesi interverremo anche sul tema dello scioglimento dei consigli comunali: la modifica del 2009 ha affrontato solo alcuni degli aspetti problematici
della disciplina: bisognerebbe, invece, agire su più fronti ancora. In particolare, è necessaria l’individuazione e la scelta dei commissari fra soggetti anche esperti di management e di gestione aziendale, prevedendo che questi debbano svolgere il loro incarico a tempo pieno e che possano operare anche in deroga alle regole del patto di stabilità per rilanciare l’attività di governo degli enti sciolti e soprattutto bonificare, dove necessario, le strutture burocratiche inquinate; andrà prevista la possibilità di sciogliere le società private ad integrale partecipazione degli enti locali o quelle miste e un obbligo protratto per un certo periodo di utilizzare la stazione unica appaltante dopo l’uscita dal commissariamento.
Anche per le regioni andrà studiata una normativa che eviti i rischi di infiltrazione mafiosa, ovviamente nel rispetto delle loro prerogative di autonomia riconosciute dalla Costituzione.
Un’altra emergenza, strettamente connessa a quelle delle mafie, pure da affrontare — come ci ha di recente ricordato l’Unione europea — è la corruzione il cui costo ammonta a 60 miliardi di euro ogni anno, pari al 4% del Pil italiano, circa metà dei danni provocati in tutta Europa. Una cifra enorme. Per questo è fondamentale dare piena attuazione alle legge 190 del 2012 e a tutte quelle norme in tema di prevenzione e trasparenza in essa previste; su questo fronte di impegno a nominare immediatamente, a partire già dai prossimi giorni, il Commissario anticorruzione, come previsto dalla stessa legge.
IN UNA LOGICA DI CONTRASTO INTELLIGENTE ALLE ILLEGALITÀ,
dovremo anche saper guardare alle vittime per organizzare l’intervento dello Stato a loro sostegno: familiari di vittime innocenti, testimoni. Mai più la sensazione di essere stati lasciati soli dallo Stato dopo aver denunciato!
In questa stessa prospettiva dobbiamo assicurare, col massimo rigore, protezione a chi offre un contributo di giustizia per offrire all’autorità inquirente i migliori strumenti legislativi per sfruttare questo contributo.
Così come dovremmo assicurare vicinanza, sostegno, a chi come te, ha fatto della parola uno strumento di libertà e di cambiamento: penso ai tanti giornalisti minacciati, spesso precari, troppo spesso lasciati completamente soli.
In definitiva, dovrà essere chiaro che per il nostro Paese le mafie sono violenza, sopraffazione e povertà. Un punto solidissimo, chiaro, come quello che questa battaglia si combatte a partire dalla scuola, dal lavoro fatto dai nostri insegnanti negli istituti come antidoto alla criminalità organizzata, a una cultura, anzi ad una incultura delle mafie. Porterò questi temi anche sui tavoli del semestre europeo che si apre tra qualche mese, perché la mafia non è più solo un problema italiano. C’è tanto lavoro da fare. Un lavoro fondamentale, hai ragione Roberto. E io lo farò facendo mio il grido rivoluzionario di un parroco di provincia anche a te molto caro, Don Peppe Diana:“per amore del mio popolo, non tacerò”. Accorciare le distanze tra quel che di buono è stato fatto e il tanto che ci resta ancora da fare sarà il modo migliore per ricordare con don Peppe, con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutte le vittime innocenti delle mafie, ma anche quelle ragazze e quei ragazzi che non hanno scelto dove nascere, ma che hanno scelto di restare, di cambiare la loro terra e di renderla migliore.

La Repubblica 02.03.14

"Congresso Pse, Renzi saluta l'ingresso del Pd: "Un giorno speciale", da repubblica.it

Un manifesto in dieci punti, con il lavoro al primo posto. E’ questo il documento approvato oggi al Congresso del Pse a Roma che ha incoronato il tedesco Martin Schultz a candidato per la presidenza della Commissione Europea, con l’obiettivo di “cambiare” l’Europa dopo che i conservatori hanno portato “paura e austerità” .

Dal palco ha preso la parola anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi, a lungo seduto in prima fila tra Schulz e la segretaria della Cgil, Susanna Camusso. Renzi ha innanzitutto ringraziato Pierluigi Bersani, Piero Fassino, Massimo D’Alema e tutti i predecessori alla guida del Pd e dei suoi ‘affluenti’. “Per i democratici è un giorno speciale – ha detto in inglese – perché è un momento molto importante per la nostra comunità. E un pensiero va al mio amico Bersani, a Piero Fassino e Massimo D’Alema e a tutti i leader del Pd e prima del Pds-Ds”.

“Io credo – ha proseguito il segretario democratico – che la più grande scommessa che dobbiamo vincere è quella dell’educazione e l’attenzione verso la scuola, dove si costruisce la condizione dell’Europa economica. Se questo avverrà il Pd sarà orgoglioso di far parte di un cammino economico comune”. “L’Europa sociale è condizione e non figlia dell’Europa economica”, ha aggiunto. Per realizzare un nuovo modello in Europa, ha insistito il leader del Pd, “l’Italia deve adempiere ai propri obblighi ma noi dobbiamo tenere i conti in ordine non perché ce lo chiede l’Europa ma perché ce lo chiedono i nostri figli”.

“In un momento terribile di spread non economico ma per la vita dei cittadini – ha proseguito – noi dobbiamo fare in modo che il piccolo artigiano non veda l’Europa come il problema ma come la soluzione dei problemi, come l’Europa dei cittadini e non dei burocrati. Questo è il nostro obiettivo”.

In platea anche il leader di Sel Nichi Vendola. “Sono qui in segno di amicizia per Martin Schulz e come convinto sostenitore della lista Tsipras, con la speranza che le sinistre aiutino l’Europa a uscire da questo incubo” dell’austerity e “a superare la terribile tenaglia rappresentata in tutta l’Ue dai governi delle larghe intese”, ha spiegato.

In conclusione dei lavori il congresso Pse, come detto, ha candidato ufficialmente Martin Schulz alla presidenza della Commissione europea. I delegati hanno espresso 368 voti favorevoli, 2 contrari e 34 astenuti.

“I nostri amici italiani – ha detto tra l’altro Schulz nel suo intervento – ce la stanno mettendo tutta per rendere l’Italia un paese più forte, più giusto, un paese dove Matteo Renzi ha definito un piano di riforme coraggioso per ridare speranza e futuro all’Italia”.

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