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"Il Lodo che mette l’Italicum alla prova", di Ninni Andriolo

Chiusa la partita dei sottosegretari si apre per Renzi quella dell’Italicum. La Camera inizierà a discuterne martedì prossimo, il voto finale dovrebbe arrivare in settimana. Al di là delle richieste di merito sulle soglie di sbarramento, sul premio di maggioranza, su preferenze, primarie, ecc, tra i parlamentari della maggioranza prevale – a Montecitorio come a Palazzo Madama – la richiesta di legare la riforma del voto a quella del Senato. Posizione che trova sponde consistenti nel governo, basti pensare – e non solo – alla componente ministeriale di Alfano. Ma Forza Italia si oppone e richiama il patto Renzi-Berlusconi per sostenere che nulla va cambiato. Il fatto nuovo delle ultime ore, tuttavia, riguarda le aperture del Presidente del Consiglio, uno dei due contraenti dell’intesa del Nazareno. Renzi si sarebbe impegnato con i vertici del gruppo Pd alla Camera «a convincere Berlusconi» sul «nesso politico stretto che esiste tra accordo elettorale, riforma del Senato e Titolo V della Costituzione». Un pressing che dovrebbe aprire la
strada al voto dell’Aula a favore dell’emendamento Lauricella, lo stesso che subordina l’entrata in vigore delle nuove regole al superamento del Bicameralismo perfetto che incontra molti consensi nel Pd, nel Nuovo centrodestra e tra i centristi. E che, almeno dai contatti informali, non farebbe registrare ostilità in Sel, nella Lega e tra i grillini. Il fatto è che Berlusconi avrebbe garantito ai suoi che «la riforma del Senato non si farà». E questo, assieme agli ultimatum di Brunetta – «la riforma elettorale dovrà essere approvata entro marzo» – conferma le convinzioni di chi sospetta che il Cavaliere punti solo al voto anticipato. E a trarre vantaggio da un meccanismo «che produrrebbe maggioranze diverse a Montecitorio e a Palazzo Madama, darebbe voce in capitolo ai partiti maggiori a scapito dei più piccoli, riproporrebbe alla fine le larghe intese». Questi gli effetti dell’Italicum «qualora il testo non venisse modificato». Giuseppe Lauricella, il deputato Pd che ha depositato l’emendamento che sostituisce l’articolo 2 sulla disciplina del voto per il Senato, sottolinea i rischi di incostituzionalità delle nuove norme e ricorda che il presidente della Consulta, Gaetano Silvestri, ha richiamato l’attenzione su due principi: «quello della rappresentanza e quello della governabilità». Contenuti su cui riflettere, quindi, anche in funzione degli scenari politici futuri. Renzi è di fronte a un bivio, anche perché la partita dell’Italicum non si conclude alla Camera e preveda un difficile secondo tempo al Senato. Bisognerà comprendere se Berlusconi – pur di mantenere lo status “riformatore” delle ultime settimane – sarà costretto a non smentirsi sulla proclamata esigenza di superare il bicameralismo perfetto o se farà prevalere, al contrario, la logica elettoralistica che ostenta in privato (e non solo). Renzi dovrà «andare a vedere», consapevole com’è delle posizioni diffuse nei suoi gruppi parlamentari sulle garanzie anti elezioni anticipate. I rischi di rottura non vanno esorcizzati, così come le sponde leghiste, grilline e di Sel che possono controbilanciare patti blindati con Forza Italia. Con questi si dovrebbe misurare il premier se non riuscisse a far cambiare idea a Berlusconi.

Sembra impraticabile, tra l’altro, l’idea – che i retroscena giornalistici attribuiscono a Renzi – di trasformare l’emendamento Lauricella in un Ordine del giorno. «Un Odg che impegna il governo a far scattare l’Italicum dopo la riforma del Senato? – chiede il parlamentare siciliano del Pd – Ma questo non ha logica, non è materia di pertinenza dell’esecutivo». Lauricella esclude, tra l’altro, che il suo emendamento possa essere sottoposto al voto palese. «Il testo sostituisce l’articolo 2 con un nuovo articolo – spiega – E tutti gli articoli dovranno essere approvati o respinti con voto segreto». A decidere, in caso di controversie, dovranno essere il presidente della Camera e la Giunta per il regolamento di Montecitorio. Per lo scrutinio palese lavora naturalmente Forza Italia, ben consapevole dell’orientamento prevalente tra i parlamentari che potrebbe esprimersi con maggiore libertà nel voto segreto. Alla fine, per non creare fibrillazioni ad un governo nato grazie alle garanzie non scritte concesse ad Alfano e per non bruciare formalmente il «patto» con Berlusconi (anche per eventuali futuri risvolti elettorali) – il voto segreto sul lodo Lauricella deciso dalla Camera potrebbe fornire a Renzi più di un alibi togliendogli molte castagne dal fuoco.

L’Unità 01.03.14

"Il disastro del lavoro. Spariti 478 mila posti", di Luigi Grassia

Il 2013 del lavoro è stato un disastro e anche l’avvio del 2014 porta solo cattive notizie: la ripresa non si vede. I numeri diffusi ieri dall’Istat dicono che l’anno scorso è stato perso quasi mezzo milione di posti di lavoro, si è registrata una media mensile di 3,1 milioni di disoccupati e la quota di senza lavoro fra i giovani al Sud ha superato il 50%. Nessuna inversione di tendenza a gennaio 2014 con il numero dei disoccupati che cresce a 3,3 milioni.

Il record dal 1977

Il tasso della disoccupazione a gennaio ha toccato il massimo da quando si registrano le serie storiche mensili (2004) e le serie trimestrali (1977): adesso siamo al 12,9% in crescita di 0,2 punti su dicembre e di 1,1 punti su gennaio 2013.

I disoccupati conteggiati nel mese sono 3.293.000, più che raddoppiati rispetto a gennaio 2007 (1.513.000) quando la crisi non era ancora cominciata. Quanto al tasso di occupazione (cioè la percentuale degli occupati) scende al 55,3%, un numero basso rispetto alla media europea. Fra i giovani la disoccupazione vola al 42,4%.

Il 2013 l’anno peggiore

L’anno scorso gli occupati sono diminuiti di 478.000 unità rispetto al 2012 (-2,1%), un dato peggiore anche di quello del 2009 che finora risultava il momento più nero della crisi. E’ Calata soprattutto l’occupazione maschile (-350.000) mentre l’occupazione femminile è scesa dell’1,4% (-128.000 unità). Fra il 2008 e il 2013 l’economia italiana ha perso quasi un milione di posti di lavoro (984.000).

Al lavoro sempre più vecchi

Nel 2013 il calo degli occupati è dovuto soprattutto al crollo dell’occupazione giovanile (482.000 occupati in meno tra i 15 e i 34 anni) e della fascia centrale (-235.000 unità tra i 35 e i 49 anni) mentre la fascia più anziana guadagna terreno (+239.000 gli over 50). Il tasso di disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni arriva al 40% con un picco del 51,6% nel Sud (e del 53,7% le giovani donne nel Mezzogiorno).

Industria e costruzioni

Nel 2012 l’occupazione nell’industria in senso stretto diminuisce di 89.000 unità (-1,9%). Si accentua la flessione nelle costruzioni (-163.000 unità pari a un -9,3%). I posti di lavoro si riducono anche nel terziario (-1,2% cioè 191.000 unità in meno) con cali soprattutto nella pubblica amministrazione e nel commercio.

Gli scoraggiati

Crescono in maniera sostenuta (+11,6%) coloro che rinunciano a cercare lavoro perché pensano di non trovarlo (i cosiddetti scoraggiati) arrivati in cifre assolute a 1.790.000. L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (12 mesi) sale al 56,4 per cento nel 2013.

Inflazione a gennaio -0,1%

Ieri l’Istat ha dato anche i numeri dell’inflazione, che purtroppo vanno nello stesso senso di quelli dell’occupazione, cioè ci dicono che la crisi è grave e non è finita. A febbraio l’inflazione su base annua frena in maniera ancora più decisa del recente passato: l’indice dei prezzi risulta in crescita di appena lo 0,5% (da paragonare con lo 0,7%, di gennaio). È il valore più basso da ottobre 2009. Su base mensile, cioè nel confronto fra gennaio e febbraio 2014, l’indice è addirittura in calo (-0,1%) e questo rafforza il timore della deflazione. Di solito un calo dei prezzi è una buona notizia ma non lo è per niente se è dovuto al regresso generale dei consumi; e purtroppo è questo il caso dell’Italia nel 2014. È un circolo vizioso: meno consumi, meno crescita, meno consumi eccetera. L’Istat sottolinea la diminuzione mensile dell’indice dei prezzi dei vegetali freschi (-4,6%) e della frutta fresca (-1,0%). In discesa anche i carburanti: dalla benzina (-0,5% su gennaio e -3,6% sull’anno) al gasolio per i mezzi di trasporto (-0,6% sul mese e -3,4% in termini tendenziali).

La Stampa 01.03.14

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Taddei: “Subito le tutele per i lavoratori a progetto. Impossibile sostenere tutti”

Taddei, fino a ieri la politica ci ha raccontato la favola secondo la quale la crisi è alle nostre spalle, poi arrivano i dati sulla disoccupazione e ci raccontano un altra verità. Lei che ne pensa?
«Nell’ultimo trimestre dell’anno si è certamente arrestata la caduta del prodotto. Ma l’esperienza nei Paesi sviluppati mostra che dopo la fine di una recessione passano sei-nove mesi prima che l’occupazione riparta».
Significa che prima di giugno la situazione non migliorerà. È così?
«E’ lo scenario più probabile. Questa è la ragione per la quale occorre intervenire con urgenza per l’allargamento delle tutele dalla disoccupazione. Faccio notare che nell’ultimo anno hanno perso il lavoro 330mila persone. Di queste, 140mila sono lavoratori atipici con sussidi minimi o pari a zero».
Renzi ha promesso un pacchetto lavoro pronto per il primo vertice con Angela Merkel fra due settimane. Da dove inizierete? Ci sarà anche il contratto unico?
«Il primo passo è dare tutele a chi oggi non le ha, poi stimolare l’economia con la riforma fiscale. Solo allora parleremo di forme contrattuali».
Nel suo progetto c’è l’allargamento della tutela dalla disoccupazione dei lavoratori atipici. Ma quanto costerà davvero? Secondo alcuni ci vorrebbero miliardi.
«Come sempre i costi dipendono dall’ampiezza di una riforma. Noi pensiamo che l’attuale Aspi (il mini-sussidio garantito dalla riforma Fornero, ndr) possa essere esteso ai lavoratori a progetto e allungata nella copertura con una spesa comparabile alla somma dell’Aspi e della cassa integrazione in deroga».
Quindi non ci sarà la cosiddetta universalizzazione delle tutele. Non è così?
«No, ma coprirà molti più lavoratori di oggi. La platea dei potenziali beneficiari si allargherebbe di oltre trecentomila lavoratori attualmente sprovvisti di una vera protezione dalla disoccupazione».
Parliamo ora della riforma fiscale. La sensazione è che non abbiate ancora deciso se privilegiare un taglio corposo dell’Irap – ve lo chiedono le imprese – o quello dell’Irpef, caldeggiato dai sindacati. Per fare entrambe le cose le risorse non ci sono. Dunque?
«L’unica cosa che non possiamo fare è un mini-taglio: rischieremmo di spendere i soldi dei contribuenti senza ottenere effetti significativi sulla crescita».
Le imprese sostengono che un taglio visibile dell’Irap costerebbe meno ed avrebbe un impatto più rapido sull’economia. Lei che ne pensa?
«Non si può dire che costerebbe meno in sé, ma è ragionevole pensare che avrebbe un effetto più veloce sul costo del lavoro. Ciò detto i lavoratori di questo Paese si aspettano un miglioramento delle proprie buste paga attraverso una riduzione dell’Irpef. Questo è il dilemma sul quale ci stiamo interrogando».
Dalla revisione della spesa quest’anno avrete nella migliore delle ipotesi sei miliardi di euro. Il resto arriverà dall’aumento dell’imposta di tutte le aliquote finanziarie?
«Anche su questo è in corso una riflessione. Certo è che l’obiettivo complessivo è la riduzione della pressione fiscale partendo dalle tasse sul lavoro».
Renzi ha ipotizzato uan tassazione diversa solo per alcuni prodotti finanziari. Ci può spiegare meglio cosa significa?
«Il tema è molto delicato, le posso dire solo che stiamo valutando le opzioni possibili».
Contate anche su un po’ di flessibilità nel rispetto del deficit da parte dell’Europa? Di questo Renzi parlerà con la Merkel?
«Dalla Germania ci aspettiamo rispetto per gli sforzi che ci apprestiamo a fare. La logica dovrebbe essere quella degli accordi contrattuali, potenzialmente la più importante innovazione dell’architettura istituzionale europea».
Un’innovazione congelata, per il momento: di accordi contrattuali se ne parlerà solo dopo le europee. Ma il capo dell’Eurogruppo Dijsselbloem ha ipotizzato un generico scambio flessibilità-riforme. Stiamo parlando di questo?
«Sui dettagli vedremo come evolverà il dibattito. Quel che conta è il principio: sostegno da parte delle istituzioni europee in cambio di riforme. Non chiediamo solidarietà pelosa, ma cooperazione europea».

La Stampa 01.03.14

"Ecco il Jobs Act targato Renzi sussidio di disoccupazione anche per i lavoratori precari", di Valentina Conte

Il cuore del Jobs Act di Renzi è già sul tavolo del ministro del Lavoro. E si chiama Naspi. Un sussidio di disoccupazione universale, destinato a tutti coloro che perdono il posto. Tutti. Compresi i meno protetti tra i precari: i collaboratori a progetto, oggi fuori da quasi tutti i sostegni. Il piano – elaborato dal politologo Stefano Sacchi e fatto proprio prima dalla segreteria del Pd, poi diventato base di discussione per il governo – costerà 1,6 miliardi in più di quanto oggi si spende per i sussidi, dunque 8,8 miliardi in tutto, meno di quanto sin qui prospettato. Ma assicurerà protezione anche a quel milione e 200 mila lavoratori, ora per diversi motivi totalmente senza rete, in caso di disoccupazione. E potrebbe essere finanziata con uno spostamento di risorse dalla Cig in deroga, che vale 2,5-3 miliardi annui. Il dossier sarà esaminato nei prossimi giorni anche da Giuliano Poletti. «Ne parlerò con il ministro », conferma Filippo Taddei, responsabile economia del Pd. «È il piano più ragionevole di tutti, perché include anche gli atipici. E siamo fiduciosi che possa diventare il piano del governo ». L’accelerazione è maturata ieri, dopo la lettura dei drammatici dati Istat sulla disoccupazione. «Quindici giorni e si parte con il Jobs Act», ha detto in serata il premier Renzi durante il giuramento dei sottosegretari. «Non possiamo aspettare, serve uno shock immediato per l’economia italiana».
Non solo però sblocco dei debiti P.a., interventi sull’edilizia, taglio al cuneo fiscale e ai costi dell’energia: misure essenziali per stimolare le aziende all’assunzione. Ma anche riduzione della giungla di contratti (almeno 40) oggi esistenti e passaggio al contratto unico a tempo indeterminato e a tutele crescenti per i tanti, troppi giovani a spasso. E poi nuovo codice del lavoro e Agenzia unica federale, come polo di coordinamento dei centri per l’impiego attuali. Ma soprattutto l’atteso e annunciato assegno universale per chi perde il lavoro, con obbligo di seguire un corso di formazione e di non rifiutare più di una proposta d’impiego. Renzi non vuole indugiare, vista l’emorragia di posti «allucinante» certificata ieri. «I mercati ci stanno osservando, stanno cercando di capire se facciamo sul serio, se vogliamo andare fino in fondo con le riforme di cui l’Italia ha bisogno», ha insistito ieri in Consiglio dei ministri.
Naspi, dunque. Ovvero Nuova Aspi, il sussidio introdotto dall’ex ministro Fornero, che sostituirà Aspi e mini-Aspi.
Stravolgendole. La Naspi spetterà a tutti coloro che perdono il posto e hanno lavorato almeno tre mesi. Durerà più a lungo: al massimo due anni per i lavoratori dipendenti, anziché uno o uno e mezzo (come ora l’Aspi, per chi è sotto o sopra i 55 anni) e al massimo sei mesi per gli atipici, come i cocopro. L’entità del sussidio sarà per tutti al massimo di 1.100-1.200 euro mensili all’inizio del periodo di copertura e planerà verso i 700 euro alla fine, così come prevedono le regole Fornero in vigore (75% della retribuzione dell’ultimo periodo con i tetti citati, percentuale che scende del 15% ogni sei mesi). Dunque l’importo è lo stesso, ma la durata no. Più lunga quella della Naspi, sia rispetto all’Aspi che alla mini-Aspi. E pari alla metà del numero di settimane
contributive negli ultimi quattro anni.
«In questo modo risolviamo due problemi», spiega Stefano Sacchi, torinese, classe 1971, docente di Scienza politica alla Statale di Milano e coautore di un fortunato libro, “Flex-insecurity”. «Il primo, quello dei lavoratori a tempo indeterminato che dal 2016 per effetto della Fornero perderanno l’indennità di mobilità. Avranno la Naspi. Il secondo, quello dei lavoratori non protetti. E cioè i 900 mila dipendenti – a termine, somministrati, interinali – messi fuori dalla legge Fornero per i requisiti troppo stringenti. Ovvero contributi da almeno due anni e aver lavorato negli ultimi dodici mesi. Ma soprattutto i collaboratori a progetto con almeno tre mesi di busta paga, dunque l’80% circa di 400 mila persone, secondo gli ultimi dati (ma l’Isfol ne quantifica 675 mila, ndr), oggi privati persino della mini-Aspi e impossibilitati ad aggiudicarsi l’indennità di fine lavoro, anche qui per i requisiti quasi impossibili». In totale, un milione e 200 mila lavoratori potenziali disoccupati senza rete. «Ci auguriamo che solo una piccolissima parte di questi sia disoccupato nei prossimi mesi. Ma qualora avvenisse, avrebbero un sussidio. Oggi con la legge Fornero no».

La Repubblica 01.03.14

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“Sgravi per chi reinveste utili meno tasse e stop all’austerity così rilanceremo l’economia”, di Roberto Mania

Giuliano Poletti è da una settimana il ministro del Lavoro. Siede su una delle poltrone più scomode del governo Renzi. Perché questo esecutivo si giudicherà in gran parte su quanto riuscirà a far scendere il tasso di disoccupazione comunicato ieri dall’Istat, il 12,9%. Questo sarà il benchmarking del governo. Poletti, ex presidente della Legacoop, ex sindaco di Imola con tessera Pci, dice che sul suo comodino tiene “L’economia giusta” di Edmondo Berselli. «Ci sono scritte le cose che vorrei fare. Vorrei essere giudicato per il mio contributo a creare un’economia nella quale, come spiega Berselli, ci sia una più equa distribuzione delle risorse».
Intanto, ministro, c’è l’emergenza occupazione. Renzi ha annunciato più volte l’arrivo del Jobs act. Quando lo approverete?
«Il Jobs act è un insieme di azioni, di capitoli da riempire».
Ecco: quando li riempirete?
«Il primo a partire sarà la cosiddetta “garanzia giovani”, un programma europeo per consentire a tutti i giovani che escono dalla scuola o perdono il lavoro di trovare un’opportunità entro i successivi quattro mesi. La “garanzia giovani” traccia una linea molto chiara di intervento. Un modo per connettere tra loro le politiche passive con le politiche attive per il lavoro».
Lo stesso schema del Jobs act?
«Esattamente. La “garanzia giovani” è il primo elemento per promuovere opportunità di impiego».
Quando comincerà a produrre qualche effetto?
«Entro un mese partirà il progetto. Ma il meccanismo sarà lo stesso del più generale piano per il lavoro: a ciascuna persona, giovane, adulta o anche anziana va offerta un’opportunità di impiego. Nessuno deve essere lasciato a non fare nulla, perché si traduce in una gravissima condanna. Su questo si giudica pure il grado di civiltà di un Paese».
Lei viene dal mondo delle imprese e sa bene che sono loro a creare il lavoro, non le norme. Incentiverete la assunzioni dal punto di vista fiscale?
«È vero che sono le imprese a creare lavoro ma serve pure un contesto favorevole. Ci vogliono buoni imprenditori e penso anche che gli utili reinvestiti nell’azienda in innovazione del processo e del prodotto vadano accompagnati dal pubblico».
Il che vuol dire sgravi. Giusto?
«Giusto».
Ma dove troverete le risorse necessarie?
Avete promesso di tagliare il cuneo fiscale, pensate di estendere il sussidio di disoccupazione e anche di incentivare gli investimenti. Quanto costa tutto questo?
«Non so dirle ora il costo complessivo. Ma abbiamo fatto delle stime altrimenti non proporremmo un progetto non sostenibile sul piano finanziario».
Fino a meno di una settimana fa lei era il presidente dell’Alleanza delle cooperative. Ha in mente un patto sociale per sostenere il jobs act?
«Prima di pensare a un patto voglio avviare, e lo farò nei prossimi giorni, un confronto informale con sindacati e imprenditori. Ho un trascorso nel dialogo sociale e continuerò a farlo».
Nella prefazione di un libro il premier Renzi scrive che il sindacato che dovrebbe essere più ascoltato è “quello che non c’è”, cioè quello dei giovani e precari. Che ne pensa?
«Capisco Renzi perché c’è un parte della società che fa fatica a trovare una voce che la rappresenti. La crisi della rappresentanza riguarda tutti, la politica e il sociale. Io rimango rispettoso del ruolo delle associazioni sociali».
Non crede che i dati dell’Istat segnino anche il fallimento delle politiche di austerity e che si debba voltare pagina?
«Non c’è dubbio che sia così. I dati dell’Istat sono la stampa di una fotografia scattata quattro anni fa quando migliaia di aziende sono entrate nel circolo della crisi. Va aperto un nuovo ciclo».
Aumentando la spesa pubblica?
«No. Riducendo le tasse per liberare risorse per il lavoro»

La Repubblica 01.03.14

"Scuola: gli esclusi e i forzati di un sistema schizoide e schizzato", di Anna Maria Bellesia

I docenti giovani, formati e idonei restano fuori. I docenti vecchi, lasciati senza “merito” e senza “scatti”, non hanno via d’uscita. Ma così la scuola non ha futuro. Rilanciare l’istruzione non sarà possibile senza puntare su capitale umano più giovane e dinamiche di turn over.
Un sistema schizoide e schizzato. Con contraddizioni al limite del non senso. Da un lato ci sono i 17mila idonei all’insegnamento usciti dal concorso a cattedre, bandito da Profumo nel 2012. Concorso molto selettivo. Hanno preparazione, energia, titoli, voglia e diritto di lavorare. Aspirano all’insegnamento, protestano e reclamano il loro diritto ad essere assunti.
Poi ci sono 13mila abilitati tramite Tfa ordinario, con formazione specifica e aggiornatissima. E stanno per essere “formati” altri aspiranti docenti tramite i Pas. Senza contare quelli che da lustri stanno nelle GaE, sballottati precariamente ogni anno di qua e di là, sfruttati, lasciati magari senza stipendio per mesi. Con una esperienza formativa e pratica fatta con fatica sul campo. Sono arrivati alla soglia dei quarant’anni e non intravedono ancora il traguardo del ruolo.
Dall’altra parte ci sono quelli “fregati” dalla legge Fornero, tutti intorno alla sessantina senza poter andare in pensione. Mentre ex colleghi, più o meno della stessa età, sono in pensione già da qualche anno. Qualcuno da qualche lustro. Qualche ex collega ha lavorato “solo” 14 anni 6 mesi e 1 giorno, perché così allora consentiva una legge del 1973. Per pagare quei 7,5 miliardi di euro l’anno di baby pensioni (una volta e mezza l’Imu sulla prima casa, tanto per rendere l’idea) adesso bisogna stare al lavoro fino a 67 anni per salvare i conti dell’Italia. Ad essere più penalizzate sono le donne, l’80% del personale docente. Fino al 2009 la pensione di vecchiaia era fissata al compimento dei 60 anni.
La categoria dei “fregati” in realtà lo è doppiamente. Sono rimasti non solo senza via d’uscita dal lavoro, ma anche senza “merito” e senza “scatti”. Più mazziati di così non si può. La Gelmini aveva promesso di accantonare il famoso 30% dei risparmi derivante dai tagli per “premiare il merito”. Invece niente. Eppure quella generazione di prof ha dato molto alla scuola, impegnandosi in ogni genere di attività richiesto dal Pof. Si è aggiornata su tutto quello in cui c’era da aggiornarsi: sviluppo delle competenze, tecnologie applicate alla didattica, gestione classi difficili (sempre più difficili), inclusione, registro elettronico. Invece di vedersi riconosciuta una parte di stipendio in più, si sono visti ridurre gli emolumenti.
Quella generazione adesso è stanca e demotivata, tagliata fuori da ogni possibilità di meccanismo “premiale” o incentivante, con carico di lavoro aumentato ed energie allo stremo. Sono gli insegnati “più vecchi d’Europa”. Lo erano già nel 2010, ma il trend è in preoccupante aumento con divario enorme da altri Paesi. Gli over 50 sono il 47,6% nella scuola elementare (contro una media Ocse del 30,6%); il 61,0% nella scuola secondaria di primo grado (contro una media Ocse del 33,9%); il 62,5% nella scuola secondaria di secondo grado (contro una media Ocse del 37,4%). Gli insegnanti con meno di 30 anni sono lo 0,3 %, lo 0,4% e lo 0,2% rispettivamente nei tre ordini di scuola.
Percentuali che evidenziano un caso unico al mondo. Rilanciare l’istruzione non sarà possibile senza puntare su capitale umano più giovane e dinamiche di turn over.

La Tecnica della Scuola 01.03.14

"Scuole da sistemare. Sbloccati i primi 150 milioni di euro", di Rosaria Talarico

Migliore considerazione sociale per gli insegnanti ed edifici scolastici più sicuri. L’istruzione, da sempre negletta tra le priorità dei governi che si sono succeduti, si appresta a recuperare la centralità che le spetta. «Da emergenza diventa il cuore dell’agenda politica di questo Governo» promette il neo ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. E per dimostrare che non si tratta solo di un intento ieri, al termine del Consiglio dei ministri, ha fornito alcune cifre. «Nel grande piano dell’edilizia, che sarà concordato con le amministrazioni locali, si stanzieranno non meno di 4 miliardi, e anche più di questi, come risultato dello sblocco del patto di stabilità interna» ha detto il ministro. Un Paese avanzato «non può permettersi di avere bimbi che vivono e studiano in condizioni di insicurezza».

I soldi sono immediatamente disponibili poiché già stanziati nel decreto Fare (150 milioni di euro). Il punto è che a essere inadempienti questa volta non è il ministero, ma sono le Regioni che in molti casi non hanno speso in tempo i soldi assegnati previa organizzazione delle gare d’appalto. Il risultato era il rischio di dover restituire i fondi perché proprio ieri era il termine ultimo per la scadenza. I numeri (vedere grafico a destra) dicono che sono stati aggiudicati poco più di 35 milioni (il 23,8) per 207 interventi, rispetto ai 692 ammessi al finanziamento (circa il 30%). La maglia nera va alla Sardegna (un intervento aggiudicato su 24 ammessi) e alla Campania (4 milioni aggiudicati sui 16 assegnati). Regioni virtuose il Friuli e l’Emilia che sono riuscite a spendere e a realizzare la metà di quanto era nella loro competenza.

Una boccata d’ossigeno anche per i circa 24 mila lavoratori che si occupano delle pulizie nelle scuole e che da oggi potevano trovarsi in mezzo a una strada. È stata, infatti, approvata una norma che concede la proroga per un mese, fino al 31 marzo, della corresponsione degli «emolumenti» al personale delle organizzazioni che gestiscono contratti di servizi di pulizia e altri servizi ausiliari stipulati dalle scuole per sopperire alla mancanza di personale. Una misura-tampone per la quale il ministero ha fornito una copertura finanziaria di circa 20 milioni, ma è solo il primo passo.

Martedì prossimo il ministro Giannini assieme al suo collega del Lavoro, Giuliano Poletti, avvierà un tavolo interministeriale per la «progettazione rapidissima» di un piano biennale di riqualificazione e ricollocazione del personale addetto alle pulizie.

La Stampa 01.03.13

“Non si risanano i conti gravando troppo sui Comuni”, di Roberto Giovannini

Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente dell’Anci, perché il sistema dei Comuni sta saltando?
«Veniamo da sette anni caratterizzati da continue riduzioni delle risorse a disposizione dei Comuni. Si è caricato sulle nostre spalle molto del peso del risanamento dei conti pubblici, anche andando al di là del giusto. I Comuni hanno generato solo il 2,5% del debito pubblico del Paese, e gestiscono solo il 7,6% della spesa pubblica nazionale. Si capisce come non si possa pretendere di risanare i conti pubblici gravando esageratamente sui Comuni, che sono stati messi in ginocchio senza peraltro produrre risultati significativi sul versante del risanamento».

Spesso voi sindaci venite accusati di sprecare risorse pubbliche come e peggio degli altri. Come replica?

«Sono critiche francamente ingenerose. I sindaci hanno un rapporto diretto con i cittadini e rispondono direttamente a loro. A Torino come altrove la gente è perfettamente in grado di valutare come la città è amministrata e come sono spesi i soldi. Gli altri livelli istituzionali hanno invece forme di controllo assolutamente inesistenti. Qualcuno dice che anche i Comuni sono centri di spesa parassitari? Noi spendiamo per tenere aperti asili nido, scuole materne, per dare assistenza domiciliare agli anziani, per garantire il trasporto pubblico e molto altro. Ci occupiamo di cose che incidono quotidianamente sulla vita delle famiglie e delle persone. Se si vuole che i Comuni garantiscano questi servizi devono essere messi in condizione di farlo. Il che – voglio essere chiaro – non significa che tutti gli amministratori locali siano immuni da responsabilità, colpe ed errori. Il dissesto di Roma richiama pesantemente le responsabilità di chi ha amministrato la Capitale in questi anni. Ma questo dissesto rischia di scaricarsi su un sindaco che è stato eletto solo sei mesi fa. Come presidente dell’Anci rivendico la necessità che gli amministratori locali facciano scelte rigorose, e che garantiscano gli equilibri di bilancio e il risanamento che è essenziale anche a livello locale».

Come si spiega, però, che troppe volte si debba scoprire che città grandi e piccole non riescono a riscuotere neppure affitti, tasse o multe che sono loro dovute?

«Ci sono amministrazioni che non sono capaci di essere efficienti e rigorose, come è necessario. Un dissesto come quello di Roma dice che la città è stata mal governata, e ci sono gravissime responsabilità politiche. Sarebbe sbagliato però concludere che non ci sono problemi se Roma fallisse…»

Nel senso?

«A parte che si scaricherebbero sui romani colpe non loro, una notizia del genere farebbe le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Con un danno di immagine che si tradurrebbe in un costo molto ma molto superiore al deficit da ripianare. Si denunci chiaramente chi ha sbagliato; siano sanzionati i responsabili in base alle leggi. Ma si consenta anche a chi adesso guida la città e ai cittadini di poter uscire da questa stretta. Evitiamo una catastrofe che sarebbe gravissima. Dopo, però, si devono adottare quelle politiche di risanamento, di rigore, di rientro dal debito che negli anni scorsi Roma non ha messo in campo. Bisogna salvare una città non perché continui a fare debiti, ma perché acquisisca una stabilità finanziaria».

La Stampa 28.02.14

"Perché la Rete non è la piazza", di Massimo Luciani

La rete è una grande risorsa democratica: attiva e stimola la partecipazione, consente il dialogo tra persone molto lontane, semplifica le procedure di discussione. Ma siamo sicuri che la piazza virtuale si possa sostituire alla piazza reale?

Davvero agorá fisica e agorá telematica sono la stessa cosa? Davvero l’ateniese del quinto secolo avanti Cristo e il cittadino di una democrazia pluralistica contemporanea si possono paragonare? Non credo.

Le obiezioni all’equiparazione so- no molte. Lasciamo stare quelle tecniche (non tutti, ancora oggi, sanno o possono partecipare ad una discussione in rete; non ci sono garanzie di segretezza delle opinioni espresse o dei voti dati, etc.) e vediamo quelle più sostanziali.

La prima riguarda il tempo. Si dice che la consultazione in rete ha il pregio di essere «in tempo reale». È vero. Ma questo è anche il suo limite, perché, procedendo così, questioni anche delicatissime e complesse possono essere affrontate senza essere sufficientemente studiate e meditate. E basta leggere i commenti a caldo ad alcune notizie di cronaca (anche politica) per capire quanto spesso siano imprudenti e quanto sia probabile che la prima impressione cambi se solo si riflette meglio.

Nella piazza elettronica, poi, le cose non possono funzionare come nelle assemblee, perché non è materialmente possibile garantire a ciascuno dei partecipanti la facoltà di intervento e di emendamento delle scelte o anche solo del quesito pro- posto. È lo stesso numero, potenzialmente sterminato, dei partecipanti che lo impedisce: posso certo dire quel che penso, ma non è affatto detto che quel che dico sia ascoltato, tra le migliaia o i milioni di voci che pretendono riconoscimento e attenzione tanto quanto la mia.

Fatalmente, c’è qualcuno che propone quesiti e qualcuno che risponde. E il rapporto fra i primi e i secondi non è paritario. Non lo è perché ogni formulazione di un quesito è deformante proprio perché è formulata (lo ha detto qualche anno fa un attento studioso francese). Non lo è perché la risposta ad un quesito dipende dal momento in cui il quesito è posto e dalla forma in cui viene presentato. E non lo è perché le decisioni o le opinioni manifestate attraverso i mezzi di comunicazione interattiva devono pur sempre essere interpretate e attuate, e chi le interpreta e le attua è sempre chi ha posto il quesito.

La piazza virtuale, in realtà, non sposta minimamente la sostanza dei problemi delle democrazie complesse, nelle quali il rapporto fra le élites politiche e i cittadini è sbilanciato a favore delle prime. E, come aveva compreso bene uno dei maggiori teorici della dottrina delle élites, Gaetano Mosca, il solo fatto che la decisione presupponga un’organizzazione consente che le minoranze strutturate e politicamente professionalizzate esercitino egemonia sulla maggioranza dei cittadini. Quella piazza, dunque, non è il luogo di una rinnovata democrazia diretta paragonabile a quella sulla quale confrontavano le loro virtù politiche i cittadini ateniesi. In un’assemblea la discussione delle questioni è generale e diretta, men- tre in rete è particolare e indiretta. E le dinamiche interpersonali che si sviluppano in un caso e nell’altro sono profondamente diverse, anche perché è assai probabile che la rete solleciti l’adesione ad un modello partecipativo “individualistico” e non “di gruppo”, generando più l’illusione che la realtà dell’inserimento in una vera comunità di loquenti.

La democrazia in senso proprio, la democrazia diretta, non può essere artificialmente riprodotta con mezzi tecnologici e la complessità delle democrazie contemporanee impone la valorizzazione della tecnica della rappresentanza politica. Sbaglierebbero, però, i soggetti della rappresentanza se non cogliessero quelle potenzialità democratiche che, abbiamo visto, la rete possiede. Se non avvertissero che la voglia di stare in rete esprime, comunque, una forte intenzione di partecipazione democratica. Sicché la questione torna ad essere quella di sempre, quella della capacità delle istituzioni di ascoltare la società civile, di non chiudersi nel loro discorso autoreferenziale, di attivare tutti i possibili recettori degli umori dell’opinione pubblica. E questo richiede sapienza politica e rigetto delle tentazioni aristocratiche non meno che di quelle populiste.

L’Unità 28.02.14