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"Istat, nuovo record per la disoccupazione: a gennaio il tasso balza al 12,9 per cento", da repubblica.it

Il dato è il peggiore dall’inizio delle serie dell’Istat, che per quelle trimestrali risale al 1977. Tra i giovani che lo cercano, i senza lavoro sono al 42,4%: 690 mila persone. L’anno scorso il peggiore della crisi: mezzo milione di occupati in meno. Renzi: “Cifra allucinante, subito il JobsAct”. Nuovo record per la disoccupazione in Italia, dove gli effetti del peggior anno dall’inizio della crisi per il mercato del lavoro (il 2013) si fanno sentire a pieno nel primo mese del 2014. A gennaio il tasso di disoccupazione è balzato al 12,9%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su dicembre e di 1,1 su base annua. In Europa, invece, il dato resta fermo al 12%. I disoccupati italiani, secondo i dati provvisori diffusi dall’Istat, sfiorano i 3,3 milioni. Il tasso registrato in Italia a gennaio manda in soffitta la piccola inversione di tendenza di dicembre, dove si scontava più che una ripresa degli occupati l’aumento degli inattivi; è il livello più alto sia dall’inizio delle serie mensili, gennaio 2004, sia delle trimestrali, primo trimestre 1977. Quanto basta perché il premier Matteo Renzi scriva su Twitter che si tratta di una “cifra allucinante, la più alta da 35 anni. Ecco perché il primo provvedimento sarà il JobsAct”.

Guardando al tasso di disoccupazione giovanile, per la fascia cioè tra 15 e 24 anni, a gennaio è pari al 42,4%. Anche secondo questo punto di vista, che è sempre provvisorio, si tratta del tasso più alto sia dall’inizio delle serie mensili, gennaio 2004, sia delle trimestrali, primo trimestre 1977. I giovani in cerca di un lavoro sono 690mila.

La dimensione del problema occupazionale emerge anche se si guarda all’andamento del mercato del lavoro nell’intero 2013: secondo l’Istituto di statistica l’anno scorso gli occupati sono diminuiti di 478 mila persone (-2,1%) rispetto al 2012, ovvero di quasi mezzo milione. Si tratta della maggiore emorragia di occupati dall’inizio della crisi. I disoccupati, nella media del 2013, hanno raggiunto quota 3,1 milioni con un aumento del 13,4% rispetto al 2012; quasi la metà dei disoccupati risiede nel Mezzogiorno (un milione 450 mila). L’anno scorso il tasso medio di disoccupazione è arrivato al 12,2%. Era al 10,7% l’anno precedente. Tra le diverse tipologie di lavoro, anche quello precario, definito dall’Istat come atipico, nella media del 2013 è tornato a scendere. Infatti, il numero di dipendenti a tempo determinato e di collaboratori scende a 2 milioni 611 mila, in calo di 197 mila unità in un anno. Insomma a calare non solo solo i dipendenti a tempo indeterminato (-190mila). Tra il 2008 e il 2013, gli anni della crisi, si contano complessivamente 984 mila occupati in meno: significa che un milione di italiani è uscito dalla schiera degli occupati.

Tornando ai giovani, è bene ricordare che il numero assoluto di disoccupati tra 15 e 24 anni (690 mila ragazzi) incide per l’11,5% sul totale della popolazione di quella fascia d’età, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,8 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è invece in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,0 punti nel confronto tendenziale, appunto al 42,4%. Guardando invece agli aspetti di genere, l’occupazione diminuisce su base mensile per effetto del calo della componente femminile (-0,2%) non compensato dall’aumento di quella maschile (+0,1%). Su base annua invece il calo dell’occupazione si registra sia tra gli uomini (-1,7%) sia tra le donne (-1,1%). Rispetto al dicembre 2013, la disoccupazione registra un aumento sia per la componente maschile (+2,1%) sia per quella femminile (+1,6%). Anche in termini tendenziali il numero di disoccupati cresce sia per gli uomini (+10,6%) sia per le donne (+6,2%).

L’Istat spiega infine che il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,3% rispetto al mese precedente (-45 mila unità) e dello 0,1% rispetto a dodici mesi prima (-9 mila). Il tasso di inattività si attesta al 36,4%, in calo di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali ma in aumento di 0,1 punti su base annua.

Sollevando lo sguardo all’Europa, la disoccupazione resta ferma al 12% a gennaio 2014 la disoccupazione nella zona euro, ferma da ottobre, mentre in Italia sale al 12,9% dal 12,7% di dicembre, l’aumento più consistente insieme a Malta dove però il tasso è più basso (da 6,7% sale a 6,9%). Secondo Eurostat, è sempre la Spagna il Paese dove la disoccupazione è più elevata (25,8%).

www.repubblica.it

"Il sisma che porta il Pd nel socialismo europeo", di Piero Ignazi

Alla vigilia della riunione del Partito socialista europeo per la preparazione del programma elettorale il Pd, finalmente, supera quelle ritrosie che l’hanno lasciato a lungo in un limbo indefinito e aderisce alla famiglia dei socialisti (e democratici) europei.
Questo passaggio, che non era riuscito alle precedenti leadership “di sinistra”, da Veltroni a Bersani, viene ora attuato da un segretario che proviene da tutt’altra tradizione politica. Anche questa decisione segnala la crisi verticale del vecchio establishment di derivazione Ds-Ppi. I ritardi, le incapacità e le debolezze di quelle tradizioni si erano talmente incrostati negli ultimi due decenni da aver prodotto un collasso per estenuazione. Non c’era più linfa vitale: si era esaurita la capacità di definire progetti, saldare alleanze, incrociare domande della società civile. Il leader del Pd, nonostante le sue origini politiche, possiede una carica rivoluzionaria: non ha tabù né reverenze. Se l’adesione al Pse è una condizione necessaria per poter giocare un ruolo in Europa grazie al sostegno dei partiti socialisti, allora al bando le pruderie post- democristiane.
Questa disinvoltura, nel bene e nel male, è agli antipodi della ponderata prudenza della vecchia classe dirigente. Nemmeno i nuovi antagonisti interni hanno preso le misure della forza trasformativa e della spregiudicatezza del loro leader. Non ci è riuscito il soave e riflessivo Cuperlo, e fatica anche l’irrequieto Civati, la cui determinazione è inversamente proporzionale a quell’aria casual e distaccata, come fosse capitato lì per caso. Il 68% di voti a Renzi nelle primarie esprimeva una volontà insopprimibile di voltare pagina, alla quale si sono acconciati anche tanti che non condividevano le idee del sindaco di Firenze. L’importante era cambiare verso. Smuoversi dalle pastoie, da quel senso di inconcludenza che faceva sprofondare il Pd nell’irrilevanza. Ed è proprio il diffondersi ancora di questa terribile sensazione che ha perso Letta.
Renzi ha (re) introdotto nel Partito democratico quella “durezza” che un tempo non mancava nei vecchi partiti di massa e che poi si era persa nella immaterialità della fascinazione dei partiti leggeri. Con il brutale passaggio di consegne alla guida del governo (plasticamente rappresentato da quei 16 secondi di gelo tra Renzi e Letta durante il rito della campanella) il Pd, da lato, si è democristianizzato accedendo a modalità cannibaliche di eliminazione dei propri dirigenti, dall’altro, si è modernizzato adottando stili da Wolf of Wall Street, spregiudicati, diretti, ultimativi. Per molti, tutto ciò è comunque meglio della palude e degli infingimenti del passato.
Al di là di ogni giudizio, la defenestrazione di Letta risponde all’imprinting della nuova classe politica democrat entrata massicciamente negli organi dirigenti del partito (i renziani) e nei gruppi parlamentari (bersaniani e giovani turchi). In un anno il rinnovamento tanto nel partito quanto in Parlamento è stato tellurico. E Renzi incarna all’ennesima potenza questa rivoluzione di modi, stili e riferimenti, senza una stella polare ideologica da inseguire (nemmeno l’omaggio di rito a Norberto Bobbio convince) ma piuttosto con un caleidoscopio cangiante di opzioni, di cui l’adesione al Pse costituisce un esempio: valutato il danno di una posizione ambigua e indefinita in Europa e il rilievo della competizione bipolare anche nel Parlamento europeo, Renzi ha buttato alle ortiche le resistenze d’un tempo e immesso il Pd nel suo alveo naturale.
La politica postmoderna ha trovato il suo cantore sul versante del centrosinistra proprio quando dall’altra parte dello schieramento politico Silvio Berlusconi ha perso il touch, il contatto con la realtà, condannandosi alla ripetizione ossessiva dei refrain del passato. Con l’innesto di una leadership veloce, interconnessa e digitale il Pd ha un solo contraltare di fronte a sé: il Movimento 5 Stelle, l’unico che si muova sul suo stesso terreno. Il conflitto più aspro non riguarderà più la contrapposizione con la destra berlusconiana ormai decisamente superata, tanto che Renzi ha giocato di sponda con il Cavaliere in tutta souplesse, senza esserne condizionato in nulla.
Game over aveva detto, e così è in effetti. Poi la destra manterrà i suoi consensi, com’è ovvio. Ma la competizione vera, per la conquista dei voti contendibili, è ora con il M5S, al fondo molto più sintonico al renzismo di quanto non facciano trasparire le polemiche di questi giorni. Anzi, proprio l’impennarsi della tensione tra Pd e M5S e la reazione scomposta di Grillo con le espulsioni a raffica dimostrano che la competition è tra quei due partiti.

La Repubblica 28.02.14

"Il bivio tra Irpef e Irap", di Stefano Lepri

Irpef o Irap? In pochi giorni, il tempo delle belle parole sta già finendo. Chiarire che cosa in concreto significherà ridurre il «cuneo fiscale» richiede una scelta non facile. Questo tecnicismo arcano ma gradito a molti potrà essere riempito con più o meno soldi per le imprese, più o meno soldi per i lavoratori.

Se le risorse sono limitate, ha ragionato il presidente del Consiglio ieri l’altro, meglio concentrarle dove l’effetto è più pronto e più visibile: sull’Irap, ovverosia sulle imprese. Invece il suo partito gli aveva appena consegnato un progetto dove la fetta più grande andava all’Irpef, ossia ai lavoratori. Ieri si è tornato a parlare di un misto.

Per preferire l’una o l’altra opzione possono essere invocati motivi ideologici, destra e sinistra. Si possono confrontare calcoli di politica spicciola, quale scelta fa più colpo, quale allarga i consensi al governo. E purtroppo spingono in direzioni opposte differenti scuole di pensiero economico.

Una crisi senza precedenti non aiuta a trovare consenso sui rimedi. Chi produce è più danneggiato dalla scarsa competitività, o dalla debolezza dei consumi interni? Tra gli stessi imprenditori possiamo raccogliere risposte diverse. L’handicap più grave in verità sta altrove, è l’inefficienza complessiva del Paese; ma nell’attesa che si compiano le riforme, qualcosa occorre fare subito.

Per essere efficace uno sgravio Irpef deve essere concentrato sui redditi più bassi, deve apparire duraturo, deve risultare abbastanza consistente perché chi lo riceve si convinca a spendere un po’ di più. Simulazioni econometriche fatte compiere dal precedente governo non danno risultati incoraggianti.

Sarebbe più efficace uno sgravio alle imprese, attraverso l’Irap? Con la stessa somma si otterrebbe un effetto più visibile dai beneficiari. Ma il governo Prodi 2 non ottenne grandi risultati; e le più raffinate analisi della Banca d’Italia ridimensionano il peso del lavoro tra i fattori di scarsa competitività.

Da una parte occorre considerare che per contenere il costo del lavoro si fa a gara in tutta l’area euro (ultimi i provvedimenti annunciati dalla Francia). Dall’altra, ridare sicurezza a chi ha poco alzerebbe il morale di tutto il Paese. L’occasione è buona per allargare lo sguardo a misure capaci inoltre di bonificare i rapporti tra economia e politica: la Confindustria offre di rinunciare agli incentivi per le imprese, c’è la proposta ardita di utilizzare i fondi di coesione europei. Coraggio è discutere a carte scoperte evitando gli slogan.

La Stampa 28.02.14

"Primo passo per un sistema più equo", di Enrico De Mita

Il governo ha espresso una fiduciosa attesa per la delega fiscale, finalmente approvata dal Parlamento. In questi primi giorni di vita del nuovo esecutivo, è emersa più volte la volontà di un’azione politica di tipo strategico in materia tributaria. Il governo, ora, avrà un anno di tempo per mettere mano, secondo l’indicazione della legge, alla «revisione dell’intero sistema tributario». La delega, a dire il vero, non consente un intervento così ampio e così radicale tale da ridefinire l’intero sistema fiscale o, anche, le parti più importanti di esso. E, con realismo, sarebbe già un successo se il governo riuscisse in dodici mesi – vale a dire il periodo concesso per l’approvazione dei decreti legislativi – a dare concreta attuazione a tutte le tematiche disciplinate dalla legge approvata ieri.
Come più volte si è detto, non si tratta di una vera riforma fiscale, quanto piuttosto di una legge che tocca aspetti assolutamente rilevanti e cruciali per i contribuenti, ma non riconducibili a uno schema unitario attuabile con decreti tra loro coordinati. Tutt’altra cosa rispetto alle “vere” riforme del passato: quando fu fatta la riforma del ’73, la legge delega del ’71 conteneva in nuce sia il disegno del nuovo sistema sia lo schema dei decreti delegati che furono po approvati. Si trattava di una delega scritta dal governo. Questa, approvata ieri, è piuttosto la rivendicazione del Parlamento del primato nella funzione legislativa.
Si tratta, però, di una legge importante anche per il suo approccio di tipo garantista che, auspicabilmente, rappresenta il primo passo per un fisco più equo e con più certezze. La sua filosofia è quella della semplificazione, dell’affidamento, della tutela del contribuente. Cose di cui il sistema fiscale ha assolutamente (e urgentemente) bisogno.

Possiamo dire che la legge si articola in tre parti:
a) principi generali, non sempre formulati come criteri della delega ma puri riferimenti di cultura giuridica generale;
b) capitoli dell’ordinamento tributario, più facilmente traducibili in decreti legislativi (catasto, evasione, erosione, contenzioso, riscossione, sanzioni);
c) soluzioni in termini puntuali di problemi esistenti nella vita dei tributi e (soprattutto) dei contribuenti, in particolare per quanto attiene all’abuso del diritto e al raddoppio dei termini di accertamento nel caso di violazioni penali.
La parte che non presenta difficoltà dal punto di vista della tecnica legislativa è quella relativa al catasto (un tema di grande rilievo del punto di vista economico) che contiene già indicazioni precise per la redazione di uno o più decreti (l’attuazione del sistema sarà invece oggetto dell’azione amministrativa conseguente).
Pensando sempre ai criteri di delega, non credo che presentino particolari difficoltà i temi del contenzioso e delle sanzioni. Stesso discorso per l’accoglimento della precisazione fatta nella delega circa l’abuso del diritto e il raddoppio dei termini (a meno che – ma non ci sono indizi in questa direzione – il governo, non voglia disfare le norme che il Parlamento ha predisposto facendole decadere).
Il tema più impegnativo, che presumibilmente il governo non vorrà lasciar decadere, è quello dell’evasione fiscale. Qui la materia è introdotta da una parte generale relativa alla semplificazione delle procedure relative a tutti i tributi: cosa importante ma probabilmente non facile perché temo che la delega non fornisca formulazioni adeguate. Sempre in tema di sommerso, c’è poi la parte tecnico-statistica (probabilmente già pronta) dedicata alla stima e al monitoraggio dell’evasione fiscale. Essa prevede una metodologia di rilevamento dell’evasione fiscale, riferita a tutti i principali tributi, basata sul confronto tra i dati della contabilità nazionale e quelli acquisiti dall’anagrafe tributaria, utilizzando a tal fine criteri trasparenti e stabili nel tempo, dei quali deve essere garantita un’adeguata pubblicizzazione. È prevista una commissione presso il ministero delle Finanze che rediga un rapporto annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. Sono inoltre previsti rapporti sull’andamento dell’attività di contrasto all’evasione.
Capitolo rilevante è inoltre quello dell’erosione fiscale, di grande delicatezza giuridica perché dedicato ai limiti della libertà economica (ridurre, eliminare o riformare le spese fiscali che appaiono in tutto o in parte non giustificate o superate alla luce delle mutate esigenze sociali o economiche. Come si vede siamo ai limiti del rispetto dell’articolo 53 della Costituzione).
C’è un altro ambito di intervento che richiede precisazioni operative, vale a dire quello relativo all’elusione fiscale e alle sue differenze con l’evasione. In questo senso, la delega individua alcuni criteri che dovrebbero “guidare” il legislatore delegato. Si va dall’uso distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio d’imposta alla valutazione della libera scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale. Qui, sarà decisiva anche la questione dell’onere della prova che, in base alla delega, sarà a carico dell’amministrazione quando dovrà dimostrare le evidenze del disegno abusivo e, al contrario, a carico del contribuente quando dovrà giustificare le ragioni extrafiscali degli strumenti utilizzati. Anche l’accertamento, a pena di nullità, dovrà contenere la motivazione della condotta abusiva.
Di grande rilevanza, infine, è la revisione del sistema sanzionatorio, basata sull’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale, il tutto nel rispetto del principio di proporzionalità.
Insomma, come si vede, un lavoro impegnativo e non sempre agevolato dalla definizione in modo puntuale dei criteri ai quali il governo si dovrà attenere. Un’occasione da non perdere, ma soprattutto da non sprecare.

Il Sole 24 Ore 28.02.14

"Splendori e miserie della scienza italiana", di Pietro Greco

I ricercatori italiani fanno sempre di più, con sempre meno. Tre recentissimi rapporti internazionali ci danno la misura di questa condizione paradossale in cui ormai verso la scienza italiana. Il primo è il rapporto sulla “Consolidator Grant 2013 Call” con cui l’European Research Council (ERC) ha finanziato 312 progetti di ricerca scientifica, europei. Questi i risultati. La Germania ha visto premiati 48 suoi ricercatori. Subito dopo, l’Italia: con 46 ricercatori. Pochi giorni prima il rapporto International Comparative Performance of the UK Research Base – 2013, elaborato dagli esperti della Elsevier: nell’anno 2012 con l’1,1% dei ricercatori del mondo, con l’1,5% l’Italia ha prodotto il 3,8% degli articoli scientifici del pianeta che hanno ottenuto il 6% delle citazioni.

I ricercatori italiani fanno sempre di più, con sempre meno. O, se volete, continuano a celebrare con fichi sempre più secchi nozze di sempre maggiore successo. Tre recentissimi rapporti internazionali ci danno la misura di questa condizione paradossale in cui ormai verso la scienza italiana.
Il primo è il rapporto sulla “Consolidator Grant 2013 Call” con cui l’European Research Council (ERC) ha finanziato 312 progetti di ricerca scientifica, europei e non, sulla base unicamente del merito. La dotazione della Call era notevole: 575 milioni di euro. Il finanziamento per singolo progetto presentato da un ricercatore era piuttosto alto: in media 1,84 milioni di euro con un picco massimo di 2,75 milioni di euro. La competizione è stata al massimo livello. (vedi anche questo articolo)
Questi i risultati. La Germania ha visto premiati 48 suoi ricercatori. Subito dopo, l’Italia: con 46 ricercatori.
Seguono, nettamente distaccate, la Francia (33), la Gran Bretagna (31) e l’Olanda (27). Poi ancora il Belgio e Israele (17) e la Spagna (16). Per avere un’indicazione di quanto sia straordinaria la performance dei ricercatori italiani basta ricordare che l’Italia ha ottenuto praticamente lo stesso numero di successi della Germania, sebbene spenda in ricerca meno di un quarto della Germania (17 miliardi di euro contro i 71 della Germania).
E ha ottenuto il 39% di successi in più della Francia, sebbene la Francia investa in ricerca una cifra (40 miliardi nel 2013) che è quasi due volte e mezza quella italiana. Lo stesso vale per la Gran Bretagna: con un investimento in R&S doppio rispetto a quello italiano, ha visto finanziati un terzo in meno di progetti di suoi ricercatori rispetto a quelli degli italiani.

Pochi giorni prima il rapporto International Comparative Performance of the UK Research Base – 2013 , elaborato dagli esperti della Elsevier per conto del Department of Business, Innovation and Skills (BIS) del governo della Gran Bretagna registrava l’avvenuto sorpasso dei ricercatori italiani su quelli americani in termini non solo di produttività, ma in termini di qualità. La performance può essere racchiusa in poche cifre: nell’anno 2012 con l’1,1% dei ricercatori del mondo, con l’1,5% della spesa totale mondiale che, secondo la rivista R&D Magazine ha superato i 1.150 miliardi di euro; l’Italia ha prodotto il 3,8% degli articoli scientifici del pianeta che hanno ottenuto il 6% delle citazioni. Le citazioni sono considerate, appunto, un indice di qualità. E, dunque, la qualità media degli articoli scientifici di autori italiani è cresciuta costantemente negli ultimi anni e ora è 6 volte superiore alla media mondiale. I nostri ricercatori hanno fatto meglio degli americani. E sono stati superato solo dagli inglesi e dagli svizzeri.
Possiamo riassumere queste due notizie con un piccolo slogan: i ricercatori italiani sono pochi, ma buoni. Lavorano molto e hanno stoffa.
Ma qui iniziano le dolenti note. Lo stesso rapporto dell’ ERC sui suoi Consolidator Grant riporta che dei 46 assegni staccati per i ricercatori italiani, solo 20 saranno spesi in Italia: 26 ricercatori (il 57% dei vincitori) lo andranno a spendere all’estero. Perché all’estero trovano un ambiente migliore.

In nessun altro paese la diaspora è stata così alta. I tedeschi che spenderanno all’estero il loro grant sono 15 (il 31%); i francesi 2 (il 6%); gli inglesi 4 (il 13%). Inoltre la capacità di attrarre ricercatori dall’estero è sfacciatamente contraria al nostro paese: 10 stranieri andranno a spendere il loro grant in Germania e altrettanti in Francia; addirittura 34 stranieri andranno in Gran Bretagna. Cosicché la classifica dei paesi dove verranno spesi i soldi dell’ERC è completamente ribaltata: 62 progetti saranno realizzati nel Regno Unito; 43 in Germania; 42 in Francia e solo 20 in Italia.
Il succo è chiaro: i ricercatori italiani sono bravi – più bravi di quasi tutti gli altri – ma l’Italia non è un paese adatto per fare scienza.
D’altra parte per avere buone idee non occorrono soldi. Ma per creare un ambiente adatto alla scienza, occorrono investimenti. E gli investimenti italiani in ricerca scientifica stanno crollando. Secondo la rivista americana R&D Magazine, che ogni anno redige un rapporto sugli investimenti mondiali in ricerca, l’Italia è decima al mondo per produzione di ricchezza (Pil), ma solo quattordicesima per investimenti assoluti in ricerca scientifica. Eravamo dodicesimi nel 2012. Lo scorso anno ci hanno superato anche Australia e Taiwan.
I due paesi hanno un Pil pari alla metà di quello italiano, ma investono di più in ricerca. Non solo in termini relativi, ma assoluti.
Questo, dunque, è il paradosso della scienza italiana. Da un lato aumenta la produttività e la qualità della ricerca, dall’altro diminuiscono i finanziamenti. In pratica l’Italia sta disperdendo la risorsa che conta di più nell’era della conoscenza. L’unica, forse, che sarebbe in grado di tirarla fuori dal percorso di declino in cui si è incamminata da due o tre decenni. Se solo ce ne accorgessimo anche noi, oltre che gli esperti stranieri.

da www.roars.it

"Una disabile in classe e il senso della vita", di Michela Marzano

È accaduto a Milano, all’Albe Steiner, un istituto tecnico sperimentale modello. Celebre non solo per l’insegnamento delle arti multimediali, ma anche per l’accoglienza riservata ai disabili. Eppure è proprio in quest’istituto modello che è scoppiata la polemica per la “presenza ingombrante” di una ragazza “diversamente abile” — come si dice oggi utilizzando una di quelle espressioni che dovrebbero facilitare l’inclusione dei “diversi” e che, però, finiscono spesso con il generare malintesi, banalizzando la sofferenza di chi queste differenze le vive quotidianamente. Alcuni ragazzi si sarebbero lamentati della compagna considerandola un “peso”. Alcuni genitori, invece di mostrarsi solidali con chi si batte affinché la figlia possa avere le stesse
chance degli altri, avrebbero rinfacciato alla madre di non avere iscritto la ragazza in un istituto specializzato. E il tutto perché? Per la presunta cancellazione di gite scolastiche che avrebbero, di fatto, escluso la ragazza. Come se il pattinaggio o l’equitazione valessero la discriminazione di una persona.
Per i propri figli, tutti i genitori vogliono il “meglio”. Lo sappiamo tutti. Lo approviamo tutti. Come si potrebbe d’altronde non volere e non pretendere il meglio? Perché accontentarsi? Perché rinunciare? Peccato che il “meglio” lo si faccia troppo frequentemente coincidere con il “più”, trascurando a volte il positivo del “meno”. Meno attività. Meno frenesia. Meno accumulazione di cose da imparare, fare, sperimentare, buttare via. Meno pretese, in fondo. Anche per permettere ai più giovani di capire il significato dell’impossibilità del “volere tutto” e “ottenere tutto”. Che, poi, è il senso della vita. Quella reale. Quella piena di difficoltà e ostacoli. Quella che si riesce ad attraversare quasi indenni, solo quando si ha la possibilità di sperimentare l’esistenza dei limiti e delle differenze.
Il problema della ragazza disabile che viene accusata dai propri compagni di ostacolare le proprie attività — e dei genitori che, assecondandone le lamentele, accusano insegnanti e scuola di privare i propri figli di tutta una serie di opportunità — non è una questione che riguarda solo i disabili e le loro associazioni, ma tutti. Non è in gioco solo la sofferenza profonda di quella madre che si batte quotidianamente per far vivere alla propria bambina una vita che sia il più “normale” possibile o il dramma di quella ragazza che si vede esclusa solo perché disabile. È in gioco anche e soprattutto il futuro di una società che, oggi più che mai, ha bisogno di riscrivere le regole del vivere-insieme.
Una società che si è nutrita per anni di un’ideologia ultra-individualistica e competitiva che ci ha spinto a credere che l’unico modo per emergere e dare un senso alla propria vita fosse quello di battersi sempre contro tutti, schiacciando i più fragili e mostrando di essere i più forti e i più determinati. Una società che oggi sta facendo i conti con i risultati di questo “egoismo assoluto” che, dopo aver cercato di cancellare ogni forma di solidarietà e di cooperazione, si rende conto di non essere più in grado di andare avanti. Perché coloro che ci si è persi per strada sono troppi, e adesso chiedono il conto di quell’esclusione. E anche chi sembra avercela fatta, paga poi a livello esistenziale il peso del proprio successo. Anche semplicemente perché, come spiegava Georges Canguilhem, quelle che da un punto di vista sociale vengono considerate delle “riuscite”, sono poi spesso dei “fallimenti ritardati”.
La scuola non serve solo a far acquisire competenze. Anzi. Le competenze vanno e vengono, soprattutto quando non si fondano su una maturazione più generale e più profonda. Fatta non solo di spirito critico, che pure è estremamente importante, ma anche di consapevolezza dei propri limiti e delle proprie fragilità. La scuola serve a far crescere e a far capire il senso del proprio “essere-al-mondo”. Serve ad aprirsi alle differenze, imparando pian piano ad accoglierle. Serve a rendersi conto che, nella vita, nessuno può “avere tutto” ed “essere tutto” e ci sarà sempre qualcosa che ci mancherà: una caratteristica, una qualità, un posto di lavoro, una relazione sentimentale, un figlio.
Avremo tutti i nostri problemi e le nostre sofferenze. Le nostre differenze e i nostri handicap. Tutti “diversamente abili” per un motivo o per un altro. Sperando che queste varie disabilità non ci escludano dal vivere-insieme. Come scriveva Oscar Wilde, però, «le cose vere della vita non si studiano né si imparano, ma si incontrano». Come una ragazza disabile nella propria classe.

La Repubblica 28.02.14

"Buoni maestri", di Mariapia Veladiano

Sulla scuola oggi non si può essere troppo ecumenici,
bisogna essere di parte, la parte di chi rischia che l’istruzione non sia più un suo diritto, per colpa della crisi economica, della sciatteria politica, del calcolo astuto di chi sfrutta a fini suoi l’ignoranza altrui. E dovrebbe essere la buona politica a preoccuparsi che questo accada ma non lo fa e allora ci sono i buoni maestri e le buone maestre. In qualche modo eredi di Alberto Manzi che ha reso possibile per molti italiani quel “non è mai troppo tardi”, che era il titolo della sua trasmissione più popolare.
Questi maestri oggi non parlano dalla televisione ma sono a scuola, fuori dalla scuola e, come dire, a scavalco: insegnanti al mattino, volontari al pomeriggio. Sono presenti a spaglio, in quartieri che conosciamo per la loro lunghissima storia di dolore e degrado, come Scampia a Napoli, e poi anche a Milano, Roma e Reggio Calabria. Il giovanissimo Rosario Esposito La Rossa ha 25 anni, “educatore con lo sport”, dice. Franca Caffa ha 85 anni, di cui 25 impegnati nel “Doposcuola di Calvairate”, a dare aiuto a ragazzini che se non finivano la scuola finivano a spacciare, dice.
Asentirli parlare si capisce cosa li muove. La fiducia nei ragazzi. La certezza che dare fiducia vuol dire mettere in moto un meccanismo di riparazione nelle loro vite deprivate. Credere che sono capaci, possono sottrarsi a un destino che sembra scritto. E questo riparare passa attraverso la relazione. Che può esistere anche se i ragazzi che si hanno davanti sono tanti, l’importante è che ci interessi davvero quel che sono. Poi certo bisogna dare le parole, la cultura che li tenga lontanissimi dal 5 per cento di italiani inchiodati dall’analfabetismo strumentale, cioè che non sanno leggere, e anche dal 33 per cento di italiani afflitti da analfabetismo funzionale, ovvero che non sono in grado di
comprendere istruzioni, articoli, discorsi. Questi maestri non si occupano certo solo di stranieri. Fra le nuove povertà c’è la mancanza di tempo e colpisce ovunque. I genitori sono impegnati in lavori che rubano la relazione con i figli e questi sono soli e anche bocciati. Non è facile per la scuola, oggi è accusata di tutto. L’alleanza con la famiglia e la società è sfaldata.
C’è un rischio, che oggi è quasi un destino: quello di
dover essere maestri speciali, diversamente maestri rispetto agli insegnanti fannulloni incapaci illicenziabili e quindi impuniti che viaggiano nel pregiudizio della piazza. Ma queste esperienze di maestri diversi sono anche esperienze di socializzazione del problema, come si dice. Nessuna scuola è autosufficiente, neanche se ha tutto quel che le serve e di più. L’autosufficienza è un tarlo tremendo che sbriciola la nostra propensione a sentirci solidali, responsabili nel
modo in cui possiamo e sappiamo. Per cui va bene questa disseminazione di esperienze d’aiuto, è l’espressione bella del nostro credere che insieme è meglio sempre, che la scuola, la convivenza sono cose di tutti. E c’è anche la possibilità che da queste esperienze arrivino alla scuola, per via obliqua, delle idee precise, tipo che se non si libera la scuola dalla burocrazia a favore della relazione non si va da nessuna parte, che i programmi (non ci sono più in senso stretto, ma non è informazione così conosciuta ancora) passano sempre attraverso
la curiosità dei ragazzi, che senza la passione, proprio la passione, per la propria disciplina e per i ragazzi, fare l’insegnante è nocivo.
Parlare di scuola vera è sempre una buona cosa perché ancora una volta si scopre che ciò che non appare è quel che più conta, e mentre la narrazione comune di scuola, anche nei libri, insegue perversioni e scandali per vendere forse una copia in più, c’è chi non si permette nessun cinismo passatista e dice che la società può continuare a essere civile attraverso questi ragazzi non più irrigiditi dalla delusione di sé.
La deprivazione culturale è immediatamente un ostacolo alla partecipazione sociale (non si capisce di essere ingannati, non si trovano strade condivise, per contrapporsi bastano poche parole) e politica (si crede ai truffapopoli di quartiere e di stato), allo sviluppo economico (si dipende dal resto del mondo) e alla realizzazione della propria libertà e felicità, perché non possiamo realizzare quel che siamo.
E così essere di parte, quando si parla di scuola, vuol dire essere dalla parte di tutti.

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“Studiare al doposcuola li salva dallo spaccio”

Lei e i suoi volontari hanno insegnato a scrivere e a parlare in italiano a qualche generazione di bambini, con un doposcuola inaugurato 25 anni fa nei locali del comitato inquilini del quartiere Molise- Calvairate-Ponti, periferia sud est di Milano, una zona popolare, degradata, piena di immigrati, emarginati, famiglie povere, malati di mente, anziani. La fondatrice del doposcuola, Franca Caffa, la conoscono tutti in città, perché a 85 anni ha più energia di una ragazzina nel difendere le ragioni dei più deboli, a partire dai bambini. È stata lei a inventarsi quel servizio, nell’89, «perché avevamo scoperto che i nostri ragazzini venivano bocciati con più frequenza rispetto alle medie nazionali, e chi falliva a scuola, veniva reclutato come spacciatore», spiega la Caffa. Con un pugno di volontari reclutati nelle associazioni e nelle due parrocchie di zona, la battagliera Franca ha aperto le porte del comitato inquilini ai bambini delle case Aler. «Un po’ di ragazzi ci vengono segnalati dalle scuole, un po’ li andiamo a recuperare nei cortili. Abbiamo cominciato con quelli delle medie e poi abbiamo preso anche quelli delle elementari. Ma abbiamo fatto sempre tutto solo con le nostre forze, perché di aiuti dal pubblico ne abbiamo avuti pochi. Solo un anno fa abbiamo vinto con un bando un finanziamento della Fondazione Cariplo che ci ha permesso di restare a galla — spiega la “passionaria” di Calvairate — Ogni anno seguiamo un centinaio di ragazzini, tanti immigrati, dall’inizio saranno migliaia quelli che abbiamo aiutato».

(zita dazzi)

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“La sfida più difficile: la fiducia delle famiglie”
Sa qual è la differenza tra il maestro Manzi e noi insegnanti di oggi? Che la gente a lui dava fiducia anche se appariva soltanto in tivù, mentre a noi ne danno molta meno: le famiglie italiane vedono che abbiamo troppi alunni stranieri e iscrivono i figli altrove, come se la presenza di bimbi provenienti da altri paesi fosse un problema ». Daniela Braidotti fa la maestra all’elementare Gabelli, a Torino, nel quartiere multietnico di Barriera di Milano. Insegna a 22 bambini di quinta. Tra loro ci sono cinque italiani, sedici stranieri e uno con genitori “misti”.
Non sono numeri da record: «Le tre “prime” della succursale hanno solo due italiani». È accaduto perché nelle famiglie italiane della zona si è creata una certa diffidenza: «Eppure si cresce anche meglio se si ha un confronto quotidiano con persone che hanno origini diverse dalle nostre, si impara la tolleranza ». Per i suoi alunni l’integrazione accade in modo naturale: «Con i bambini stranieri — racconta la maestra Daniela — c’è la possibilità non solo di conoscere più cose, ma anche di acquisire un modo diverso di interpretare la complessità. Scoprire che non esiste un pensiero unico o un’unica verità, arricchisce non solo gli alunni ma anche me».
Certo non è facile, «ma ti aiuta a essere più consapevole del valore di ogni parola che dici e a non dare nulla per scontato», spiega. È faticoso? «Bisogna sempre confrontarsi, convincere i bambini a mettersi in gioco. Eppure è il lavoro più gratificante che io conosca».
(stefano parola)

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“Con il rap vinciamo la noia di fare i compiti”

Luca è un ragazzino di Corviale, periferia estrema romana. Ha 15 anni. E una faccia da attore, occhi scuri e aria da grande. Nel suo quartiere lasciare la scuola è quasi una moda. E chi molla, diventa una pedina della criminalità locale. Spaccio, furti, scippi. Ma a lui non è successo. Perché ha avuto una possibilità nel centro di aggregazione, Luogo comune, a due passi dai palazzoni del quartiere. Daniele, Paola, Mariangela sono alcuni degli educatori. Decine di ragazzi passano il pomeriggio con questi maestri di strada moderni. Nel centro (un progetto di Arcisolidarietà e del Municipio XI di Roma) si fanno i compiti, si studia matematica, italiano, inglese. E si imparano materie che a scuola non ci sono: rap, hip-hop, cinema, fumetto, acrobatica e giocoleria. Qui si insegna ad appassionarsi alle cose, ad apprendere un metodo. «Un’impresa che richiede tanta pazienza — spiega Daniele Bruschi, uno degli operatori — che diventa possibile grazie alla musica. Perché insegnando rap e hip-hop, ad esempio, riusciamo a farli appassionare alla scrittura. Ma anche al ballo e alla street art, quindi ai murales e alla pittura». «Ai ragazzi chiediamo di fare un patto — spiega la responsabile, Paola Liberto — vi facciamo fare le cose che vi divertono, ma quando c’è da studiare matematica non si fanno storie». Funziona. Anche se la sera i maestri di strada sono distrutti. «Ogni ragazzo ha bisogno di continue attenzioni, ha qualcosa da raccontarti. Ma sappiamo di offrire un’alternativa in un territorio dove non c’è nient’altro».
(valeria teodonio)

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“Sul campo di calcio si può crescere insieme”

Il mio motto? Senza condanne e senza pietismi. Voglio che sappiano, questi ragazzi, che crescere è un percorso che si fa in due. E anche l’altra cosa: che il fallimento è nel conto, un gradino da cui ripartire. Glielo ripetiamo spesso, usando il pallone. Ragazzi, nasce un campione ogni 10mila bambini. E poi, mica uno lo sa dove sta nascosto il proprio talento».
Rosario Esposito La Rossa, 25 anni, allenatore di una delle scuole calcio tra le più forti e popolose d’Italia, — la “Arci Scampia” fondata da Antonio Piccolo — ma anche scrittore, organizzatore teatrale, è uno dei silenziosi maestri “Manzi” del Duemila. «All’inizio, i più difficili neanche salutavano, dicevano facete o dicete.
Li ho corretti sì, ogni giorno, volevo che si stancassero di sbagliare, che imparassero il rispetto dei loro pensieri». Rosario è l’erede dei maestri di strada come Cesare Moreno o Marco Rossi-Doria. Ogni giorno ascolta, forma, fa allenare 60 ragazzi, tra gli 8 e i 9 anni. A Scampia, cuore della periferia che grida aiuto, ma che sa anche rialzarsi da sola. «Sono figli di borghesi e figli di camorristi. Sono la vera società, imparano a fare squadra». Rosario sa che il talento può ingannarti. Voleva sfondare come calciatore: terzino sinistro. Poi, quando la camorra di Scampia gli uccide il cugino che è l’amico più fragile, per errore, lui è investito da pensieri nuovi, rabbia, altre urgenze. E il suo sogno si allarga, diventa collettivo. «Mi sono avvalso, diciamo così, del diritto di non diventare un campione », sorride ora Rosario. «Volevo essere un educatore».
(conchita sannino)

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“Ci chiedono di ascoltarli così io imparo da loro”

Il regalo più bello te lo fanno quando accendono gli occhi. È la loro maniera di dirti grazie. Ti guardano e si illuminano. Ed è così che capisci che quello che facciamo è poca cosa rispetto a quello che ci regalano». Caterina Quattrone una volta alla settimana va al “Centro Giovani Domani”. Senza orari rigidi, ma non rinuncia mai a incontrare i ragazzini del quartiere. In fondo, dice, «ci vuole poco, basta esserci». Certo, «aiutarli con lo studio è fondamentale, ma è ancora più importante ascoltarli ».
È un’insegnante di religione dell’istituto comprensivo “Don Bosco-Cassiodoro” del quartiere Pellaro, scuola della periferia sud. Tanti bambini con estrazioni sociali diverse e difficoltà che cambiano a seconda delle variabili della vita. Sposata con due figli grandi, per lei il lavoro pomeridiano completa quello del mattino. Al “Giovani Domani” i ragazzini fanno sport e stanno assieme: «Ci chiedono — racconta Caterina — di essere accolti e incoraggiati. Ci sono alcuni stranieri, c’è la povertà, la difficoltà di relazionarsi o anche solo la solitudine».
La maestra Caterina ha 54 anni, e i suoi di ragazzi li ha già cresciuti: «Non tolgo tempo alla famiglia, e poi casa ci sono abituati: oltre al centro di aggregazione c’è sempre stata la parrocchia». A Reggio quasi tutto il volontariato ruota intorno al mondo cattolico. Presidi di legalità che offrono al territorio i servizi che non ci sono. Ed è questo servizio che la maestra dà al suo quartiere o, come dice lei, a se stessa «perché imparo più io da loro che loro da me».
(giuseppe baldessarro)

La Repubblica 28.02.14