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"L’errore di Einstein", di Marco Cattaneo

Un universo stazionario, in espansione ma con una densità di materia costante, grazie alla continua formazione di nuova materia nel vuoto cosmico. È una teoria che a metà del Novecento fu sviluppata e ostinatamente difesa da Fred Hoyle, brillante e poco ortodosso astronomo britannico. La elaborò nel 1948 per contrastare il crescente consenso al modello che con disprezzo chiamava del “big bang”, coniando involontariamente una delle espressioni di maggior successo della storia della scienza. Ma un embrione di quell’idea era già contenuto in un breve manoscritto di Albert Einstein risalente probabilmente alla primavera del 1931 e riscoperto di recente da Cormac O’Raifeartaigh, del Waterford Institute of Technology, in Irlanda, e da alcuni suoi colleghi all’Archivio Einstein della Hebrew University di Gerusalemme.
Il padre della relatività accarezzava l’idea di un universo statico fin dal 1917, quando tentò di risolvere un problema che assillava sia la gravità newtoniana che la sua relatività generale introducendo un termine che chiamò «costante cosmologica». Il problema era che, senza quel termine, a lungo andare l’attrazione gravitazionale di stelle e galassie avrebbe fatto collassare l’universo su se stesso. Un’ipotesi alternativa, messa a punto indipendentemente tra il 1922 e il 1927dal cosmologo russo Aleksandr Fridman e dal fisico e presbitero belga Georges Lemaître, prevedeva che, senza nessuna costante cosmologica, l’universo fosse in espansione e in continua evoluzione. Ma quell’idea comportava che lo spazio e il tempo avessero avuto un inizio, e Einstein – al pari di molti suoi autorevoli colleghi – non la digeriva volentieri. Per semplici ragioni filosofiche, era di gran lunga preferibile un universo eterno.
La prima svolta sperimentale, o per meglio dire osservativa, arrivò nel 1929. In quell’anno Edwin Hubble – a partire appunto dall’osservazione delle galassie – formulò la legge che porta il suo nome, secondo la quale le altre galassie si allontanano da noi tanto più velocemente quanto più sono lontane. Dimostrando inequivocabilmente che l’universo è in espansione. E di solito i biografi di Einstein collocano a questo punto la sua “conversione”. Venuto a sapere dei risultati di Hubble, il grande fisico tedesco avrebbe definito la costante cosmologica «il mio più grande errore».
In verità – come dimostrano le sue accese, interminabili discussioni con Niels Bohr sui fondamenti della meccanica quantistica, l’altra grande rivoluzione del Novecento – Einstein non era propriamente un tipo rinunciatario. Prima di abdicare alle sue visioni estetiche e filosofiche delle leggi della natura perseverava fino al parossismo, per darsi vinto soltanto quando trovava prove inoppugnabili del contrario. E il manoscritto rinvenuto da O’Raifeartaigh ne è una notevole testimonianza.
È intitolato semplicemente Zum kosmologischen Problem (Sul problema cosmologico). Ed è passato inosservato fino a oggi perché era stato catalogato come un testo preliminare per un articolo successivo, dal titolo quasi identico. Invece è un estremo tentativo – piuttosto maldestro, in verità – di aggiustare la costante cosmologica al mutato quadro fenomenologico. Ovvero alla legge di Hubble, che aveva incontrato poco tempo prima al California Institute of Technology durante un viaggio di tre mesi negli Stati Uniti. E dove lavorava anche Richard Tolman, che nel 1930 aveva pubblicato un’ipotesi di universo in cui l’espansione cosmica avrebbe potuto derivare dalla continua trasformazione di materia in radiazione.
Einstein cita Tolman proprio all’inizio del manoscritto. Ammettendo che la sua soluzione «non sembra finora essere stata presa in considerazione». Morale, si mette a tavolino e lavora alle equazioni. Ma commette un errore, all’apparenza, che correggerà soltanto più tardi. E non introduce mai nelle sue equazioni un termine che renda davvero conto di quella continua formazione di materia che ipotizza. Formalmente, le sue speculazioni anticipano di quasi vent’anni la teoria dello stato stazionario di Hoyle, ma in realtà Einstein non arriverà mai a pubblicarle. Già nell’aprile del 1931 e poi nel 1932 – scrivono O’Raifeartaigh e colleghi nell’articolo sottoposto per la pubblicazione allo European Physical Journal – pubblicherà due modelli, oggi noti come modelli di Fridman-Einstein e Einstein-de Sitter – che già abbracciano in pieno l’idea di un universo in espansione. Qui la densità della materia diminuisce con l’aumentare del raggio dell’universo, e la costante cosmologica è definitivamente tramontata.
Alla fine, anche l’indomabile riluttanza di Einstein si era piegata al suo amore altrettanto radicato per la semplicità: perché quella materia che si creava di continuo dal nulla gli appariva troppo artificiosa. Da allora tornò a combattere la sua battaglia contro il Dio che gioca ai dadi della meccanica quantistica e a elaborare una teoria unificata che non avrebbe mai visto la luce.
Richiesto, quasi vent’anni più tardi, di un’opinione a proposito della teoria di Hoyle, la liquidò in due parole come una «speculazione romantica», fondata su basi troppo fragili per essere presa sul serio.
Bisogna arrivare al 1964, quando due ricercatori dei Bell Laboratories, Arno Penzias e Robert Wilson, scoprono la radiazione cosmica di fondo, la testimonianza fossile del big bang, per archiviare definitivamente le velleità dei sostenitori dello stato stazionario. La famigerata costante cosmologica inventata da Einstein nel 1917 per mantenere statico l’universo, invece, tornerà in gioco, con un ruolo assai più inquietante, nel XXI secolo. E precisamente quando gli astronomi accertano l’esistenza dell’energia oscura, la forza ignota che accelera l’espansione dell’universo. E che farà terminare il cosmo, secondo i modelli cosmologici più accreditati, in un Big Freeze; un inesorabile, gelido buio. Ma questa è un’altra storia.

La Repubblica 27.02.14

"I distretti ultimo baluardo delle Pmi", di Matteo Meneghello

Per il terzo anno consecutivo le imprese dei distretti «superano» le realtà non organizzate in filiera, con performance migliori sia nei fatturati (4,2 punti punti percentuali di crescita in più) sia nella dinamica dei profitti. Una performance, però, che non è sufficiente a riportare i fondamentali sul terreno positivo. I bilanci 2012 evidenziano un calo del fatturato del 3,7%(-1,3% nel 2013) e una continua erosione dei margini.
Il ritorno definitivo alla crescita, anche per queste imprese, è atteso solo per il 2015 (dopo un +2,2% nell’anno in corso), con un incremento del 4,7 per cento. Sulla tenuta dei distretti, inoltre, incombe il rischio di disarticolazione degli anelli della filiera, minacciata dalla componentistica estera e dal rischio di perdere le competenze in termini di subfornitura.
Il quadro è stato tracciato ieri, durante la presentazione del sesto rapporto annuale sui distretti, curato da Intesa Sanpaolo. L’analisi conferma l’eccellenza di alcune aree distrettuali italiane che, anche negli anni della crisi, sono riuscite a ottenere performance di crescita significative. Tra gli 11 migliori distretti selezionati da Intesa Sanpaolo, primeggia l’agroalimentare, con 6 aree (vini del veronese, prosecco di Valdobbiadene, dolci di Alba e Cuneo, caffè e pasta napoletane, vini del Chianti, salumi di Parma). Tre aree sono riconducibili alla filiera della moda (calzature napoletane, pelletteria di Arezzo, calzature di San Mauro Pascoli) e solo due (marmo di Carrara e macchine per l’imballaggio di Bologna) al manifatturiero. Nei prossimi mesi, però, dovrebbero recuperare anche i distretti più «pesanti»: si attende una ripresa delle meccanica, dei prodotti in metallo, e anche della filiera del mobile.
«Alla base delle migliori performance rispetto alle aree non distrettuali – ha spiegato ieri il chief economist di Intesa, Gregorio De Felice – c’è la maggiore capacità dei distretti di esportare, di effettuare investimenti diretti esteri e di registrare brevetti. I distretti si confermano come luogo privilegiato per la diffusione e l’adozione di comportamenti complessi e catalizzatori di innovazione tecnologica, organizzativa e di mercato».
Rimangono però, come detto, molte criticità. Innanzitutto l’erosione della redditività: i margini operativi netti in rapporto al fatturato si attestano al 3,9%, con una perdita di 1,4 miliardi negli ultimi quattro anni. In questo contesto, i curatori dell’analisi manifestano preoccupazione per l’elevata fragilità di molte imprese, in particolare per quelle di minori dimensioni, che faticano a mantenere in equilibrio la gestione finanziaria. «Il rischio principale – ha spiegato Fabrizio Guelpa, responsabile delle ricerche di Intesa San Paolo – rimane la disarticolazione della filiera: le Pmi subfornitrici continuano a essere minacciate dalle intenzioni di internazionalizzazione delle imprese capofila».
Le analisi del rapporto evidenziano rischi soprattutto per le produzioni a più basso valore aggiunto. Il 62% delle imprese pensa di non ridurre nei prossimi anni il ricorso alla subfornitura locale, per evitare di incorre in problemi di qualità, affidabilità e time to market. Ma preoccupano i problemi finanziari delle imprese più piccole, che potrebbero compromettere la loro capacità di realizzare gli investimenti necessari per seguire le strategie innovative dei committenti.
«Siamo pronti a un’offerta di credito che nei prossimi quattro anni può superare i 150 miliardi di euro erogazioni – ha assicurato ieri l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina –. È ovvio poi che la domanda di credito non dipende da noi, ma la nostra disponibilità a sostenere le imprese c’è tutta».

Il Sole 24 Ore 27.02.14

"Piovono pietre. Il linciaggio verbale contro le donne", di Maria Serena Sapegno

Le parole sono importanti. Importante è l’uso che se ne fa, soprattutto quando si ricopre un incarico istituzionale, quando si scrive su un giornale, ma anche quando si lancia un messaggio su un social network. Una riflessione sul potere del linguaggio e chi lo detiene. “Le parole sono pietre” scriveva Carlo Levi. O non è più così nel mondo dell’immagine? Siamo state costrette, in questi giorni concitati della nostra vita pubblica, a dover occuparci degli insulti a sfondo sessuale rivolti alle donne della politica. Sui giornali e nei blog si è osservato, anche da voci di donne, come non si debba perder tempo a reagire agli insulti, ponendosi così in atteggiamento vittimistico, e si dia mano invece alle cose importanti.

Vale la pena di soffermarci sul senso profondo di tale dibattito. Chi si dichiara insofferente alle proteste per gli insulti usa talora argomenti legati al savoir vivre salottiero, secondo i quali bisognerebbe avere più senso dell’humour, farsi una risata ed evitare atteggiamenti moralistici o da “suffragette”. Altri adoperano motivazioni più meditate per cui, poggiando il linguaggio su condizioni oggettive e perfino su rapporti di potere che sono precisamente il nocciolo duro che va cambiato, non si possa appunto perdere tempo. E certo non ispirarsi all’ “ipocrisia” del politically correct….

Vorrei sostenere che le parole non sono pietre, sono molto di più. Sono i mattoni con i quali edifichiamo il nostro pensiero, lavorati nel tempo dalla nostra cultura e poi assemblati, più o meno passivamente secondo gli stili e le mode correnti, da ciascuno/a di noi. Senza parole non si produce pensiero ma per converso il nostro pensiero è costretto entro gli argini delle nostre competenze linguistiche, delle letture che abbiamo fatto, dei discorsi che abbiamo sentito, delle esperienze che siamo stati in grado di tradurre in parole. Il linguaggio costituisce il perimetro del pensabile.

È sicuramente vero che il linguaggio riflette e rappresenta i rapporti di potere esistenti e perciò è sempre stato terreno di conflitto e di negoziazione: come aveva ben visto Gramsci, quando si discute di lingua si sta sempre discutendo di classe dirigente e di egemonia. Ed è proprio per questo che le donne considerano tale terreno di importanza strategica.

Ma il linguaggio è anche il sistema di codificazione dell’universo simbolico, lo spazio nel quale si stabiliscono connessioni e gerarchie che affondano nell’inconscio, lo snodo tra emozioni, sentimenti e loro elaborazione, lo strumento principale per la costruzione della soggettività e della relazione. Davvero difficile sopravvalutarne l’importanza e la delicatezza.

Per tornare alle vicende dei nostri giorni, quindi, quegli insulti a sfondo sessuale, nel cuore stesso delle istituzioni, vogliono ribadire l’ordine simbolico patriarcale che le donne stanno mettendo in discussione. Dicono semplicemente “voi potete solo essere corpo e esclusivamente in quanto corpo servile siete ammesse nelle istituzioni. Non vi fate illusioni e state al posto vostro”. Per questo non vanno sottovalutati, non sono ‘solo parole’, toccano chiavi profonde e lasciano il segno.

Nella attuale crisi di rappresentanza delle istituzioni il linguaggio gioca un ruolo decisivo: la lontananza e l’incomprensibilità dei riti della democrazia sono state messe sotto accusa anche perché le istituzioni non riescono a trovare linguaggi che rispondano a nuovi bisogni di comunicazione e sembrano indugiare in gerghi autoreferenziali.

A tali problemi sembrano rispondere le semplificazioni populistiche, le barzellette del capo e, da ultimo, le dichiarazioni apodittiche e distruttive dei cinquestelle che si presentano come il “nuovo” con un linguaggio violento e sessista.

Per non entrare nelle istituzioni lasciando fuori la propria differenza, le donne hanno cercato di incidere sul linguaggio e rifiutato la cancellazione dentro un presunto neutro istituzionale, usando ad esempio ‘la ministra e la magistrata”, ma con poco successo. Sono riuscite invece ad imporre il termine “femminicidio” e con esso a rendere consapevole la comunità nazionale di un nodo fondamentale: la violenza di genere da fatto esclusivamente privato è divenuta pensabile, un problema di tutti.

L’idea che le istituzioni si debbano aprire al linguaggio della quotidianità per essere più vicine si dimostra povera e inefficace. C’è bisogno piuttosto del linguaggio della vita e della sua complessità, che le donne hanno elaborato tenendo insieme le diverse facce della comunità, il linguaggio che può consentirci di ‘pensare la differenza’ in tutte le sue pieghe e la sua ricchezza, che va opposto alla ripetuta negazione della loro piena cittadinanza, perché a tre anni dalle grandi piazze del 13 febbraio si possa cominciare a fare di questo un paese per donne.

da www.ingenere.it

"Seicento opere incompiute quei quattro miliardi sprecati per costruire l’Italia a metà", di Antonio Fraschilla

È un lungo viaggio, che parte dall’estremo Nord e arriva fino al cuore della Sicilia. Le tappe nel programma dell’itinerario di questo amaro percorso sono le grandi e piccole incompiute d’Italia, quasi seicento opere inutili rimaste a metà o appena abbozzate. Dal nuovo terminal dell’aeroporto di Saint-Christophe ad Aosta allo svincolo di una strada di provincia nell’Ennese, progetti che pesano sulle casse pubbliche per 4,1 miliardi di euro, tra spese già affrontate e fondi impegnati nel tentativo, a volte disperato, di portarli a compimento. L’elenco, in alcuni casi parziale, lo ha appena stilato il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che ha finalmente ricevuto la documentazione presentata dalle Regioni ritardatarie, Sicilia e Sardegna, in forza di una norma voluta dal governo Monti che crea per la prima volta una grande anagrafe delle incompiute.
Non c’è regione d’Italia che la faccia franca in questo itinerario dello spreco. Si parte dal nuovo terminal dell’aeroporto di Saint-Christophe: un cantiere a cielo aperto costato già 8,8 milioni di euro. Per ultimare la struttura occorrono altri 3,3 milioni, nel frattempo l’opera è stata pure vanda-lizzata: qualcuno ha pensato bene di portarsi via i sanitari nuovi di zecca. Poco più giù, nel cuore delle ricche Langhe, ecco la collina del disonore: quella di Verduno, dove dal terreno si stagliano verso il cielo centinaia di pilastri, lo scheletro dell’ospedale di Alba e Bra. Una struttura costata ad oggi 159 milioni di euro tra le proteste di ambientalisti e geologi che denunciano la «franosità del terreno».
La Lombardia nel suo elenco non proprio completo (basti pensare che manca ad esempio l’ormai tristemente famoso svincolo di Desio che finisce in aperta campagna), include una miriade di piccole opere: dal nuovo laboratorio dell’Asl di Milano in via Juvara (14,3 milioni di euro spesi e altri 10 per completarlo), ai lavori che vanno avanti ormai da quasi dieci anni per la costruzione del «nuovo ostello della gioventù» di Lecco: 2,6 milioni di euro per un cantiere che doveva essere consegnato nel 2008. Tra le opere lombarde rimaste a metà anche la bretella sull’A22 tra Mantova e l’area industriale di Valdaro.
Scendendo ancora, l’Emilia Romagna tra le incompiute segnala l’intervento da 50 milioni di euro per la «realizzazione del nuovo assetto ferroviario di Ferrara ». Ma nella lista nera non inserisce una famosa incompiuta della cittadina estense: la ristrutturazione del Teatro Verdi, chiuso dal 1985 e, tra annunci e fondi impegnati, ancora in abbandono. Il viaggio prosegue, e si fa tappa in Toscana. Nell’elenco fornito dalla Regione, spicca lo svincolo sulla Cassia di Monteroni D’Arbia: iniziato quattro anni fa e costato al momento 30 milioni, è ancora un cantiere aperto e l’infrastruttura rimane incompiuta, così come la scuola di Lari, il centro didattico di Carmignano o l’asilo di Scandicci.
Nell’elenco delle opere rimaste in mezzo al guado della malaburocrazia compaiono anche piccole e piccolissime infrastrutture di provincia. Ad esempio, il Veneto segnala l’ampliamento della scuola materna del Comune di Montecchio Maggiore (1,3 milioni di euro) e la nuova piscina a Cassola (18 milioni), mentre la Sardegna mette la realizzazione dell’orto botanico della Maddalena (520 mila euro). Il Lazio invece ha consegnato una lunga lista, che comprende incompiute per un valore di 261 milioni: dalla palestra di Vico al museo naturalistico di Palombara Sabina. Non un rigo sulla Capitale, che d’incompiute però ne conta a bizzeffe. Una su tutte, la città dello sport di Tor Vergata: oltre 400 milioni di euro spesi per lavori che sono andati avanti sette anni e poi si sono improvvisamente impantanati. Ma dall’anagrafe, che sarà aggiornata online sul sito del ministero, la fa franca anche Napoli. La Regione Campania sembra la più virtuosa d’Italia, visto che segnala appena due piccole opere incomplete: un palazzetto dello sport e quattro alloggi popolari nel Comune di Calvi Risorta. Un po’ poco per essere credibile. E dire che proprio qui, in provincia di Benevento, c’è forse una delle incompiute più antiche d’Italia: l’ospedale di San Bartolomeo in Galdo. Più oneste nell’ammettere i propri sprechi sembrano la Calabria, la Puglia e la Sicilia. Ma anche qui non mancano alcune sviste. Nemmeno citata è la diga del Pappadai di Taranto (70 milioni di euro spesi in trent’anni e non una goccia d’acqua raccolta) o il teatro di Sciacca: progettato negli anni Settanta, ad oggi è costato 25 milioni di euro e nessuno vuole gestirlo. Troppo grande per la piccola cittadina siciliana, e il teatro si staglia così inutile sul
mar Mediterraneo.

La Repubblica 27.02.14

"La riforma impossibile", di Filippo Ceccarelli

Quando il presidente Renzi l’altro giorno ha invocato “una gi-gan-te-sca opera di semplificazione!”, con tutto il rispetto veniva da pensare a Ennio Flaiano, il più italiano degli scrittori moderni e il più moderno degli italiani — come risulta con allegro sgomento nell’acuto saggio di Diego De Angelis su
Flaiano e la Pubblica Amministrazione (Rea, 2010).
E dunque: «Gli presentano un progetto per lo smaltimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modello H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando».
Questo scriveva Flaiano nel 1951. Pochi mesi prima, con il VII governo De Gasperi, era nato il ministero “per la Riforma burocratica”, affidato all’amministrativista ligure Roberto Lucifredi, già fautore dell’abolizione delle province (!). Questi rimase lì per cinque governi di seguito, anche se subito il ministero cambiò nome intitolandosi “Riforma della PA”.
Nel 1954 Fanfani ripristinò l’originaria denominazione. Ma quattro anni dopo la burocrazia scomparve per sempre a beneficio della PA. Nel 1960 di nuovo e ancora Fanfani abrogò il pericolante dicastero sostituendolo con un sottosegretariato. Agli albori degli anni 60 riacquistò rango ministeriale e dopo una serie di figure minori vi rimise piede, una specie di canto del cigno, Lucifredi. Dopodiché i dc lo diedero in appalto al Psdi.
Sembra ovvio, ma nel frattempo la burocrazia estendeva il suo potere invadendo qualsiasi campo della vita pubblica. Dal che in un altro taccuino di Flaiano (che di suo aveva commesso l’ingenuità di chiedere al comune di Pescara se fosse stato registrato come Ennio o Enio) si legge: «Dopo la calata dei Goti, dei Visigoti, dei Vandali, degli Unni e dei Cimbri, la più rovinosa per l’Italia fu la calata dei Timbri. Erano costoro barbari di ceppo incerto, alcuni dicono autoctoni, dall’aspetto dimesso e famelico, che ispiravano più pietà che terrore».
Nel 1968 il ministero se lo riprese la Dc. E vi piazzò a lungo Remo Gaspari. Ma con un colpo di fantasia dei suoi Rumor volle ribattezzarlo “Organizzazione della PA” mentre Moro, che almeno possedeva il pessimismo dell’intelligenza, lo dedicò se non altro ai “Problemi della PA”. E insomma la storia è lunga, forse noiosa, ma istruttiva. Andreotti, che pure si definiva «un burocrate», ancora una volta lo degradò. Così come si deve a Cossiga (1980) la rinuncia nel titolo a ogni idea di riforma e venne alla luce la “Funzione pubblica” — subito corretto in “Finzione pubblica”.
Tale restò per tutti gli anni 80 e 90 e anche oltre. Vi si esercitarono invano anche illustri tecnici: Massimo Severo Giannini, Paladin e poi anche Cassese. Il IV governo Fanfani (1987) lo unificò con gli Affari Regionali, come più tardi Berlusconi (1994). Quindi Dini, Prodi, D’Alema e Amato bis ancora lo declassarono. Ma nel 2001 Berlusconi lo promosse di nuovo, accontentando Frattini e assicurandogli pure l’indispensabile soccorso di un sottosegretario. Il Prodi bis (2006) cancellò la dizione la Funzione Pubblica per varare il ministero per la “Riforma e l’Innovazione nella PA”. Il Berlusconi ter (2008) invertì i termini lessicali della faccenda, chiamandolo “PA e Innovazione” — e si ebbe la spumeggiante epopea di Brunetta. Ma al tempo stesso alcune funzioni se le prese la “Semplificazione normativa”, il cui titolare, Calderoli, armato di lanciafiamme bruciò quintali di leggi nel cortile dei pompieri.
Monti unificò i doppioni creando il ministero per la PA e la Semplificazione; ora Renzi ne lancia un altro per la Semplificazione e la PA; e sempre più si avverte la nostalgia di Ennio (o Enio) Flaiano.

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“BUROCRAZIA. La consorteria dei mandarini più forte di qualsiasi governo”, di ALBERTO STATERA
Li chiamano mandarini. E a ragione, perché l’organizzazione delle burocrazie fu importata originariamente in Europa dai missionari cattolici provenienti dalla Cina, dove avevano osservato il complesso sistema di selezione dei mandarini e dalla durata delle loro cariche pubbliche. Ora Matteo Renzi, con giovanile impeto, giura che per lui la “madre di tutte le battaglie” sarà riformare «l’albero mortifero della burocrazia », come lo chiamò Gaetano Salvemini. Bella sfida, con la quale si sono misurati invano nei decenni decine di presidenti del Consiglio e di ministri, dando vita anche ad episodi di rara comicità. Come quando nel 1964 il ministro per la Riforma della Pubblica amministrazione del primo governo Moro, il socialdemocratico Luigi Preti, indisse un concorso a premi tra tutti i cittadini (150 mila lire) per le migliori idee di riforma dell’apparato burocratico dello Stato. Il povero Preti forse immaginava quella immensa “macchina senz’anima” descritta da Max Weber come un esercito di Policarpo De’ Tappetti ufficiale di scrittura, l’impiegato ministeriale della Roma Umbertina interpretato da Macario in un film di Mario Soldati. E non come una consorteria di potenti
grand commisinamovibili
che i ministri se li bevevano in un sorso nei pochi mesi in cui questi restavano in carica. Il professor Sabino Cassese, massimo esperto di Pubblica amministrazione, ricorda spesso come il ministro del Tesoro Gaetano Stammati prendesse ordini in quasi tutto dal ragioniere generale dello Stato Vincenzo Milazzo e per il resto da Luigi Bisignani, che già stava mettendo in piedi il suo “nominificio”.
Naturalmente dell’ingenuo concorso di Preti non si seppe più nulla. Poi a partire dal 1998 leggi diverse hanno disposto che i dirigenti dello Stato più alti in grado siano legati alla durata dei governi, mentre gli altri possono essere nominati nell’incarico per non meno di tre e non più di cinque anni. Ma non molto è cambiato con l’applicazione di un minispoils system nel quale consiglieri di Stato, consiglieri della Corte dei conti, giudici dei Tribunali amministrativi, avvocati dello Stato e giuristi vari, si alternano – più o meno semmare.
pre gli stessi – nei gabinetti ministeriali e negli uffici legislativi, come nella porta girevole di un Grand Hotel.
Anche il governo Renzi dovrà fare il suo spoils system nel prossimo mese. E sarà curioso vedere alla prova Marianna Madia, quella giovane eterea messa al ministero per la Pubblica amministrazione e la semplificazione alle prese con mandarini astuti, potenti anonimi, alcuni dei quali affetti dalla sindrome della “leadership tossica”, come la chiama lo psicologo Andrea Castiello d’Antonio, e esperti cultori di “sabotaggio burocratico”.
Le premesse, per la verità, non sono le più incoraggianti. Il ministro ciellino Maurizio Lupi ha già confermato alle Infrastrutture Ercole Incalza, che calca i corridoi di quel ministero fin dai tempi del socialista Claudio Signorile. Mentre l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, è caduto nella rete di Salvo Nastasi, giovane padrone di fatto del ministero, appartenente alla squadra di Gianni Letta, che adesso Dario Nardella, prossimo sindaco di Firenze, preme su Renzi chissà perché per far confer-
Ma si sa, la legge si applica per tutti e si interpreta per gli amici. Solo tre esempi, per ora, in attesa di vedere che cosa il nuovo governo saprà fare almeno nelle cinquanta poltrone più importanti nella Pubblica amministrazione. Ma già Luigi Einaudi avvertiva: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi che non sono in grado di compierla da soli. Per quanto siano bravi, per riformare devono fidarsi di qualche funzionario, o competente, non interessato, devoto al Paese il quale dica ad essi che cosa devono fare». Sarà brava la Madia, o lo stesso Renzi che rispetto ai suoi ministri sembra comportarsi come un uomo solo al comando? O sarà vero, come dice qualche suo amico, che Matteo si è già innamorato della sacralità di certi legulei capi di gabinetto? Alcuni sono notoriamente «sabotatori burocratici », come li ha definiti sempre Cassese, il quale racconta di un noto capo di gabinetto – forse il suo quando fu ministro della P.A. – contrario a certi cambiamenti nell’amministrazione previsti da una legge appena approvata: «Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge». Ne sanno qualcosa Mario Monti e Enrico Letta che hanno lasciato in eredità 852 decreti necessari per rendere operative le norme varate dai loro governi, scritte peraltro come sempre in ostrogoto, il burocratese che solo i mandarini ministeriali sanno interpretare.
Sono in tutto 3,2 milioni i dipendenti statali e costano 165 miliardi. Pochi credono davvero che il giovane Matteo con la candida Madia possa essere capace di condurli all’efficienza o addirittura a ridurli di 10 mila, cominciando dai capi (e di sfoltire le migliaia di leggi e leggine), per assumerne 1.000 meno adusi ai vicoli oscuri della giurisprudenza e più capaci di adattarsi al nuovo. Lodevole velleità, ma Matteo Renzi deve sapere che “la madre di tutte le battaglie” è contro una mostruosità autorigenerante che Robert King Merton descrisse come un «circolo vizioso disfunzionale» che vive di
«incapacità addestrata».

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“ROMANZIERI IN UFFICIO”, di LUCIANO VANDELLI
Burocrate. Parola che sa di monotonia, grigiore, mancanza di ogni genialità o fantasia. Eppure… eppure è proprio tra le file dei funzionari, che troviamo figure come il console Stendhal, i ministeriali Maupassant, Puskin e Gogol, i doganieri Melville e Hawthorne, l’impiegato comunale Verlaine, il prefettizio Collodi, il cancelliere Stoker, il bancario Svevo o, per venire a casi più recenti, il postino Bukowski, il bibliotecario Borges, il diplomatico indiano Swarup o il funzionario dell’Agenzia delle entrate David Foster Wallace. Autori che dal pubblico impiego hanno tratto non solo uno stipendio (più o meno modesto), ma anche idee, caratteri, ambienti, vicende che hanno ispirato capolavori. Dove il contesto burocratico — con le sue mediocrità, lentezze, opacità — diviene metafora del mondo.
Bei tipi, si dirà; gente che invece di fare il proprio lavoro si dedicava a divagazioni. Certo, mi rendo ben conto delle critiche cui tutto ciò si presta. I burocrati non godono di buona stampa; e ricordarne ora persino meriti culturali può sembrare una vera e propria provocazione. Eppure, anche e particolarmente tra questi scrittori non sono mancati impiegati- modello. Come Kafka, per ricordare soltanto il caso più noto: funzionario dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, autore di relazioni tecniche e pareri giuridici
di alta qualità, fortemente impegnato a contrastare ogni elusione dell’obbligo di garantire ai lavoratori le più elementari garanzie assicurative previste dalle prime regole del neonato sistema di welfare. E che a questo scopo percorreva faticosamente la Boemia, nonostante la malattia che lo tormentava, per compiere ispezioni in fabbriche dove operai lavoravano senza alcuna sicurezza, tutela, limiti di orario. Con una generosità e una dedizione che gli procurarono unanime stima e continui miglioramenti di qualifica, nonostante la sua condizione di ebreo, oltretutto di lingua tedesca. Al funzionario Kafka, dunque, è ben chiaro il concetto che l’amministrazione è uno strumento indispensabile per la realizzazione dei diritti sociali; così come, dal verso opposto, il pericolo che essa si trasformi in quella oscura macchina di prevaricazione che si ritroverà nel
Processo
e nel
Castello.
D’altronde, neppure le questioni legate alle riforme amministrative rimangono estranee alle riflessioni della letteratura. E profondamente riformatore è il piano che elabora il protagonista del romanzo di Balzac
Gli impiegati,
funzionario integerrimo e competente che da tempo riflette sulle ragioni della crescente disistima della società nei confronti dell’amministrazione pubblica. Un piano di impianto ampio e ambizioso che, tra l’altro, prevede: a) una revisione del personale, basata sulla riduzione del numero degli impiegati, sulla valorizzazione di giovani meritevoli e sul contrasto alla demotivazione diffusa tra i dipendenti pubblici; b) la riorganizzazione dei ministeri, attraverso accorpamenti in poche, ampie strutture; c) la soppressione delle amministrazioni divenute inutili, con estinzione delle relative voci di bilancio; d) l’aggregazione di funzioni affini in capo alle medesime strutture; e) privatizzazioni e liberalizzazioni, dato che lo Stato possessore di imprese costituisce “un controsenso amministrativo”, impegnando semmai risorse pubbliche per sostenere le imprese; f) un riordino del fisco, accorpando e semplificando i diversi tributi, e valutando le ricchezze individuali attraverso una serie di indici (numero dei domestici, cavalli e carrozze di lusso, qualità della residenza, ecc.). Siamo nel 1824; eppure, le ipotesi non sembrano così obsolete…

La Repubblica 27.02.14

Primarie Carpi:"Vinca il migliore, ma io sostengo Alberto Bellelli"

«E’ preparato, ha competenze, ha messo a punto un solido progetto per la città: sono queste le ragioni che mi spingono a sostenere Alberto Bellelli come futuro candidato sindaco di Carpi del centrosinistra.
Domenica 2 marzo parteciperò alle primarie nella mia città. Per come il centrosinistra locale ha saputo organizzarle, le primarie si stanno confermando un bell’esercizio di democrazia, incentrate sul confronto delle idee e su una giusta dialettica, rispettosa di tutti i candidati. Come sempre, vinca il migliore. Per quanto mi riguarda, però, penso che Alberto Bellelli sia il candidato che incarna le caratteristiche migliori per un futuro primo cittadino: è intraprendente, capace di fare sintesi e di conciliare tra le diverse istanze, giovane ma con una esperienza amministrativa diversificata. Per lui parlano i risultati raggiunti in Giunta dal 2006 ad oggi, prima come assessore alla cultura, poi come responsabile al welfare. Nonostante la crisi economica e i tagli alle risorse agli Enti locali, a Carpi si è riusciti a garantire risposte concrete alle necessità sempre più stringenti delle famiglie e delle imprese, anche attraverso l’innovazione dei servizi. Questo è quello di cui, credo, Carpi abbia ancora bisogno, coniugare le buone prassi acquisite con idee e progetti innovativi per il futuro. Alberto Bellelli ha affrontato la campagna elettorale delle primarie con la metafora del viaggio a tappe, in ciascune delle quali sono state affrontate le idee per fare crescere Carpi su Lavoro, Impresa, Sicurezza, Scuola, Sociale, Sanità, Immigrazione, Ambiente, Sport, Cultura e Giovani.
Quella di domenica prossima, 2 marzo, è una tappa fondamentale nel “viaggio con Bellelli” verso il futuro di Carpi: partecipiamo tutti perché sia una tappa vincente per Alberto e sia di buon auspicio per le “secondarie” del 25 maggio prossimo.

"Il Parlamento sotto scacco della piazza, la lotta senza fine tra i due poteri di Kiev", di Bernardo Valli

IN Parlamento ci si accapiglia e tormenta per fare un governo che deve piacere alla Piazza, non provocare troppo il Cremlino e attirare aiuti finanziari occidentali. Vasto programma dal quale dipende l’immediato corso della rivoluzione. In preda a dubbi, timori e contrasti i deputati hanno preso tempo. Dovevano decidere ieri, ma si pronunceranno con cinque giorni di ritardo, a fine settimana. Sanno di essere scrutati dagli uomini mascherati con le spranghe di ferro (e col kalaschnikov, secondo i russi) ritti sulle barricate della Majdan. I gruppi radicali, articolati in centurie, non si fidano. Loro hanno fatto da detonatore alla rivoluzione e adesso rappresentano l’ala intransigente. Sono guardiani rigidi e sospettosi. Si sono ben guardati dallo smontare l’accampamento nel cuore della capitale e sono in stato d’allerta nell’attesa che quell’assemblea di opportunisti si pronunci. Non è stata tolta né una tenda né una barricata. Si aspetta il governo che non arriva e di cui già si diffida.
PER la Majdan, la Piazza, quelli della Rada, il Consiglio, così si chiama il Parlamento, sono in gran parte arnesi del vecchio regime che hanno cambiato casacca. Sono passati dal Partito delle regioni di Viktor Yanukovich, il presidente destituito e in fuga, al Partito della Patria di Yiulia Timoshenko, personaggio riscattato da trenta mesi di prigione, quasi un eroe, anche se gli intransigenti della rivoluzione la considerano un “Putin in gonnella”. Non è un’oligarca che ha fatto fortuna nell’oscuro mercato del gas, proveniente dalla Russia? Ieri è arrivata davanti al Parlamento in Mercedes nera, scortata da una manciata di altre Mercedes. Era esausta e suscitava rispetto. Ma questa è una rivoluzione delle classi medie, dei borghesi con pochi o senza soldi, perché il Paese è sull’orlo del fallimento, e sono loro a patirne insieme agli operai disoccupati. Gli oligarchi, come Yiulia Timoshenko, possono riscuotere applausi per la loro condotta politica nei momenti di intenso nazionalismo (efficace rimedio per i frustrati), e tuttavia non godono di una popolarità stabile.
Per la Majdan gli oppositori moderati durante il vecchio regime e presenti in Parlamento non sono troppo affidabili. Ne è la prova il fatto che abbiano approvato l’accordo di giovedì scorso. «Se la sono fatta sotto», dice con un’espressione ancora più cruda un miliziano che conta parecchi amici tra gli ottanta morti della rivoluzione. Si riferisce al documento redatto con la mediazione dei ministri degli esteri europei. Un compromesso ambiguo che lasciava al potere Yanukovich ancora per un anno. È stata la Majdan a bloccare l’accordo e a provocare nella notte stessa il crollo del regime. Poche ore dopo il Parlamento che aveva approvato per anni le leggi di Yanukovich l’ha destituito da presidente e adesso lo vuole far giudicare dalla Corte penale internazionale per delitto di massa. Un’ondata trasformista ha cambiato il Parlamento, che legifera per la rivoluzione. Ad affidargli questo ruolo è stato il vuoto di potere creatosi con la fuga del presidente e dei suoi più stretti collaboratori. La sola istituzione era la Rada.
Una giovane donna, un’economista, chiede con un cartello, davanti all’edificio neoclassico dove sono riuniti i deputati in seduta quasi permanente, la dissoluzione della Rada ed elezioni legislative immediate. Le chiedo perché mai dovrebbe essere giudicato fuori legge un parlamento che sta per nominare il primo potere esecutivo della rivoluzione. La risposta è fulminea: «Non ci rappresenta, è composto di traditori». Dalla piccola folla raccolta su piazza della Costituzione si stacca un uomo d’età ansioso di correggere la sentenza senza appello: «No, non traditori, ma opportunisti, comunque non attendibili». Ci sono di fatto due centri di potere a Kiev: uno sulla Piazza e l’altro in Parlamento. Uno intransigente e l’altro moderato. Non sarà facile metterli in sintonia. Per questo tarda la formazione del nuovo governo, benché non ci sia tempo da perdere. Il Paese ha bisogno di soldi e gli indispensabili aiuti internazionali dipendono dalla credibilità di chi comanda a Kiev. E per ora non c’è un governo.
Come accade sulla Majdan anche al Cremlino aspettano il risultato della Rada. Putin e i suoi vogliono sapere con chi avranno a che fare nei tentativi di salvare il salvabile nel rapporto con l’infedele sorella ucraina. Da come si risolverà la crisi dipenderà il progetto di Unione euroasiatica destinato a recuperare in una struttura più elastica le ex repubbliche dell’Urss. Non solo la rottura del legame con l’Ucraina, venendo a mancare la principale sponda europea, comprometterebbe l’ambiziosa idea di Putin, ma rafforzerebbe la resistenza delle repubbliche asiatiche (come il Kasakistan e l’Uzbekistan) ai tentativi di Mosca di imporre la propria sovranità o stretta influenza. L’esempio di Kiev sarebbe contagioso. Forse lo è già. La posta in gioco è quindi enorme. Da qui l’incertezza dei responsabili russi nell’affrontare la crisi. I loro interventi sono rivelatori. Le minacce economiche intimidatorie e i ripetuti rifiuti di avere a che fare con i “banditi e i fascisti” dell’insurrezione nazionalista, si alternano con propositi più calibrati, con giudizi meno drastici, non distensivi ma non più così definitivi. Almeno per ora non si vogliono rompere irrimediabilmente i ponti. Lo stesso accade nelle province ucraine orientali filo russe dove le prese di posizione contrarie al Parlamento lasciano aperti ampi spiragli. Non tendono chiaramente a una secessione. Si avverte che l’assemblea è chiamata a deliberare per una rivoluzione che diffida dei suoi deputati. Tra i quali ci sono anche dei filo russi, sia pure adesso in trascurabile minoranza, dopo la svolta trasformista. La Crimea è un caso a parte, più che filorussa è russa, e ha una sua autonomia. È una carta da giocare. Mentre non lo sono le altre province ucraine, a Est e a Ovest.
Le rivoluzioni hanno fretta per definizione e per istinto bruciano via via i loro capi. Quella ucraina non si discosta dalle altre, ma ha una singolarità: chi ne deve interpretare le aspirazioni è un’assemblea estranea alla sua pur breve storia. Come probabili primi ministri si parla in queste ore di Arseny Yatseniuk e di Petro Poroshenko. Il primo, Yatseniuk, è un avvocato di 39 anni con una carriera eccezionale: è stato direttore della Banca centrale, ministro degli Esteri, speaker del Parlamento e capo del partito di Yiulia Timoshenko quando nel 2011 lei è stata condannata. Durante l’insurrezione è stato uno dei quattro principali uomini politici ad appoggiarla. Ma ha poi firmato l’accordo che dava respiro a Viktor Yanukovich. Arseny Yatseniuk è tenuto in grande considerazione dagli americani. Il secondo candidato, Poroshenko, è un oligarca, grande produttore di cioccolato. Un miliardario che ha diretto i servizi di sicurezza, è stato ministro degli Esteri e dell’Economia, e che ha appoggiato sia la “rivoluzione arancione” del 2004 sia l’insurrezione del 2013 fin dall’inizio. Appartenendo al club degli oligarchi, moderni feudatari senza monarca, potrebbe operare efficacemente nella rete dei suoi simili, nelle province dell’Est e dell’Ovest, al fine di tenerle unite.

La Repubblica 26.02.14