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"Una sfida da vincere", di Pietro Spataro

Ha fatto in fretta, ma non quanto avrebbe voluto. Ci ha messo quattro giorni per scegliere la squadra di governo e per risolvere le equazioni a più incognite sul programma. Per gli amanti dei numeri: un giorno in più di Enrico Letta. Matteo Renzi ha dovuto toccare con mano in questi primi passaggi la distanza tra le aspettative personali e i tempi della mediazione a cui ti può costringere un governo con una maggioranza troppo «larga».

Persino le quasi tre ore di colloquio con Giorgio Napolitano prima di dare il via libera alla lista dei ministri sono la prova che la strada non sarà sempre spianata. Eppure, superata la prova nella quale di solito si scatenano gli appetiti più famelici, bisogna dire che la squadra di Renzi, nonostante alcune fragilità, segna una discontinuità rispetto al governo Letta. Soprattutto nel campo economico che resta il più caldo per il nostro Paese: Pier Carlo Padoan all’Economia e Giuliano Poletti al Lavoro sono due figure di primo piano che fanno prevedere una diversa attenzione al fronte sociale della crisi e alla trattativa europea sulla crescita. La riduzione del numero dei ministri, il forte rinnovamento generazionale e una massiccia presenza femminile sono scelte molto coraggiose. L’impressione è che questo sarà un governo a forte «trazione renziana»: nel senso che sarà Renzi, in questa squadra, il vero propulsore.

Compiuta la prima mission, ora il premier ne ha davanti però un’altra forse più difficile. Dimostrare al Paese – soprattutto a quella parte che ha vissuto con disorientamento il repentino cambio di governo – che il prezzo di quello strappo non sarà inutile. Ci sono una manciata di settimane per mandare segnali di novità, per far capire come si affronterà il nodo crescita-occupazione e come si prenderanno di petto i problemi reali degli italiani. Sappiamo quali sono: i giovani senza lavoro talmente sfiduciati che nemmeno lo cercano più, i disoccupati vittime di una crisi che ha devastato il panorama industriale, gli imprenditori che chiudono le loro fabbriche perché non si consuma o perché le banche ti sbattono le porte in faccia. È sul dramma sociale che il premier si gioca la credibilità. Servirà concretezza, molta concretezza in questa battaglia, che non a caso il segretario Pd ha messo in cima alla sua agenda. E servirà determinazione, molta determinazione per spingere l’Europa a imboccare una strada alternativa al rigorismo che ha quasi strangolato le economie dei Paesi più esposti.
Ma Renzi ha davanti a sé anche un terreno minato sul quale dovrà muoversi con molta accortezza. Il rischio che la doppia maggioranza – quella di governo e quella delle riforme con Forza Italia – crei qualche confusione c’è, inutile nasconderlo. Il pericolo che il ruolo di Berlusconi diventi troppo ingombrante e possa, come è accaduto diverse volte, condizionare la vita dell’esecutivo va evitato in ogni modo. Del Cavaliere non bisogna fidarsi troppo: è la regola aurea che si dovrebbe seguire sempre, visti i precedenti. Per questo il premier deve mantenere una linea di demarcazione netta, senza ambiguità, altrimenti il percorso del governo può diventare molto accidentato. Proprio sulle riforme, infatti, Renzi si gioca una parte significativa delle sue possibilità di successo e non può sbagliare. L’Italicum, frutto di un accordo privilegiato con Berlusconi, presenta diverse criticità che abbiamo segnalato più volte su questo giornale. Correggere le storture (troppi sbarramenti, una soglia per il premio molto bassa, la permanenza delle liste bloccate e la riproposizione delle coalizioni-ammucchiata) non è una concessione che si fa a chi ha arricciato il naso (e non sono pochi) ma un impegno da prendere per dare finalmente all’Italia una legge elettorale funzionante, senza trucchi e senza inganni, in grado di rispettare due requisiti: la certezza possibile (ma non esorbitante) di una maggioranza di governo e la rappresentatività del corpo elettorale, compreso il suo diritto di scelta.
Come si vede il viaggio di Renzi non sarà una passeggiata, e lui lo sa bene. Dalla sua il nuovo premier ha coraggio da vendere, spregiudicatezza e la freschezza di una squadra giovane. E soprattutto crediamo che abbia la consapevolezza che questa impresa, nata in condizioni diverse da quelle che immaginava solo qualche settimana fa, è per lui un grande azzardo. E come tutti gli azzardi prevede solo due possibilità. Oggi chi ha cuore il futuro del Paese e pensa che il Pd sia uno dei pochi pilastri del cambiamento non può che tifare per la soluzione migliore. Ognuno deve metterci del suo per fare in modo che questa diventi una sfida vincente.

L’Unità 22.02.14

"Chi ha paura del diario di Anna Frank?", di Sonia Renzini

«Spero di poterti confidare tutto, come non ho mai fatto con nessuno, e spero che mi sarai di grande sostegno », scrive Anna Frank nel suo diario. Sono le parole di una ragazzina ebrea di 13 anni appena compiuti, affidati a un quadernetto a quadretti bianchi e rossi avuto in regalo per il suo compleanno. Piccoli ritratti di una quotidianità diventata suo malgrado il simbolo stesso della Shoah e a distanza di anni continuano a essere la testimonianza inconfutabile della nostra memoria che qualcuno si ostina a volere cancellare. In Giappone sono state danneggiate almeno 265 copie del «Diario» di Anna Frank custodite in una trentina di biblioteche pubbliche di Tokyo, insieme ad altri libri sull’Olocausto. Strappate dieci, venti pagine per volume, resi di fatto inutilizzabili, praticamente da buttare.
La denuncia è arrivata dal Consiglio delle biblioteche pubbliche della capitale giapponese. «Non sappiamo cosa sia successo e chi abbia fatto tutto questo », dice il presidente del Consiglio Satomi Murata. Scuote la testa Toshihiro Obayashi, vicedirettore della biblioteca centrale della zona di Suginami, dove 119 copie sono state distrutte in 11 delle 13 librerie pubbliche: «Da noi ogni libro archiviato sotto il nome di Anna Frank è stato danneggiato, non era mai successo finora».
Sdegno e preoccupazione viene espresso dal Centro ebraico internazionale Simon Wiesenthal che chiede alle autorità di indagare per identificare e assicurare al più presto alla giustizia i responsabili di questa «campagna d’odio».
BEST SELLER IN GIAPPONE. Per il presidente Abraham Cooper «si tratta di blitz organizzati per offendere la memoria di Anna Frank, la più famosa tra il milione e mezzo di bambini ebrei uccisi dai nazisti durante l’Olocausto ». E continua: «Solo persone intrise di bigotteria e odio possono cercare di distruggere le storiche parole di coraggio, speranza e amore di Anna di fronte al suo imminente destino».
Nel suo diario Anna Frank inizia con il raccontare la sua storia di ragazzina, i suoi compagni di scuola, la vita di tredicenne. Ma poi quando è costretta alla clandestinità in un appartamento segreto di Amsterdam per nascondersi dai nazisti, le sensazioni dell’età si intrecciano in modo sempre più inquietante con l’angoscia e i problemi dei grandi, diventando lo specchio fedele della realtà storica del tempo. Fino all’agosto del 1944 quando il rifugio viene scoperto dalla Gestapo e l’intera famiglia deportata nei campi di concentramento. Anna Frank morirà in quello di Bergen Belsen nell’agosto del 1944, all’età di 15 anni solo tre settimane prima della liberazione. Il diario sarà pubblicato postumo nel 1947 dal padre Otto Frank, unico sopravvissuto allo sterminio.
Il libro è stato tradotto in tutto il mondo ed è diventato per i ragazzi di tutte le scuole il primo veicolo di conoscenza dell’Olocausto. Anche in Giappone dove viene tradotto nel dicembre 1952 ed è salito in testa alle classifiche l’anno successivo, tanto che in termini di vendite il Giappone è secondo solo agli Stati Uniti.
«Negli anni ‘50 e ‘60 ci sono stati concorsi in cui gli adolescenti giapponesi dovevano riflettere sull’esperienza di Anna Frank – dice il Rotem Kowner, esperto di storia e cultura giapponese presso l’Università israeliana di Haifa -. In Giappone la storia trascende la sua identità ebraica per simboleggiare con più forza la lotta dei giovani per la sopravvivenza».
Il vandalismo sul simbolo della Shoah lascia sconcertati, oltretutto il Giappone non ha nessuna vera storia di antisemitismo. Ma è vero che negli ultimi due anni si sono moltiplicate le critiche rivolte alle autorità giapponesi per alcune dichiarazioni ritenute «revisioniste » sul passato militarista del Paese, in particolare con l’arrivo alla guida del governo del premier nazionalista e conservatore Shinzo Abe.

La Repubblica 22.02.14

"Il dilemma della leggerezza", di Mario Calabresi

Matteo Renzi voleva che il messaggio fosse chiaro: il suo è il governo più giovane (47,8 anni l’età media dei ministri, 6 anni meno della squadra di Letta, per non parlare del gruppo di Monti più vecchio addirittura di 15), con più donne e tra i più snelli della storia della Repubblica. La scommessa è sulla freschezza, sulla novità e sull’energia, mentre i dubbi non possono che essere sull’esperienza e sulla capacità di incidere sulla peggiore crisi economica che l’Italia abbia conosciuto dal dopoguerra a oggi.

Nella lista letta ieri al Quirinale non ci sono colpi di scena, non ci sono quei nomi che fanno rumore che lo stesso Renzi sperava di avere con sé, troppi i no pesanti che ha dovuto ingoiare in questa settimana, figli di un governo nato all’improvviso e non dalle elezioni. Condizioni che devono aver spaventato i compagni di strada del sindaco di Firenze, proprio quelli che erano considerati le colonne del renzismo.

Il nuovo premier allora ha scommesso sui volti nuovi, sulla statistica e sulla coesione della squadra.

Così troviamo molti alla loro prima esperienza, un dato che certo piacerà a chi è stanco delle vecchie classidirigenti ma che non può non dare una qualche ansia. Se penso agli Esteri, ai nodi drammatici che dobbiamo affrontare – dal confronto con l’India alla guerra civile in Siria, fino al semestre europeo – mi viene spontaneo sentire la mancanza del peso di Emma Bonino. Così mi chiedo se il confronto con la burocrazia più conservatrice e tignosa del pianeta possa essere vinto da Marianna Madia.

La situazione in cui viviamo è però talmente delicata che tornare a focalizzarsi sulle condizioni in cui questa avventura è cominciata e sulle biografie può sembrare un esercizio inutile. Ma le conseguenze e gli obblighi che l’accelerazione (e anche la ferita del defenestramento di Letta) portano con sé saranno i dati costitutivi del nuovo governo. E imporranno velocità.

Il Paese non ha pazienza, è stato capace di divorare biografie tra le più diverse nella rincorsa della novità, ma ora appare all’ultima spiaggia. Il discorso più ricorrente che ascolto ha sempre lo stesso ritornello: «Renzi ce la deve fare». E questa frase è trasversale, si ascolta a destra come a sinistra, nei genitori e nei figli. E’ la convinzione di chi non riesce più a sperare e sente che non può permettersi di essere nuovamente deluso.

Renzi ha parlato di «risposte concrete» e queste sono le uniche che possono salvare lui e noi. Le priorità le conoscono tutti, è quasi superfluo ripeterle e sono il lavoro, il fisco, la scuola e la lentezza della macchina dello Stato in tutte le sue declinazioni. Ma ci sono anche riforme a costo zero, che ci metterebbero in sintonia con la realtà del mondo di oggi, che potrebbero essere fatte subito e darebbero un chiaro segno di cambiamento: la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri (al termine di un ciclo scolastico) e una qualche forma di unione civile.

Fondamentale sarà avere un’agenda chiara, asciutta e con le priorità ben scandite. Di libri dei sogni e tonnellate di promesse non sappiamo più che farcene.

Il governo nato ieri è indubbiamente leggero, ma questo termine può avere due significati: il primo è critico e sta a indicare il contrario della forza e dell’autorevolezza e una certa superficialità; il secondo è positivo ed è l’accezione che ne dava Italo Calvino nelle «Lezioni Americane», la capacità di volare alto, di non farsi pietrificare e di non essere barocchi e pesanti. Il compito di Matteo Renzi e dei suoi ministri è di convincerci che hanno letto Calvino.

La Stampa 22.02.14

"A misura di premier", di Ezio Mauro

È un governo Renzi, e poco altro. Molte novità, poche personalità. Molte donne, finalmente, molti giovani. Una qualità politica non troppo diversa da quella del governo Letta, come conferma l’alternanza tra Padoan e Saccomanni. Una piattaforma ministeriale che dopo le avventure carismatiche e tecniche sembra dar vita ad un esecutivo leaderistico. Finita la stagione dei governi del Presidente nasce così un governo del Premier.
Il vero sforzo del Presidente del Consiglio è stato quello di non avere un vice, per formare un governo Renzi e non Renzi-Alfano. Questo risultato riduce l’anomalia di un capo della sinistra che guida un ministero con la destra, mentre l’alleanza di necessità proiettandosi sui quattro anni di legislatura diventa quasi una scelta, dunque una contraddizione per il Pd. Ma Renzi sembra puntare tutte le carte su se stesso, sulla sua energia politica, come se affidasse alla promessa di cambiamento il compito di sciogliere i nodi che la politica non sa sciogliere, compresa la scorciatoia scelta per arrivare a palazzo Chigi.
Con Padoan e con il pieno appoggio manifestato da Napolitano la linea di politica economica non cambia, ma con un esecutivo su sua misura Renzi si prepara a rinegoziare con l’Europa il rapporto tra crescita e rigore, anche sfruttando in prima persona la guida italiana del semestre europeo.
A questo punto, proprio la cifra “strumentale” del governo espone Renzi come non mai, su tutti i fronti. La responsabilità è totale, il rischio anche. L’acrobata è sul filo, da solo e senza rete. Auguriamoci che riesca: dopo restano solo i clown degli opposti populismi

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“Emma e gli altri, i Rottamati”, di FILIPPO CECCARELLI

Alzi la mano chi ricorda che faccia abbia il ministro, fino a ieri, Trigilia. Di nome fa Carlo. È un signore non brutto.
DALLO sguardo intenso dietro gli occhialetti tondi e la barba corta e ben curata. L’avevano piazzato in un dicastero dal nome misterioso: «Coesione territoriale».
Non si è assolutamente in grado di stabilire se abbia lavorato bene o meno, Trigilia. Secondo alcuni era tanto più bravo quanto più amante del lavoro compiuto in silenzio, lontano da ogni pubblicità. Nel tempo della proclamazione auto-telegenica – «ci metto la faccia» – magari lui sarà anche contento, ma da domani non lo si vedrà proprio più sui giornali o in tv.
Né più mai si vedrà Zanonato, che stava allo Sviluppo economico, e invece twittava a tutto spiano, come un forsennato, con tanto di foto di vita quotidiana e pure in ambito famigliare. Per stare più vicino alla gente, magari. In ogni caso tutt’altro che antipatico. Tra i migliori ricordi che lascia c’è senz’altro quello che lo vide accogliere con allegra sollecitudine la compagna di partito e attuale ministra, Marianna Madia, convinta che lui fosse alla guida del ministero del Lavoro. Zanonato la fece parlare e quando capì l’equivoco – lo scambio di persona configurandosi come il classico dispositivo della commedia – si avvicinò alla finestra indicandole, al di là della strada il palazzo dell’amministrazione allora guidata dal professor Enrico Giovannini.
Pure lui persona squisita e anche competente. Uno dei tanti tecnici. Comunque l’hanno fatto fuori. Non si dirà qui trombato, né rottamato, per non mancargli di rispetto, ma sacrificato sull’altare del ringiovanimento sessuato del governo Renzi. Un bel repulisti, non c’è che dire, ben 13 ministri non confermati.
Almeno in tv Giovannini non aveva poi l’aria di divertirsi troppo, a via Veneto. Veniva dall’Istat, che è un ottimo posto, poche settimane orsono affidato all’odierno titolare dell’Economia Padoan. Così Giovannini potrebbe tornare da dove veniva, forse pure con gioia, o sollievo, o rassegnazione o chissà.
La sorte degli ex ministri è segnata, ma poi varia da caso a caso, come il modo in cui ciascuno vorrà accogliere la fine di quell’esperienza. All’estremo del fairplay si colloca la reazione dell’udc D’Alia che del collega di partito che in qualche modo gli ha soffiato il posto, Gian Luca Galletti, ha detto: «Sono entusiasta della sua nomina, è un amico vero, sarà un grande ministro».
All’opposto già ribolle l’ira dei radicali per la caduta di Emma Bonino, la vera grande e forse anche nobile sconfitta di questa partita di potere. Lei in pratica ha detto solo: «Non ho nulla da dire». Ma oggi prima conferenza stampa e poi comizio, all’aperto, come nella tradizione di quel piccolo partito. Ma intanto è già partito il tuono di Pannellone, che ha 83 anni, ma anche per questo Renzi farebbe malissimo a sottovalutare. Ciò che è successo gli ha ricordato la fuga dei Savoia a Pescara, nella notte dell’8 settembre: «La
grande vittoria c’è – esplode il suo sarcasmo – la Bonino fatta fuori, i radicali fatti fuori, fatta fuori la storia radicale, socialista, azionista, liberale. Renzi ha ottenuto l’ideale per i partitocrati». E’ solo l’inizio.
La fine, per altri, era nella forza delle cose. Dopo l’affare Ligresti, ad esempio, la Cancellieri era quasi un miracolo che fosse ancora al suo posto; e lo stesso Quagliariello, con i suoi saggi portati in gita a Francavilla, in tutta franchezza non si capiva cosa fosse rimasto a fare su quella poltrona dopo che Renzi e Berlusconi, in mezzo pomeriggio, gli avevano tolto il fastidio delle Riforme. E anche Saccomanni, il tecnico dei tecnici, come tale era ormai compromesso. Appassionato del Belli, il più cupo e desolato poeta del potere, avrà di che riflettere sulla vanità dello stesso e dei suoi vistosi orpelli: «Preti, ladri, uffizziali, cammerieri,/ tutti co le crocette a li pastrani./ E oramai si le chiedeno li cani, dico che je le danno volentieri»…
Difficile anche valutare il lascito, in quel ginepraio incandescente che è l’Istruzione, della professoressa Maria Chiara Carrozza, anche lei così tecnica, così discreta, così poco «visibile». Ha augurato «in bocca al lupo» a chi le succede in viale Trastevere, troppo spesso bloccato da manifestazioni di protesta.
Un impeccabile tweet anche da Massimo Bray costretto che dice addio ai Beni Culturali: «Questa storia come tutte le storie ha una fine. Grazie al personale del ministero e ai cittadini che, come me, ci hanno messo cuore e passione». A curioso complemento dei social si segnala tuttavia un singolare bombardamento, fino a 4 mila messaggi fuori tempo massimo diretti al premier e preceduti da quella che suonava come icastica affermazione di principio: #iostoconbray.
Meno chiaro è che cosa abbia contribuito a stroncare non solo la personale esperienza di governo di Enzo Moavero, di cui si diceva che avesse gran credito a Bruxelles, ma addirittura l’esistenza stessa degli Affari Europei. Sparisce anche l’Integrazione e con questo finisce a casa, col giubilo dei leghisti, anche Cecile Kyenge. Che pure per il suo impegno stava quasi per rinunciare al matrimonio (poi tutto si è aggiustato).
Infine Mario Mauro che tra squilli di tromba, astuti generali, costosi F35 e indecifrabili scissioni post-montiane, ci aveva preso gusto. Pure troppo. A tempo debito la storia ricostruirà come è stato possibile che un ministro di peso e con entrature nell’associazionismo cattolico, Cl e dintorni, alla fine della giostra sia rimasto senza poltrona. C’è già chi punta il dito su Pierfurby Casini, che è nello stesso giro e starebbe tornando da quest’altra parte. Comunque faccende abbastanza loro, e tutto sommato non del tutto rilevanti per la collettività.

La Repubblica 22.02.14

"Quote rosa, poltrone vere", di Alessandra Longo

Otto donne nel governo Renzi. E anche qui i maligni dicono: «Renzi l’ha fatto apposta, ne ha messa una in più
di Letta…». Otto donne in ministeri pesanti, pesantissimi, come quello degli Esteri che, sfilato alla pluriqualificata Bonino, va a Federica Mogherini, 41 anni, esperta della materia per il Pd, di casa al Consiglio Atlantico, un dichiarato istinto alla mobilità per carattere: «Amo viaggiare sempre e dovunque ». Mogherini ha seguito «con il cuore e con il pensiero» il dramma di Kiev e non sarà certo la responsabilità della Farnesina a toglierle la dimensione umana. Su Twitter: «Sono soprattutto mamma, moglie e amica». Ieri sera, anche un pensiero per Emma esodata: «Ha fatto un eccellente lavoro, la ringrazio ». Si gira pagina. Ignazio La Russa, poco elegantemente, commenta: «La montagna ha partorito una Mogherini».
Otto donne da esibire per dimostrare
che, per esempio, la Difesa può andare, per la prima volta in Italia, ad una signora come Roberta Pinotti, 53 anni, caposcout in gioventù, accreditata da sempre come esperta di mondo militare, Legion d’Onore dell’Ambasciata francese per la sua battaglia contro le mine antiuomo, già sottosegretario con Mario Mauro. E’ lei che si dovrà occupare dei marò («Sono nel mio cuore, dobbiamo riportarli a casa») e sarà lei, in quanto ministro della Difesa, a salire a bordo della Lancia Flaminia quirinalizia con il capo dello Stato se, com’è nelle intenzioni di Renzi, questo governo riuscirà ad arrivare alle celebrazioni del 2 giugno, festa della Repubblica, e anche oltre. Ieri il succitato La Russa, oggi Pinotti che dice: «Non ci sono frontiere insuperabili. Ce la metterò tutta».
Aumenta la quota femminile nei governi, si spera non solo per battere record. Già Mario Monti riconobbe ampio potere al Genere affidando ad Elsa Fornero la riforma lacrime e sangue delle pensioni, la Giustizia alla Severino e gli Interni alla Cancellieri, allora tenuta in gran spolvero oggi caduta in disgrazia per i suoi rapporti con i Ligresti. Ma quelle erano figure femminili di lunga esperienza, i curricula spessi come tomi, persino nonne nella vita. Qui, con Renzi, è diverso, come già in parte lo è stato con il governo Letta, da Josefa Idem alla novità di Cecile Kyenge (a proposito: che ne è del ministero dell’Integrazione? Davvero non serve più o c’era da dare un segno alla Lega?). L’età media si abbassa ancora. Ecco Maria Elena Boschi, 33 anni, che smentisce l’immagine a volte un po’ polverosa degli esperti di Riforme Costituzionali. Grazie Quagliariello, tocca a me. Da casa, nell’Aretino, la famiglia della Ministra Infanta segue orgogliosa.
Ed ecco Marianna Madia, 34 anni, una storia davvero unica per progressione. Se Renzi può affermare: «Io premier dimostro ai giovani che si può sognare » che cosa dovrebbe dire allora lei, ormai all’ottavo mese di gravidanza, approdata in queste ore al Ministero per la Semplificazione?
Dalla sua «straordinaria inesperienza», ammessa con candore all’indomani dell’approdo in Parlamento, alla più recente sbadataggine (si recò dal ministro dello Sviluppo Economico pensando di parlare con quello del Lavoro), Madia ha il raro dono — non necessariamente femminile — di uscire indenne dalle gaffes, e persino rafforzata, nella considerazione altrui. Renzi punta su di lei e le affida una grana non da poco. Così come lo è, una grana, il ministero della Sanità ma Beatrice Lorenzin, 42 anni, unica femmina sopravvissuta della precedente gestione, si è già ambientata.
Otto donne che, in queste ore, avranno il prioritario pensiero di non sfigurare, nessun riferimento alla scelta del tailleur. Una imprenditrice come Federica Guidi, per esempio, già presidente dei Giovani Industriali, molto gradita a Berlusconi, sa di non poter fallire alla sua prima grande prova. Guidi avrà per le mani lo Sviluppo in un Paese fermo, piegato. «Mai dire mai», aveva prudentemente risposto a chi avanzava l’ipotesi di una sua carriera politica. Ora è arrivato il momento di cimentarsi.
Guidi, classe ‘69, ama molto la prima Thatcher, quella che annientò i minatori di Arthur Scargill. Sarà davvero interessante vederla interagire con i colleghi ministri delle nuove larghe intese.
Otto donne. E se Stefania Giannini, 53 anni, glottologa di Scelta Civica, già intuiva che le sarebbe toccata l’Istruzione nel complicato risiko 2014 («Sono onorata»), Maria Carmen Lanzetta, 59 anni pasionaria antimafia, non l’aveva mai nominata nessuno. Renzi le ha affidato gli Affari Regionali (forse una passeggiata dopo aver fatto il sindaco nella Locride), sfilandoli al troppo prezioso Del Rio. Otto donne, un plotone che farà il suo ingresso oggi alla cerimonia del giuramento. Manca, nel nuovo governo, il ministro per le Pari Opportunità. Ma forse Renzi pensa di aver già dato abbastanza.

La Repubblica 22.02.14

"L’identità ucraina e gli errori dell’Occidente", d Paolo Soldini

Forse per aiutare davvero gli Ucraini la prima cosa da fare sarebbe quella di ragionare senza schemi e senza preconcetti. Nessuno nega le responsabilità che il regime di Viktor Yanukovich si è preso reprimendo nel sangue una protesta che, all’inizio, era davvero pacifica e prevalentemente animata da pretese ragionevoli. Nessuno ignora le colpe della Russia di Vladimir Putin, né la pericolosità delle sue mene per risuscitare a spese dell’«estero vicino» il sistema di relazioni che fu proprio dell’ex impero sovietico. Nessuno, però, dovrebbe contentarsi di denunciare le «contraddizioni», l’«inerzia» e (fino al massacro) il «disinteresse» dell’Europa e di tutto l’Occidente, come molti fanno in questi giorni, senza approfondire sostanza e ragioni di quell’atteggiamento colpevole. Non è vero che l’Unione europea sia stata «assente» nella crisi ucraina. L’Unione c’è stata, ma ha sbagliato. E lo stesso vale per gli Stati Uniti.

Prendiamo due momenti della storia di questo «errore». Uno è molto recente: alla fine del novembre scorso il vertice europeo di Vilnius avrebbe dovuto sancire l’associazione dell’Ucraina all’Unione. La scadenza saltò perché Yanukovich rifiutò di firmare. Per le pressioni russe, si disse, e per il prestito di 15 miliardi di dollari promesso da Mosca. È da quel rifiuto che partì la protesta, riprendendo, aggiornati, gli slogan antirussi della «rivoluzione arancione» del 2004. Ma che cosa offriva a Kiev l’Unione europea? Lo status di Paese «associato» è un istituto che prevede aperture commerciali, assicurazioni e garanzie di standard economici, giuridici e di rispetto dei diritti umani compatibili con quelli esistenti nell’Unione, ed è (o dovrebbe essere) il primo passo verso l’adesione piena e legittima. Ma tutti i leader europei pensavano, e alcuni lo dicevano apertamente, che per Kiev a quel primo passo non ne sarebbero seguiti altri. L’Ucraina è troppo distante dagli standard europei, l’economia è allo sfascio e, soprattutto, è dominata da una classe di oligarchi scaturita dal crollo dell’Unione sovietica, sopravvissuta alla rivoluzione e i cui interessi erano potentemente rappresentati dal regime (non solo quello attuale, ma anche dal precedente). L’offerta di associazione era un po’ una farsa. O meglio: una commedia recitata seriamente solo per impressionare gli spettatori russi. Tant’è che – si dice e nessuno finora ha smentito – furono proprio le autorità di Bruxelles a suggerire al Fondo Monetario, cui i governanti di Kiev avevano chiesto il prestito che avrebbero poi avuto da Putin, di adottare una linea molto pesante in materia di garanzie. I criteri del piano sono ancora a disposizione tra i documenti del FmiI a Washington: al loro confronto, le nequizie della trojka in Grecia paiono caramelle alla menta. Lo scenario secondo il quale l’Ucraina stava «entrando» nella Ue, ma Yanukovich e i russi lo hanno impedito è falso. Eppure è quello per cui centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade e per cui molti, troppi, sono morti.

L’altro errore decisivo nella storia dell’atteggiamento dell’Occidente verso l’Ucraina, la Russia e le regioni del suo ex impero è ben più antico. Risale agli anni successivi all’unificazione tedesca e alla risistemazione che ne seguì del sistema delle relazioni europee. E qui a sbagliare non furono soltanto gli europei ma anche, e soprattutto, gli americani. Nei negoziati che avrebbero portato all’unificazione fu assicurato a Mosca che la Nato non si sarebbe allargata ad est: neppure nella ex Germania est sarebbero state schierate armi offensive. Pochi anni dopo tutti gli Stati al di là dei confini occidentali dell’ex Urss, più le tre repubbliche baltiche che ne avevano fatto parte erano dentro l’Alleanza. Ciò corrispondeva alle volontà popolari in quei Paesi, che non si erano liberati dall’incubo del Grande Fratello, ed era perciò perfettamente legittimo nonostante le promesse fatte a suo tempo, ma l’insistenza con cui a Washington il presidente e l’establishment repubblicano insistevano nelle distinzioni tra «Europa vecchia», cattiva, ed «Europa giovane», buona, configuravano una sorta di special relationship tra americani e est-europei che culminò nei piani di scudi spaziali estesi alla Polonia e alla Repubblica cèca e che è sostanzialmente condivisa dall’attuale amministrazione democratica.

Qualcuno può onestamente pensare che i russi non si sarebbero preoccupati e non avrebbero studiato contromisure? Anche chi non ha la benché minima simpatia per Vladimir Putin può comprendere la preoccupazione con cui l’autocrate guardò al vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, in cui su richiesta di Washington si doveva discutere della possibile adesione dell’Ucraina e della Georgia. Non se ne fece niente perché alcuni governi europei, quello tedesco in testa, rifiutarono di seguire gli americani. Ma a Mosca ancora dev’essere ben vivo lo shock del pericolo corso.

Il riconoscimento degli errori dell’Occidente dovrebbe spingere a considerare più oggettivamente le ragioni di chi invita a diffidare degli entusiasmi pro Unione europea e pro Usa di un movimento in cui accanto a sacrosante domande di libertà non mancano spinte nazionaliste e fascisteggianti, tanto antirusse quanto antipolacche e antisemite e del tutto estranee ai valori democratici dell’Europa e degli Stati Uniti, a cominciare dalla non violenza. L’Ucraina è un paese dall’identità complicata e intimamente confusa, in larghe parti, con quella russa. Le semplificazioni eccessive potrebbero sfociare nella dissoluzione del Paese. Con i rischi di instabilità che ne deriverebbero.

L’Unità 22.02.14

Poletti il cooperatore: “Per me il lavoro è collaborazione”, di Roberto Giovannini

“Situazione grave, ma va ricostruita la speranza”
Ministro Giuliano Poletti, lei ha già dichiarato che la proposta di diventare ministro del Lavoro le è arrivata del tutto inaspettata. Quando l’ha saputo?
«Con Renzi ci siamo visti ieri sera (giovedì, ndr). Abbiamo chiacchierato un po’, mi ha chiesto se ero disponibile ad accettare questo incarico… e poi oggi non mi è rimasto che attendere le notizie».

Avete anche discusso delle cose da fare? Delle idee del premier o delle sue?

«In questo momento, prima del giuramento al Quirinale, non posso rispondere a questa domanda. Posso dire solo che le mie idee in tema di lavoro e occupazione sono note. Da sempre opero nella direzione del protagonismo sociale, della partecipazione attiva dei cittadini, del senso di una responsabilità comune. In generale, il mio approccio è quello del lavoro collegiale. Anche per questo, prima di parlare, ho l’obbligo di fare una chiacchierata con il presidente del Consiglio e con i miei colleghi ministri».

Poi chissà, forse non c’era neanche tempo per approfondire, a cena con Renzi.

«Non era a cena, ma ha ragione, non era facile entrare nel merito, c’erano un sacco di cose da fare…

Ministro, nella sua dichiarazione ufficiale lei si dice convinto che per ottenere risultati serve “una collaborazione efficace con il Parlamento e con le forze sociali”, cioè imprese e sindacati. Un accenno casuale, o ci sarà un ritorno alla concertazione?

«Siamo entrando in un terreno minato, ne dobbiamo discutere. Ma non è il caso di arrivare a interpretazioni esagerate. La mia opinione l’ho detta prima: sono una persona che da sempre crede nell’idea del lavorare insieme. Dopo di che le forme, le modalità, le responsabilità sono cose che si vedono. Diciamola così: io sono uno che ama molto la collaborazione. Sono un cooperatore, del resto».

Come si sente a occupare la poltrona di ministro del Lavoro con un tasso di disoccupazione al 12,7%, con quella giovanile stabilmente oltre il 40%, con un tasso di attività tra i più bassi d’Europa e con milioni di italiani che non provano a cercarsi un impiego?

«Sono consapevole della gravità di questa situazione. Sono anche consapevole del grande lavoro che andrà fatto. E sono più che mai convinto di quanto sia vera l’affermazione che ogni giorno Matteo Renzi ripete: bisogna ogni giorno ricostruire la speranza. Quindi, occorre fare tutto quello che si può fare per produrre le condizioni per una reazione positiva degli imprenditori e dei lavoratori italiani. Ce n’è per tutti. C’è da collaborare e cooperare, se vogliamo uscirne».

Per creare lavoro molto dipenderà dalla forza della ripresa…

«Un fatto indiscutibile…»

… ma nel recente passato ci si è divisi sul da farsi. Secondo lei, per creare occupazione serve di più tagliare tasse e contributi, oppure è meglio modificare le regole del lavoro, favorire la licenziabilità e le assunzioni, oppure…

«Mi scusi, ma ne riparliamo tra un po’».

La Stampa 22.02.14