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"Non cambia l'Italia se non cambia la Rai", di Giovanni Valentini

È come se la televisione italiana avesse deciso che il suo meglio è il suo peggio, è come se il mediocre fosse diventato un valore positivo. (da “Storie e culture della televisione italiana” a cura di Aldo Grasso, Oscar Mondadori, 2013 — pag.24). Rispetto all’emergenza lavoro, all’oppressione del fisco e alla necessità di una nuova legge elettorale, la riforma della Rai non sarà magari una priorità assoluta. Ma è pur vero che — come ha detto recentemente in un’intervista al
Messaggero il vice-presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Salvatore Margiotta (Pd) — “per cambiare l’Italia, Matteo Renzi dovrà cambiare anche la Rai”. E prima lo farà, meglio sarà per tutti: anche per smentire i sospetti di un “patto segreto” con l’ex premier-tycoon, Silvio Berlusconi, al quale notoriamente la televisione sta a cuore più del bunga-bunga.
La Rai è la pietra angolare dell’intero sistema dell’informazione. E dal suo assetto complessivo dipendono in larga parte la formazione dell’opinione pubblica, l’aggregazione e la raccolta del consenso. Ecco perché, oltre a una normativa più rigorosa sul conflitto d’interessi, occorre preliminarmente riformare l’ente pubblico nella sua “governance” e nella sua struttura organizzativa. Tanto più che — come ricorda al presidente incaricato l’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti — nel 2016 è prevista la scadenza della concessione.
Contro tutti i tentativi più o meno interessati di smantellare la Rai, e al di là delle invettive di Beppe Grillo davanti al teatro Ariston di Sanremo, il servizio pubblico radiotelevisivo va difeso innanzitutto da se stesso. Vale a dire dai suoi vizi, dai suoi difetti e dalle sue croniche inefficienze. Ma proprio per questo è necessario affrancarlo definitivamente dalla sudditanza alla politica e dalla subalternità alla pubblicità. Per passare “dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini”, più dei comizi in piazza occorrono proposte e leggi in Parlamento.
Le soluzioni non mancano. A cominciare da quella prospettata già negli anni scorsi da un gruppo di lavoro formato da alcuni ex parlamentari, esperti e giornalisti e rilanciata ora dal senatore Margiotta: trasferire il controllo dell’azienda dal ministero dell’Economia, e quindi dal governo, a una Fondazione rappresentativa delle varie categorie sociali e nominare un consiglio d’amministrazione ristretto a cinque componenti, con un amministratore delegato con pieni poteri. A questa figura più manageriale, si potrebbe affiancare eventualmente quella di un direttore editoriale con la responsabilità della programmazione e del coordinamento.
Sta di fatto che il servizio pubblico radiotelevisivo esiste in tutti i Paesi europei. E in genere, dalla Bbc inglese alla Rtve spagnola, viene finanziato prevalentemente dal canone che da noi è il più basso ed evaso d’Europa. Basterebbe fare seriamente la lotta all’evasione, per esempio agganciando il pagamento del canone alla bolletta elettrica o alla tassa sulla casa come in Francia, per risanare già il bilancio dell’azienda. Un vero servizio pubblico può e deve funzionare senza pubblicità, per sottrarsi alla schiavitù dell’audience e preservare il suo ruolo istituzionale.
Ma un’operazione del genere implica evidentemente un recupero di trasparenza e credibilità, sia sul piano della “governance” sia su quello della produzione e dei contenuti, con particolare riferimento al “buco nero” degli appalti esterni. Altrimenti, il canone Rai resterà “la tassa più odiata dagli italiani”. E di conseguenza, occorre anche procedere a una ristrutturazione dell’azienda, in modo da ridurre gli organici, i costi e gli sprechi.
Non c’è motivo per cui la Rai debba avere 14 canali televisivi e la Bbc appena 6: una riduzione del loro numero consentirebbe di utilizzare al meglio le frequenze e di trasmettere tutto in alta definizione, migliorando la qualità contro la concorrenza delle tv private e satellitari. Così come le edizioni dei telegiornali potrebbero essere limitate agli orari canonici delle rispettive reti, per concentrare il flusso dell’informazione quotidiana su Rai News 24 e spostare su questo canale risorse tecniche e professionali, magari valorizzando ulteriormente il sito web.
Alla base, però, resta una questione di linea editoriale e culturale, in sintonia con i compiti e le responsabilità di un servizio pubblico radiotelevisivo che all’insegna del pluralismo deve “informare, intrattenere ed educare”, secondo la formula del fondatore della Bbc. Ed è proprio attraverso un tale rinnovamento che la Rai può contribuire effettivamente a cambiare l’Italia. Cioè a cambiare il senso comune, la coscienza collettiva, il costume civile di un Paese narcotizzato da un ventennio di ipnosi e di omologazione televisiva.

La Repubblica 22.02.14

"Brescia, la Corte cancella le assoluzioni per la strage", di Benedetta Tobagi

IL 28 maggio 1974, a Brescia, alle 10.12, l’urlo bestiale di un’esplosione interruppe il comizio del sindacalista Franco Castrezzati che parlava alle migliaia di convenuti in piazza della Loggia, nonostante la pioggia, per manifestare pacificamente contro l’escalation di violenze di marca neofascista che laceravano la città e tutto il nord Italia da anni.
Una bomba posta da mani ignote uccise Livia, Alberto, Clem, Giulietta, Luigi, Vittorio, Euplo, Bartolomeo (restituiamo per una volta alle vittime la semplice umanità dei loro nomi) e ferì un centinaio di altre persone. Quasi quarant’anni dopo, giovedì mattina, nella mastodontica architettura umbertina del “palazzaccio” della Cassazione romana — pare fatto apposta per farti sentire un moscerino davanti al Moloch della Giustizia —entravano Manlio Milani, sopravvissuto, che in piazza perse la moglie Livia, Giorgio Trebeschi, il figlio di Alberto e Clem, giovani insegnanti impegnati nel sindacato, reso orfano a un anno e mezzo, con alcuni dei feriti e una squadra di avvocati di parte civile, in attesa dell’undicesimo giudizio. Li ho visti entrare tesi, curvi come un moderno Sisifo sotto il macigno del pensiero che il terzo grado del terzo processo per l’eccidio (che in appello, nell’aprile 2012, aveva visto assolti tutti gli imputati) poteva calare come una lastra tombale su tutta la vicenda, consegnandola all’impunità. Ma ieri pomeriggio ne sono usciti con passo più lieve, piangendo, per una volta, lacrime di emozione. La Quinta sezione penale ha annullato con rinvio due assoluzioni, due posizioni chiave: torneranno sotto processo Carlo Maria Maggi — questo il dato più clamoroso — leader indiscusso per il nord est della struttura clandestina gruppo neonazista Ordine Nuovo, che aveva depositi di armi ed esplosivi e propugnava un programma di stragi e attentati per sovvertire l’ordine democratico, l’uomo che dopo la bomba del 28 maggio disse ai suoi accoliti «Brescia non deve rimanere un fatto isolato», e uno dei suoi giovani scagnozzi, Maurizio Tramonte, intraneo al gruppo e al contempo informatore del Sid.
Dovremmo condividere tutti il sussulto di speranza che li ha rianimati. La Cassazione, ieri, ha risposto a tutti coloro che s’interrogano sul significato di processi celebrati a decenni di distanza dal fatto, a tutti coloro che si arrendono, scettici, ai dispositivi delle sentenze d’assoluzione sui cosiddetti “misteri d’Italia”, senza andare a leggere le centinaia di pagine di motivazioni che li accompagnano. La Cassazione ha riaperto, in parte, i giochi, perché le motivazioni dell’appello del 2012 contenevano fatti pesanti come macigni, come richiamato dal procuratore generale d’udienza Vito d’Ambrosio in una requisitoria dura e limpida. L’esplosivo scoppiato in piazza della Loggia veniva dallo scantinato della trattoria veneziana “Allo scalinetto”, a due passi da San Marco, il deposito di Maggi; l’ordigno fu predisposto e trasportato in un covo veronese, da cui partì alla volta di Brescia, passando per Milano, ad opera di due sottoposti del Maggi, entrambi defunti, l’ordinovista Marcello Soffiati e l’armiere del gruppo, Carlo Digilio, già condannato per analogo ruolo svolto nell’organizzazione della strage di piazza Fontana. Questi fatti, insieme ai proclami stragisti di Maggi, impegnato, al tempo della bomba, nella riorganizzazione clandestina delle sue truppe (Ordine Nuovo era stato messo fuori legge nel 1973, in applicazione della “legge Scelba”, per ricostituzione del partito fascista), alle note informative dei servizi segreti, a lungo occultate (a causa di colpevoli depistaggi del reparto di controspionaggio del Sid capitanato da Gian Adelio Maletti, anche lui già condannato nei processi per la strage di piazza Fontana, per aver aiutato la fuga di alcuni imputati) entrate nel processo solo negli anni Novanta, alle brucianti intercettazioni delle conversazioni tra due reduci della destra eversiva
(risalenti al 1995), allarmati alla notizia che Digilio aveva cominciato a collaborare con la giustizia, rappresentano una mole di indizi gravi, precisi e concordanti a fronte di cui l’assoluzione di Maggi — questo fanno intendere i giudici di legittimità accogliendo i ricorsi — non risulta sufficientemente motivata. Come pure difetta la motivazione dell’assoluzione di Tramonte. Imputato di concorso in strage, era stato assolto come semplice “infiltrato”: andrà rivalutato il ruolo da lui svolto nella preparazione dell’attentato, alla luce delle scottanti informazioni che forniva in tempo reale al Sid col nome in codice Tritone. I gravi fatti contenuti nella sentenza d’appello del 2012, quindi, non finiscono relegati nel deposito — pur importante — della verità storica. E forse si arriverà, fatto inedito, alla condanna per strage di un dirigente apicale di Ordine Nuovo. Il nuovo giudizio d’appello potrebbe arrivare prima della fine dell’anno.
È un verdetto importante, quello della Cassazione, per chi non si è mai rassegnato al fatto che i “plurimi atti abusivi” consumati dall’allora capitano dei Carabinieri Francesco Delfino nel corso delle indagini per il primo processo, e i depistaggi del Sid, fossero riusciti a garantire piena impunità agli stragisti. Maggi ha più di ottant’anni, non dispone delle ingenti risorse del miliardario Delfo Zorzi, che vive da anni in Giappone e ieri è uscito per sempre dal processo. Chissà che non decida, a fronte del nuovo rinvio a giudizio, di collaborare, finalmente, con la giustizia. Vogliono sapere la verità, le vittime, e i cittadini, non certo accanirsi contro un anziano medico in pensione. Ed è bello poter scrivere, oggi, che possiamo ancora sperare in una parola di giustizia degli uomini, per gli uomini, per i morti innocenti di piazza della Loggia.

La Repubblica 22.02.14

Sisma, Vaccari “Presentato il ddl con gli emendamenti stralciati”

Contiene l’emendamento che introduce la dilazione fiscale triennale per il cratere sismico. Come annunciato ieri sera, dopo una giornata convulsa, nella tarda mattinata di oggi è stato depositato il disegno di legge che raggruppa tutti gli emendamenti stralciati in sede di conversione del dl Enti locali al Senato, compreso quello che dispone la dilazione fiscale triennale per l’area del cratere sismico a firma dei senatori emiliani Pd Vaccari e Broglia. “Il disegno di legge in questione – spiega il senatore Vaccari – approderà, già nella mattinata di martedì prossimo, in Commissione Bilancio, che lo esaminerà in sede legislativa. E’ questa, infatti, la via preferenziale che il presidente Grasso ci ha garantito (suggerita dal presidente della 5° Commissione Azzollini) consapevole che la decisione di stralcio degli emendamenti presa nella giornata di ieri rischiava di mettere in seria difficoltà alcune delle aree colpite dalle più gravi calamità naturali degli ultimi anni”

E’ stato depositato, nella tarda mattinata di oggi, il disegno di legge, a prima firma del capogruppo Pd Luigi Zanda, che raggruppa tutti gli emendamenti stralciati dal presidente del Senato Grasso in sede di conversione del decreto legge Enti locali, tra cui anche quello dei senatori Pd Vaccari e Broglia che introduce la dilazione fiscale triennale per l’area del cratere sismico. “Il disegno di legge d’iniziativa di senatori di tutti gli schieramenti politici – spiega il senatore modenese Stefano Vaccari – approderà, già nella mattinata di martedì prossimo, in Commissione Bilancio, che lo esaminerà in sede legislativa. E’ questa, infatti, la via preferenziale che il presidente Grasso ci ha garantito (suggerita dal presidente della 5° Commissione Azzollini) consapevole che la decisione di stralcio degli emendamenti presa nella giornata di ieri rischiava di mettere in seria difficoltà alcune delle aree colpite dalle più gravi calamità naturali degli ultimi anni”. Da notare che tutti gli emendamenti, compreso quello che riguarda l’area colpita dal sisma del 2012, avevano già passato il vaglio della Commissione Bilancio, erano stati esaminati, votati ed approvati con il parere favorevole del Governo ed erano, quindi, dotati della necessaria copertura finanziaria. L’articolo 16 del nuovo Disegno di legge dal titolo “Ulteriori disposizioni per favorire il superamento delle conseguenze del sisma nelle regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto del maggio 2012 e del sisma nella regione Abruzzo di aprile 2009” recita, quindi, testualmente “…la restituzione del debito per quota capitale al 1° gennaio 2014, comprensivo della rata non corrisposta alla scadenza del 31 dicembre 2013 ai sensi del successivo comma 10-ter, può essere prorogata, previa modifica dei contratti di finanziamento e connessa rimodulazione dei piani di ammortamento, per un periodo non superiore a tre anni, non ulteriormente prorogabile, rispetto alla durata massima originariamente prevista. La Cassa depositi e prestiti Spa e l’Associazione bancaria italiana adeguano le convenzioni…”

"Legge 40: ricominciamo", di Carlo Flamigni e Maurizio Mori

L’idea di scrivere un secondo libro sulla legge 40 del 2004, quella che si proponeva di regolamentare le tecniche di fecondazione assistita, l’avevamo in testa da tempo. Tra altro eravamo infastiditi dall’idea che la riflessione sui problemi della bioetica fosse stata fatta tacere d’autorità (non si dimentichi la “moratoria” chiesta sui temi etici, considerati “divisivi” e quindi inutili e dannosi nel momento in cui il Paese è sull’orlo della bancarotta).
Il nostro primo libro («La legge sulla fecondazione assistita o Le ragioni dei quattro sì», pubblicato nel gennaio 2005), era stato un inutile tentativo di dimostrare ai cittadini quanto fosse importante andare a votare al referendum che si proponeva di eliminare almeno i punti più “ideologici” e incivili della nuova normativa: ricorderete che al referendum andò a votare solo il 25% degli italiani, molti cittadini furono trattenuti dall’idea che i referendum erano una istituzione molesta e inutile, altri dal fatto di non aver assolutamente capito di cosa si trattava (ma l’embrione non era un pesce tropicale?), altri, troppi, impressionati, convinti o semplicemente spaventati dal divieto vescovile di partecipare al voto. Ricordiamo, con qualche imbarazzo, di esserci limitati a scrivere che si trattava di una interferenza inaccettabile e che ci fu risposto che di interferenza certamente si trattava ma inaccettabile no, anzi era una interferenza doverosa e sacrosanta.
Un secondo libro, poi, l’abbiamo scritto: si intitola «La fecondazione assistita dopo dieci anni di legge 40. Meglio ricominciare da capo!» (Ananke, Torino, 2014): sarà nelle librerie dalla prossima settimana e lo presenteremo lunedì a Roma a un convegno della Sifes dedicato alla legge 40 il 24 febbraio, giorno del decimo anniversario della Legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 24 febbraio 2004. L’abbiamo scritto soprattutto perché ci è sembrata l’occasione di dire cosa pensiamo di un fatto importante che ci riguarda tutti e che non può passare inosservato: il Paese è cambiato e oggi quel clima di sbigottimento generale che avallò l’approvazione della legge più stupida della quale esista memoria in Italia, quella rassegnazione, quella incapacità di sdegnarsi, quella beota soggezione alla metafisica della superstizione non sarebbero più possibili. È un Paese un po’ più laico, un po’ più responsabile, un po’ più desideroso di usare la propria testa per decidere i propri destini.
La legge 40 è stata sgretolata dal buon senso e questa demolizione è stata avallata dai magistrati. Del tutto recentemente, poi, la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha mandato un messaggio di straordinario rilievo, che i nostri rappresentanti politici non potranno in alcun modo ignorare: su questi temi è indispensabile legiferare con cautela e leggerezza, tenendo sempre conto dei continui progressi della scienza e delle modificazioni della morale di senso comune, che reagisce alle sollecitazioni che le derivano dalla capacità di intuire i vantaggi offerti dall’avanzamento delle conoscenze.
Che poi il Paese non sia più lo stesso lo dicono molti fatti, quasi tutti recenti. Il rapporto sulla secolarizzazione pubblicato da Critica Liberale dimostra che i cittadini continuano ad allontanarsi dalla Chiesa e che i segnali di una significativa diminuzione del potere religioso aumentano; il Comitato dell’Onu che si occupa dei diritti dei fanciulli ha detto papale papale che il Vaticano ha protetto in vari modi i preti pedofili; un’inchiesta fatta tra i cattolici in Italia e nel mondo ha dimostrato che i cosiddetti fedeli proprio fedeli non lo sono più e che si è completato lo “scisma sommerso” teorizzato molti anni or sono da Pietro Prini (solo per quanto riguarda l’aborto volontario il 15 per cento degli interrogati italiani si sono dichiarati favorevoli in ogni circostanza e il 68% hanno dichiarato di esserlo in alcuni casi specifici, percentuali che nel mondo diventano rispettivamente pari al 57 e all’8 per cento). È una tendenza, le cose cambieranno ancora. In ogni caso è indiscutibile che quasi tutte le tesi sulla fecondazione assistita che nel 2004 grazie alla tempesta mediatica berlusconiana sembravano (sembravano) plausibili si sono rivelate un bluff: a rivedere oggi la lunga querelle parlamentare che accompagnò l’approvazione della legge 40 appare quello che realmente fu, una lite di condominio. È il momento di ricominciare da capo.
Se abbiamo ragione nel ritenere che in Italia nell’ultimo decennio le circostanze storiche siano radicalmente cambiate, allora il problema con il quale ci confrontiamo è quello di decidere di impostare una nuova normativa sulla terapia della sterilità che abbia queste caratteristiche: sia laica e rispettosa dei diritti di tutti i cittadini; sappia interpretare e acquisire i progressi che la ricerca scientifica ci offre con grande velocità e costanza; tenga conto di quanto rapidamente può cambiare la morale quando alle persone è consentito di intuire i possibili vantaggi che possono derivare dallo sviluppo delle conoscenze; accetti il principio che le leggi debbono ispirarsi a questa morale e non debbono mai piegarsi alle sollecitazioni delle ideologie e delle religioni; tenga conto dei messaggi, dei suggerimenti e delle critiche che ci sono giunti da numerose Istituzioni e soprattutto dalla nostra Corte costituzionale e dalla Corte europea per i diritti dell’uomo.
Il primo aspetto da considerare riguarda la necessità di promuovere una nuova prospettiva della scienza, un compito non facile, considerato il fatto che il dibattito che ha accompagnato l’approvazione della legge 40/2004 è parso a molti una fotocopia del processo che costrinse Galileo all’abiura. A parole, nessuno è contrario alla scienza, per la quale tutti riescono a trovare qualche espressione di elogio, altrettanto rituale quanto ipocrita. In realtà la scienza è temuta, e lo è per molte ragioni, nessuna delle quali è confessabile: perché l’aumento delle conoscenze entra in conflitto con i nostri più antichi pregiudizi e ci costringe a faticosi cambiamenti; perché le nuove tecniche scientifiche cambiano le circostanze storiche e mandano all’aria le nostre più ossificate superstizioni e i nostri convincimenti più radicati, quelli che si sono formati a seguito di una educazione basata su una mitologia nobilitata ametafisica e circondata da un’aura di mistero misto a sacralità. In linea puramente ipotetica, la nebbia che ci circonda dovrebbe poter essere cacciata dal vento della razionalità, ma molti pregiudizi e molte superstizioni, probabilmente per la loro ovvietà, riescono ancora a prevalere sul messaggio scientifico.

L’Unità 21.02.14

"Cosa ho imparato in nove mesi al governo", di Marco Simoni

Molti luoghi comuni sono falsi, come quello che le cose non si possano cambiare. Ma la burocrazia spiega perche’ l’Italia non funziona: ecco qualche esempio. In nove mesi di esperienza in un ministero, provenendo da tutta una vita lavorativa spesa all’estero, si impara che alcuni luoghi comuni sono falsi. Primo luogo comune: le cose non si possono cambiare. Al contrario, si possono fare moltissime cose, si può cambiare persino il volto dell’amministrazione applicando un metodo rigoroso (mi verrebbe da dire scientifico) che punti al risultato, anziché alla forma.
Noi avevamo il compito di fare aumentare l’export, che ovviamente non si fa per decreto. In un paese di piccole e medie imprese bisogna soprattutto spiegare e raccontare quali strumenti esistono a loro disposizione per conquistare i mercati. Allora abbiamo chiesto all’Istituto per il commercio estero di formare 50 suoi funzionari alle più recenti tecniche di check-up aziendale, e poi abbiamo organizzato a costi irrisori – e con sponsor privati – un “Roadshow” nei territori (finora a Biella e Bari, ma altre 20 circa sono programmate).
Questi funzionari in una giornata incontrano a tu per tu le aziende che possono esportare ma ancora non lo fanno, aziende scovate grazie ad un database “scientifico” predisposto con la collaborazione di Confindustria e Unioncamere.
Secondo luogo comune: non ci sono più risorse. Noi avevamo un problema: i competitors dell’Italia spendono molto più di noi in promozione commerciale, che però per un paese di Pmi come il nostro è del tutto fondamentale perché con poca spesa si raggiunge un gran risultato in termini di crescita economica.
Dopo qualche mese di lavoro abbiamo innanzitutto trovato circa 25 milioni (appunto una piccolissima posta), che erano fermi su un conto corrente dello Stato dal 1994 (sic). Inoltre, abbiamo recuperato – e concentrato sulla promozione – circa altri 10 milioni che erano sparsi in rivoli del tutto inefficaci perché minuscoli o perché vincolati a modi di utilizzo così burocratici da renderli di fatto dormienti. In altre parole: anche sotto una doverosa “spending review” ci sono moltissime risorse da razionalizzare e impiegare in cose utili.
Terzo luogo comune: la pubblica amministrazione è inefficiente perché incompetente, o “fannullona” secondo l’arguta definizione di un ministro di Berlusconi. Al contrario, i dirigenti pubblici sono molto competenti e si fanno carico di una mole ingentissima di lavoro, ma hanno due problemi che diventano immediatamente problemi di tutti. Primo, i processi – stabiliti da leggi o regolamenti – sono fuori da qualsiasi logica di razionalità umana. Secondo, il blocco del turn over causato dai tagli lineari à la Tremonti, ne ha fatto aumentare eccessivamente l’età media. Le due cose sono ovviamente correlate.
Quando ho finito il mio phd a Londra scelsi la carriera accademica, una mia collega inglese decise invece di fare un semplice concorso pubblico e venne assunta come dirigente dalla Pa, arrivando poi al gabinetto del ministro degli interni prima dei 30 anni, in Italia non credo esista neanche un dirigente generale sotto i 40.
Un afflusso, piccolo ma costante, di giovani ai vertici della struttura amministrativa è fondamentale perché non solo consente uno scambio di esperienze intergenerazionali continue, ma anche occhi sempre nuovi su come si fanno le cose.
Uno degli ultimi giorni ho chiesto a uno dei migliori funzionari che ho incontrato di scrivermi in un foglio le procedure minime che, dall’approvazione di una legge, devono svolgersi per attuare una politica di spesa.
Il risultato di questo esercizio è stato che a tre condizioni: meno di centomila euro (ossia, un’inezia), un solo ministero coinvolto e nessuna regione (cosa rara), tutti enti e agenzie in-house (ovvero con i privati che al massimo entrano nella esecuzione), servono solo undici passaggi amministrativi, ossia lettere cartacee firmate da un ufficio apicale pubblico ad un altro, che poi scrive un’altra lettera cartacea, e così via per undici volte. Se poi, nel processo, si scavalla l’anno solare bisogna attendere tutte le procedure speciali di gennaio del nuovo anno.
Per rallentare enormemente qualunque applicazione basta dunque che in uno di quei passaggi ci sia non dico un sabotatore, un gattopardo, ma uno scrivano lento. E naturalmente, se alcune di quelle condizioni non sono rispettate, il numero di passaggi aumenta. Con queste procedure, è bene tenerlo presente, è tecnicamente impossibile predisporre politiche tempestive (infatti, ad esempio, quei 25 milioni appena recuperati e approvati a dicembre avranno bisogno di circa 9 mesi prima che possano essere effettivamente spesi per la nostra economia) ed è necessaria tutta la testardaggine di cui si è capaci per seguire fisicamente l’iter di una decisione politica e portarla a destinazione.
(docente di Economia politica alla London School of Economics, capo Segreteria del vice ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda)

da Europa Quotidiano 21.02.14

"Pasolini e canzoni, lo stile Borgna", di Paolo Franchi

Con Gianni Borgna non se ne va soltanto una personalità per tanti aspetti irripetibile e impossibile da catalogare sulla scorta delle categorie che attualmente vanno per la maggiore. Se ne va una stagione della sinistra italiana. Un tempo in cui l’idea (e la pratica) di un rapporto stretto non solo tra politica e cultura, ma tra politica, cultura e amministrazione era, almeno come ambizione, nell’ordine delle cose. Un’epoca in cui un giovane colto e brillante che voleva vivere appieno il tempo suo e dei suoi coetanei senza mettersi a fare il grillo parlante poteva anche pensare che il lavoro politico a tempo pieno (o, se preferite, la politica come scelta di vita e come mestiere) fosse la forma più alta di attività intellettuale.
Agli inizi degli anni Settanta (e poi forse per tutta la vita, nonostante un’infinità di delusioni) Gianni lo pensò, eccome. A chiamarlo a guidare la gioventù comunista romana fu il futuro sindaco della capitale, il viterbese Luigi Petroselli, all’epoca segretario del Pci a Roma, noto tra i suoi con il nomignolo di Joe Banana. Ne fu ripagato, sia in termini di fedeltà (mai supina) alla linea del partito sia, soprattutto, in termini di apertura politica e culturale (mai corriva) verso quanto di nuovo e (per il Pci) di controverso, a dir poco, andava maturando tra i giovani.
Attorno a Borgna, si saldò un gruppo di giovanotti che avrebbero fatto strada: Walter Veltroni, Goffredo Bettini e Ferdinando (a quei tempi solo Nando) Adornato, naturalmente, ma pure (cito un po’ alla rinfusa) Fabrizio Barca, Giulia Rodano, Lucio Caracciolo, Giorgio Mele, Marco Magnani… Assieme, fecero un bel giornale, «Roma Giovani», dove tra gli altri mosse i primi passi nel mestiere Paolo Lepri. Misero su iniziative sin lì impensabili, come i Festival del Pincio e di Villa Borghese, questa seconda completa di seratona, per un paio di generazioni indimenticabile, con Gino Paoli. E (soprattutto Borgna, Veltroni, Bettini e Adornato) incontrarono Pier Paolo Pasolini.
Fu amore politico, intellettuale e civile a prima vista. Per loro, per quel che rappresentavano o pensava potessero rappresentare, la speranza di un’altra Italia, Pasolini, sin lì vicino ai radicali, si pronunciò pubblicamente, alla vigilia delle elezioni regionali del 1975, per il voto comunista, nonostante fosse un critico severo della politica e della cultura di un partito, il Pci, da cui era stato espulso molti anni prima per la sua omosessualità.
Borgna, convinto fino all’ultimo che nel novembre del 1976 Pasolini fosse caduto vittima di un complotto, gli ha dedicato, con passione intatta, tre delle sue più recenti fatiche. Una bella mostra, P asolini Roma , curata assieme a Jordì Ballò e ad Alain Bergala, che, dopo Barcellona e Parigi, aprirà finalmente i battenti anche nella capitale, il 6 marzo. Un’opera teatrale, Una giovinezza enormemente giovane . E un saggio pubblicato da Vallecchi, Una lunga incomprensione , scritto a quattro mani con Adalberto Baldoni: un intellettuale di quella destra eterodossa verso la quale Borgna, il comunista che nell’89 rifiutava di cambiar nome al suo partito, ma pure l’assessore alla Cultura delle giunte Rutelli e Veltroni che voleva dedicare una strada a Giuseppe Bottai, non ha mai nascosto la sua curiosità.
Poi, naturalmente, c’è il Borgna più noto. L’appassionato di musica leggera e di mode culturali giovanili che, Gramsci alla mano, «sdogana» Sanremo. L’amministratore comunale che nel 1993 raccoglie, quasi dieci anni dopo, in Campidoglio, l’eredità di Renato Nicolini, l’indimenticato «assessore all’Effimero» di Giulio Carlo Argan, di Petroselli e di Ugo Vetere, che però baderà soprattutto alle strutture permanenti, diventando un infaticabile «motore di cultura» (parola di Francesco Rutelli), e un architrave del «modello Roma». Il manager al vertice della Fondazione Musica per Roma, la società di gestione del «suo» Auditorium, che sarà scalzato da Gianni Alemanno senza che Pd e sinistra alzino barricate per difenderlo.
E infine c’è il Borgna che ci mancherà, mi mancherà di più, quello che non ha mai abbandonato la Vespa e i libri, l’ironia garbata e il lessico d’altri tempi, la fede laziale e, nonostante tutto, la passione politica. In una parola, il nostro Profumetto. Lo pensavamo pressoché eterno, come un monumento della sua Roma. Invece non c’è più.

"Classi sempre più multietniche: un alunno su dieci di origini straniere, ma la metà è nata in Italia", di Salvo Intravaia

Il documento di analisi del Ministero: a otto anni dalla prima stesura sono quasi raddoppiati, e sono ormai 200mila nelle scuole superiori. Rendendo non più rinviabile la questione dello jus soli. Aule scolastiche italiane sempre più multietniche e adesso quasi un alunno su dieci è di origini straniere. La presenza di alunni nati da genitori stranieri quest’anno ha raggiunto le 830mila unità. A certificarlo è lo stesso ministero dell’Istruzione. Un dato, quello comunicato da viale Trastevere in occasione dell’emanazione delle nuove Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, che fa segnare l’ennesimo record di presenza straniera tra le mura scolastiche.

Ma dalle ultime ricognizioni sulla presenza straniera nelle scuole italiane emerge che metà degli alunni censiti come stranieri sono in realtà nati nel nostro Paese. Bambini e ragazzi che parlano con inflessioni di tutte le regioni italiane. E che contribuiscono a rendere non più rinviabile la questione dello jus soli, il riconoscimento della cittadinanza italiana a coloro che nascono nel nostro Paese.

“A otto anni di distanza dalla prima stesura – spiegano da viale Trastevere – esce il nuovo documento che guarda agli alunni con cittadinanza non italiana tenendo conto di uno scenario profondamente mutato che ha richiesto di aggiornare le indicazioni operative per le scuole”.

“Il numero di alunni con cittadinanza non italiana nelle nostre scuole – proseguono dal ministero – è passato infatti dai 430mila del 2006 (anno di emanazione delle ultime Linee guida) agli 830mila di oggi”. In appena otto anni sono quasi raddoppiati. Ed è anche cambiata la loro distribuzione “che si è progressivamente spostata dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo e secondo grado”. Oggi, le scuole superiori del nostro Paese sono frequentate da “200mila studenti con cittadinanza non italiana di cui l’80 per cento frequenta istituti tecnici e professionali”. Nel 2005/2006 erano appena 83mila.

Ma dagli esiti degli scrutini finali traspare che ancora in parecchi arrancano. E le nuove Linee guida propongono indicazioni aggiornate alle scuole sull’orientamento scolastico, sulla valutazione e sulla istruzione e formazione dei giovani e degli adulti. In altre parole, l’obiettivo del documento firmato questa mattina dal ministro Maria Chiara Carrozza “è quello di offrire alle scuole una selezione ragionata di soluzioni organizzative e didattiche elaborate e realizzate dalle scuole stesse. In questo senso il documento si propone come veicolo di disseminazione e condivisione delle migliori pratiche già messe in atto per l’accogliere ed accompagnare in modo ottimale i sempre più numerosi ragazzi di origine non italiana che le frequentano.

La Repubblica 21.02.14