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"Guardare la politica dal buco della serratura", di Stefano Bartezzaghi

La sua inconsapevole o comunque involontaria passerella ha detto subito con chiarezza da quale posizione avremmo assistito a dieci minuti di irresistibile vacuità: è la posizione di chi spia dal buco della serratura. L’immagine era di qualità bassa, tanto quanto era magniloquente la scenografia: arredi e quadri pomposi, una bandiera europea, un tavolo lungo il cui asse tre persone stavano sedute a sinistra, quattro a destra. Nessuna di loro era una donna. Visione sfocata, audio approssimativo, punto fisso di osservazione, dettagli inessenziali e imbarazzanti in primo piano, sensazione di perdersi quanto di realmente importante sta succedendo. È appunto quel che succede spesso, spiando e origliando.
Lo streaming non è che uno dei più aggiornati dispositivi che la tecnologia offre alla nostra stremata curiosità. Sono svariati, e spesso li confondiamo tra loro. La scorsa settimana, alla fine della campagna per le regionali sarde, la candidata Michela Murgia ha pronunciato una frase quando, plausibilmente, pensava che il suo microfono fosse spento. Era acceso e la frase è andata in onda. Ebbene, nel riprenderla, tutte le cronache hanno parlato, a sproposito, di un «fuori onda». Non è capitato solo per sciatteria lessicale, ma anche per il confuso accumularsi di occasioni in cui sentire voci dal sen fuggite, dichiarazioni estorte, comunicazioni riservate che non lo sono più. L’ormai anziana fattispecie del «retroscena» giornalistico (con il cronista parlamentare che si apposta sino alle toilette parlamentari per carpire segreti) si è evoluta: streaming, fuorionda, candid camera, intercettazioni lecite e illecite, teppismi telefonici, agguati di troupe, microspie, registrazioni di conversazioni, interviste a bruciapelo e a inconscio aperto, labioletture, biglietti fotografati a Montecitorio con lo zoom… Tutti buchi della serratura da cui sembriamo tanto golosi di vedere finalmente come stanno le cose.
Non importa quanto ogni singolo protagonista di queste comunicazioni sappia di esserne coinvolto o addirittura lo desideri. Il tratto unificante della categoria consiste nella rappresentazione di un disvelamento: ecco cosa pensa davvero il ministro, ecco quanto è ignorante il sottosegretario, ecco cosa si dicono i due avversari mentre inciuciano. Ecco le parole, i modi di dire, i segreti.
Tra vedere (o addirittura sapere) e capire c’è una bella differenza. In una democrazia da decenni trafitta da misteri lancinanti e rapporti occulti dovremmo essere oramai abituati all’idea che la verità è un foglio bianco e il centro del potere è un luogo vuoto. Pietro Nenni entrò nella stanza dei bottoni, e non c’erano bottoni. Alla sua prima ascesa al ministero degli Interni Roberto Maroni promise di svuotare gli armadi ma nulla se ne seppe. Con la cerimonia dello streaming si è scoperto che a essere vuota non è solo la Cosa in sé, ma anche la sua rappresentazione, o messinscena. La solennità dell’incontro a Montecitorio, l’ambientazione pomposa, la forzata cortesia esteriore all’inizio e alla fine dell’incontro non hanno fatto che sottolineare quello che le parole dei protagonisti certificano. Non c’è proprio nulla da vedere e ascoltare, più di quello che sappiamo già, per la sua sia pure non ottica evidenza.
Presentato come il massimo della comunicazione possibile, lo streaming ne totalizza il minimo, tendente a zero. Nel caso specifico non sono volate volgarità verbali; si è avvertita una strana complicità almeno esteriore: si sono dati subito del «tu», hanno riso alle battute reciproche, hanno punteggiato gli interventi dell’altro con intercalari semi-ironici («benissimo», «d’accordo») nella fretta di strappare di nuovo la parola. Il vero gioco era a chi riusciva a farla dire più grossa all’altro («No, non sono democratico, con uno come te») e per vincerlo si sono evocati fantasmi comunicativi dal passo sempre più strascicato: le «banche», il «sistema marcio», il «dolore vero della gente». Ma se lo streaming è svelamento dobbiamo concludere che quella è la realtà dello scontro politico, fuori dalla finzione dei rituali? Al contrario, il mancato dialogo fra Renzi e Grillo sottolinea l’intervenuta incapacità di ogni elaborazione simbolica del reale da parte della politica. Non aveva buco della serratura la porta dietro a cui Renzi aveva da poco incontrato a tu per tu Berlusconi, per cinque minuti che sono perfettamente simmetrici ai dieci che avrebbe passato con Grillo. Di questi ultimi resta l’umorismo come un sintomo nevrotico. Beppe e Matteo si sono fatti ridere a vicenda («Ti è piaciuta?», «Questa è bella!»), ognuno ha garantito di non restare offeso per le prese in giro, hanno poi coniato hashtag spiritosi per continuare a sfottersi. Il linguaggio su cui si intendono è l’umorismo. Da svelare quel buco della serratura aveva poco altro.

La Repubblica 21.02.14

"Industria, fatturato in calo. Nel 2013 scende dello 0,6 per cento", da lastampa.it

Il nuovo dato reso noto dall’Istat cancella il segno positivo registrato nel mese di novembre dopo 22 mesi di decrescita; A dicembre ordinativi diminuiti del 4,9%. L’industria chiude il 2013 in rosso anche sul fronte del fatturato. Dopo avere certificato le perdite sulla produzione l’Istat archivia anche i conti sulle vendite. E il risultato è ancora peggiore: se in volumi, ovvero in quantità, l’Italia cede il 3%, la contrazione del giro d’affari è del 3,8%. Ecco un primo effetto negativo del raffreddamento dei listini: alle casse delle imprese è venuta a mancare pure la leva dei prezzi, con l’inflazione in caduta libera e le quotazioni alla produzione finite addirittura sotto lo zero. Non solo, anche gli ordini ricevuti scarseggiano, diminuendo dell’1,3%. Un’eredità che peserà anche sui mesi seguenti, visto che le commesse danno la misura di quanto l’economia tiri.

A non spingere è il mercato interno, che anzi fa da zavorra. Basti pensare che al netto del dato nazionale sarebbero positivi sia i ricavi che gli ordinativi. Come al solito l’export ha controbilanciato la cattiva performance registrata sul territorio nazionale, che vede le vendite ridursi del 6,1%. Ma le cifre sul fatturato di dicembre mettono in guardia, segnando rispetto a novembre un deciso calo dei ricavi oltre confine (-1,4%).

Con dicembre, soprattutto, svaniscono gli entusiasmi suscitati a novembre, quando era stata interrotta la striscia di ventidue cali consecutivi su base annua. Adesso è tutto da rifare. D’altra parte lo stesso era accaduto con la produzione e giusto l’altro giorno il Centro Studi di Confindustria parlava di una ripresa «lentissima» e per di più «contrassegnata anche da scivoloni indietro anziché dall’atteso graduale consolidamento». E oggi Giorgio Squinzi, il presidente di Confindustria, ha spiegato come il Paese sia «stremato», auspicando che il «rilancio delle politiche industriali» diventi «un tema centrale».

Guardando nel dettaglio i diversi settori, a dicembre spicca il “bottino” realizzato dalla farmaceutica, che mette a segno un rialzo a doppia cifra sia dal lato fatturato (+18,4%) che dal lato commesse (17,1%). Bene è andata pure a uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy, il tessile-abbigliamento (+3,9% in ricavi e +12,7% in ordini). Tutt’altro che positivo è invece l’andamento delle commesse di un’altra punta di diamante dell’industria italiana, il comparto dei macchinari (-8,0%). Sul fronte fatturato ad accusare il colpo più duro è l’energia, che nell’intero 2013 risulta in negativo del 15,7%.

L’analisi dei dati vede perfettamente concordi le associazioni dei consumatori, per Federconsumatori, Adusbef e Codacons l’industria sta scontando gli effetti della crisi dei consumi, in un circolo vizioso che riversa le sofferenze delle famiglie sulle aziende e viceversa. E l’Osservatorio nazionale Federconsumatori avverte come la domanda si contrarra’ anche nel 2014, tanto che il ritardo accumulato negli ultimi tre anni supererà il 9%, con un taglio della «spesa di 2.638 euro a famiglia».

www.lastampa.it

“Muoio” quel tweet mai visto prima, di Marco Bardazzi

«Muoio». Per scriverlo in ucraino sono sette caratteri in cirillico e uno spazio. Otto tocchi sulla tastiera del telefonino collegato a Twitter che Olesya Zhukovskaya, 21 anni, stringeva nella mano destra ieri a Kiev. Con la sinistra cercava di fermare il sangue che colava dalla gola raggiunta da un proiettile, scendendo a macchiarle la pettorina da infermiera volontaria, dominata da un’improvvisata croce rossa.

La sorte di Olesya è incerta. Non sappiamo se sia già morta o se ancora lotti per sopravvivere in un letto di ospedale in Ucraina. Quello che è certo è che il suo ultimo atto pubblico, cosciente, è stato inviare un «tweet». Ogni rivoluzione, in ogni epoca, ha i suoi simboli. Le rivolte del XXI secolo nascono sui social network e chi le combatte ha un istinto che è ormai nel Dna della generazione di Olesya: tutto va condiviso, compresa la morte.

La Rete, e i social media che l’hanno arricchita negli ultimi anni, non sono semplicemente nuovi mezzi di comunicazione. Sono luoghi, spazi di vita reale di uomini e donne, che si possono comprendere solo usando la categoria dell’esperienza.

Scrivere «io muoio» su Twitter agli amici, per Olesya è un gesto naturale. E’ l’esatto equivalente di scrivere «io amo, piango, rido, studio», come i suoi coetanei di tutto il mondo fanno miliardi di volte al giorno su Twitter, Facebook o WhatsApp. Non si tratta solo di raccontare in Rete qualcosa che mi sta capitando: la condivisione del gesto è ormai parte integrante del gesto stesso.

Le periodiche critiche ai social media come luogo di tutti i mali troppo spesso perdono di vista questa loro caratteristica di fondo. Eppure basterebbe indagare su come sono nati, per capire che la loro ricetta vincente non è legata alla tecnologia. Facebook non avrebbe mai avuto successo solo perché è un modo interessante di «catalogare» le amicizie. Funziona perché è il luogo stesso dove quelle amicizie avvengono.

Twitter è nato in una sera di pioggia a dirotto a San Francisco nel 2006, in un dialogo serrato tra due giovani creativi chiusi in auto a ripensare ai fallimenti della loro vita fino a quel momento. Noah Glass, il più estroverso tra i due, soffriva di profonda solitudine e voleva uno strumento per essere sempre in contatto con gli amici. Jack Dorsey, invece, era interessato all’idea di «status», a far sapere sempre, in qualsiasi momento, cosa gli stava accadendo.

La solitudine di Noah e l’egocentrismo di Jack, due sentimenti profondamente umani e per niente tecnologici, sono stati la miscela che ha dato vita a Twitter. E otto anni dopo hanno permesso a Olesya di lanciare il suo grido agli amici sulla Rete, che sono subito diventati migliaia di «followers»: «Io muoio», che è un modo disperato, terminale e umanissimo per dire «Io esisto».

La Stampa 21.02.4

"Il fantasma dei Balcani", di Lucio Caracciolo

L’Ucraina si sta disintegrando. Questo grande Stato europeo la cui frontiera occidentale è più vicina a Trieste di quanto la città giuliana sia prossima a Reggio Calabria, sta piombando nella guerra civile. E tutto ciò sotto gli occhi negligenti o impotenti dell’Occidente. L’Unione Europea, più che mai incerta e divisa, alterna la retorica della pacificazione alla patetica minaccia di sanzioni che ormai non avrebbero alcun effetto sugli equilibri geopolitici del Paese — 45 milioni di abitanti per oltre 600 mila chilometri quadrati (il doppio dell’Italia) — dalle cui condotte energetiche, sempre bramate da Mosca, dipende per una quota decisiva il nostro approvvigionamento di idrocarburi.
Come ammette uno dei leader dell’opposizione, il pugilatore Vitali Klitschko, la crisi è fuori controllo. Lo dimostrano il tributo di sangue già pagato dagli ucraini — decine di morti e centinaia di feriti — e soprattutto il fatto che intere città e territori non sono più in mano al governo. Il quale è sotto assedio, barricato nei suoi palazzi. Al punto di sconsigliare i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia dal trattenersi a Kiev per facilitare un estremo negoziato fra il presidente Yanukovich e i capi del variegato cartello delle opposizioni, alcune delle quali dotate di proprie milizie. A Leopoli e in altre città dell’Ucraina occidentale marcate dall’influenza polacca e asburgica spuntano comitati rivoluzionari che si proclamano potere di fatto, dopo aver arrestato i rappresentanti del potere legale, alcuni dei quali stanno riconvertendosi alla causa degli insorti. Le ali estreme della protesta sognano un’Ucraina finalmente derussificata, centrata sul “genotipo nazionale”. Vacilla anche la Transcarpazia — parte della Rutenia subcarpatica, crocevia di culture, lingue e pretese geopolitiche rivali. Nella Crimea “regalata” sessant’anni fa dal Cremlino all’Ucraina sovietica, con la flotta russa del Mar Nero alla fonda nel porto di Sebastopoli, si alza invece la voce di chi vuole tornare sotto Mosca. Nel Donbass, epicentro dell’Ucraina orientale russofona e russofila, tendenzialmente schierata con Yanukovich (ma non a qualsiasi prezzo), ci si prepara alla possibilità di separarsi da Kiev.
Lo sfaldamento della Repubblica Ucraina difficilmente avverrebbe lungo una nitida linea Est-Ovest, produrrebbe semmai una pletora di Ucraine maggiori e minori, divise da confini porosi. Mine vaganti al limes eurorusso. Con Kiev estrema posta in gioco. Se la sanguinosa deriva centripeta, accelerata da una recessione devastante, non sarà presto arrestata, la capitale rischia di diventare il palcoscenico finale di una guerra civile combattuta alla frontiera fra Federazione Russa e Unione Europea. Forse la più grave e pericolosa crisi mondiale dalla (presunta) fine della guerra fredda. Il rischio è una super-Jugoslavia che può riportare i rapporti euro-russo- americani alla glaciazione e incidere financo sulla tenuta dello stesso impero di Putin. Tornano alla mente le ultime parole famose del ministro degli Esteri lussemburghese Jacques Poos, che nel maggio 1991, agli albori delle guerre di successione jugoslava, proclamò essere «scoccata l’ora dell’Europa ». Ci vollero decine di migliaia di morti e l’intervento americano per almeno provvisoriamente sedare i Balcani adriatici. Non vogliamo immaginare che cosa accadrebbe se non riuscissimo a fermare la decomposizione dei Balcani profondi.
La radicalizzazione delle fazioni ucraine non promette bene. Il presidente Yanukovich, espressione di un potere inetto e totalmente corrotto eppure battezzato legittimo dall’Unione Europea, disprezzato tanto dalle opposizioni quanto dal suo riluttante mentore Putin, non sembra conoscere via altra dalla repressione, nell’intento di guadagnare tempo. Dunque perdendolo. Gli oligarchi alla Akhmetov o alla Firtash, ossia gli ex esponenti della nomenklatura comunista che hanno saccheggiato il Paese nell’ultimo ventennio, manovrando i politici d’ogni colore come marionette — anche perché non hanno trovato a Kiev un Putin che li mettesse in riga — temono che il caos segni la fine del loro regime criminale, magari a favore di altri criminali opportunamente ridipinti. A meno che non riescano essi stessi a riciclarsi per tempo.
Nelle ultime settimane, buona parte della piazza è passata dalla pacifica protesta contro la corruzione e per l’integrazione all’Unione Europea — peraltro mai offerta da Bruxelles — alla rivolta violenta. A scontrarsi con la polizia provvedono formazioni paramilitari bene addestrate, afferenti agli ultranazionalisti di Svoboda, del Pravy Sektor o di Spilna Sprava, fautori della “Ucraina agli ucraini”, segnati dai miti razziali otto-novecenteschi distillati dai teorici locali dello Stato etnico, profondamente russofobi, polonofobi e antisemiti. Sotto la pelle della piazza s’infiltrano provocatori di regime (titushki) e agenti più o meno collegati ai servizi segreti russi od occidentali, come si conviene nelle aree di crisi particolarmente strategiche.
A questo punto solo un negoziato fra tutte le forze interne ed esterne che partecipano alla battaglia d’Ucraina può impedire una prolungata guerra civile, che cambierebbe comunque il volto della Russia e dell’Europa. È tempo che Washington e Mosca scendano in campo non per sostenere i loro campioni locali, ma per salvare gli ucraini da se stessi e dagli europei che pretendono di salvarli. Obama e Putin hanno dimostrato di sapersi intendere, quando le alternative al compromesso sono disastrose. Il tempo stringe, nella speranza che non sia già tardi.

La Repubblica 21.02.14

Abolito il finanziamento ai partiti Proteste M5S, no della Lega" da unita.it

Via libero definitivo dalla Camera, con 312 sì, 141 no e 5 astenuti, al decreto del governo Letta, nel testo uscito dall’esame del Senato che lo ha già approvato, alla conversione in legge del decreto che abolisce il finanziamento pubblico diretto e indiretto ai partiti e lo sostituisce con agevolazioni fiscali per la contribuzione volontaria dei cittadini attraverso detrazioni per le erogazioni liberali e destinazione volontaria del 2 per mille Irpef.

Il MoVimento Cinque Stelle ha protestato con cartelli in aula («Mollate il malloppo», «Bugia numero uno, Renzi-Pinocchio») al momento della votazione elettronica. E scattando fotografie qua e là in aula. Immediato è stato l’intervento della presidente Laura Boldrini che ha ordinato la rimozione dei cartelli pentastallati e rinnovato il divieto di riprese non aurtorizzate in aula. Alcuni deputati grillini hanno però continuato a protestare, con qualche resistenza agli assistenti parlamentari incaricatio di rimuovere le scritte. La protesta dei grillini ha fatto insorgere altri deputati, in particolare dai banchi Pd. Ed Ettore Rosato preso la parola chiedendo a Boldrini «provvedimenti immediati e severi» nei confronti dei Cinque Stelle, denunciando il rischio legato a una sottovalutazione delle proteste in aula. «Onorevole Rosato – ha ribattuto seccata Boldrini- la presidenza non consente affatto che in quest’aula venga fatto di tutto…».

IL DECRETO NEI DETTAGLI
L’accesso dei partiti alle nuove uniche forme di contribuzione viene condizionato dalla nuova legge al rispetto di requisiti di trasparenza e democraticità indicati dal decreto-legge, in cui si prevede anche l’istituzione di un registro dei partiti politici ai fini dell’accesso ai benefici.

Con la nuova disciplina viene superata la parziale riforma della legge del 2012, con la quale, al sistema dei rimborsi elettorali era stato affiancato il cofinanziamento dello stato, proporzionato alle capacità di autofinanziamento dei partiti, che ora è stato abolito. La nuova disciplina si inserisce in un processo, sviluppatosi negli ultimi anni, di progressiva riduzione dell’entità dei contributi diretti ai partiti, istituiti nel 1974 ed erogati, a partire dal 1993, esclusivamente sotto forma di contributi per le spese delle campagne elettorali. Le principali caratteristiche del sistema introdotto dalla nuova legge riguardano l’adozione da parte dei partiti di statuti recanti necessari elementi procedurali e sostanziali che garantiscano la democrazia interna. Ai fini dell’accesso ai benefici l’istituzione del registro nazionale dei partiti politici che accedono ai benefici previsti dalla legge, consultabile dal sito internet del parlamento la realizzazione da parte di ciascun partito di un sito internet dal quale devono risultare le informazioni relative all’assetto statutario, agli organi associativi, al funzionamento interno e ai bilanci.

E ancora: l’estensione delle funzioni di controllo della commissione di garanzia sui bilanci dei partiti anche al rispetto delle prescrizioni sul contenuto statutario e sulla trasparenza, la riduzione delle risorse loro spettanti per i partiti che non rispettano le norme in materia di parità di accesso alle cariche elettive, l’introduzione di un tetto alle donazioni pari a 100 mila euro, l’introduzione di una detrazione per le erogazioni liberali pari al 26% per gli importi da 30 a 30 mila euro,l’assoggettazione a imu degli immobili dei partiti politici, la possibilità di destinare il 2 per mille irpef ai partiti, la previsione di un apposito codice di autoregolamentazione delle raccolte telefoniche di fondi, l’applicazione progressiva della abrogazione con la riduzione parziale dei contributi diretti che cesseranno completamente nel 2017, l’estensione al personale dei partiti della disciplina sul trattamento straordinario di integrazione salariale e di contratti di solidarietà.

www.unita.it

Sisma, Ghizzoni e Vaccari “Decisione grave e incomprensibile”

Domani mattina verrà presentato uno specifico disegno di legge con corsia preferenziale. Il presidente Grasso ha ribadito la cancellazione, per ragioni procedurali, dell’emendamento sulla dilazione fiscale triennale per le aree del cratere sismico. “Una decisione grave e, per molti versi, incomprensibile – dicono i parlamentari modenesi Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari e il senatore bolognese Claudio Broglia – a cui cercheremo, comunque, di porre rimedio immediatamente già da domani mattina approfittando della possibilità, aperta dallo stesso Grasso, della presentazione di un disegno di legge, comprensivo di tutti gli emendamenti stralciati, che avrà una corsia preferenziale”. Il disegno di legge, in questione, infatti, sarà esaminato già a partire da martedì prossimo dalla Commissione Bilancio del Senato in sede legislativa. Ecco la loro dichiarazione:

«Una decisione grave e, per molti versi, incomprensibile. Il presidente Grasso, nel tardo pomeriggio di oggi, nonostante la sollecitazione di tutti i gruppi parlamentari, trincerandosi dietro la richiesta che il presidente Napolitano ha espresso a fine anno di una maggiore omogeneità dei provvedimenti legislativi, ha opposto motivazioni procedurali per ribadire la cancellazione di una quindicina di emendamenti alla conversione in legge del decreto Enti locali, già approvati in Commissione Bilancio del Senato, tra cui anche la dilazione fiscale triennale per le imprese e i cittadini delle aree colpite dal sisma del 2012. Si trattava di un emendamento messo a punto con la Ragioneria dello Stato, che aveva il parere favorevole del Governo e dotato di copertura economica, che non prevedeva, quindi, ulteriori oneri a carico dello Stato. Già domani mattina, comunque, come senatori emiliani del Pd, insieme a tutti i senatori firmatari degli emendamenti cassati, ci attiveremo per far convergere tutte le misure in questione in un disegno legge che verrà immediatamente presentato al Senato. Da parte dello stesso presidente Grasso è arrivata, infatti, la disponibilità, vista l’importanza degli argomenti trattati, a calendarizzare immediatamente il provvedimento. Già martedì mattina, infatti, sarà all’esame della Commissione Bilancio convocata in sede legislativa. Una procedura snella e straordinaria che, siamo fiduciosi, ci consentirà di varare in tempi certi e rapidi un provvedimento che le terre colpite dal sisma attendono. Non è possibile penalizzarle ulteriormente per mere ragioni procedurali!».

Sisma, parlamentari Pd “Non vanifichiamo norme tanto attese”

Deputati e senatori sulla necessità di riammettere l’emendamento pro-terremotati. I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari chiedono, con forza, che l’emendamento che allunga i tempi del pagamento delle tasse per le aree colpite dal sisma del 2012 possa essere rapidamente recuperato, nonostante il presidente del Senato Grasso lo abbia stralciato dalla conversione del decreto legge Enti locali per estraneità di materia. “Quello che il Senato sta discutendo – spiegano i parlamentari modenesi Pd “è la conversione in legge di un decreto che nella dicitura parla espressamente “di interventi in favore di popolazioni colpite da calamità naturali” e il sisma del 2012 rientra perfettamente in questa categoria”. Ecco la loro dichiarazione:
«La dilazione fiscale di tre anni per le imprese e i cittadini dell’area del cratere sismico è norma che è stata condivisa e scritta in stretto rapporto con la Ragioneria dello Stato e con il Governo, ha la necessaria copertura economica, ha avuto l’ok della Commissione Bilancio del Senato ed è attesa da migliaia di persone che vivono e lavorano nelle zone colpite dal terremoto del 2012: è per queste ragioni che chiediamo che l’ottimo lavoro portato avanti al Senato non sia vanificato. Abbiamo grande rispetto del giudizio del presidente Grasso, ma riteniamo che, in questo caso, occorra trovare una modalità per recuperare questo provvedimento. Lo hanno chiesto, nel pomeriggio, in Aula, pressoché tutte le forze politiche, anche il rappresentante del Governo ha espressamente ribadito che qualunque decisione è almeno riesaminabile. Quello che il Senato sta discutendo è la conversione in legge di un decreto che nella dicitura parla espressamente “di consentire interventi in favore di popolazioni colpite da calamità naturali” e il sisma del 2012 rientra perfettamente in questa categoria. Non possiamo abbandonare, in nome del regolamento, terre così già tanto provate».