Latest Posts

"Cosa è cambiato e potrebbe cambiare della procreazione assistita", di Margherita De Bac

Diverse centinaia di embrioni sono conservate da oltre dieci anni nei congelatori dei centri di procreazione medicalmente assistita (Pma) e non possono essere più utilizzate per tentare la nascita di un bimbo. Il destino è che restino al freddo per sempre. In Italia è infatti vietato donarli alla ricerca, come invece è previsto in molti Paesi. Una donna, rimasta vedova, non ha voluto accettare quella che ritiene la violazione di un suo diritto. E si è appellata alla Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo hanno fissato l’udienza per il 18 giugno, ore 9,15.
Se il nostro governo fosse condannato il testo che dal febbraio 2004 regola l’attività della Pma potrebbe ricevere l’ennesima, poderosa spallata. Anche la nostra Corte Costituzionale si appresta (8 aprile) a esaminare il carattere di legittimità dello stop alla sperimentazione sugli embrioni in sovrannumero. E non è l’unico attacco alla legge approvata sotto il governo di Berlusconi, subito criticata come oscurantista, «madre» di 79 mila bambini dal 2005 al 2012: due ogni cento nati. Il secondo fronte aperto riguarda le tecniche eterologhe cioè la possibilità di tentare il concepimento in provetta attraverso la donazione di un gamete, ovocita o spermatozoo, appartenente a un donatore (in realtà si tratta di una donazione non gratuita).
La Corte Costituzionale su ricorso dei tribunali di Firenze, Milano e Catania si riunirà l’8 aprile. Mentre non è stata ancora fissata dalla Consulta la data per la discussione sul cosiddetto «accesso alle cure» delle coppie fertili. Oggi ai centri possono rivolgersi solo gli aspiranti genitori con sterilità e non coloro che, a causa di patologie, non riescono a mantenere la gravidanza.
Se anche questi ultimi tre puntelli saltassero la contestatissima «Quaranta», dal numero che porta, risulterebbe completamente stravolta. Nel tempo i suoi assi portanti sono stati sgretolati dalle sentenze di Cassazione e tribunali. Via il divieto di fecondare più di tre ovociti insieme, dunque di creare più di tre embrioni. Via l’obbligo di trasferirli in un’unica soluzione nel grembo della donna per evitare la conservazione sottozero di quelli in sovrannumero. Caduto questo muro i centri hanno ripreso a congelare.
E infine la sentenza del tribunale di Cagliari che nel 2012 ha obbligato un centro pubblico a effettuare la diagnosi preimpianto sugli embrioni, tecnica che permette di individuare la presenza di patologie gravi di cui i genitori sono portatori. Di fatto però questa metodica è quasi del tutto assente dagli ospedali e viene garantita solo dai privati.
Battaglie sostenute dalle associazioni (Cerco un Bimbo,l’Altra Cicogna e Amica Cicogna), in prima fila da Filomena Gallo, segretario della «Luca Coscioni», l’uomo che si è battuto per la libertà di ricerca, oggi l’anniversario della morte: «La legge così come è stata rimodellata rispetta finalmente i diritti della coppia ed è più applicabile. Nel testo del 2004 c’era una volontà di fondo. Non si volevano far nascere bambini e famiglie». Per Andrea Borini, presidente Sifes (Società italiana di fertilità e sterilità, lunedì un convegno a Roma sull’anniversario) «È stata incentivata la fuga all’estero delle nostre coppie che hanno cercato altrove soluzioni qui erano negate».
Però anche i più indefessi nemici riconoscono all’impianto originario alcune norme pregevoli che infatti non sono mai state attaccate. A cominciare dalla creazione presso l’Istituto Superiore di Sanità del Registro nazionale per la procreazione medicalmente assistita, affidato alla dottoressa Giulia Scaravelli, che se ne occupa con grande competenza e passione. Sulla base dei dati analitici comunicati dai 358 centri italiani ogni anno viene inviata al Parlamento una relazione che permette nel dettaglio di avere la fotografia di un’attività definita prima del 2004 da «Far west» proprio perché mancava il controllo. Un po’ per i limiti iniziali della legge un po’ per questo monitoraggio stretto le cliniche della fertilità hanno dovuto puntare sulla qualità e affinare le tecniche. Chi legge le tabelle della Scaravelli e le percentuali di successo capisce chi lavora bene e chi no.
La prossima relazione, relativa al 2012, verrà mandata al ministro della Salute a fine mese. Conterrà risultati in parte sovrapponibili a quelli precedenti. I bambini nati con le varie tecniche sono stati circa 12 mila, numero che si discosta di poco da quello del 2011 e che si presume resterà costante. Aumentata ancora l’età media delle donne, circa 36,7 anni, fattore che riduce la percentuale di successo.
Continuano a calare fortunatamente le gravidanze trigemine, segno di maggiore attenzione nel trasferimento di embrioni e nella stimolazione delle pazienti. Resta vivace il fenomeno della migrazione interregionale legata al divario dell’offerta. Toscana, Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Emilia Romagna sono le mete più battute secondo un rapporto dell’associazione Cittadinanzattiva.

Il Corriere della Sera 20.02.14

"Tanto a pochi e poco a tanti, prof compresi nel poco", di P.A. da La Tecnica della Scuola

Lavoce.info fa il punto sulle retribuzioni nel pubblico impiego, dimostrando, dati alla mano, che in Italia le retribuzioni dei parlamentari, dirigenti ministeriali, diplomatici, e dei giudici della corte costituzionale tendono ad essere ben più alte di quelle dei loro colleghi britannici o tedeschi: agli alti livelli, la pubblica amministrazione italiana è una fonte di notevoli privilegi. E le retribuzioni ai bassi livelli? Basse.
I confronti internazionali, specificano gli espert della Voce.info, non sono facili, perché è spesso complicato trovare due persone con esattamente le stesse qualifiche e le stesse mansioni. La Voce considera due categorie di dipendenti pubblici i cui livelli stipendiali sono quasi perfettamente comparabili in Italia e Gran Bretagna: insegnanti e vigili del fuoco.
Noi riportiamo solo la categoria dei docenti
In Italia la remunerazione dipende solo dall’anzianità. In Gran Bretagna vi sono 6 livelli all’interno della “Main Scale”, e 3 livelli all’interno dell’ “Upper Pay Scale”. Al contrario dell’Italia, il passaggio di livello è condizionato a una valutazione.
Il confronto è fatto esaminando lo stipendio medio tabellare italiano di un insegnante delle scuole primarie (le vecchie “elementari”), di un insegnante laureato delle scuole secondarie, e di un dirigente scolastico (i vecchi “presidi”).
Poi sono state esaminate tutte le spese accessorie e indennità varie, esclusa la “RIA”, la retribuzione individuale di anzianità.
In altra colonna sono indicate le medie corrispondenti per la Gran Bretagna (mentre i dati britannici distinguono tra dirigenti di scuole primarie e secondarie, la distinzione non è disponibile per l’Italia), quindi “In rapporto al Pil procapite” che è più alto in Gran Bretagna.
La conclusione è incontrovertibile: le remunerazioni medie degli insegnanti sono più basse in Italia, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil procapite. La differenza si attenua, e anzi si inverte, nel caso dei dirigenti scolastici: la media in termini assoluti è simile nei due paesi, ma in rapporto al Pil è più alta in Italia.
In una seconda tabella è stato supposto che in Italia un insegnante inizi a lavorare a 24 anni come insegnante di ruolo (ovviamente questo non avviene quasi mai, ma questo fornisce il limite superiore alla carriera di un insegnante italiano, e rafforza le nostre conclusioni).
In Gran Bretagna l’insegnante inizia nella Main Scale al grado M1, ipotizzando tre traiettorie: la linea rossa (“solo main scale”) assume che l’insegnante progredisca dal grado M1 al grado M6 della Main Scale in 20 anni e lì si fermi; la line arancione (“main and upper scale”) assume che l’insegnante progredisca fino al Grado M6 della Main Scale dopo 10 anni e poi continui fino al grado U3 dell’Upper Scale; la linea blu (“progressione regolare”) assume che l’ insegnante progredisca dal grado M1 al grado U3 a intervalli di lunghezza uniforme. In tutti i casi si è assunto che l’ insegnante vada in pensione a 65 anni.
Come si vede, la traiettoria italiana è sempre sotto quella britannica.
CONCLUSIONI
Da precedenti lavori pubblicati in questa serie di articoli si può concludere, scrive Lavoce.info, attendibilmente che i dirigenti pubblici italiani sono ben pagati e, nei casi che abbiamo studiato, più dei loro colleghi britannici o tedeschi.
Ai livelli più bassi dell’amministrazione pubblica, invece, l’evidenza empirica (anche qui nei due casi che abbiamo studiato) suggerisce l’opposto: i dipendenti pubblici italiani sono meno pagati dei loro pari grado britannici. La differenza, nel caso della scuola, si attenua e si inverte a livello di dirigenti scolastici.
Una parte di questo differenziale potrebbe essere spiegata con il fatto che gli insegnati britannici, al contrario di quelli italiani, sono sottoposti a valutazione e hanno un orario contrattuale maggiore. Ma, anche tenendo conto di questi fattori, riteniamo che la conclusione principale sia incontrovertibile: mentre ai livelli alti della pubblica amministrazione i dirigenti italiani sono pagati più dei loro colleghi britannici, ai livelli più bassi non c’è alcuna evidenza di una sproporzione significativa. Al contrario vi è qualche evidenza che i dipendenti della statali italiani siano pagati meno dei loro colleghi britannici.

La Tecnica della Scuola 20.02.14

"Una patrimoniale per avvicinare le due Italie", di Nicola Cacace

«Siamo pronti a sostenere Renzi se avrà il coraggio di sfidare la rendita», ha scritto Bonanni della Cisl su l’Unità del 18 febbraio. «Se facessi una patrimoniale da 40 miliardi andrebbe bene?», ha detto Fabrizio Barca al finto Vendola. Non sono voci dal sen fuggite ma affermazioni che rimettono alla ribalta il dramma delle due Italie, quella dei poveri e quella dei ricchi.
Bankitalia ci ricorda da anni che l’Italia ha una ricchezza privata di 9mila miliardi, 6 volte il Pil, elevata ma concentrata in poche mani, il 10% ne possiede il 46%, quasi 2 milioni di euro a famiglia, E c’è in fondo il blocco dei poveri, l’ultimo 50% delle famiglie, che possiede il 9%, meno di 60mila euro a famiglia.
Da queste parti, se si perde il lavoro, si sopravvive qualche mese con i risparmi di una vita, poi dopo è la fine. Malgrado la grave crisi in atto da anni, nessuno degli ultimi governi, Berlusconi, Monti e, spiace dirlo neanche Letta, ha mai preso in considerazione, nei provvedimenti, l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze. Perché, di fronte ad un Paese sempre più spaccato, ad un debito pubblico crescente e ad una tagliola, il Fiscal Compact che ci imporrà presto di ridurlo di alcune decine di miliardi l’anno, ad una ricchezza privata consistente di 2,4 milioni di famiglie, nessun governo ha avuto il coraggio di rivolgersi a questi privilegiati e chiedere loro un contributo straordinario per recuperare risorse e rimettere in moto il Paese? Eppure, da anni, proposte per un contributo patrimoniale straordinario, sono state avanzate, oltre che da sinistra, da autorevoli borghesi come il banchiere cattolico Pellegrino Capaldo, il presidente Bnl Luigi Abete, il presidente di Nomisma Pietro Modiano, Carlo De Benedetti, Vito Gamberale . Perché, per iniziare a salvare il Paese, non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che posseggono 4mila miliardi di patrimonio netto?
Monti aveva obiettato che non ci sono dati certi ma non è vero, c’è il catasto per gli immobili e c’è la banca dati della Finanza per i beni mobili. Un contributo straordinario dello 0,5% del patrimonio del 10% delle famiglie più ricche, da 2 milioni di patrimonio in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una media di 8mila euro a ciascuna delle famiglie più brave e fortunate. Nessuno fallirebbe, qualcuno si avvicinerebbe al Paradiso, l’Italia avrebbe qualche possibilità di uscire dal buco nero della crisi.

L’Unità 20.02.14

"Università, immatricolazioni in calo costante: in tre anni 30mila in meno", da repubblica.it

I dati del ministero confermano la tendenza. In un decennio il numero di coloro che decidono di proseguire gli studi dopo il diploma è diminuito di oltre 78mila unità. Pesa la crisi economica, ma anche la sfiducia nell’utilità della laurea. Trentamila immatricolati in meno in appena un triennio e oltre 78mila in meno in dieci anni. Ecco il bollettino di guerra reso noto dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca. I giovani italiani, e forse anche le loro famiglie, non sembrano più credere nell’università. E il numero di coloro che dopo il diploma decidono di continuare gli studi nel nostro Paese si sta assottigliando pericolosamente. A confermare la fuga gli ultimi dati sulle new entry nel sistema universitario italiano relativi all’anno accademico 2013/2014, appena pubblicati.

Anche se mancano ancora all’appello una manciata di atenei – alcuni dei quali telematici – il mezzo disastro certificato dai numeri è una realtà. Quest’anno, i giovani che sono entrati per la prima volta all’università sono appena 260.245, il 3,4 per cento in meno rispetto a dodici mesi fa, quando gli immatricolati sfiorarono i 270mila. Un calo che difficilmente potrà essere colmato dai nuovi ingressi degli atenei che non hanno ancora comunicato i propri iscritti – che tutti assieme fanno registrare circa 2mila e 600 iscritti all’anno.

Soltanto tre anni fa – nel 2010/2011 – gli immatricolati furono quasi 290mila. Nello stesso periodo i diplomati, stando ai dati forniti da viale Trastevere – sono aumentati. Che cosa hanno fatto i 30mila immatricolati in meno? Per spiegare i motivi di un trend che sembra difficile da invertire occorrerebbe indagare a fondo. Anche perché dall’Europa ci pressano per incrementare il numero dei laureati, considerati strategici per tentare di agganciare una ripresa economica che si gioca tutta sull’innovazione.

Dieci anni fa – nel 2003/2004 – gli immatricolati superarono abbondantemente le 300mila unità, attestandosi a quota 338mila e 500. Nonostante la riforma del 3 più 2, in un decennio se ne sono volatilizzati 78mila: il 23 per cento del totale. Nello stesso periodo, le tasse universitarie si sono incrementate maledettamente, il numero chiuso è stato esteso – oltre che ai corsi a numero programmato a livello nazionale (Medicina, Odontoiatria, veterinaria, Architettura e alle Professioni sanitarie) – anche a oltre metà di tutti gli altri corsi di laurea. E anche le borse di studio per gli studenti meno abbienti si sono ridotte.

Nel frattempo, la crisi economica e la disoccupazione galoppante hanno messo in ginocchio migliaia di famiglie italiane che, forse, non possono più permettersi il lusso di un figlio all’università. A denunciare il numero crescente di abbandoni per ragioni economiche all’università di Bologna, qualche giorno fa è stata Dolores Neri, garante degli studenti dell’ateneo bolognese. Anche il rettore Ivano Dionigi si è detto preoccupato. “Ricevo tante lettere – ha dichiarato – di chi non ce la fa, mail di studenti o di famiglie che mi rappresentano drammatici casi sociali”.

E la Bicocca di Milano, per scongiurare l’emorragia di iscritti e la dispersione, coccola i genitori. Dopodomani, l’ateneo milanese accoglierà i genitori. “È inutile negarlo. I genitori – spiegano dalla Bicocca – alla scelta dell’università partecipano eccome. Spesso in conflitto con i figli o sostituendosi a essi, con effetti che possono essere anche negativi”. Ecco perché l’ateneo “ha ideato e lanciato un appuntamento dedicato proprio ai genitori per aiutarli a capire qual sia il modo più adeguato per sostenere i figli quando la questione è “iscriversi all’università”.

da repubblica.it

"3% Quel numero-feticcio che governa le nostre vite", di Federico Rampini

Siamo vittime del feticismo dei numeri e non ne conosciamo la ragione. Chi sa dire perché siamo soggetti all’implacabile vincolo del 3%, soglia massima nel rapporto deficit/ Pil? L’Italia con Matteo Renzi a Palazzo Chigi vorrà sondare i margini di flessibilità concessi da Bruxelles, rispetto a quel numero magico e crudele. Ma la validità originaria del 3% viene raramente rimessa in discussione. In Europa, s’intende: perché negli Stati Uniti la “dottrina 3%” è stata ignorata da Barack Obama, poi pubblicamente ripudiata perfino dal Fondo monetario internazionale.
La storia di quel numero “scolpito nella pietra” è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l’omonimo Trattato, fondamento per l’unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l’autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per “un’area monetaria ottimale”. In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l’accesso all’euro: inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre paesi con il tasso d’inflazione più basso; deficit statale non superiore al 3% del Pil; debito pubblico non superiore al 60% del Pil; stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria; tassi d’interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre paesi dai tassi più bassi.
Di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito (neppure la Germania lo rispetta). Altri hanno perso rilevanza con la creazione dell’euro: i tassi d’interesse e la parità di cambio li decide la Bce a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. E’ rimasta in piedi la dittatura del 3%, il rapporto deficit/Pil è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d’infrazione, trasformare un paese in vigilato speciale, e così lanciare segnali d’allarme ai mercati. Fino a quando, con severe terapie di austerity, il reprobo non rientra nei ranghi. Il 3% è diventato l’unico sacro comandamento nella religione dell’austerity.
Eppure i dubbi su quella cifra furono forti dall’inizio. Uno dei più autorevoli venne dal grande economista italiano Luigi Pasinetti. In un importante saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics, nel 1998 (un anno prima della nascita dell’euro) Pasinetti attaccò duramente “mito e follìa del 3%”. Non ci andava leggero, parlando di «regno del simbolismo», a proposito di una soglia deficit/ Pil «la cui validità non è mai stata dimostrata». I giudizi di Pasinetti erano implacabili: «Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile, sul perché quelle cifre furono scelte». Per il 60% di debito/Pil la spiegazione sembrava essere banale: grosso modo era la media europea (e in particolare franco-tedesca) ai tempi in cui veniva negoziato il Trattato di Maastricht. Anche se di lì a poco la riunificazione delle due Germanie avrebbe fatto sballare il rapporto debito/ Pil tedesco… e quella cifra anziché “magica” divenne poco rilevante, fu interpretata subito con tanta flessibilità.
Un tentativo molto più recente di dare fondamento scientifico a quelle cifre, è finito in un clamoroso infortunio: due grandi economisti americani, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt, hanno dovuto ammettere di avere sbagliato calcoli elementari, omesso statistiche importanti, in un loro studio che doveva dimostrare il nesso tra crescita e rigore di bilancio. Anche in seguito a quell’incidente, il Fondo monetario ha preso le distanze dall’austerity.
Ma il dibattito non è teorico. La confutazione del dogma è avvenuta nei fatti. Negli Stati Uniti, tanto per cominciare. Nell’abisso della recessione del 2009, non appena arrivato alla Casa Bianca Barack Obama varò una maximanovra di investimenti pubblici. Riscoprì il verbo keynesiano, l’insegnamento appreso dall’Occidente nella Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo biennio della presidenza Obama il deficit/Pil schizzò fino a sfiorare il 12%, il quadruplo del limite ammesso dall’“euro-religione” dell’austerity. E la cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare: grazie alla ripresa (+3% del Pil, più 8 milioni di posti di lavoro), non all’austerity. Stati come la California, città come New York, sono addirittura alle prese con un dilemma positivo: come usare l’improvviso attivo di bilancio, generato non dai tagli bensì dall’economia che cresce e gonfia le entrate fiscali. In modo simile ha reagito il Giappone, si sta risollevando dalla crisi proprio perché ha fatto l’esatto contrario di quel che prescrive la religione del 3%. In quanto agli esempi di “successi” conseguiti dalla terapia europea, di recente si cita l’Irlanda come il caso di una ammalata che si riprende dopo avere applicato disciplinatamente l’austerity. Ma la pseudo- rinascita irlandese è in parte un’illusione statistica: il mercato del lavoro sembra in migliori condizioni perché una consistente quota della popolazione attiva ha ripreso la strada dell’emigrazione (verso Stati Uniti, Canada, Australia) come nel primo Novecento.
In Italia la religione del 3% ha avuto tanti sostenitori in buona fede, per un’altra ragione. Applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico, per impedirci di praticare vizi nazionali distruttivi: spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione. Ma il dogma del 3% impedisce un altro tipo di risanamento: che passa attraverso una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro, onde restituire potere d’acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita.

******

“COSÌ UNO STATO PUÒ FINIRE SOTTO ATTACCO”, di ETTORE LIVINI
«Il rapporto deficit/pil al 3% non è un dogma. E’ un limite messo anni fa in condizioni economiche e politiche diverse che può essere ragionevolmente rivisto a patto che l’Italia faccia le riforme in grado di stimolare la crescita in modo strutturale. Anche l’economia deve imparare a muoversi con buon senso!». Guido Maria Brera può dirlo con cognizione di causa. Cofondatore del gruppo Kairos (società di gestione patrimoniale), dopo 20 anni tra bond, azioni e derivati ha deciso di raccontare in un romanzo appena uscito per Rizzoli –
I diavoli – i segreti e i misteri degli uomini che muovono ogni giorno migliaia di miliardi sui listini globali. I burattinai di una finanza «che ha assunto un ruolo biopolitico» – come dice lui – «perché incide ormai direttamente sulla carne delle persone». E lo fa giocando sull’adorazione di alcuni totem: il 3%, i rating e gli spread.
Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto Brera?
«Per un motivo semplice: perché abbiamo deciso di regolare tutto tranne la finanza. Non so se ci sia stato un progetto disegnato a tavolino o meno. Di sicuro oggi ne paghiamo le conseguenze. Negli anni ’90 questo mondo era più focalizzato sulle azioni, quindi sul mondo delle aziende quotate. Ora – grazie a strumenti speculativi sempre più sofisticati che consentono di fare soldi con i soldi – la finanza è diventata
più sistemica fino a speculare sui titoli di stato. E a rischiare di saltare sono interi paesi».
Quando, dopo magari un rialzo dello spread o una revisione di rating, una valuta o un paese si trova sotto attacco, i complottisti dicono che dietro tutto questo c’è una regia. È vero?
«Non so se è un progetto disegnato a tavolino. Di sicuro la turbo-finanza si muove con metodo. Non ha simpatie o antipatie. Cerca occasioni d’investimento, le analizza in modo cinico e obiettivo e alla fine decide di illuminarle con un faro».
E chi lo accende? Una Spectre ai vertici delle banche d’affari, la Trilaterale, il Bilderberg?
«Direi un’elite economica e politica che ha interesse a mostrare una cosa piuttosto che un’altra, a seconda della sua convenienza. Il problema è che al mondo ci sono troppi soldi e che questi soldi devono andare da qualche parte. Se a Tokio battono all’asta un tonno per 1,2 milioni, il problema non è il prezzo del tonno, ma il valore che diamo al denaro. Se la finanza non si fa un’esame di coscienza, rischiamo di andare incontro ad una continua polarizzazione dei redditi con effetti negativi sulla vita di tutti».
In che senso?
«La speculazione così spinta è diventato uno strumento anti-distributivo. Ha mutato la piramide sociale assottigliando drammaticamente la classe media».
Facendo spuntare invece soggetti come il protagonista di
The Wolf of Wall Street…
«Quello è un personaggio datato, figlio di una finanza che non c’è più. Il potere di questo mondo un po’ misterioso è ora più immanente e sistemico. È diventato un “blob” senza volto dove è molto meglio non apparire che apparire. E rischia di travolgere tutto».
Siamo ancora in tempo per fermarlo?
«Spero di sì. I cambiamenti devono arrivare per forza o per amore. E io spero che in questo caso succeda tutto per amore. Dobbiamo regolamentare il mercato dei derivati, separare l’attività commerciale delle banche da quella speculativa, togliere norme dall’economia reale e metterne di più su quella di carta».
Non le pare impossibile? Le grandi banche d’affari ormai muovono molti più soldi degli stati. Non crede sia difficile rimettere loro le briglie?
«Uso una frase di Ezio Tarantelli: “l’utopia dei deboli è la paura dei forti” ».

******

“PERCHÉ LA MENTE HA BISOGNO DI CIFRE-LIMITE”, di PAOLO LEGRENZI
Il dibattito contemporaneo usa il concetto di “soglia”. Si è detto: «Accordo sulla legge elettorale: soglia al 37% per il premio di maggioranza». Qui la soglia è un limite da superare: il 37% dei voti. Ma si è anche detto, parlando delle condizioni economiche del paese: «L’Europa ci punisce per aver sforato la soglia del 3% (del rapporto deficit/Pil fissato dai parametri di Maastricht)». Nelle discussioni sulla legge elettorale e in quelle economiche, la parola “soglia” è la stessa. Purtroppo dietro ci stanno due concetti ben diversi. Nel primo caso, “soglia” indica un limite da raggiungere. Per esempio, una persona: devo pesare 55 chili! Ma la stessa persona può fare un calcolo diverso, più complicato: «Siccome sono alta 165 centimetri, devo pesare un terzo della mia altezza, cioè 55 chili». Qui non si tratta di un limite, come nel caso della soglia elettorale, ma di un rapporto che fissa un criterio in funzione di un obiettivo.
Il senso del rapporto (che è poi una frazione, in aritmetica) e la sua definizione devono essere chiari. Si vede a occhio che, se il peso è 1/3 dell’altezza, si “sta meglio”. E tuttavia, in questi casi, il linguaggio quotidiano non usa mai la parola “soglia” e qui è l’origine della difficoltà di comprensione del criterio di Maastricht. Almeno per i non addetti ai lavori. Già a buon senso uno penserebbe, alla luce dei suoi bilanci personali, che non si dovrebbe spendere più di quel che s’incassa. Ma, se si accetta l’idea che si può essere in deficit, perché proprio il 3%?In fondo cambiare dello 0,1% o dello 0,2% può fare una bella differenza con cifre tanto grosse.
Eppure una buona soglia stabilita dagli uomini non può essere il 3,1%. Il fatidico 3% non è stabilito dalla teoria economica come il 3,14 in geometria (il rapporto tra diametro e circonferenza di un cerchio). La spiegazione della scelta del 3% è nella mente degli uomini. Noi preferiamo le cifre tonde, semplici, quando dobbiamo porci un obiettivo sacro e inviolabile. Tanto vero che possiamo dire “quasi il 3%”, ma non “quasi il 2,7%”. Il test del “quasi” mostra quali sono i “buoni” sistemi di riferimento, quelli intuitivi, come dei paracarri che segnano i punti cruciali sulla strada dei numeri.
La confusione tra la soglia come limite e la soglia come rapporto segnala storia dell’astronomia e le origini della psicologia sperimentale. Nell’inverno del 1796, nell’osservatorio di Greenwich, Kinnebrook, assistente dell’astronomo reale, registra il passaggio degli astri in cielo. Un compito cruciale: quelle osservazioni servono per tracciare le rotte marittime e l’impero dipende da tali rotte. L’astronomo reale, Lord Maskelyne, s’accorge che le rilevazioni dell’assistente divergono di “quasi un secondo” dalle sue. “Quasi un secondo”, come dice lui, è troppo (in realtà erano 0,8 secondi). Kinnebrook è licenziato e, poco dopo, muore. Ma nel 1822 l’astronomo Bessel raccoglie i dati di molti osservatori tedeschi e li confronta. Scopre che la soglia di errore è un rapporto che varia in funzione delle condizioni di osservazione (luminosità del cielo, per esempio) e delle capacità del misuratore (doti, addestramento). Insomma, anche in questo caso non c’era un limite fisso, invalicabile, che giustificasse la punizione di Kinnebrook, come quella dell’Italia se supera il 3%. Si trattava di un rapporto variabile, in funzione delle circostanze.
Purtroppo il primo modo di pensare era intuitivo, anche se sbagliato. Il secondo era corretto, ma più complicato da capire.

La Repubblica 20.02.14

"L’azzeramento della politica va in onda con lo streaming", di Sebastiano Messina

Diceva la verità Beppe Grillo quando ha gridato in faccia a Matteo Renzi «io non sono democratico!». Non solo perché non lo ha lasciato parlare neanche per un minuto — e stavolta non è un modo di dire — ma perché con il suo comiziaccio in streaming ha beffato, più del presidente incaricato, quella maggioranza dei Cinquestelle che nel referendum-lampo del giorno prima gli aveva chiesto di andare alle consultazioni.
Non per rovesciare una valanga di insulti su Renzi ma per sentire cosa ha in mente, e magari per proporgli qualcosa di buono da fare.
Ancor prima della maleducazione istituzionale di un ricco attor comico che non è mai stato eletto da nessuno ed entra a Montecitorio con la prepotenza arrogante di un invasato solo per poter urlare in faccia al futuro premier «non ti faccio parlare perché tu non sei credibile», colpiva l’assoluta indifferenza del guru pentastellato rispetto al mandato che lui stesso aveva chiesto all’unica autorità che dice di riconoscere, «la Rete». Lui non voleva andarci, a quelle che ha definito «consultazioni farsa». I suoi iscritti, i suoi militanti hanno invece deciso che stavolta bisognava andare a sentire cosa proponeva Renzi, e lui c’è andato, sì, ma solo per tirargli una torta in faccia, avvertendo con tono sprezzante che non era venuto «per parlare di programmi». E anche se stavolta ha evitato il turpiloquio, quei dieci minuti di quasimonologo soverchiatore forse fidelizzeranno ancora di più lo zoccolo duro del Vaffaday, ma erano un gigantesco «vaffa» a quei milioni di italiani che hanno votato per lui non perché andasse a insolentire un politico che nell’aula di Montecitorio non ha mai messo piede, ma perché cercasse di realizzare almeno qualcuna delle mille meravigliose novità che ha promesso ai suoi elettori.
Detto questo, il vero mistero è cosa abbia spinto Matteo Renzi a cadere in questa trappola mediatica. Lui ha puntato tutto sul sorriso e sull’amabilità, «io compravo i biglietti dei tuoi show», ma ha capito troppo tardi di essere ostaggio di un teppista istituzionale ed è rimasto fino all’ultimo nella parte del politico dialogante, che sa essere più zen del suo predecessore (il quale dialogò per 52 minuti con i grillini, e li disarmò con la sua dolce ironia). In quei dieci lunghissimi minuti è apparso un leader in difficoltà, che non sapeva proprio come cavarsi d’impaccio. Eppure era stato proprio lui, dopo il disastroso colloquio in streaming di Bersani con i Cinquestelle, a commentare in un’intervista al
Corriere:
«Mi veniva da dire: Pierluigi, sei il leader del Pd, non farti umiliare così». L’errore di Renzi non è stato quello di parlare con Grillo, perché è giusto e opportuno che un presidente incaricato ascolti tutti, anche
quelli che mai voteranno per lui, ma nessuno lo obbligava ad ascoltare per dieci minuti buoni — non dieci minuti parlamentari ma dieci minuti televisivi che sono un’eternità — un Grillo che lo interrompe dopo trenta secondi, appena lui ha cominciato a dire «vi
raccontiamo quello che vogliamo fare». E soprattutto un presidente del Consiglio, per quanto ancora solo incaricato, non dovrebbe permettere a nessuno di dirgli, in casa propria, «ti do solo un minuto», non dovrebbe essere costretto a chiedere «almeno un
minuto me lo devi dare», e quando il suo interlocutore ha l’arroganza di rispondergli «no, non te lo do, io non sono democratico e non ti faccio parlare, non ho tempo per te» forse dovrebbe alzarsi e pregare i commessi, sempre sorridendo e sempre amabilmente, di accompagnare alla porta chi si permette una simile tracotanza.
Il duello politico l’ha perso Grillo, ma quello mediatico non l’ha certo vinto Renzi, che forse non si aspettava un simile attacco frontale ed è riuscito a infilare nel torrenziale comizio dell’ospite solo una frecciatina, «Beppe, questo non è il trailer del tuo show, forse sei in difficoltà con la prevendita», ma qui ha commesso l’errore fatale: mai discutere con un comico, ti trascina al suo livello e poi ti batte con l’esperienza.
La verità è che lo streaming preteso e purtroppo ottenuto anche stavolta dai grillini non è la trasparenza della democrazia ma
l’azzeramento della politica. È trasparente come una vetrina dell’insulto e della finzione, una porta a vetri attraverso la quale chi dichiara apertamente «io non sono democratico » può far passare non la voce del popolo ma la sua dinamite mediatica. La trasparenza è di sicuro una ricchezza preziosa per il Parlamento e per i partiti, ma lo streaming applicato alle consultazioni, alle trattative e ai colloqui di Stato — come sa bene Grillo che non lo ha mai permesso quando doveva affrontare le questioni più spinose con i suoi parlamentari — è l’esatto opposto della limpidezza: appena si accende la luce rossa della telecamera il velo dell’opacità avvolge ogni cosa reale e ognuno dei protagonisti finge di essere quello che non è, e magari dice quello che non pensa, non per dialogare con chi gli sta davanti ma per incantare chi sta là fuori, davanti alla tv. E allora le consultazioni diventano co-insultazioni e l’unica cosa trasparente è l’imbroglio dello streaming.

La Repubblica 20.02.14

All’estero l’Italia resta un rischio", di Gianni Riotta

Nella sala riunioni di un istituto internazionale che valuta i «rischi-paese» per le aziende globali che investono all’estero, a New York, si è esaminata 48 ore fa la situazione italiana dopo la staffetta Letta-Renzi. Prima di dirvi qual è stato il giudizio finale degli studiosi sulla nostra nazione, voglio raccontarvi di che cosa «non» hanno parlato gli analisti.

Il look di «Matteo», il chiodo, le camicie bianche, il tifo per la «Fiore», lo streaming con Grillo, andare in giro senza scorta, il gossip popolare, il petulante Totoministri, non sono stati citati. Sia governata da un maturo economista come Monti, un tecnocrate come Letta o un giovane ex sindaco come Renzi, l’Italia non impressiona mercati e cancellerie per l’anagrafe o le personalità. I dati che passavano crudi sono Pil, disoccupazione, produttività, tempi della giustizia, mercato del lavoro vischioso, corruzione, burocrazia, tasse elevate, debito pubblico, scuola e ricerca dietro la media europea, Sud, digital gap, frammentazione politica in Parlamento.

È un gran bene che, con Matteo Renzi, una nuova generazione prenda il potere in Italia. Si devono assumere decisioni che condizioneranno la vita dei nati dopo il 1975, ed è opportuno che lo faccia chi ne subirà le conseguenze. Il nostro paese è avvitato a favore degli anziani contro i ragazzi, degli occupati contro chi non ha un lavoro, di chi ha connessioni personali, familiari, di lobby, politica o professione con la classe dirigente contro chi invece è un outsider senza raccomandazioni. Che queste ingiustizie vengano corrette, che il paese sia leale, con regole e senza trucchi, è auspicabile.

Renzi ha rotto due tabù a sinistra. Non crede che la Repubblica si fondi su «Viva o Abbasso» Berlusconi («niente viva, niente abbasso» dice un bellissimo racconto di Elio Vittorini), non considera gli elettori del centrodestra marchiati dalle loro idee, anzi li invita apertamente a unirsi nelle urne al centro sinistra, da pari a pari. E non segue, né nei modi, né nel linguaggio, lo stantio galateo dei mandarini da talk show. I suoi comizi sono performances, battute, scherzi, il pubblico, spesso composto da suoi coetanei, ride divertito. Le due novità, frutto della cultura e della storia di Renzi, lo hanno fatto molto criticare, ma alla fine gli hanno consegnato la guida di un Pd smarrito e incerto. Renzi è il primo leader di una sinistra post-berlusconiana, con nuove visioni e idiosincrasie.

Ma l’intera avventura politica di Matteo Renzi si arenerà se lui stesso, o il suo staff, dal raziocinante Del Rio, al blogger Sensi, alla cerebrale Boschi, finiranno per credere alla loro propaganda: che cioè basti non balbettare nell’antico politichese da «militanti severi» della ballata di Guccini, per creare lavoro e far crescere il Pil. I guai italiani, i numeri dell’economia, se ne infischiano della data di nascita del premier, di camicie, «Chi?» e parlantina. Sono scomodi, irriducibili. Ridicole gaffes come denunciare le agenzie di rating perché non considerano il nostro patrimonio culturale ci fan ridere dietro, sembriamo la vecchia aristocratica di La Grande Bellezzadi Sorrentino, che rimpiange la nobile culla dove riposava da bambina, ora diventata esca per turisti chiassosi. Il mondo giudicherà Renzi dalle riforme. Quelle che Thatcher e Blair, Reagan e Clinton, Schroeder e Merkel, leader conservatori e progressisti, hanno creato e difeso nei loro paesi. Non da altro.

Le riforme economiche sono invocate dagli esperti, ma alla prova dei fatti gli italiani arretrano davanti al salto, esausti per la crisi e le tasse, nostalgici per gli anni dorati del boom. Grillo e i suoi paladini danno la colpa della paralisi economica alla «Politica», autoassolvendo così cittadini e ordini professionali, manager e sindacalisti, imprese e burocrazie, clan accademici e intellettuali, la ragnatela dello status quo che detesta meritocrazia, trasparenza, impegno. Renzi non troverà applausi quando dovrà chiedere ai cittadini di lavorare, o studiare, più e meglio, tagliare la spesa, ridurre i sussidi a imprese, enti, istituzioni, evitare gli sprechi. Dovrà vivere di maggioranze precarie, prendere posizioni impopolari, con la forza del riformista che mai Berlusconi ha voluto impugnare.

Non sarà una passeggiata, slalom allegro tra tweet e blog, non ce la caveremo con battute toscane, sorrisi accattivanti. Servono sudore e lavoro, strategia, impegno, studi, tenacia, coraggio. I partner europei ci daranno una mano sul benedetto 3%, a patto di vedere che siamo seri nella ricostruzione economica, come Spagna e Grecia, più della malmostosa Francia. Ma sconti non ne faranno. Gli investitori internazionali torneranno se l’Italia sarà trasparente e non corrotta, altrimenti se ne andranno altrove, incuranti dei picchetti in strada e dei tanti editoriali di casa nostra contro Wall Street.

Come se non bastasse servirà che l’Italia dica la sua a testa alta sull’India e l’intollerabile vicenda dei sottufficiali detenuti, che parli sulle violenze in Ucraina e Venezuela, che sia protagonista sulla trattativa in Siria e Iran, insomma ritorni paese degno del suo nome.

Renzi non cambi condotta e personalità, anche volendo non potrebbe. Ma prenda atto, con il suo governo, che non va in gita scolastica, corre una maratona defatigante. Gli analisti del think tank americano non hanno dato un parere favorevole al nostro paese, «Manca in Parlamento una maggioranza per le riforme economiche, dopo Monti e Letta anche Renzi fallirà». Lo stallo tra Pd, Berlusconi e Grillo è visto come cronico, l’outlook, la previsione per noi, non è positiva. Tocca adesso a Renzi dar loro torto: ha dimostrato di amare il rischio come candidato, continui a rischiare da leader. Si esponga sulle riforme e parli chiaro – come sa fare – all’opinione pubblica. Si stupirà, e con lui gli analisti Usa, di quante persone serie e perbene, capaci di scommettere nel futuro, ci siano in Italia, nate tra il 1975 e il 2000 ma anche più indietro, fino agli Anni Venti del secolo scorso. Se non azzarda, è perduto.

La Stampa 20.02.14