presso circolo La Bastia
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"Ma il paese rimane lontano dalla scienza", di Piero Bianucci
Nei giorni accelerati che vedono Matteo Renzi alle prese con la sua lista dei ministri, la parola scienza si è sentita poco. In questo non c’è differenza rispetto al passato. Anche il Parlamento che dovrà decidere se dargli la fiducia è culturalmente lontano dalla scienza. Qualche settimana fa Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei, in un articolo per «il Sole-24 ore» ha esaminato le competenze presenti nella Camera dei Deputati, ammesso che i titoli di studio valgano qualcosa. Su 630 parlamentari i laureati sono il 68% e di questi il 78% ha una formazione umanistica con predominanza della laurea in Giurisprudenza. Tra i 96 deputati di formazione scientifica prevale la laurea in Ingegneria (34), seguita da Medicina (20) e poi, con numeri via via più piccoli, da Architettura, Chimica, Fisica, Informatica, Scienze agrarie, Farmacia, Veterinaria, Biotecnologie. In Senato tra i medici spicca Scilipoti, che si batte per l’agopuntura.
Registriamo questa situazione in un’epoca caratterizzata da due aspetti importanti: da un lato, intrecci sempre più stretti tra scienza e politica (pensiamo a ricerca e rilancio economico, ogm, energia, ambiente, testamento biologico), e dall’altro lato cittadini che, grazie a Internet e social network, tendono sempre di più a formarsi opinioni autonome dalla comunità scientifica e a imporre alla politica le scelte che ne derivano (no agli ogm, no alla sperimentazione animale, sì a Stamina ,sì alle medicine alternative).
E’ bene avere in mente queste cose sfogliando l’Annuario Scienza, Tecnologia e Società 2014 a cura di Massimiano Bucchi e Barbara Saracino appena pubblicato (il Mulino). Tra i tanti dati che riporta troviamo quelli sulle conoscenze scientifiche degli italiani e sulla loro scala di priorità in tema di ricerca. Secondo l’Annuario, la preparazione scientifica media migliora: nel 2007 solo 50 italiani su 100 sapevano che il Sole non è un pianeta, nel 2013 sono diventati 60 (!). Quanto alle priorità, 54 cittadini su 100 mettono al primo posto le energie rinnovabili, soltanto 2,8 nuovi prodotti chimici.
Sembra che la gerarchia delle priorità sia determinata, più che da conoscenze scientifiche, da talk show televisivi e social network, altrimenti sapremmo che la nostra vita dipende in gran parte dalla chimica: farmaci, materiali, prodotti per l’agricoltura, e l’energia stessa, rinnovabile e non. Si delinea quindi un cortocircuito: cittadini scientificamente autodidatti che eleggono una classe politica poco rappresentativa della cultura scientifica. Classe politica, peraltro, nella quale solo 3,5 cittadini su 100 vedono un interlocutore credibile.
Bisogna aggiungere che nella scienza è in atto una crisi di crescita che si traduce in crisi di autorevolezza. Nel 2012 gli articoli scientifici sono stati 1,8 milioni. Sarà tutto oro colato? No. Nel Regno Unito ha sollevato il problema «The Economist». Il succo è che dovremmo diffidare. Un articolo privo di ogni base firmato da un falso professore di una università inesistente, sottoposto a 304 riviste con peer review, è stato accettato da 157 riviste. Talvolta anche «Nature» e «Science» privilegiano le ricerche che fanno notizia – cioè che verranno rilanciate dai giornali – a prescindere dal loro effettivo valore. I principi stessi del metodo scientifico sembrano disattesi da ricercatori costretti a pubblicare risultati interessanti a tutti i costi, pena la perdita dei finanziamenti. Il cerchio si chiude ricordando che di solito è più facile ottenere fondi per le ricerche capaci di conquistare la vetrina della tv e dei giornali.
Se non altro per motivi di quantità e per il proliferare delle pubblicazioni online, valutare i risultati scientifici diventa sempre più difficile. Se poi le priorità della ricerca vengono decise da politici incompetenti sotto la pressione di cittadini autodidatti, c’è di che preoccuparsi della mutazione in atto. E’ probabile che il comune cittadino pensi alla scienza confondendola con tecnologie immediatamente utili (energie rinnovabili, appunto, o smartphone). Ma la scienza vera ha come fine primario la conoscenza pura, ed è di qui che vengono poi anche le applicazioni utili. Secondo l’Annuario, solo 1,5 italiani su 100 attribuiscono priorità alla ricerca spaziale, e la fisica non è neppure stata indagata. Attenzione: la scienza ha sempre fatto i suoi progressi più importanti guidata non dalle applicazioni, ma dalla curiosità.
La Stampa 19.02.14
Artigiani e commercianti «Spremuti come limoni»,di Andrea Bonzi
Ci sono i commercianti veneziani che sono arrivati indossando cappellini con orecchie d’asino, perché «Siamo stanchi di fare i muli». Ci sono i loro colleghi padovani, che sfilano compatti al grido di «Basta tasse» in un corteo aperto dallo striscione «Indignados», con in mano cartelli del tipo «Banche, ci avete rotto il tasso» e «Siamo alla derIva». E ancora, gli artigiani con al collo un grido d’aiuto scritto a pennarello («Sono qui per non chiudere») e i piccoli imprenditori modenesi, che sottolineano: «Il terremoto non ha fermato l’Emilia, la burocrazia sì».
UNA PIAZZA INEDITA
Sono solo alcuni tra le decine di migliaia di volti che ieri hanno invaso pacificamente piazza del Popolo a Ro- ma, per la prima grande manifestazione dei Rete Imprese Italia, l’associazione che riunisce Casa Artigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti. «Siamo più di sessantamila», esultano gli organizzatori. Un conteggio sicuramente non distante dalla realtà: la piazza e le vie adiacenti sono totalmente coperte da bandiere bianche, blu e verdi, appartenenti alle varie sigle.
Fischietti, trombette da stadio e tamburi improvvisati su bidoni di latta contribuiscono ad aumentare il rumore della protesta. Tantissime le presenze dal Nord-est, meno nutrite le delegazioni del Sud. Tra idraulici e carrozzieri, muratori, ristoratori, pavimentatori, spiccano i gestori balneari aderenti al sindacato italiano Sib: dicono di essere calati a Roma in 5.000.
«Avete fatto un vero miracolo – esordisce dal palco il presidente di Casa Artigiani, Giacomo Basso – da oggi piazza del Popolo diventa la piazza del popolo degli imprenditori italiani. Se la ricorderanno tutti». Era più vent’anni che non c’era una tale mobilitazione, dall’epoca della minimum tax (ottobre 1993), ricordano gli organizzatori. «Vale più un vostro urlo di tanti nostri discorsi – incalza Basso – vogliamo dignità». E la platea scandisce un «Dignità, dignità».
TASSE E BUROCRAZIA ASFISSIANTI
Rabbia – più che rassegnazione – è il sentimento principale che si respira. Nel 2013 hanno abbassato le serrande 372mila imprese, oltre un migliaio al giorno. E la fine del tunnel sembra ancora lontana. «È a rischio la pace sociale. È pericoloso lasciare le famiglie e le imprese sull’orlo della disperazione», l’avvertimento del presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. Nel suo discorso il leader di Confartigianato, Giorgio Merletti, non fa sconti al governo Renzi che sta nascendo: «Matteo stai preoccupato – gli manda a dire – se non abbassi le tasse alle piccole imprese ti faremo nero».
«Non abbiamo perso la speranza, non abbiamo perso la pazienza, non siamo sereni, siamo incazzati – è il monito del presidente di Cna, Daniele Vaccarino – Gli invisibili ora sono tornati visibili perché le ragioni dell’impresa diventino le ragioni del Paese». Diminuire la pressione fiscale – che tocca il 66%, comprese le imposte locali – è l’obiettivo numero uno dei manifestanti: folto il gruppo di quelli che indossano il caschetto giallo da cantiere e le magliette con l’avviso triangolare di pericolo «caduta tasse». Per non morire, però, artigiani e commercianti chiedono anche lo snellimento dell’«oppressivo carico burocratico», il taglio del cuneo fiscale per agevolare le assunzioni e il saldo dei crediti che le imprese vantano con lo Stato. Handicap strutturali che, in una situazione di forte crisi come quella che sta vivendo il Paese, rischiano davvero di far detonare la bomba sociale.
«Diciamo basta alla scorciatoia fiscale, basta usarci come una cassa continua da cui prelevare ogni volta che c’è bisogno – attacca Marco Venturi, numero uno di Confesercenti e presidente di turno di Rete Imprese Italia – Questa grande manifestazione è la prova che la nostra pazienza è finita». Serve una svolta, un cambio di rotta repentino dal prossimo esecutivo: «Abbiamo pagato sulla nostra pelle tutti gli errori di scelte politiche dissennate. Ma le istituzioni sappiano che, senza adeguate risposte, non ci fermeremo».
L’Unità 19.02.14
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La marcia dei 60mila “Le tasse ci uccidono”, di GAD LERNER
ROMA ORE 7, Stazione Centrale di Milano. Tutto esaurito sui Frecciarossa della protesta “perbene”, senza forconi ma con tanta rabbia in corpo, che scendono nella capitale a lanciare il grido delle imprese che muoiono. Commercianti in prima classe, artigiani in seconda.
ANCHE se è solo una maliziosa coincidenza («e comunque noi il biglietto ce lo paghiamo di tasca nostra»). In sessantamila gremiranno una piazza del Popolo mai vista così, facendola diventare piazza delle Piccole Imprese Incazzate. Con le cinque sigle dell’associazionismo di categoria (Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti) che sbiadiscono nel poderoso cartello di Rete Italia: nuovo movimento che riunisce insieme commercio e artigianato. Una forza d’urto mica da ridere sul sistema italiano. E meno male che son gente tranquilla a cui non piacciono troppo i Forconi, ci sarebbe da aver paura. Ma il fossato che ormai separa questa folla dal palazzo della politica in affannosa ricerca di nuovo governo, proprio lì a pochi passi, non pare colmabile neanche da certi vecchi dirigenti navigati come il Carlo Sangalli, divenuto supercapo dei commercianti dopo una vita di navigazione democristiana che ora gli serve a poco, perché i ponti stanno bruciando. Sicché i comizianti moderati, che prendono il battimani più sonoro quando gridano «ci siamo rotti i c…», non sono poi così dissimili dai sindacalisti alle prese con le piazze incendiarie del paese che fu.
In treno la sintesi me la regala Marino Molinari da Sesto Calende, appena pensionato dopo 41 anni da carrozziere: «Mi avevano insegnato che l’asinello sfinito, quando cade in ginocchio, va scaricato. Invece Monti e la Fornero, poi Letta e Saccomanni, sulle nostre piccole spalle di peso ce ne hanno aggiunto, senza rendersi conto che insieme alle piccole imprese è tutta l’Italia a andare in malora». La cifra che fa paura: 372 mila attività che hanno chiuso i battenti l’anno scorso, oltre mille al giorno. La minaccia che ne consegue: ritrovarsi ben presto questa moltitudine pacifica innervata
da manipoli di rivoltosi. Perché, come ammette Gianni Damin da Samarate: «Se mancasse il pane alle mie figlie, farei come i Forconi. E se bastoni un gatto chiuso in una stanza, quello alla fine ti graffia».
Pensare che il giovane Damin è il più benevolo nei confronti di Renzi: «Non ho alternative, devo fidarmi di lui. Se questo ragazzo fallisce, fallisce il paese». Anche se aggiunge subito che «ci vorrebbe un Renzi senza Pd per convincermi davvero».
Mi ha colpito questo atteggiamento di fiducia in sospeso concessa al marziano in arrivo a Palazzo Chigi («A parole è bravo, ma poi si ritrova intorno certa gente…»). Così, districandomi tra la folla di piazza del Popolo, sono andato a cercare il gruppo della Confesercenti di Ferrara e Comacchio che reggeva il cartello: «Renzi se ci 6 batti un colpo». E li ho trovati tutti con indosso la stessa T-shirt disegnata per l’occasione: “Politici=…” e segue il disegno di un maiale. Suino che con astuzia hanno disegnato come salvadanaio rotto. Pensate forse che Renzi non sia anche lui un politico? Ce l’avete con tutti? Torna in ogni capannello la furia per i vitalizi e gli altri privilegi dei politici da abolire; non importa che diano poco gettito, bisogna lo stesso cominciare da lì la punizione esemplare. Se Renzi ci riesce, smette di essere un politico. Del resto a Francesco Boran dell’Ascom di Padova, pur orgoglioso del passato democristiano, il primo Berlusconi piaceva né più né meno come il Renzi di oggi. Ne ho incontrati molti di ex berlusconiani pronti a diventar renziani, prima sul treno e ora in piazza.
Nel Frecciarossa che ci ha portati a Roma serpeggiava tra uno scompartimento e l’altro una storia istruttiva: il braccio di ferro tra le assicurazioni e le carrozzerie auto. Col suo dito fratturato da una martellata, a raccontarmela è Daniele Parolo, presidente degli artigiani Cna lombardi nonché titolare di un’autofficina a Gallarate: «In Parlamento eravamo riusciti a far abrogare la norma voluta dalle assicurazioni per obbligare gli automobilisti a rivolgersi a carrozzerie dalle tariffe ribassate. Ma ecco che Zanonato, oplà, la ripropone tal quale in consiglio dei ministri. Strano, vero? Tra i carrozzieri poveretti e i grandi gruppi assicurativi, il governo non si comporta proprio come un arbitro imparziale. Al solito: forti con i deboli e deboli con i forti».
Denunciano un fisco disgiunto dal risultato economico. Due giovani associati in un’impresa termoidraulica di Albavilla benedicono il giorno in cui decisero di non assumere mai un dipendente. Franca Anzani invece condivide con la figlia un’azienda di restauri e chiede a Renzi di smetterla con la tassazione inasprita sui contratti a tempo determinato, altrimenti non si lavora più. La morìa delle imprese assume un carattere più sinistro se la focalizzi su un territorio prospero come la provincia di Varese: «Mille fallimenti nel 2013, mentre nel limitrofo Canton Ticino nascevano 1500 nuove imprese. Novemila aste fallimentari, erano solo 200 tre anni fa».
Passi nello scompartimento dei commercianti e ti accoglie una fioraia di Cinisello Balsamo, Giuliana Colombo, vincitrice del concorso per la migliore vetrina di Natale ma infuriata per la nuova tassa dei rifiuti: «Ogni volta che porto fuori un bidone sono 50 euro», spara, «e la giunta comunale è del Pd». Mentre il suo collega macellaio Giuseppe Penza ridacchia degli arresti per tangenti avvenuti proprio oggi: acciuffati gli assessori del suo paese, Cologno Monzese. Riceviamo la benedizione di un gruppo di giovani signore brianzole che in verità sono dirette all’udienza di papa Francesco («ma pregheremo per voi») mentre percorriamo vagone dopo vagone il rosario di lamentazioni da autotrasportatori, idraulici, acconciatrici, designer, falegnami, artigiani tessili, tipografi contoterzisti in ogni declinazione possibile dell’accento lumbard bagnato in salsa terrona. Tutti col loro bravo berretto, le casacche e le bandiere di nylon… Solo un ragazzo che arriva da un paese della bassa padana al confine fra le province di Bergamo e Cremona s’è portato il tricolore di stoffa, con su scritto “Summer Bar”, l’azienda che considera la sua patria e cerca disperatamente di non chiudere.
E’ ancora il presidente lombardo della Cna, Daniele Parolo, a ricordarci i precedenti di questa inedita discesa a Roma. Per la prima volta commercio e artigianato uniti nella lotta, perché l’industria sarà anche lo scheletro dell’economia ma le piccole imprese del lavoro autonomo coalizzate in Rete Italia ammontano a 4.383.500 unità produttive in cui sono occupate più di 24 milioni di persone. Come dire, la prima volta dei moderati che se si arrabbiano, guai, producono uno scricchiolio minaccioso. I palazzi della politica farebbero malissimo a sottovalutarlo.
Eppure dei precedenti, per quanto rari, ci sono; anche se magari non proprio gloriosi. Come la calata su Roma del 1981 contro i registratori di cassa introdotti dal ministro Visentini. O la manifestazione nazionale di Milano contro la minimum tax del 1993. Se ora volete appiccicare alla folla degli artigiani e dei commercianti la solita etichetta degli evasori fiscali, neanche riuscirete più a farli arrabbiare. Perché dentro di loro si riconosce un duplice sentimento che i luoghi comuni del passato non bastano a contenere.
Prima di tutto c’è un orgoglio di appartenenza all’Italia che ancora lavora mentre gli altri parlano, tramutatosi nella prima vera piazza del lavoro autonomo organizzato. E’ come se la massa dei disperati fosse riuscita a cambiar pelle alle sue corporazioni, quelle sigle da sempre intrecciate al clientelismo politico di basso rango. Si lucida gli occhi, in piazza del Popolo, il direttore del Censis, Giuseppe Roma: pare quasi la sua festa un tale raduno che impone la forza del “sociale” caro a De Rita e restituisce una funzione alle associazioni, quelle che nel loro linguaggio astruso al Censis definiscono “corpi intermedi”. Non a caso esultano personaggi fino a ieri sbiaditi come Carlo Sangalli, Marco Venturi, Daniele Vaccarino. Come minimo, hanno rintuzzato l’insidia dei Forconi. Ma forse gli toccherà cavalcare un movimento più dirompente ancora.
Il secondo sentimento che percepivi in piazza ieri a Roma, era più ambiguo: tra il rancore e la malinconia. Penso alla rabbia con cui Aniello Pietrofesa, leader dei 400 venditori ambulanti (con licenza) di Salerno — e grande sostenitore del sindaco De Luca — mi raccontava degli stranieri senza licenza, circa 600, che secondo lui sarebbero protetti dalle autorità. Ma penso anche agli occhi lucidi del bolognese Stefano Gilli con la sua impresa di subfornitura metalmeccanica a Casalecchio: «Mio padre l’ha costruita, poi i nazisti l’hanno internato. Lui di manifestazioni ne ha fatte tante, e a me viene il magone quando penso che non ci sono riusciti né i tedeschi né i fascisti a chiuderci l’azienda… e invece ci stanno riuscendo questi qua».
La Repubblica 19.02.14
"Italicum urgente ma senza forzature: il tavolo tra Renzi e i partiti minori", di Francesco Losardo
Le soglie di sbarramento: quelle sì potrebbero cambiare, scendendo dal 4,5 per cento al 4 per i partiti coalizzati e dal 12 al 10 per le coalizioni. Ultime notizie dal fronte Italicum. Il movimento non si vede, ma c’è. Il sussurro dei giorni scorsi è diventato un mormorio: il patto Renzi-Berlusconi potrebbe essere “addolcito” nei confronti dei partiti minori. Non sulle preferenze, però: lì il Cavaliere e il segretario del Pd non cedono di un millimetro.
«Renzi non mostra fretta di forzature e, se questo è l’impianto con cui accoglie tutti, è perché vuole traguardare la legge elettorale». «Traguardare», nel politichese della Seconda repubblica in viaggio verso la Terza, significa incassare. In filigrana molti degli interlocutori politici passati per la Sala del Cavaliere di Montecitorio dove il presidente incaricato sta svolgendo le consultazioni per la formazione del nuovo governo hanno colto segnali di pace sull’Italicum. «La legge elettorale Renzi la mette sempre in premessa», raccontano tutti quelli che sono sfilati davanti a Renzi e ai suoi due “corazzieri”, Del Rio e Guerini. Ma è il modo tutt’altro che aggressivo con cui Renzi approccia il tema dell’Italicum ad aver spiazzato positivamente i partiti minori e «i maggiori dei minori». Modi gentili per ottenerne la fiducia e poi calare la mazzata dell’intesa con FI sulla testa dei “nanetti”?
Non sembra una sceneggiata quella di Renzi, dicono i “piccoli”. Il leghista Maroni ieri faceva sarcasmo sugli impegni assunti da Renzi: «Ha detto che entro fine febbraio ci sarà l’approvazione della legge elettorale, mi pare complicato». Ma Renzi non ha mai parlato di approvazione dell’Italicum a febbraio, che finisce tra nove giorni, weekend e voto fiducia al suo nuovo governo inclusi. «Entro febbraio compiremo un lavoro urgente sulle riforme costituzionali ed elettorale da portare all’attenzione del parlamento», è stata la prudente formula usata dal presidente incaricato.
«Urgente», aveva detto Napolitano della legge elettorale affidandogli l’incarico. «Urgente», dice Renzi. Ma con senno. Il che non significa stallo: in marzo la legge elettorale metterà il turbo alla camera per essere sparata come un missile ai senatori, cui Renzi e Berlusconi concederebbero il “contentino” di limare le soglie di sbarramento. Poi di nuovo alla camera per il varo definitivo. In fondo tranquillizzare i partiti coalizionabili aiuta Renzi e Berlusconi a vivere meglio. E le recenti giravolte di Casini che fa intravedere alleanze a Forza Italia servirebbero ad ammorbidire il Cavaliere.
Se questa è la piega che sta prendendo l’Italicum, si capisce perché tra i partiti minori ci si senta più rassicurati. Anche sullo spettro del voto anticipato. Dice uno dei politici ricevuti dal premier incaricato: «Non credo che Renzi voglia andare al voto appena incassato l’Italicum. Ora ha in testa solo le europee. Deve incassare subito la riforma elettorale e la prima lettura delle riforme del senato e Titolo quinto. Su lavoro e su semplificazione punterà su leggi delega entro maggio, da attuare poi per decreto. Dopo di che non penso che Renzi voglia andare a elezioni prima di aver fatto anche la riforma del senato e del Titolo quinto. Questa è la sensazione…».
Semmai l’incognita, si dice tra i “piccoli”, è se Napolitano, varato l’Italicum e dopo le europee, possa considerare chiusa la sua seconda mission e dimettersi. Già di per sé sarebbe un bel terremoto. Mentre l’orizzonte elettorale minimo, per quanto lo si voglia avvicinare, starebbe diventando lo stesso del governo Letta: primavera 2015.
Da Europa Quotidiano 19.02.14
"Il comitato etico di Brescia su Stamina accusa ospedale e agenzia del farmaco", di Mario Pappagallo
Giugno 2011-maggio 2012. In questo arco di tempo Davide Vannoni e Stamina Foundation riescono a mettere piede negli Spedali Civili di Brescia. Nonostante a Torino fosse già stata avviata un’inchiesta per associazione a delinquere, truffa, somministrazione di farmaci pericolosi per la salute pubblica. Di nessun interesse per chi a Brescia doveva decidere. E così passò un trattamento non brevettato, con il sì del Comitato etico che dal giugno 2011 al maggio 2012 si è occupato dei primi 12 pazienti (4 dei quali legati all’ospedale, tra cui un «potente» dirigente regionale)da ammettere alle cure compassionevoli con il «metodo Stamina». Dopo c’è stato il blocco dell’Agenzia del farmaco (Aifa) e altri 22 pazienti trattati per ordine di giudici del lavoro. Francesco De Ferrari, docente di medicina legale, era presidente di quel Comitato etico. Ieri è stato messo sotto torchio in Commissione sanità del Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul caso Stamina. Un’ora e mezza all’angolo, tante domande e tant’altre a cui risponderà per iscritto. Un’ora è mezza difficile. Un’ora e mezza di tensione palpabile per Carmen Terraroli (un congiunto è tra i curati), responsabile della segreteria scientifica dello stesso Comitato etico, il dirigente medico che istruiva i dossier dei pazienti da sottoporre alle infusioni Stamina, mansione che gli è costata, nella primavera 2012, con altri colleghi dei Civili, l’iscrizione nel registro degli indagati della procura di Torino che indaga su Vannoni e la contestata terapia.
Tornando in Commissione sanità del Senato, è emersa una certa pressione da parte dell’azienda ospedaliera perché il Comitato etico accordasse il sì (ma non dovrebbe essere del tutto indipendente?). E’ emerso un nulla osta da parte di un funzionario dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) che in realtà non sarebbe mai stato concesso. E’ emersa l’assoluta ignoranza sul metodo proposto da Vannoni (e il consenso informato ai pazienti su che cosa si è basato?). «Dall’azienda ospedaliera ci venne detto che la Stamina era un’organizzazione che aveva sviluppato e brevettato la metodica negli ultimi 5 anni (dal 2006?). Ci siamo fidati della documentazione», dice ai commissari De Ferrari. Ma come? Si crede a un brevetto mai concesso senza chiedere un documento? E di quale documentazione si tratta visto che Stamina non ha mai reso noto nulla?
Il senatore Volpi chiede di eventuali pressioni da parte dell’azienda sul comitato, De Ferrari risponde: «Ciò non è nelle parole, ma nei fatti». Come dire : «Anche se dicevamo no, ci avrebbero imposto un sì». Di ciò dovrà rispondere anche in Regione Lombardia il 26 febbraio.
Altri quesiti. Possono biologi non iscritti all’ordine (come quelli di Stamina) lavorare nel laboratorio di un ospedale pubblico? Possono medici dipendenti del servizio sanitario somministrare farmaci senza conoscerne il contenuto? E se accade qualcosa a un paziente che ha sottoscritto un consenso informato incompleto (non conoscendo nessuno il metodo) chi risarcirà i danni? Stamina, gli Spedali Civili di Brescia, i medici implicati? E attenzione che i danni possono comparire anche dopo anni. L’audizione termina senza convincere i senatori: «Atteggiamento poco chiaro».
De Ferrari non ha convinto nel ricostruire le tappe del rapporto tra il Comitato etico, l’azienda ospedaliera Spedali Civili sul metodo Stamina approdato a Brescia il 9 giugno del 2011, quando con una delibera l’azienda mise le basi per una collaborazione con la Fondazione di Vannoni. La Terraroli chiese a Carlo Tomino dell’Aifa un parere su come procedere con le terapie come cure compassionevoli. Il 27 giugno Tomino rispose che potevano essere fatte solo se le cellule venivano lavorate in laboratori Gmp (Good manufacturing practices ). Dice De Ferrari: «Dopo questa risposta il nostro primo parere, il 5 luglio, fu contrario all’inizio della terapie». Perché un laboratorio Gmp a Brescia non c’era (e non c’è tutt’ora). L’azienda allora chiese a Tomino di esprimersi nuovamente dietro una serie di garanzie, compresa quella che il laboratorio era certificato, il dirigente Aifa rispose che «non vi erano elementi ostativi» e il Comitato etico diede il parere favorevole. Il 5 settembre i primi due pazienti, poi altri 10. Fino al maggio 2012, quando l’Aifa impose lo stop al metodo. Tomino aveva chiesto documenti che l’Aifa non ha mai ricevuto.
Il Corriere della Sera 19.02.14
"Le vere priorità per l’economia", di Massimo D'Antoni
Quali dovrebbero essere le priorità del governo Renzi? In questi giorni è un fiorire di indicazioni e suggerimenti. Il premier incaricato dovrebbe però temere l’entusiasmo e le aspettative che ha suscitato più delle critiche. In parte questo entusiasmo proviene infatti da chi si aspetta che il nuovo governo porti fino in fondo le scelte dell’agenda Monti.
Ovvero: riforma delle regole del mercato del lavoro e tagli consistenti alla spesa pubblica. A questa prima categoria di entusiasti sfugge che il segretario-premier ha conquistato il cuore degli elettori del Pd con una promessa di rinnovamento e di riscatto, ma non è affatto ovvio che questa adesione si spinga fino ad un sostegno a quelle politiche di impronta liberale che lo stesso Renzi si è ben guardato dal riproporre apertamente dopo la sconfitta alle primarie del 2012.
C’è poi una seconda categoria di entusiasti, per lui non meno pericolosi: coloro che pensano che la soluzione dei problemi del Paese sia semplice e ovvia, e a far difetto in passato sia stata la volontà politica o la determinazione. Non è così, ed è bene chiarirsi che i problemi dell’Italia sono seri; che non c’è affatto unanimità su quali siano le priorità in fatto di terapie da seguire; che molte delle soluzioni sono già state discusse e sperimentate in passato, persino dal governo uscente; che, infine, se finora non si è fatto di più è perché molte di quelle soluzioni si sono rivelate inefficaci e perché l’operare di vincoli reali e tuttora operanti ha compresso lo spazio di manovra del governo.
Effetti illusori. Si tende a sopravvalutare ad esempio l’effetto quantitativo, in termini di risparmio di spesa, degli interventi sui costi della politica. Così come si sopravvaluta la possibilità di recuperare risorse dalle cosiddette «pensioni d’oro» o il gettito ottenibile, per dirne una gradita a sinistra, da un’imposizione più aggressiva dei redditi finanziari. Si sopravvaluta l’effetto sul mercato de lavoro di un ulteriore allentamento dei vincoli al licenziamento, come dovrebbe aver dimostrato la scarsa efficacia di quanto già fatto nel 2012 dalla ministra Fornero.
Vincoli reali di tipo politico. Volere è potere, ma anche il leader più abile e deciso dovrà considerare che spostare il peso fiscale dal lavoro alla rendita vuol dire alzare ulteriormente la tassazione sulla proprietà immobiliare o magari intervenire sui titoli di stato; che non è possibile ridurre la spesa pubblica in misura consistente senza intaccare universalità e qualità dei servizi forniti (o magari ridurre gli stipendi dei dipendenti pubblici!). Sono interventi di questo tipo nella disponibilità politica del nuovo governo e delle forze che lo sostengono?
Vi sono poi, cruciali, i vincoli esterni. Un allentamento della camicia di forza del fiscal compact sarebbe auspicabile. Tuttavia, non è chiaro come questo allentamento possa avvenire. E questo non solo per le possibili reazioni dei partner europei, ma anche per la costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio. Come evitare che una legge di stabilità che non rispetti il fiscal compact venga impugnata in commissione affari costituzionali?
Se un consiglio ci permettiamo di dare al nuovo presidente del consiglio, è allora quello di concentrarsi su alcune priorità: l’Europa, dove deve agire con determinazione ma anche grande abilità, approfittando del semestre di presidenza per mettere in campo una strategia che cerchi di modificare gli attuali rapporti di forza; la politica del credito verso le imprese, rafforzando quanto di buono era stato messo in campo già dal governo Letta, sia con lo strumento delle garanzie che sul fronte dei rimborsi dei crediti commerciali; gli investimenti, sia pubblici che privati, a cominciare dall’infrastruttura delle telecomunicazioni e dal risparmio energetico; la creazione di un efficace sistema di ammortizzatori sociali e infine, ultimo ma fondamentale, la riqualificazione della pubblica amministrazione. Lasci invece perdere l’idea dello shock, del colpo di frusta, da ottenersi magari per via fiscale. La riduzione del cuneo, su cui insiste ad esempio Confindustria, è una misura che in termini occupazionali ha effetti discutibili, a meno di impegnare una quantità di risorse tale da rendere impraticabili altre più efficaci politiche. Usi semmai le risorse che si renderanno disponibili per rilanciare in modo mirato la domanda. Più in generale, a costo di essere un po’ meno «Renzi», non cerchi il colpo ad effetto ma dia segnali chiari sulla volontà di agire in una prospettiva di medio lungo periodo, perché non sarà né rapida né facile.
L’Unità 19.02.14
"La sconfitta dell'Europa", di Andrea Bonanni
I nuovi gravissimi incidenti a Kiev sono una sconfitta per l’Europa, che sperava di essere riuscita a trovare un compromesso per mettere fine agli scontri. Un tentativo tuttora in corso. Evidentemente Bruxelles condanna le violenze e potrebbe anche riconsiderare l’imposizione di sanzioni.
MA PRENDE le distanze dagli Stati Uniti che accusano esclusivamente il regime di Yanukovich. Nella notte il vicepresidente Usa, Joe Biden, telefona allo stesso Yanukovich per chiedergli di ritirare le forze di polizia. E per esprimere la grave preoccupazione americana per il precipitare degli eventi. L’alto rappresentante per la politica estera della Ue, Catherine Ashton, che si dice «molto preoccupata», condanna «l’uso della violenza in tutte le sue forme,
inclusa quella contro gli edifici pubblici o dei partiti», un riferimento agli assalti dei manifestanti contro il Parlamento e contro le sedi dei partiti di governo.
È chiaro che la Ue spera ancora di poter svolgere un ruolo di mediazione tra le due fazioni in lotta. E insiste sul fatto che la soluzione della crisi non può essere che politica. «Le decisioni politiche vanno prese in Parlamento e l’Ucraina deve tornare urgentemente al processo parlamentare — insiste la Ashton — . La soluzione dovrebbe includere la formazione di un governo inclusivo, riforme costituzionali e la preparazione di elezioni presidenziali trasparenti». È più che un generico appello alla calma: è quasi una road map per indicare una via di uscita all’escalation di violenze che rischia di diventare incontrollabile.
Anche il commissario europeo all’allargamento Stefan Fuele, che ha giocato un ruolo importante fin dall’inizio della crisi, quando Yanukovich improvvisamente cancellò gli accordi di associazione che doveva firmare con la Ue, ha confermato che i canali di comunicazione con il regime di Kiev sono sempre aperti. «Oggi ero al telefono con il primo ministro ad interim, e gli ho detto che vedere la polizia con i kalashnikov mi riempiva di preoccupazione. Mi ha assicurato che farà tutto il possibile perché i fucili restino in silenzio. Per il bene degli ucraini e per il futuro di quel Paese, prego perché sia vero».
Intanto però le nuove violenze hanno riacceso il dibattito interno all’Ue tra quanti sono favorevoli a sanzioni personali contro gli esponenti del regime e quanti invece difendono una linea più morbida. Le sanzioni sono state chieste due settimane fa dal Parlamento europeo. E ieri il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha messo in guardia Kiev su «possibili ripensamenti a proposito delle sanzioni » da parte della Ue. Steinmeier ha anche avvertito che le forze di sicurezza «hanno responsabilità precise» per mettere fine agli scontri.
Sulla questione è intervenuto anche il premier polacco Donald Tusk: «Se le sanzioni devono essere applicate, che non siano solo di facciata. Bisogna che siano veramente dolorose per il potere ucraino. Bisogna essere coscienti che, dal punto di vista dell’Europa, è pressoché una extrema ratio. L’Unione europea non dispone verosimilmente di altri mezzi e la Polonia è tra quelli che spingono l’Ue a utilizzare le sanzioni ».
Anche Tusk, però, condivide l’approccio negoziale di Bruxelles e il tentativo di trovare una mediazione: «Continueremo a operare per un compromesso in Ucraina, perché una guerra civile di piccola o grande scala, o un conflitto rampante e permanente, non è sicuramente nell’interesse di nessuno».
La Repubblica 19.02.14