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"Caro Renzi, è ora di puntare sulla scienza", di Pietro Greco

Caro Presidente Renzi, è iniziata la sfida per il futuro. Dobbiamo decidere il ruolo che avrà il nostro Paese nel nuovo ordine mondiale. Se vogliamo che sia di primo piano, come ci compete, dobbiamo puntare sulla scienza.
Perché la scienza è la leva per lo sviluppo economico, oltre che per la sicurezza sanitaria e militare, delle nazioni. Noi non abbiamo un programma nazionale di sviluppo scientifico. Nel nostro Paese la scienza è rimasta dietro le quinte, mentre andrebbe portata al centro dell’attenzione, perché a essa si legano le speranze per il futuro. Non possiamo attenderci che questa lacuna venga colmata dall’industria privata. L’industria si occupa d’altro. L’impulso per la ricerca può venire solo dal governo. È il governo che deve investire molto di più e molto meglio se vogliamo vincere la sfida del futuro. Caro Presidente Renzi, ho elaborato un rapporto che è anche un programma per la rinascita della nostra nazione. Glielo invio a parte. Ora provo a sintetizzarlo, in quindici punti.
1. INNOVAZIONE. Il Paese ha bisogno di innovazioni costanti, non solo in politica ma anche in campo economico. Solo con la produzione di beni e servizi innovativi possiamo sperare di avere una piena occupazione e un tenore di vita più alto. 2. SPECIALIZZAZIONE. Per competere con i Paesi più avanzati occorrerà puntare sulle industrie a più alta tecnologia, capaci di innovazione continua. Non otterremo nulla rimanendo immobili, continuando a fabbricare gli stessi articoli e non avanzeremo nel commercio internazionale se non offriremo prodotti nuovi e meno costosi. 3.CAMBIAMENTO. La scienza è la leva necessaria per il cambiamento della specializzazione produttiva. Da dove arriveranno, infatti, i nuovi prodotti? Come produrre manufatti migliori a costi inferiori? La risposta è ovvia. Per far funzionare i meccanismi dell’impresa pubblica e privata occorreranno nuove conoscenze scientifiche. 4. POTENZIAMENTO. La scienza ha già dato prova di quello che può fare per la società in ogni settore. Ciò vale soprattutto per l’economia. Se continuiamo a studiare le leggi naturali applicando il nostro sapere per fini pratici, potremo avviare nuove industrie e potenziare quelle più vecchie.
5. VANTAGGI PER TUTTI. Per lo sviluppo del Paese occorre un flusso costante di nuova conoscenza scientifica all’interno di un gioco di squadra che coinvolga tutta la nazione. Occorre un rapporto cooperativo tra scienza e società: la scienza, da sola, non è la panacea di tutti i mali, individuali, sociali ed economici. 6.RICERCADI BASE. Occorre riconoscere l’importanza della ricerca di base. La ricerca di base procede senza preoccuparsi degli scopi concreti. Essa produce una comprensione generale della natura e delle sue leggi. Non fornisce una risposta specifica ed esaustiva a ogni singolo problema. Ma le conoscenze nuove e fondamentali che produce alimentano la ricerca applicata e lo sviluppo tecnologico. Pertanto le università e gli istituti di ricerca, pubblici o privati, che sono centri della ricerca di base sono le principali fonti del sapere e della conoscenza.
7. INDIPENDENZA SCIENTIFICA. Un Paese leader in economia non può dipendere dall’estero per la conoscenza scientifica di base. Una più ampia e migliore ricerca scientifica sarà fra gli elementi fondamentali che permetteranno di raggiungere un regime di piena occupazione.
8. LE UNIVERSITÀ. L’industria, privata, non ce la fa a sostenere la ricerca di base. Lo dimostra la storia economica: per esempio, anche negli Stati Uniti, l’industria contribuisce solo in misura limitata al finanziamento della ricerca medica di base. Ma lo dimostra anche l’analisi teorica: nell’industria c’è sempre la pressione degli obiettivi da conseguire, del mantenimento di criteri predeterminati e delle esigenze commerciali. A parte alcune notevoli eccezioni, le università restano le più generose dispensatrici di quella libertà che è oltremodo indispensabile alle scoperte scientifiche.
9. LO STATO. Per lo sviluppo economico di un Paese fondato sulla conoscenza occorre l’azione intelligente dello Stato. Visto che è necessaria e visto che i fondi privati non la sostengono, la ricerca di base dovrà essere potenziata con l’uso di fondi pubblici. Ma il flusso dovrà essere intelligente e ben direzionato verso i luoghi dove si fa ricerca di base. Lo stato deve finanziare la ricerca di base ma anche la catena di trasmissione, ivi inclusa la ricerca applicata, che porta le nuove conoscenze fino al portone delle industrie.
10. LE IMPRESE. Lo sviluppo tecnologico deve essere a carico delle imprese. Arrivato al portone delle imprese cessa il suo compito: lo Stato non deve finanziare lo sviluppo tecnologico e la commercializzazione di nuovi prodotti.
11. UN PROGRAMMA NAZIONALE. Per modificare la specializzazione produttiva del sistema Paese facendo leva sulla scienza, occorre che il Paese si dia una “politica della ricerca” e che il governo federale elabori un organico programma d’azione che sia in cima all’agenda politica del Paese. Non abbiamo un programma nazionale rivolto allo sviluppo scientifico. Non esiste, a livello governativo, una figura che abbia l’incarico di formulare o attuare una politica scientifica nazionale. Non ci sono, in parlamento, comitati permanenti addetti a questo compito fondamentale. La scienza è rimasta dietro le quinte. Andrebbe portata al centro dell’attenzione.
12. CAPITALE UMANO. La nuova “politica della ricerca” dello Stato deve puntare ad aumentare il capitale scientifico del Paese. Ma il capitale scientifico aumenta se cresce il capitale umano. In soldoni, il Paese ha bisogno di più scienziati e di più tecnici. Perché la rapidità o lentezza di qualsiasi progresso nella scienza dipende dal numero di professionisti esperti e altamente qualificati che esplorano i suoi confini. Il vero limite alla produttività e allo sviluppo, nel campo del sapere scientifico e della sua applicazione è il numero di esperti che abbiamo a disposizione. Occorrono più scienziati e tecnici. E, ovviamente, università e centri in grado di farli lavorare sempre al meglio. Naturalmente il flusso, alto e costante, di risorse pubbliche non deve in alcun modo erodere l’autonomia degli scienziati. La libertà d’indagine va tutelata.
13. SOLO IL MERITO. La selezione degli scienziati e dei tecnici fondata solo sul merito è decisiva: perché la responsabilità della creazione di nuovo sapere scientifico ricade su quel piccolo gruppo di uomini e donne che sono in grado di comprendere le leggi fondamentali della natura e le tecniche della ricerca scientifica.
14. RIMUOVERE LE BARRIERE. Per mobilitare i migliori scienziati che il Paese può offrire, occorre che l’universo della selezione sia la più ampia possibile. Includa tutti, in modo che tutti i più bravi possano sottoporsi alla prova. Ma ci sono barriere sociali che impediscono ai “bravi ma poveri” di concorrere. L’istruzione superiore, in questo Paese, è sempre più destinata a chi ha la possibilità economica di procurarsela. In ogni segmento della popolazione esistono individui dotati ma, salvo rare eccezioni, chi non ha la possibilità di procurarsi un’istruzione superiore è costretto a rinunciarvi. Risulta così vanificata la più grande risorsa di una nazione: l’intelligenza dei suoi cittadini. Dobbiamo abbattere queste barriere e offrire agli uomini e alle donne di ogni tipo e condizione l’opportunità di migliorare se stessi. Per sviluppare il talento dei giovani italiani, il governo dovrebbe stanziare un numero ragionevole di borse di studio e assegni di ricerca.
15. UN’AGENZIA NAZIONALE per la ricerca. Suggerisco che venga istituita, quindi, una nuova agenzia preposta a tutti questi scopi. Si tratterebbe di un organo indipendente, con l’esclusivo compito di sostenere la ricerca di base e la formazione scientifica avanzata. Caro Presidente Renzi, lo confessiamo. Abbiamo rubato questo programma a Vannevar Bush, il consigliere scientifico del Presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt. Lo abbiamo fatto perché è sulla base della politica indicata da Vannevar Bush che gli Stati Uniti sono entrati nella società della conoscenza e hanno conseguito la leadership economica del mondo. Ma lo abbiamo fatto soprattutto perché questo programma in 15 punti è l’ultima opzione che abbiamo per uscire della condizione di declino in cui versiamo da venti anni e forse più.

L’Unità 19.02.14

"La politica? Si fa all'Ariston", di Curzio Maltese

Lo stesso Fabio Fazio, in versione Emergency, per non essere da meno comincia il concorso dell’ugola d’oro con una predica ambientalista interrotto dalla minaccia suicida di due disoccupati, un classico sanremese. Mancava soltanto che all’Ariston si presentasse anche Matteo Renzi, magari per chiedere se in sala ci fosse qualcuno disposto a fare il ministro dell’Economia, per comporre la tragedia di un Paese ridicolo. Un giorno dopo l’altro, la situazione diventa sempre più grave e sempre meno seria. Comunque tranquilli, o come va di moda dire: #italianistatesereni. Se oggi gli ascolti saranno una bomba, come tutto lascia supporre, scriveremo che è stato meraviglioso e geniale.
Geniale è di sicuro la mossa di Beppe Grillo, che torna a Sanremo dove l’hanno cacciato tanti anni fa, ricco e spietato come il conte di Montecristo degli sceneggiati d’antan, anche se non ha più la Ferrari come l’ultima volta. In un passaggio cruciale per la storia della nazione, il capo del principale partito dell’opposizione non va al Quirinale a spiegare le proprie ragioni, ma al festival della canzone nella capitale dei fiori. Appena arrivato, spiega che non vuole i giornalisti servi del regime intorno. Infatti ha preso la macchina ed è andato in un luogo dove ce ne sono soltanto un migliaio, un po’ meno che alle Olimpiadi. Fuori dall’Ariston l’ex comico tiene un comizio appassionato contro i soliti poteri forti e le banche che sostengono Renzi, insieme a De Benedetti e Berlusconi che si stanno spartendo il Paese eccetera. Poi viene al dunque, che sarebbe la gestione della Rai, l’unica cosa di cui è davvero esperto, e dice anche cose interessanti e vere. La tv di Stato è una macchina clientelare di consenso partitocratico che continua a produrre deficit, il famoso manager Gubitosi, scelto dagli ottimati bocconiani, ha portato le perdite da 250 a 400 milioni all’anno, gli appalti sono una vergogna. Si potrebbe naturalmente obiettare che tutto questo
era vero anche quando Grillo era uno degli artisti più pagati della Rai e poi quando hanno appaltato a lui la prima serata di Raiuno. Ma sarebbe sciocco e impopolare. In Italia amiamo soltanto i figliol prodighi, mentre chi è coerente con le proprie idee viene generalmente considerato un antipatico imbecille. Grillo ha fatto benissimo ad arricchirsi al tempo suo con i deficit Rai, ripianati dalle finanziarie, ed è per questo autorizzato oggi a impancarsi a moralista. Perché l’unica cosa che conta nella società dello spettacolo nazionale è il successo. Altrimenti non verrebbero tutti qua a Sanremo a esporre problemi che magari sarebbe più sensato portare nelle sedi competenti, al governo, al Parlamento, al Quirinale o all’assemblea dell’Onu, nel caso dei marò.
Da noi si denunciano i problemi non
per risolverli, ma per ottenere un grande applauso. L’applauso in sé garantisce che la soluzione non sarà mai trovata, perché in questo caso la volta successiva non si potrebbe ottenere un altro applauso e di conseguenza s’incepperebbero i sacri meccanismi dell’audience. Senza contare che lo scenario di Sanremo, il festival, la capitale dei fiori, la platea ingioiellata dell’Ariston, contribuisce a stemperare la tragedia, a sminuzzarla in tanti piccoli coriandoli colorati. Perché poi alla fine di tutto arrivano le canzoni, le belle e consolatorie strofe all’italiana. Ed è vero sì che siamo a un passo dalla catastrofe e dalla bancarotta, e contiamo sempre meno nel mondo e non ci ascoltano neppure quando abbiamo ragione, e i nostri figli non avranno lavoro e ogni venerdì un imprenditore si uccide nella Padania felix. Ma il cielo, il cielo è sempre più blu.

La Repubblica 19.02.14

Roma, parlamentari Pd hanno incontrato i manifestanti modenesi

I parlamentari hanno espresso vicinanza a artigiani e commercianti di Rete Imprese Italia. I deputati Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni e il senatore Stefano Vaccari, nella tarda mattinata di oggi, sono andati in piazza del Popolo, a Roma, per incontrare la folta delegazione modenese di imprenditori che ha partecipato alla manifestazione indetta da Rete Imprese Italia.

L’impegno era stato preso nella riunione che si è tenuta, lunedì della scorsa settimana, presso la sede della Camera di Commercio di Modena: nella tarda mattinata di oggi i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari hanno incontrato la delegazione modenese di imprenditori, artigiani e commercianti che ha partecipato alla manifestazione nazionale organizzata da Rete Imprese Italia in piazza del Popolo, a Roma. “Siamo venuti in piazza – spiegano i deputati Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni e il senatore Stefano Vaccari – per esprimere attenzione e la nostra vicinanza, e quella del partito che rappresentiamo, a gente che lavora e che sta pagando a caro prezzo questo periodo di grande difficoltà. Conosciamo i loro problemi, tante volte, soprattutto in questi ultimi tempi, ci siamo confrontati con loro e le loro rappresentanze e ci siamo fatti portavoce a Roma delle loro esigenze. Crediamo – concludono Baruffi, Ghizzoni e Vaccari – che temi come il peso della burocrazia, il carico fiscale, il rilancio del lavoro e l’importanza della conoscenza debbano essere al centro dell’agenda del nuovo Governo che sta nascendo in queste ore”.

Le “patate bollenti” del nuovo Governo, di P.A. da La Tecnica della Scuola

Sono diverse le questioni che dovranno essere affrontate dall’Esecutivo di Matteo Renzi: dalla copertura degli scatti di anzianità ai decreti attuativi mancanti del decreto Istruzione, dai problemi per l’avvio di Pas e del secondo ciclo Tfa alle questioni del Regolamento sulla formazione iniziale dei prof, degli ex Lsu e della Costituente. Sullo sfondo c’è poi la grana più grande: il rinnovo del contratto.
La contrattazione per la copertura degli scatti di anzianità dei docenti, i decreti attuativi del decreto Istruzione, i nodi da sciogliere sui Pas, l’avvio dei nuovi corsi abilitanti, la questione degli ex Lsu, il Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti, la Costituente. Sono solo alcune fra le questioni spinose e più urgenti del mondo della scuola e dell’università che dovranno essere affrontate dal nuovo Esecutivo guidato da Matteo Renzi.
Rimane in “sospeso” sicuramente il destino del decreto ‘scatti’, che è in discussione al Senato. Così come entro giugno va chiusa all’Aran la contrattazione proprio per la copertura degli scatti degli insegnanti.
Ci sono poi da approvare alcune decine di decreti attuativi della Legge 128/13, il cosiddetto decreto Istruzione: emblematico, a tal proposito, è quello relativo all’entrata gratuita nei musei e nei siti archeologici per tutti i docenti in servizio, che sarebbe dovuto diventare esecutivo ormai da cinque settimane. Proprio in queste ore il ministro uscente, Maria Chiara Carrozza, ha però annunciato via twitter: “Ho firmato il decreto per l’ingresso degli insegnanti nei musei spero che vadano in tanti!”.
A non trovare soluzione è anche la vicenda dei Pas, i corsi di abilitazione per il personale con almeno tre annualità di supplenze, con diverse discipline e classi di concorso che ancora non sanno se potranno partecipare ai corsi universitari: in quasi tutte le regioni “tremano” in particolare gli aspiranti docenti della scuola dell’infanzia e del primo ciclo.
Sarebbe praticamente pronto il bando per l’avvio del secondo ciclo dei Tfa ordinari (si tratta di circa 29mila posti, quasi un terzo in più del primo bando), ma manca ancora il via libera del Tesoro. Mentre è al Consiglio di Stato il decreto che modifica in parte il Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti per consentire, fra l’altro, ai cosiddetti ‘tieffini’ di spendere da subito il loro titolo nelle graduatorie di istituto.
Particolarmente delicata e urgente è anche la “partita” che riguarda gli ex Lsu (lavoratori socialmente utili): il primo marzo scade, infatti, la proroga degli ex appalti storici deliberata con la Legge di stabilità dal governo Letta che ha ereditato il nuovo sistema di gare nazionali (Consip) per le pulizie deciso dall’ex governo Berlusconi. Da gennaio i nuovi appalti Consip hanno cominciato a partire, a poco a poco, nelle Regioni, di pari passo con le proteste dei lavoratori che temono per il loro posto di lavoro. Il governo Letta si è impegnato a stanziare risorse a favore degli ex Lsu fino al prossimo primo marzo su sollecitazione del ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza che ha chiesto l’attivazione di un tavolo a Palazzo Chigi anche con i ministeri dell’Economia e del Lavoro per risolvere definitivamente la questione. Proprio a ridosso dell’uscita di scena il ministro Carrozza ha chiesto che sia avviato un monitoraggio per calcolare, provincia per provincia, scuola per scuola, le ore necessarie per le pulizie e le eventuali integrazioni necessarie in termini di personale o di ore. Allo studio anche l’ipotesi di una eventuale reinternalizzazione del servizio ma, visto il precipitare degli eventi politici, l’auspicio ora, a viale Trastevere, è una ulteriore proroga di un mese dei contratti in scadenza in attesa di una soluzione più complessiva.
Fra le altre partite da chiudere con urgenza c’è il bando per l’accesso alle scuole di specializzazione medica già inviato al Consiglio di Stato. Resta sospeso, poi, il bando per i ricercatori ‘senior’ che è pronto ma dovrà fare il suo iter mentre è stato emanato quello per gli under 40. Da chiudere la contrattazione sui Pon per la ricerca e l’istruzione e attende il passaggio al Cipe il Programma nazionale della ricerca che il Ministro Carrozza ha illustrato nel Consiglio dei Ministri dello scorso 31 gennaio. Sulla rampa di lancio resta, infine, la Costituente della Scuola: un punto sicuramente caro anche a Renzi ed il suo entourage. Ma che necessita impegno e risorse per essere portato fino in fondo. Infine, se il Governo durerà, c’è da affrontare il nodo del nuovo contratto, con l’amministrazione che tenterà di cancellare i tradizionali aumenti automatici “a pioggia”: al momento, vista anche la penuria di fondi, ma anche le resistenze dei lavoratori, risulta forse quello più difficile da sciogliere.

La Tecnica della Scuola 18.02.14

"Cosa rende il paesaggio un paesaggio storico", di Francesco Erbani

L’agricoltura prende in consegna il paesaggio. O, almeno, una sua parte consistente. Muove infatti i primi passi l’Osservatorio del paesaggio rurale, un organismo del ministero per le Politiche agricole che intende censire e poi salvaguardare e, semmai, recuperare, quelle porzioni di territorio che, nonostante le modifiche, conservano una serie di caratteristiche storiche, sia per l’assetto (i terrazzamenti della Costiera amalfitana o del Chianti, per esempio), sia per le pratiche di coltura (dall’uso di concimi naturali al mantenimento di diverse produzioni). L’obiettivo è di costruire un registro dei paesaggi storici, ognuno dei quali sarà certificato: questo marchio accompagnerà i prodotti, che potranno contare sulle loro qualità e anche sul valore che a essi si aggiunge perché provenienti da quel determinato paesaggio. Un paesaggio, però, che non va stravolto.
Bellezza e benessere, dunque. L’Osservatorio ha indetto una prima riunione un paio di settimane fa e per prima cosa sono stati definiti i criteri perché un paesaggio possa essere inserito nel registro. Criteri molto selettivi che coinvolgono Regioni e agricoltori. Con le Regioni, inoltre, è avviato un dibattito perché fra le voci che consentono agli agricoltori di ottenere gli incentivi della Pac (la politica agricola comuni-taria), che per il settennato 2014-2020 prevedono 21 miliardi di euro, c’è proprio la conservazione delle forme tradizionali di un paesaggio (prati e pascoli permanenti, per esempio, siepi e filari) e l’invito a non prediligere le monoculture, cioè le grandi estensioni con una sola coltivazione, che banalizzano i paesaggi rurali.
L’Osservatorio non parte da zero. Cinque anni fa è stato condotto uno studio che selezionava oltre un centinaio di paesaggi rurali storici, poi pubblicato da Laterza. Ha coordinato il lavoro Mauro Agnoletti, professore di agraria a Firenze e ora membro del comitato scientifico dell’Osservatorio (insieme, fra gli altri, a Giuseppe Barbera, agronomo palermitano, autore di molti libri, l’ultimo dei quali è Conca d’oro, edito da Sellerio; e Tiziano Tempesta, economista agrario, fra i più attivi misuratori del consumo di suolo nel suo Veneto). Regione per regione sono stati individuati e schedati i paesaggi storici. Dai piemontesi Alpeggi della Raschera alle colline vitate tra Tarzo e Valdobbiadene in Veneto; dalle Biancane della Val d’Orcia in Toscana ai Piani di Castelluccio in Umbria; dagli orti arborati delle colline di Napoli ai pistacchieti di Bronte, in Sicilia. Ne venivano raccontate le caratteristiche, i tratti rimasti integri nei secoli e le trasformazioni intervenute. Di questi paesaggi venivano indicate anche le vulnerabilità, che ancora dipendono dall’incedere del cemento, ma anche dall’abbandono, dal prevalere delle sterpaglie o dalla diffusione dei boschi e dai sistemi di conduzione tipici dell’agricoltura industriale.
In cento anni, dal 1911 a oggi, calcola Agnoletti, la superficie agricola si è ridotta da circa 22 milioni di ettari a poco più di 12 milioni, mentre quella boschiva è cresciuta da 4 milioni e mezzo a 11 milioni. La diversità delle tessere paesaggistiche si è andata riducendo sensibilmente a vantaggio di paesaggi più omogenei, quelli fissati dall’agricoltura industriale. Ma l’abbandono, l’assenza di manutenzione e la scomparsa di alcune forme di assetto agricolo, come i terrazzamenti, è anche causa di dissesti. Secondo Agnoletti, l’85 per cento delle frane avviene in terreni una volta terrazzati e laddove la vegetazione prevalente è arbustiva o boschiva.
«Il paesaggio agrario», spiega Agnoletti, «non è paragonabile a un monumento per il quale discutere se sia lecito darlo in uso a un privato per farci degli eventi. È una parte di territorio che può mantenere il suo valore se è in grado di produrre cibo o anche di fare turismo mantenendo i caratteri storici, estetici ed ambientali». Entro il primo marzo di ogni anno, si legge nel decreto, il ministero e le Regioni raccolgono e trasmettono all’Osservatorio le candidature per l’inserimento nel registro. Ed entro il 15 settembre l’Osservatorio decide, a maggioranza, se i paesaggi proposti sono meritevoli di entrare nell’elenco «in base all’origine, al valore storico, allo stato di conservazione, alla ricchezza di diversità bio-culturale e alle qualità estetiche ». Basta perdere una o più caratteristiche, basta una manipolazione grave, neanche uno scempio, e dal registro, però, si può anche uscire.

La Repubblica 18.02.14

I «futili motivi» che generano violenza, di Paolo Conti

Episodi di efferata violenza a Roma, a Parma, a Cantù, collegati tra loro da un filo rosso: i futili motivi. Una radio tenuta a volume troppo alto, uno sguardo di troppo, uno scambio di battute. Sciocchezze che generano drammi. Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet attribuisce questi fatti insensati, alle tendenze narcisistiche: «L’offesa, l’ipotetica umiliazione va lavata col sangue. È il tipico meccanismo che sta alla base del bullismo».
Uccidere per un rumore notturno, per una radio ad alto volume. Accoltellare perché tu sei di Como e lui è di Milano, anche se lavora duramente come te per guadagnarsi il pane quotidiano. Picchiare a sangue un tuo coetaneo di quindici anni, e in cinque, perché lui ha salutato e ha parlato per qualche secondo «di troppo» con la fidanzatina di uno del gruppo.
Tutti episodi diversi, e anche geograficamente lontani tra loro (l’omicidio è a Roma, l’accoltellamento è avvenuto a Cantù, il pestaggio a Parma) ma che sono collegati da un unico filo: quei famosi «futili motivi» previsti dall’articolo 61 del Codice penale come circostanze aggravanti.
Cosa può esserci di più futile di una radio accesa di notte, per esempio, come motivo per piantare un cacciavite di trenta centimetri nel costato, e quindi nel polmone, di un ragazzo di 33 anni. Siamo nella notte tra domenica 16 e lunedì 17, sono le 2. Rampa di via Garibaldi, che collega Trastevere alla terrazza del Gianicolo. Proprio al curvone, sotto il bel giardino dell’ambasciata irlandese presso la Santa Sede, da anni, almeno dal 2010, è parcheggiata una roulotte che ospita Joseph White Klifford, 57 anni, di origine indiana, senza fissa dimora e ospitato lì nel quadro dell’iniziativa «Amici per strada» coordinato dalla Comunità di Sant’Egidio. Alle 2 arriva una macchina che ha a bordo Carlo Macro, 33 anni, laureato in Biologia, e suo fratello Francesco di 36 anni, ingegnere. Un posto solitario, ideale per un impellente bisogno fisiologico notturno a fine serata. La radio in macchina è alta. Joseph esce, quel rumore l’ha svegliato, è nervosissimo, ha in mano un cacciavite con cui chiude ogni sera la porta della roulotte dall’interno. Un rapido alterco, una rissa, un lampo. E il cacciavite è nel torace di Carlo. Il fratello corre disperato all’ospedale Fatebenefratelli, all’Isola Tiberina. Ma per Carlo non c’è niente da fare. I carabinieri arrestano subito Joseph che ammette senza problemi di essere stato lui. Per rabbia. Appunto. Un lampo.
Probabilmente è lo stesso lampo che acceca Antonio Laurendi, 21 anni, pizzaiolo quando alle 3.30 del mattino di domenica 16 accoltella, in un parcheggio di Cantù, Andrea Mayer, meccanico di 26 anni, di Milano. Laurendi è con altri amici, due svizzeri e un altro italiano. Arriva un altro gruppo, tra cui c’è Mayer. E’ tardi, forse qualcuno ha bevuto, si litiga sulle origini geografiche, prima è uno scherzo poi ci si insulta, Laurendi afferra un coltello a serramanico dalla giacca e lo pianta nel ventre, nel torace e nell’inguine di Mayer, che ora è ricoverato in gravissime condizioni. Sembra una follia, eppure in un’era dominata dalla globalizzazione, anche una stupida concezione del localismo, nel cuore dello stesso Nord, può quasi far uccidere come nei lontani secoli bui.
Così come accade che a Parma, sabato pomeriggio, un ragazzino di 15 anni venga selvaggiamente pestato da un piccolo branco alle 16 nel centralissimo viale Osacca semplicemente perché ha salutato e scambiato qualche parola con la fidanzatina di un ragazzo che è di origine nordafricana, ma questo è assolutamente un dettaglio. I fatti. Il ragazzino riceve un sms sul cellulare in cui gli si chiede un «incontro chiarificatore» proprio per quel saluto. Lui ci va tranquillamente, forse proprio perché ha la coscienza a posto. Quando scende dall’autobus, verso le 16, all’angolo tra via Gramsci e via Osacca, viene circondato dal branco dei cinque che lo massacrano di calci e pugni. Un passante allontana gli aggressori e chiama i carabinieri. Ora il ragazzo è in ospedale, con una prognosi di un mese. Il padre ha chiesto al sindaco di occuparsi del fenomeno del bullismo «perché non si può pensare solo al cemento, qui un giorno ci scappa il morto»
Futili motivi, si diceva. Sciocchezze che generano drammi. Perché? Il problema di fondo è il narcisismo, elemento dominante di una contemporaneità tutta basata su come viene percepita l’immagine di sé dagli altri. Lo spiega bene il professor Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, psicoterapeuta dell’adolescenza, che da trent’anni anima a Milano il Consultorio gratuito per adolescenti e genitori della cooperativa sociale «Minotauro»: «Un tempo si uccideva per motivi politici, per motivi ideologici. Oggi il problema di fondo è il narcisismo. Ovvero l’offesa, l’ipotetica umiliazione, ciò che viene ritenuta una mancanza di rispetto, va lavata col sangue. Se la tua radio è troppo alta mi offendi e mi disturbi, e così se non mi porti rispetto perché sei di un’altra città o se saluti «troppo» una ragazzina. E’ il tipico meccanismo alla base del bullismo, per esempio: devi abbassare lo sguardo altrimenti devi batterti. Comunque vorrei far notare che recentemente sono tornate, tra le mani di troppi giovani, le lame, i coltelli. Ed è sicuramente un elemento sul quale si dovrebbe riflettere».

Il Corriere della Sera 18.02.14

«Scuola e lavoro, così ripartirà la Sardegna», di Marco Bucciantini

Eccolo, il nuovo governatore, in un’immagine: arriva a piedi, attraversa la città, ascolta i complimenti dei cagliaritani, distende i nervi, cammina, con le mani occupate: la sinistra stringe quella della moglie Adriana, la destra afferra il figlio Lorenzo. Francesco Pigliaru è il presidente della Sardegna. Avrà una maggioranza solida, guadagnata con oltre il 40% dei consensi. «E avrò una bella giunta, fatta di persone perbene». Il docente di economia politica, studioso di Keynes ma più vicino alle idee liberiste, sta con Renzi da sempre, «da quando perse con Bersani: il lavoro, le politiche attive: sono i temi che condivido». Dunque oggi è un giorno particolare, trovano insieme la meta. «Era destino. Mi ha telefonato, mi ha semplicemente detto: grande Francesco, grande vittoria, governeremo in parallelo. E lo ha ripetuto. Poi ha chiuso, era un giorno di grandi impegni, per lui. È importante che lui sia a Palazzo Chigi, abbiamo bisogno di un governo serio, che decida per risolvere i problemi delle persone. La sua visita qui è servita, ha portato energia e fiducia».

Pigliaru è un uomo magro e sobrio, un giornale lo ha definito «freddo», lui si è scusato: «Sono timido, rimedierò». Si sveglia presto, va a correre che ancora albeggia. Da ragazzo giocava a pallavolo nella Dinamo Sassari, da bambino ha perso il padre, Antonio, filosofo, studioso dell’Isola, dei suoi problemi, autore di un capolavoro di antropologia giuridica, La vendetta barbaricina come ord namento giuridico.

Il nuovo governatore è appassionato di libri (letteratura giapponese, in questi anni, soprattutto Haruki Murakami) e di cinema (Lo stato delle cose, di Wim Wenders, il suo film preferito). Ascolta i Rolling Stones. «Non sono un dirigente di partito, ho votato Pd ma non sono iscritto e adesso farò politica», questi i cardini che chiarisce, subito. La “seconda” carriera cominciò con un libro, L’ultima spiaggia, che Pigliaru scrisse con altri autori e che colpì Renato So- ru, trovandoci molte intuizioni su un diverso modello di sviluppo per l’Isola. Così i due si conobbero e Pigliaru divenne l’assessore alla Programmazione e al Bi-ancio della giunta del fondatore di Tiscali. Dopo due anni lasciò. «Soru voleva accentrare la programmazione economica, di fatto spolpava i miei compiti. Mi feci da parte». Adesso hanno ricucito i rapporti, Soru è stato al comitato tutto il giorno, a tifare.

Dopo 16mila dichiarazioni alle tv, Pigliaru si accascia sulla sedia, «posso?». Cominciamo noi.
Un sardo su due non ha votato. Un astensionismo che è sostanzialmente un partito del dissenso.

«La politica – tutta – deve ritrovare queste persone. Noi ci impegneremo con una bella giunta, con una politica con- creta e con persone oneste e perbene». Ci sono tre indagati nelle liste dei consiglieri regionali del centrosinistra. Poteva essere evitato un segnale così contraddittorio, dopo l’abbandono di Francesca Barracciu?

«È stata una scelta del Partito democratico. Che ha un codice etico. La rinuncia della nostra candidata che ha vinto le primarie dimostra che si è andati perfino oltre quel codice e quei vincoli, con un gesto di grande importanza e novità. Il Pd ha fatto molti passi nella direzione giusta, non tutti».

Credeva in questo ampio margine?

«Avevo capito che ce l’avrei fatta, le proporzioni mi rallegrano ma quando si va in battaglia si va a lottare per vincere senza aspettarsi altro. Avremo una maggioranza ampia, mettiamola a profitto per aiutare le persone di questa terra». È sorpreso dal 10% di Michela Murgia, che pensava di aver ben altro seguito?

«Non mi preoccupavo del suo risultato e non avevo idea di quanto potesse raccogliere. Forse nemmeno lei…».
La giunta Cappellacci è uscita di scena deliberando la revisione del piano paesaggistico che ammicca ai costruttori. Come lo bloccherà?

«Le delibere dell’ultimora hanno vita breve. Manca perfino la valutazione ambientale strategica, quel provvedimento non ha nemmeno valore giuridico. Lo impediremo. Il piano paesaggistico del 2004 sceglieva come sostanza per la qualità della vita dei cittadini e come veicolo di sviluppo la tutela del territorio sardo. Purtroppo i Comuni costieri non hanno avuto risorse per adeguarsi. Li aiuteremo perché non torneremo indietro rispetto a questa scelta della giunta Soru».

Lei fu “nominato” il giorno dell’Epifania, dopo la rinuncia della Barracciu. Non aveva timore di una candidatura debole e rischiosa, senza la legittimazione delle primarie?

«No. E credo ci siano cose più rischiose che l’avventura che mi è stata offerta. Posso dire di essermi messo a disposizione, fiducioso».

Perché non si candidò alla primarie?

«Perché i candidati in pista erano sufficienti, e perché non volevo “dividere”. E voglio aggiungere che le primarie so- no uno strumento importante, ma servono anche i tempi giusti per presentarsi, per lavorare alle candidature… ho l’impressione che ultimamente si facciano primarie troppo frettolose».

Perché ha vinto?

«Per i discorsi seri che non ho mai svenduto. Per i temi scelti, per quello che ho promesso e che farò. Perché il centrodestra non ha governato, non ha fatto niente e ha raccontato barzellette in campagna elettorale, promettendo la “zona franca”: avrebbero distrutto le finanze regionali, è una follia che ho smascherato subito, avrebbero lasciato la sanità senza una lira. Non hanno mai saputo rispondermi».

Da dove comincerà?

«Dall’istruzione e dal lavoro. Metteremo subito i soldi nell’edilizia scolastica perché dobbiamo convincere i ragazzi a studiare, anche accogliendoli in posti migliori, più sicuri. La dispersione scolastica è da Paese arretrato, al 27%. Com- binato alla disoccupazione toglie speranza ai sardi. Ecco un’altra bella parola: speranza. Deve tornare nel nostro vocabolario».

Il lavoro, il dramma di migliaia di famiglie isolane.
«È un territorio in profonda crisi, ovunque. Riuniremo le imprese, faremo un patto. Le sgraveremo di tasse inutili, semplificheremo la burocrazia. I primi Paesi a ripartire dopo la crisi sono stati quelli che hanno provveduto in queste direzioni. È facile desiderarlo, riuscirci è una sfida epocale. Poi bonificheremo le zone industriali, molte, per rilanciarle, per favorire investimenti per guardare al lungo periodo».

Come si vede nel nuovo ruolo?

«Un uomo con la responsabilità di molti problemi da risolvere, il regista di un’azione collettiva per aiutare la Sardegna a rinascere».

L’Unità 18.02.14