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"Università, bocciati all'abilitazione ma costretti a insegnare", di Salvo Intravaia

​Bocciati, ma costretti a rimanere in cattedra ad insegnare. Ecco il singolare destino di migliaia di ricercatori universitari italiani alle prese con l’Abilitazione scientifica nazionale: la patente introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria, in futuro, per partecipare ai concorsi per docente di prima – l’ex professore ordinario – e seconda – il professore associato – fascia. Ricercatori italiani, sfruttati e maltrattati? Stando ai loro racconti, sembra proprio di sì. Ma il tutto si svolge nel più assoluto riserbo, visto che nessuno se la sente di denunciare apertamente, se vuole continuare ad avere qualche chance all’interno del proprio ateneo.

Noi siamo riusciti a raccogliere qualche testimonianza, ovviamente anonima. E la storia è sempre la stessa. Giuseppe (nome, ma soltanto quello, di fantasia) da anni è “costretto” a sobbarcarsi l’insegnamento di una o addirittura due materie all’università perché gli atenei italiani non hanno sufficienti professori ordinari e associati per coprire l’intero ventaglio degli insegnamenti che impartiscono. “Per preparare le lezioni e garantire un servizio all’altezza della situazione sono costretto a trascurare la ricerca scientifica per cui l’università mi ha assunto”, spiega. Ma quando poi c’è in ballo l’abilitazione scientifica nazionale la maggior parte dei candidati viene bocciata in malo modo.

“Con le mie pubblicazioni non sono riuscito a rientrare nelle mediane fissate dal ministero”, aggiunge. Giuseppe e tanti altri non sono abbastanza bravi nella ricerca scientifica da essere promossi e vengono “trombati” nella selezione per l’Abilitazione scientifica nazionale, ma vengono mantenuti ad insegnare ugualmente le materie che hanno sempre garantito ai propri atenei, anche senza quell’abilitazione che certifica le competenze proprio per professore associato, la figura preposta all’insegnamento. Ma com’è possibile? Non sono in grado di insegnare, quindi? E allora perché continuano a farlo?

Tra i tanti paradossi, l’Italia vive anche quello che vedrebbe circa metà degli studenti universitari nelle mani di “professori” non idonei all’insegnamento. I nostri figli studiano con “professori” non all’altezza della situazione? E’ quello che una ricercatrice meridionale, Maria (anche questo nome di fantasia) ha cercato di fare capire ai suoi colleghi associati. Dopo essere stata silurata al concorso per l’Asn, ha preso carta e penna e ha scritto loro poche e semplici parole: “Non essendo idonea all’insegnamento, cosa devo fare: continuare ad insegnare la mia materia, oppure abbandonare la cattedra e rientrare in laboratorio per la ricerca?”. La risposta è stata chiara: “In fondo cosa cambia, non eri idonea prima e non lo sei neppure adesso. Puoi continuare ad insegnare”.

Scorrendo le lunghissime liste delle abilitazioni scientifiche nazionali pubblicate dal ministero si scoprono tantissime Marie e Giuseppe. A. A. insegna Sociologia del territorio per i servizi sociali all’università di Chieti-Pescara. Ma non ce l’ha fatta ad acciuffare l’abilitazione. G. B. è nelle stesse condizioni a Cagliari: insegna Geometria I nell’ateneo sardo, ma non ha superato l’ostacolo dell’abilitazione. A Pavia, A. C. insegna addirittura due materie: Diritto commerciale e Diritto dei mercati finanziari.

Stesso destino anche per A. T. docente di Microbiologia generale ed Enologia a Pisa ma che non ce l’ha fatta ad ottenere l’abilitazione nazionale. “Le pubblicazioni selezionate, così come la produzione scientifica complessiva, appaiono – recita il giudizio della commissione – di livello accettabile. Tuttavia, il contributo della candidata alle pubblicazioni selezionate appare molto moderato. La continuità della produzione scientifica selezionata e complessiva indica un notevole rallentamento negli ultimi anni. Gli altri titoli presentati sono di buon livello, ma non tali da controbilanciare le precedenti valutazioni. All’unanimità, non appare giustificata l’abilitazione scientifica nazionale della candidata per il ruolo di professore di II fascia”.

E i numeri confermano che senza il contributo all’insegnamento dei ricercatori l’università si bloccherebbe. Secondo la banca dati del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il corpo docente di ruolo è composto da poco meno di 55mila tra ordinari, associati e ricercatori. I professori abilitati all’insegnamento – di prima e seconda fascia – sono circa 30mila, ma gli insegnamenti che si impartiscono in tutti gli atenei nostrani sono quasi 77mila. Ogni prof dovrebbe quindi sobbarcarsi il peso dell’insegnamento di due o tre materie all’anno. Ma, di fatto, buona parte della didattica è delegata ai ricercatori ai quali viene chiesto di aderire “volontariamente”.

Il popolo degli addetti alla ricerca è il più numeroso: oltre 24mila ricercatori a tempo indeterminato e 1.800 a tempo determinato. I quali, gratuitamente, si accollano da anni l’insegnamento di una o due materie. In alcuni casi, i ricercatori reggono interi corsi di laurea. Ma la riforma Gelmini si è praticamente scordata di loro: dovranno partecipare all’abilitazione scientifica nazionale come qualsiasi soggetto che voglia intraprendere la carriera universitaria per ottenere il lasciapassare per il successivo concorso. Intanto, con o senza abilitazione, continuano a insegnare.

da www.repubblica.it

"Ma ora il premier non può fallire", di Michele Ciliberto

Ma questa è ormai acqua passata e non serve recriminare. Il problema sul tappeto è, ora, la costituzione del nuovo governo e l’azione che esso può svolgere in condizioni di gravi difficoltà. Esprimo con chiarezza il mio punto di vista: la possibilità dell’Italia di cominciare a uscire dalla crisi che l’attanaglia da alcuni decenni è strettamente legata alle forme e ai contenuti con cui si svolgerà e si concluderà questa vicenda. La formazione e la presentazione di un governo sono sempre un atto solenne nella vita di una Nazione, ma in questo caso in ballo c’è qualcosa più profondo, di più radicale, di cui, anche a sinistra, occorre avere consapevolezza.
La crisi italiana ha avuto, tra molti aspetti, un tratto specifico, rappresentato dalla crisi e poi dalla sostanziale rottura del rapporto di fiducia tra «governanti» e «governati», fra il popolo sovrano e le sue classi dirigenti, specialmente quelle impegnate nella sfera politica. È qualcosa che viene da lontano, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, accentuato dalla crisi dei primi anni Novanta con il declino e la fine dei partiti della prima repubblica, acuita al massimo nel ventennio berlusconiano. Quando il presidente della Repubblica decise di affidare la guida del governo a Mario Monti, cioè a un tecnico, prese atto di questa situazione, e con gli elementi a disposizione cercò di trovare una via di uscita, che facesse i conti con questa situazione. Si può discutere, come ha fatto di recente un giornalista americano, la procedura seguita, ma questa è la sostanza della cosa: una presa d’atto della crisi della rappresentanza politica, in un momento gravissimo sia sul piano nazionale che su quello internazionale.
In che modo siano andate le cose è sotto gli occhi di tutti, e non sto qui a sottolinearlo, se non per dire che lo scarto tra «dirigenti» e «diretti », in quel periodo, si è ulteriormente approfondito, come era del resto prevedibile: la tecnica non ha mai risolto i problemi della politica e della rappresentanza politica, a meno di non imboccare strade autoritarie; ma, con questo, si esce fuori dalla democrazia.
Considerati oggi, i tentativi di Monti di dar vita a un nuovo partito di Centro sorprendono per l’incomprensione che rivelano del livello e dei caratteri della crisi italiana. Eppure, c’era già Grillo a testimoniare, con il suo successo e il suo lessico a quale punto di deterioramento fosse ormai arrivato il rapporto di fiducia – fondamento di ogni democrazia – tra «dirigenti» e «diretti», e come la crisi della Repubblica stesse, in effetti, precipitando a una sorta di punto di «non ritorno», con una rottura delle stesse basi costituzionali.
La vicenda politica del nuovo segretario del Pd va collocata su questo sfondo, per essere decifrata in modo adeguato. Viene da lontano, non è improvvisata, ma certo è stata fortemente favorita, negli ultimi anni, dalla sua indubbia capacità di incrociare alcune dinamiche profonde della Nazione e di entrare in sintonia con esse, sia a destra che a sinistra, scegliendo, in modo programmatico, di mettersi oltre i confini tradizionali della politica, rottamando il vecchio e venendo incontro, con un lessico politico essenziale e «selvatico», al bisogno di cambiamento che esiste nel Paese; una esigenza, un’ansia di novità tanto profonde quanto indifferenziate, ma assai diffuse dopo la fine del ventennio berlusconiano, sia a destra che a sinistra. In questo senso è vero, per quanto paradossale, che il segretario del Pd è al tempo dentro e fuori i confini del suo partito. Se non si capisce questo non si intende né la sua figura né perché abbia avuto successo con le primarie battendo concorrenti che apparivano o più legati a logiche e storie di partito o più nettamente schierati in un orizzonte di sinistra. Il segretario del Pd ha vinto perché è riuscito a sparigliare il gioco su entrambi i lati. Dire che è un frutto del berlusconismo non serve a niente, anzi è una sciocchezza: certo, si serve delle «forme» di comunicazione e propaganda messe in circolazione nel ventennio, ma le situa in un contesto assai diverso, coerente – se si vuole – con il mondo da cui proviene.
Di tutto questo le primarie sono state un effetto e una conferma notevole, nonostante il tentativo – inutile – che oggi si fa di ridurre, sul piano quantitativo, la forza di quel successo. Non sono comunque i numeri che, in questo caso, contano: ciò che conta, sul piano politico, è che in esso si è espresso l’ansia di cambiamento e di novità che percorre, come un fiume carsico ma assai potente, la nostra società: ferita, dolente, ma non vinta. Di qui, da questo bisogno, occorre partire se si vuole esprimere un giudizio corretto sulla situazione attuale: se esso fosse frustrato non sarebbe grave solo per le sorti personali del segretario del Pd, ma per il Paese. Questo è, oggi, il punto su cui occorre riflettere, per le duplici, e opposte, prospettive che questa vicenda può aprire.
Se il segretario del Pd riesce a fare un governo all’altezza delle aspettative che si sono concentrate sulla sua persona, verrà fatto un importante passo in avanti; se invece fallirà aumenterà il livello di sfiducia, di risentimento politico e sociale, di distacco dalla politica, e prenderanno sempre più corpo le forze che già di sono poste fuori dal sistema democratico rappresentativo giocando con durezza la carta della democrazia diretta per scardinare le basi della legalità repubblicana.
Siamo dunque a un passaggio importante che bisogna considerare con mente fredda, senza farsi travolgere dai sentimenti e dalle emozioni. Oggi, è importante che il segretario del Pd vinca la sua partita, non in «assenza di gravità» ovviamente; ma sulla base di un programma che raccolga i punti più innovativi delle sue proposte: lavoro, scuola, cittadinanza agli immigrati, diritti civili…
Ce la farà con il materiale a sua disposizione? Questo è il punto veramente decisivo, e qui si misureranno le sue capacità, anche nel riuscire ad attrarre forze nuove nel suo progetto. Colpisce, ad esempio che personalità di primo piano stiano rifiutando di entrare nel governo: è un segno ulteriore, se ce ne fosse bisogno, della frattura che c’è oggi fra «politica» e «società», della diffidenza verso l’azione politica anche nei suoi punti più alti: il Parlamento e la funzione del governo. E questo conferma anche che nelle nostre classi dirigenti non c’è adeguata consapevolezza della crisi in atto, e degli esiti in cui essa può sfociare.
Nel medioevo si attribuivano ai re capacità taumaturgiche con cui, secondo la leggenda, guarivano gli «scrofolosi» attraverso l’imposizione delle mani. Non so se il segretario del Pd abbia qualcuna di queste capacità miracolose: gli sarebbero necessarie. Ma una cosa invece è chiara, e spero sia chiara anche a lui: se non è possibile formare un governo che rappresenti un effettivo elemento di novità e avviare una politica che corrisponda all’ansia di mutamento del Paese, meglio fermarsi e cercare di imboccare altre strade.

L’Unità 18.02.14

"Tasse e spesa pubblica, il coraggio di cambiare", di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Da quando è scoppiata la crisi si è messa in moto una spirale perversa: il divario nella distribuzione del reddito è aumentato, i consumi non hanno fatto che diminuire, gli investimenti privati sono crollati, le fosche prospettive di crescita hanno spinto le banche a ridurre drasticamente i prestiti alle famiglie e alle imprese (60 miliardi di euro in meno nel 2013). La caduta delle vendite e dei finanziamenti bancari ha determinato il fallimento di decine di migliaia di piccole imprese e ha spinto le imprese più grandi a trasferire la produzione in paesi a bassi salari e minore pressione fiscale. Di conseguenza, l’attenzione si è concentrata sull’insostenibilità del prelievo fiscale, sebbene le tasse fossero già alte da anni. In questo quadro la ricetta che viene riproposta si basa sulla flessibilità del lavoro, sui tagli alla spesa pubblica e sulle privatizzazioni. Eppure un economista come Innocenzo Cipolletta, da sempre vicino agli ambienti industriali e finanziari, ha da poco pubblicato un libro dal titolo emblematico: “In Italia paghiamo troppe tasse? Falso!”. Secondo l’Eurostat, infatti, la spesa pubblica italiana al netto degli interessi è inferiore dell’1,6% rispetto alla media dell’Eurozona e se è vero che il totale delle entrate pubbliche raggiunge il picco di 684 miliardi di euro, è altrettanto vero che le tasse effettive sono pari a 472 miliardi di euro. Il resto rappresenta contributi sociali, cioè accantonamenti obbligatori che poi vengono restituiti sotto forma di pensioni. Corretta in questo modo la pressione fiscale italiana è inferiore persino a quella della Gran Bretagna e prossima alla media europea. Il problema del prelievo fiscale è la sua iniquità: troppo alto sui redditi da lavoro, sulle pensioni, sull’energia e sulle imprese, basso sulle rendite finanziarie, sui patrimoni e sui consumi voluttuari e inquinanti.
Per contrastare il divario tra ricchi e poveri, Barack Obama ha annunciato che, scavalcando il Congresso, emetterà un decreto per alzare dal prossimo anno il salario orario minimo per i nuovi contratti dei lavoratori federali a 10 dollari dal valore attuale di 7 dollari. Si tratta di un intervento che, seppure circoscritto a una piccola parte di lavoratori, rappresenta un segnale significativo per invertire una tendenza che dura ormai da troppi anni.
Sono dunque necessarie misure di grande portata per bloccare la spirale che ci sta trascinando a fondo. Ovviamente l’Europa può costituire il motore della ripresa economica e per questo bisognerà sfruttare al meglio il semestre di presidenza europea che parte a luglio del 2014. Ma nel frattempo dobbiamo prendere iniziative qui in Italia. Uno dei punti critici è rappresentato dal sistema bancario che, diversamente dalla fase precedente alla crisi del 2008, non sta più finanziando in modo adeguato l’economia reale. In questo ambito c’è un errore strategico delle autorità europee: il vano sforzo di far ricapitalizzare le banche attraverso l’immissione di nuove risorse finanziarie. Questi interventi non saranno mai sufficienti se non riparte il ciclo economico: solo la ripresa della domanda, infatti, renderà gli attivi bancari più liquidi e farà aumentare la capitalizzazione delle banche. Pertanto, è cruciale che le risorse finanziarie siano impiegate per sostenere i consumi e i redditi bassi e per creare nuova occupazione anche nel settore pubblico. E qui si ricollega la questione del decreto sulla rivalutazione delle quote bancarie di Bankitalia che ha sollevato un gran polverone. Mentre il Governo incasserà nell’immediato un extra-gettito fiscale e le banche conseguiranno un rafforzamento patrimoniale, le imprese e le famiglie non avranno nessuna garanzia di avere maggiore credito se la crescita dell’economia non riparte. Per contrastare la carenza di moneta nell’economia reale sarebbe opportuno ricorrere anche alle monete complementari: i titoli di Stato come i Bot potrebbero avere un ruolo importante in tale strategia.
Per concludere, se è vero che il destino del nostro Paese dipende dalle future politiche europee, è altrettanto vero che in Italia è giunto il momento di mettere all’opera delle politiche dei redditi, fiscali e creditizie all’altezza della gravità della situazione. Ed è necessario promuovere grandi investimenti pubblici attivando sia le imprese sotto il controllo dello Stato che la Cassa Depositi e Prestiti. I margini di manovra, seppure esigui, esistono e vanno sfruttati nel migliore dei modi.

La Repubblica 18.02.14

Francesco Pigliaru è il nuovo governatore della Sardegna

“Ho appena telefonato a Francesco Pigliaru nuovo Presidente della Regione Sardegna. #cominciamoildomani”. Lo ha scritto Matteo Renzi su twitter, quando a oltre metà dello spoglio si profila una netta affermazione del candidato di centrosinistra, che si attesta al 43,16% dei voti contro il 38,57% di Cappellacci.

E anche il Governatore uscente ha chiamato l’avversario, facendo gli auguri al nuovo presidente della Regione Sardegna.

L’affluenza definitiva è stata del 52,2% degli aventi diritto.

*****

“Lo straordinario risultato di Francesco Pigliaru è il frutto del grande lavoro del Pd sardo e il segno di un cambiamento importante per l’isola e per il Paese. Un successo costruito tra la gente, nel territorio, con il vento della novità che viene dal nuovo Pd di Matteo Renzi. Non sfugge a nessuno il significato politico più generale di questa prova per la quale ringrazio i militanti, gli elettori, i volontari e tutto il partito che ci ha creduto fino in fondo”. Così Lorenzo Guerini, portavoce segreteria del Partito Democratico.

Per Luca Lotti, responsabile Organizzazione del Partito Democratico, “la grande vittoria in Sardegna di Francesco Pigliaru suggella una nuova stagione per il Partito democratico sardo e nazionale. Ringrazio il candidato, la sua squadra, il Pd dell’Isola, tutti i volontari e i militanti, gli elettori che hanno creduto a un risultato che fino a qualche settimana fa sembrava impossibile. Abbiamo lavorato a testa bassa in poche settimane per consentire al Pd sardo di lasciarsi alle spalle la stagione di Cappellacci e ritrovare orgoglio, unità ed entusiasmo. Si è cambiato verso in Sardegna, si sta cambiando verso in Italia, a dimostrazione di un ritrovato protagonismo dei democratici”.

www.partitodemocratico.it

Proroga per 3 anni alle tasse nel cratere del sisma 2012: l'emendamento del PD

In calce trovate il testo dell’emendameno del PD per la proroga triennale per la restituzione del prestito concesso alle imprese del cratere del sisma 2012 per far fronte al pagamento di tasse e tributi. Sarà discusso stanotte in Commissione Bilancio del Senato; si tratta dello stesso emendamento già approvato al Senato nel dicembre scorso, ma che decadde perchè le opposizioni, in particolare il M5S, chiesero e ottennero la mancata conversione del decreto Salva Roma.
Il testo fu allora condiviso con il Governo, pertanto sulla sua approvazione nutriamo un fondato ottimismo.

Il lavoro che da mesi abbiamo svolto per arrivare all’approvazione di questo emendamento – molto articolato, solido sotto il profilo della copertura finanziaria e del rispetto della normativa in materia di aiuti di Stato – ci ha portato a non condividere l’emendamento del collega Ferraresi, apparentemente analogo ma non altrettanto solido (soprattutto per quanto riguarda la copertura, e quindi non accolto dal governo).
Aggiornamento a domani

7.0.31
BROGLIA, VACCARI, PIGNEDOLI, BERTUZZI, RITA GHEDINI, COLLINA, IDEM, LO GIUDICE, MIGLIAVACCA, PAGLIARI, PUGLISI, SANGALLI
Dopo l’articolo 7 aggiungere il seguente:
«Art. 7-bis.
1. Per i finanziamenti contratti ai sensi dell’articolo 11, commi 7 e 7-bis, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213, nonché ai sensi dell’articolo l, comma 367, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 e ai sensi dell’articolo 6, commi 2 e 3, del decreto-legge 26 aprile 2013, n. 43, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2013, n. 71, ia restituzione del debito per quota capitale al 1o gennaio 2014, comprensivo della rata non corrisposta alla scadenza del 31 dicembre 2013 ai sensi del successivo comma 10-ter, viene prorogata, previa modifica dei contratti di finanziamento e connessa rimodulazione dei piani di ammortamento dì tre anni rispetto alla durata massima originariamente prevista. La Cassa depositi e prestiti Spa e l’Associazione bancaria italiana adeguano le convenzioni di cui all’articolo 11, comma 7, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213, nonché ai sensi dell’articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, nonché all’articolo 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 2013, n. 43, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2013, n. 71, in coerenza con le disposizioni di cui al presente comma. Ai maggiori oneri per interessi e per le spese di gestione strettamente necessarie, derivanti dalla modifica dei contratti di finanziamento e dalla connessa rimodulazione dei piani di ammortamento dei finanziamenti ai sensi del presente comma, si provvede nel rispetto dei limiti dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 11, comma 13, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213. Le garanzie dello Stato di cui ai decreti del Ministro dell’economia e delle finanze emanati ai sensi dell’articolo 11, comma 7, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213, nonché ai sensi dell’articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, e di cui all’articolo 6, commi 2 e 3, del decreto-legge 26 aprile 2013, n. 43, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2013, n. 71, assistono, senza ulteriori formalità e ai medesimi criteri e modalità di operatività stabiliti nei predetti decreti, i finanziamenti contratti ai sensi delle rispettive disposizioni normative, come modificati per effetto della rimodulazione dei piani di ammortamento derivante dall’attuazione del presente comma.
2. La rata per capitale e interessi in scadenza il 31 dicembre 2013 viene corrisposta unitamente al piano di rimborso dei finanziamenti rimodulati ai sensi del comma 1.
3. Ai fini del rispetto della normativa in materia di aiuti di Stato la proroga di tre anni di cui al precedente comma è condizionata alla verifica dell’assenza di sovracompensazioni dei danni subiti per effetto degli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012, tenendo conto anche degli eventuali indennizzi assicurativi, rispetto ai limiti previsti dalle decisioni della Commissione europea C(2012) 9853 final e C (2012) 9471 final del 19 dicembre 2012. Le disposizioni attuative inerenti la verifica della assenza di sovra compensazioni sono stabilite tramite Ordinanze commissariali dei Presidenti delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, in qualità di commissari delegati, ai sensi dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 6 giugno 2012, n. 74, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2012, n. 122. Le disposizioni di cui al presente comma e ai commi 1 e 2 entrano in vigore alla data di pubblicazione della presente legge nella Gazzetta Ufficiale».”

«Sono qui, ma potrebbe essere l’ultima volta», di Laura Matteucci

L’interrogativo è: ma fuori di qui dove vado? Io un’altra casa non ce l’ho». Domenica pomeriggio in un circolo Pd di Milano, zona centrale: Luisa è presidente di seggio, lo fa da anni, primaria dopo primaria, ma stavolta «sì, per un attimo ho pensato di passare la mano». Invece è lì, un’altra domenica regalata al partito, ancora al lavoro. Anche se di lavoro ce n’è poco, in effetti: alle primarie che incoronarono Renzi in quello stesso circolo votarono oltre 2mila persone, stavolta sono stati accorpati due seggi e «se arriviamo a 100 votanti è tanto ». Così, giusto per farsi un’idea delle proporzioni. D’accordo: nei 661 seggi allestiti la fila, stavolta, non se l’aspettava nessuno. Si elegge la segreteria regionale del Pd: poco battage promozionale per un livello intermedio che non suscita troppe curiosità. Ma qui c’è molto, moltissimo, di più.
«LA BASE NON È STATA ASCOLTATA»
L’aria che tira sulle primarie democratiche di Lombardia è decisamente uggiosa. E non è solo una questione meteorologica. Tessera in mano, nonostante fossero primarie aperte (e in molti casi esibita senza orgoglio), età media oltre gli anta, aria smarrita: il profilo del «comunque votante» è decisamente cambiato rispetto a solo due mesi fa. Nel migliore dei casi, tanta voglia di capire e di giocarsi, comunque, quest’ultimo jolly – «ultimo per me stesso e per tutto il Pd», come dice Giancarlo anche a nome di molti altri – facendo quadrato intorno a Renzi attendendone governo e mosse prossime venture. Altrimenti, solo di sfogare rabbia e delusione. Per la segreteria, qui se la giocavano la civatiana Diana De Marchi e il renziano Alessandro Alfieri, ma al di là di candidati e risultati, è andata più o meno come nelle altre regioni: voti poche migliaia, e quasi solo di tesserati, discussioni tante. Lo sconcerto si riversa sul voto: l’outsider De Marchi, che sembrava dovesse essere una candidatura di mera testimonianza, in molti seggi surclassa il favorito Alfieri.
Delle regionali, ovviamente, si parla poco e niente: dopo aver vagliato la situazione per giorni al chiuso delle proprie case e scaricato batterie intere sui social network, l’ultima chiamata ai seggi di questo percorso congressuale diventa il primo momento di confronto collettivo sui ribaltamenti della settimana. Tutto interno al Pd. La base è scossa: sono discussioni lunghe e accese, filze di domande, giustificazioni e accuse oltranziste, ma per lo più posizioni attendiste e tanta voglia di chiarezza. Giancarlo è un renziano della prima ora, e ammette che «la svolta è stata notevole, sia rispetto alla linea del Pd, sia rispetto a quella personale di Renzi: è ovvio ci sia sorpresa, in molti casi stordimento e indignazione. Anche perché la base non è stata ascoltata per niente». E però. Per spiegare l’accaduto, Giancarlo chiama in causa i «motivi di urgenza, economica e occupazionale». Quindi va sul classico, sulla metafora sportiva: «Quando una squadra sta per perdere che fa? Mette un attaccante. Il nostro è Renzi, è l’ultima carta che abbiamo da giocare. Certo, rischia lui e rischiamo tutti noi. Moltissimo». C’è chi ricorda il prossimo test delle europee di maggio, qualcuno teme il tracollo, altri sono convinti che nel frattempo Renzi sarà riuscito a portare a casa «alcune cose importanti », che «faranno dimenticare» o addirittura «giustificheranno» gli ultimi giorni. Teresa riporta gli umori del suo circolo, Milano nord, dove a fine giornata i voti non sono arrivati a 100 contro i 2000 dell’8 dicembre, comprese molte schede bianche: «Come i renziani, anche i cuperliani sono divisi – dice – c’è chi ha accettato il voto in segreteria, e chi invece parla di guerra tra bande ed è convinto che Cuperlo avrebbe dovuto almeno astenersi».
Sul disagio del militante medio aleggiano intanto le parole di Pippo Civati, che tra l’altro ha votato pure lui in Lombardia, a Monza. L’unico che si è dichiarato contrario al passaggio Letta-Renzi, che ha parlato del disagio di una decina di parlamentari e che ha anche lasciato pensare alla possibilità di una fuoriuscita a sinistra (anche se «non ho mai parlato di scissione», chiarisce poi lanciando l’hastag #Matteo stai sereno »). Provocazione o embrione di progetto che fa gola? «Per me, il Pd resta il progetto più valido – dice il civatiano Luca – E, pensando anche a chi parla di un patto con Berlusconi, non penso che il confronto con Forza Italia possa andare più in là della legge elettorale. Certo, il Pd a febbraio scorso i voti li ha presi con un progetto di centrosinistra, adesso vedremo che linea politica adotterà… ». Come dire, nulla è scontato. Anche Silvia è civatiana, candidata in lista con la De Marchi: «È un azzardo, se Renzi fallisce è finita per lui e per il Pd – dice -Ma la mia è una posizione di lealtà rispetto al partito, voglio fare da stimolo, ma dall’interno. E mi sembra che così la pensino in molti: l’altro giorno il clima era più battagliero, prevaleva la rabbia, adesso c’è voglia di restare uniti e di fare quadrato intorno a Renzi e al nuovo governo». Un’altra civatiana, invece, taglia corto: «Che lo spazio a sinistra ci sia lo sappiamo in tanti. È evidente che bisogna trovare un’alternativa, e che il momento è arrivato». Come dice una vignetta che spopola su Facebook: «Dimmi qualcosa di sinistra. Addio».

L’Unità 17.02.14

"Il rebus europeo che vale 3 miliardi", di Angelo De Mattia

Il primo grande scoglio in economia che il Governo di Matteo Renzi, se si costituirà, dovrà affrontare riguarda il riconoscimento, da parte della Commissione Ue, della causola di flessibilità per investimenti.
Sarà anche la cartina di tornasole della solidità delle dichiarazioni rese nelle scorse settimane dal nominando premier sulle ipotesi, ritenute non irrealistiche, dello sforamento dei parametri del Patto europeo di stabilità e crescita.

Il problema si pone perché la Commissione, nei giorni scorsi, ha fatto presente che, non essendo stati comunicati dall’Italia i dati sui risparmi di spesa, che rappresentano una condizione per l’ammissibilità del ricorso alla suddetta clausola, sono venute meno le possibilità per il suo riconoscimento, avviandosi Bruxelles, a partire dal prossimo 25 febbraio, a formulare le stime economiche per i paesi dell’Unione per il corrente anno. L’utilizzo della clausola varrebbe circa 3 miliardi, peraltro già previsti nel bilancio. Il Tesoro ha replicato alla presa di posizione della Com- missione, da un lato, preannunciando che i dati richiesti saranno comunque comunicati e, dall’altro, che la concreta attivazione della clausola in questione comporterà comunque una «manovra» per la compensazione dal lato della spesa.

Occorre avere presente che, uscita l’Italia dalla procedura di infrazione e collocandosi il beneficio della flessibilità per investimenti pur sempre entro il parametro del 3 per cento relativo al rapporto deficit-Pil – che per l’anno è stimato al 2,5 per cento – ne discende quasi un diritto al conseguimento di tale beneficio, pur in presenza di ritardi nell’elaborazione dei programmi di spesa e, in particolare, nella pubblicizzazione dei primi impatti possibili della spending review; a proposito di quest’ultima vi sono state fin qui innumerevoli dichiarazioni e buoni propositi del commissario Carlo Cottarelli, ma ora è venuto il momento della concretezza. Non può essere il solo ritardo a escludere dall’agevolazione.

L’Unità 17.02.15