Latest Posts

"Il Colle non interverrà sulla scelta dei ministri", di Marzio Breda

«Non mi farò imbrigliare, io tiro dritto», avverte Matteo Renzi e questa sfida incrina le sicurezze di chi era convinto di poter facilmente condizionare la genesi del nuovo governo con un gioco di pressioni, raccomandazioni e interdizioni. Stamattina il premier in pectore avrà l’incarico da Giorgio Napolitano. E tra mercoledì e giovedì, quando dovrebbe sciogliere la riserva, si vedrà se sarà riuscito a mantenere quanto ha detto o se i negoziatori ufficiali (Alfano e non solo) e i frenatori occulti (l’ala sinistra del Pd, tra gli altri) lo avranno condizionato su un compromesso al ribasso rispetto alla promessa che «la rivoluzione partirà», trascinando anche lui nella palude.
Fermo restando che lo schema dell’alleanza non dovrebbe cambiare, se non altro perché dalle consultazioni non sono emerse alternative, la partita si giocherà su programma e ministri. Due versanti critici sui quali il capo dello Stato si concederà solo dei consigli generali, di metodo, che del resto ha già fatto conoscere. Per lui serve in primo luogo un accordo stretto, concordato punto per punto fra i partner, in cui si tengano insieme le riforme — in primis la legge elettorale — e le misure per agguantare la ripresa. E serve poi che la squadra dell’esecutivo sia composta da personalità autorevoli e, per certi ministeri come l’Economia, con una reputazione tale da trovare immediata credibilità nei fori europei sui quali il Paese resta ancora sotto sorveglianza. Cioè: l’Ue, la Banca centrale, il Fondo monetario.
La sua «assistenza» si ferma qui. Infatti, anche se l’articolo 92 della Costituzione gli attribuisce la prerogativa di «nomina» dei ministri che gli vengono “proposti” dal presidente del Consiglio — un potere quasi, ma non proprio, duale — nomi non ne farà. Questo esecutivo, infatti, non reca il sigillo del Quirinale, come invece è stato per quelli di Monti e Letta, sui quali a tratti è parsa evidente una forma di «patronage». Lo si è visto sia con certe coordinate tematiche rilanciate a più riprese dal Colle (basta pensare all’insistenza sui dossier del lavoro, dei giovani, della ricerca, delle carceri), sia con qualche suggerimento sull’identikit ideale dei titolari di alcuni dicasteri delicati.
Napolitano potrebbe, questo sì, sollevare dubbi se gli arrivasse sul tavolo qualche candidatura chiaramente inadeguata o indigeribile (vale la pena di ripeterlo: è successo a Scalfaro quando Berlusconi pretendeva che il suo avvocato, Previti, diventasse ministro della Giustizia). L’eventuale intervento inibitorio del Quirinale dovrebbe però limitarsi a situazioni che si profilino al limite della costituzionalità, perché la responsabilità finale delle scelte ricade su chi le propone. Per restare all’Economia, dossier caldissimo: meglio un politico con vasta esperienza internazionale su questa materia? Oppure può fare meglio un tecnico della new generation, magari uscito da un ufficio studi? O chi altro? Quale peso dare all’allarme fatto scattare poche ore fa da Fabrizio Saccomanni: «Attenti a cambiare passo, il rischio è che ci si fermi»?
Da oggi tocca a Renzi assumersi il rischio di sciogliere questi nodi. Date le fibrillazioni in corso tra i partner della vecchia/nuova maggioranza, dati i sospetti reciproci da dissolvere, date alcune «resistenze di paura» che si sono subito profilate, nessuno lo incalzerà perché chiuda di corsa. Può prendersi tutto il tempo di cui ha bisogno, dopo aver ricevuto l’incarico. Per il presidente della Repubblica l’importante è che — come ha auspicato durante i colloqui — si riescano a fissare convergenze dettagliate ed equilibri programmatici come li si può concordare solo siglando un’intesa non frettolosa.
Il fallimento non è contemplato. Non ci sono soluzioni di riserva. Napolitano l’ha fatto capire in ogni maniera, prima di chiudersi ieri in una pausa di riflessione. Insomma: resterebbe unicamente un ritorno alle urne. Il che, con il relitto di sistema elettorale sopravvissuto alla bocciatura del Porcellum venuta dalla Consulta, garantirebbe una catastrofica ingovernabilità.

Il Corriere della Sera 17.02.14

"Giù i redditi Famiglie con l’incubo povertà", di Carlo Buttaroni

Hanno disceso la scala sociale ritrovandosi sulla soglia della povertà. Dall’inizio della crisi, anno dopo anno, i redditi sono diminuiti. -3,5% rispetto al 2008, prima che l’onda d’urto si abbattesse sul nostro Paese. Sono povere le famiglie italiane: solo il 3% può dirsi al sicuro, contro un 47% che vive in condizione di vulnerabilità e un 50% che fa i conti con periodiche difficoltà finanziarie. In termini reali, tra aumento della tassazione e dinamica dei prezzi, nel loro portafoglio mancano quasi 3mila euro. Per la spesa, per curarsi, per investire sul futuro dei figli. Dopo oltre mezzo secolo, persino lo spettro della povertà alimentare ha ripreso ad aggirarsi nel nostro principale aggregato economico e sociale.

Un aggregato composto da 25,3 milioni di famiglie, la grande maggioranza delle quali è costretta a fare i conti con una quotidianità incombente e un futuro minaccioso. Stringere la cinghia è l’istruzione principale del kit di sopravvivenza di cui gli italiani si sono dovuti do- tare. Per 8 famiglie su 10, la strategia di contenimento della spesa si è tradotta in una riduzione della quantità dei generi da mettere nel carrello o nell’acquisto di prodotti di qualità inferiore, fino a consumare addirittura prodotti scaduti.

CAMBIANO LE ABITUDINI

Nel 2012 la spesa media delle famiglie è diminuita del 2,8% rispetto all’anno precedente, in linea con un calo dei redditi del 2,1%. Un nuovo palinsesto della quotidianità che si traduce nell’affannosa ricerca della quadratura del bilancio familiare e in un cambio profondo delle abitudini d’acquisto: sono aumentate le famiglie che scelgono i discount a scapito dei negozi tradizionali.

È diminuita la parte di spesa destinata all’acquisto di arredamenti, elettrodomestici e servizi per la casa, quelle per cinema, teatro, giornali, libri e giocattoli, e anche quella destinata alla cura della salute. In soli due anni è aumentata di quasi dieci punti la percentuale di quanti non possono permettersi un pasto proteico al giorno e non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Le strategie di contenimento della spesa vedono coinvolte sia le famiglie del nord che quelle del mezzogiorno, con le prime cresciute addirittura più delle seconde.

Nonostante le famiglie (sul fronte dei consumi) e le piccole e medie imprese (sul fronte della produzione) siano i principali attori economici del nostro Paese, per entrambi il prezzo della crisi è stato durissimo, con dinamiche profondamente connesse tra loro. La stragrande maggioranza delle PMI italiane, infatti, produce per il mercato interno e per il quale vale la regola che la spesa di alcuni è il reddito di altri. La crisi e le politiche «lacrime e sangue» hanno prodotto un avvitamento nel nostro sistema economico: giù i consumi e giù la produzione, licenziamenti e cassa integrazione con ulteriore riduzione dei redditi. Una spirale che ha fatto precipitare la fiducia nel futuro.

CASO UNICO

Nel momento più acuto della crisi, in Italia è successo l’opposto di quello che è accaduto nel- le altre grandi economie. Il Pil e i redditi delle famiglie sono diminuiti, rispettivamente, più del 5% e 3%. Nella maggior parte degli altri paesi avanzati, invece, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in
Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). Anche nel 2012, il reddito delle famiglie è diminuito (-2,1%), mentre è cresciuto nel Regno Unito (+5%), in Germania (+2%) e Francia (+1%). Un andamento che, in Italia, si riflette nella progressiva contrazione dei consumi, quando persino la corazzata tedesca, contrariamente a quanto si crede, è riuscita ad attraversare la tempesta grazie soprattutto alla tenuta della domanda interna, piuttosto che per i risultati dell’export.

L’onda destrutturante della crisi economica ha impattato sulle fragili paratie delle famiglie italiane, già deboli per il deficit storico delle nostre infrastrutture sociali. Se i dati evidenziano la crescita delle famiglie che non dispongono più di una dotazione sufficiente a coprire i consumi di base, anche sul fronte delle politiche sociali le famiglie italiane stanno peggio rispetto a quelle delle altre economie avanzate europee, dovendosi far carico direttamente della disoccupazione dei figli, della cura dei nipoti e dell’assistenza agli anziani. E con la crisi è successo di più: la famiglia è diventata, al tempo stesso, l’ultima frontiera della tenuta sociale, stante il deficit dei sistemi di protezione. Un cortocircuito che si riflette in nuclei dove i giovani sono sempre più dipendenti dalla famiglia di origine, impossibilitati a passare dalla condizione di figli a quella di genitori, e dove il contributo della pensione dei nonni è condizione necessaria ma spesso non più sufficiente.

ASSENZA DI POLITICHE

Ma le difficoltà in cui versano le famiglie italiane non sono solo il precipitato della crisi economica, bensì hanno origine anche nell’assenza di politiche che ne tutelino il ruolo e ne sostengano le funzioni. Un ritardo accentuato dagli interventi di riequilibrio della finanza pubblica che hanno trasferito, proprio sulle famiglie, il maggior peso di quel sistema di welfare informale che ha storicamente caratterizzato il nostro Paese.

La progettualità, la sostenibilità e il futuro delle famiglie è sempre più condizionato da fattori che, accentuando la fragilità dei nuclei e favorendo il diffondersi di un clima di pessimismo e di sfidu- cia, hanno pesanti ripercussioni sulla quotidianità del «vivere familiare».
Per questo, è quanto mai urgente tornare a riconoscere la centralità economica e sociale della famiglia, come nucleo fondamentale del nostro ecosistema e luogo entro il quale si compone una grande varietà di potenzialità e di bisogni, vecchi e nuovi, che hanno bisogno di trovare risposte in termini di policy e non solo di buoni propositi. Far tornare la famiglia al centro delle politiche economiche può rappresentare il nostro «ritorno al futuro». Perché la crisi non è finita. Non ancora, non qui. Sebbene i dati sembrino annunciare il contrario, le famiglie sanno bene che ancora molta strada deve essere fatta per rivedere la luce e cambiare il piano inclinato che, senza interventi incisivi, sembra condurre a una lenta agonia.

L’Unità 17.02.14

"Cercansi Ministri (all'altezza però), di Gian Antonio Stella

«Abbiamo un problema solo: l’enorme abbondanza nel centrosinistra di persone d’altissima qualità», ammiccò Massimo D’Alema alla vigilia del voto del 1996. Non era così. E si sarebbe visto in fretta. Così come si vede oggi. Mica facile, allestire un governo all’altezza di guidare un Paese come l’Italia. Tanto più in tempi complicati come questi. E dopo anni e anni trascorsi, accusa Antonio Merlo della Penn University di Filadelfia, a costruire una Mediocracy. Cioè «un sistema che ha selezionato e promosso scientificamente una classe dirigente di basso profilo funzionale non al Paese ma al partito. Al leader. Al segretario».
Sta sbattendoci il naso, a quanto pare, lo stesso Matteo Renzi. Il quale, dopo avere fatto irruzione col piglio del condottiero predestinato a rapidi trionfi, starebbe già assaggiando la molliccia resistenza, una specie di impenetrabile gommapiuma, dei primi passaggi. Alla larga dai paragoni impropri, ma sembra di rivedere la baldanza del Cavaliere del ‘94 prima che si impantanasse: «Davvero pensa di chiudere sui ministri in pochi giorni?». «Santo cielo, ma quanto ci dovrei mettere? Per fare la lista che ho in mente mi basterà mezz’ora». Ci mise settimane.
Quale veridicità possano avere gli oroscopi circolanti sui nomi dei vari ministri non abbiamo idea. Meno delle previsioni del polpo Paul ai Mondiali in Sudafrica, probabilmente. Par di capire, però, che Renzi si sia già sentito dire vari «no» da uomini e donne di spessore sui quali sperava di basare l’«effetto annuncio» per lui essenziale dopo la brusca sterzata con cui si è impossessato del governo esponendosi a critiche e sberleffi, come il contrappasso dell’hashtag inventato per Letta: #matteostaisereno .
Chi mettere all’Economia per dare un fortissimo segnale di novità senza innervosire la Ue? Chi piazzare alla Giustizia, dov’è indispensabile una riforma radicale ma che non spacchi il Paese? Chi allo Sviluppo economico? Chi al Lavoro? È la sua condanna: ha un disperato bisogno di figure d’eccellenza. Possibilmente «nuove». Pronte a gesti di rottura. Ma abbastanza esperte da non diventare subito schiave degli espertissimi capi di gabinetto. Ma dove scovarli?
Il guaio è che lui stesso, che ha costruito buona parte della sua svelta scalata al Palazzo proponendosi come un’alternativa al vecchio sistema, si ritrova ora a fare i conti con la diffidenza di chi, venendo da altri pianeti professionali, è restio a farsi coinvolgere in un mondo che ha già inghiottito, masticato e sputato un bel po’ di «tecnici» entrati in questo o quel governo con curriculum sfavillanti e usciti come scarti: «Pareva tanto bravo…». Per non dire del traumatico ridimensionamento di qualche sindaco proiettato ai vertici e ben presto demolito.
Dura la vita, per chi è insieme artefice e vittima di attese messianiche. Eppure tutto il Paese, anche chi non lo voterebbe mai e magari non apprezza i suoi modi spicci, deve augurarsi che Renzi ce la faccia. Che trovi le persone giuste e le metta al posto giusto. Non possiamo permetterci di galleggiare all’infinito finendo per essere governati, tra i tormenti della politica, da potentissimi burocrati che troppo spesso hanno dato mostra di avere un obiettivo che non coincide con quello dell’Italia: il rinvio di ogni vera riforma.

Il Corriere della Sera 17.02.14

"La donna indiana", di Anita Nair

Era una notte fredda di gennaio. Mi trovavo in Rajasthan per un festival letterario e la serata era ancora animata di scrittori, editori, agenti e invitati. Chi faceva cerchio attorno ai falò, chi in piedi sorseggiava whisky. Tante conversazioni, tante risate. Ero stanca, anche se erano solo le dieci appena passate, e mi defilai dalla festa a bordo piscina, avviandomi verso la hall. Alloggiavo nello stesso albergo. Un uomo giovane e alto si staccò dall’ombra e prese a camminare assieme a me. «È una scrittrice?», mi chiese.
«Sì», risposi osservando che portava il tesserino del festival. «E lei?». «Io sono venuto con mia nonna», disse facendo il nome di un personaggio politico importante. «Spero che il festival le piaccia. Buona notte! », dissi proseguendo per la mia strada.
Invece di capire l’antifona, adeguò il passo al mio. Se mi fermavo a parlare con qualcuno si fermava anche lui. Iniziai a sentirmi a disagio. In più, l’atrio dell’albergo brulicava di invitati a un matrimonio. Uomini, donne e bambini in ghingheri si accalcavano attorno alla sposa mentre il fotografo scattava.
Era impossibile arrivare alla porta dell’hotel e dovetti attendere fuori. Il giovane rifiutava di staccarsi dal mio fianco. Mi voltai decisa dall’altra parte, fingendo di ignorarlo. «È sola?», mi chiese.
«No, sono con amici», dissi sperando di indurlo ad andarsene.
«Volevo dire se è single». Lo guardai perplessa. «Sono sposata.
E ho un figlio quasi della tua età».
Neanche questo parve scoraggiarlo perché le sue parole dopo furono: «Vuole che la accompagni alla sua camera?».
Rimasi di stucco. Non era la prima volta in vita mia che ricevevo delle avance. Mai, però, in forma così sfacciata o con tanta naturalezza. Forse durante la serata il giovane mi aveva vista assieme a un gruppo di autori e giornalisti, in maggioranza uomini. Si beveva, chiacchierava, rideva… dovevo essergli sembrata una donna facile.
«No grazie», risposi a denti stretti. «Conosco la strada».
Riuscii a entrare nella hall sperando di essergli sfuggita. Mi accorsi invece che mi aveva seguita e mi ronzava attorno minaccioso come una vespa. Mi lasciai cadere su un divano in attesa che se ne andasse. Se era di quella città non avrebbe certo alloggiato in hotel, mi dicevo.
Nel mio mondo mi sono sempre sentita al sicuro con gli uomini che lo popolano. Anche con perfetti sconosciuti, anche quando
ti fanno una corte imbarazzante o sono sbronzi. In qualche modo sono sicura che capiranno che un no è un no. E che non sconfineranno nella molestia o peggio, nella violenza sessuale. Ma per la prima volta in vita mia ero intimorita.
L’atrio dell’albergo stava riempiendosi di altri invitati al matrimonio e pensai che il mio molestatore infine se ne fosse andato. Agli ascensori, mentre aspettavo, lo vidi di nuovo. Mi si era messo accanto in attesa di salire con me.
Non poteva o non voleva accettare il mio no.
Per un attimo mi chiesi se non fosse il caso di rivolgermi alla ricezione dell’albergo. Mi trattenni all’idea di una scenata. Inoltre, proprio questo mi terrorizzava, lui avrebbe potuto voltar faccia, dire che era ospite dell’hotel e darmi della paranoica. Poteva fare un caso dell’episodio, trasformarlo in qualcosa di diverso, dato soprattutto il suo peso politico, se davvero la nonna era il personaggio che aveva menzionato. Di nuovo, per la prima volta nella mia vita, mi sentii impotente, vulnerabile e completamente disorientata. Che faccio, pensavo mentre il display segnalava l’arrivo dell’ascensore un piano dopo l’altro, 7, 6, 5, 4… Non sapevo proprio come reagire.
Sono cresciuta a forza di proverbi a sfondo sessuale sulla fragilità della donna, “Che sia la spina a cadere sulla foglia o la foglia sulla spina è la foglia che si buca”. “Non si può lasciare il cotone accanto alla fiamma. Il cotone si
Mi chiedevo che razza di menti avessero concepito quei pensieri.
Per essere una nazione repressa, sotto molti aspetti sembra che noi indiani non riusciamo a smettere di pensare al sesso. Proprio ieri ho ricevuto un tweet di commento alle scene di sesso nel mio ultimo romanzo, senza un riferimento a tutto il resto. 1.000 parole, a quanto pare, hanno la meglio sulle altre centomila. È paradossale.
C’è un versetto della Manusmriti che dice (2/215): «I saggi dovrebbero evitare di stare da soli con la propria madre, la propria figlia o sorella. Poiché il desiderio carnale è forte e può indurre in tentazione». Si tratta di un testo da sempre rispettato come i “doveri” del
dharma
o della propria responsabilità morale, e ha avuto una profonda influenza, seppur indiretta, sulla popolazione indiana. La nostra mentalità è stata improntata ai suoi principi. Mi sconvolge leggervi che un uomo possa non essere in grado di dominarsi neppure se si tratta di sua sorella o di sua figlia. Ma quello che mi spaventa è il sottinteso: una donna non è mai al sicuro.
Oltre al resto — le limitazioni alla sua identità socio-economica — la donna indiana deve affrontare anche minacce legate al sesso. Mio figlio nell’ambito degli studi del suo corso di laurea magistrale ha partecipato a una campagna contro le molestie sessuali. Una sera è rientrato a casa sconvolto dalle reazioni di un gruppo di diciottenni maschi ai quali aveva tenuto un seminario. Uno dei ragazzi pensava che fosse del tutto accettabile fischiare dietro a una donna se indossava un “abito rivelatore”: leggi un abito attillato con una scollatura appena pronunciata. Un altro aveva detto che una donna che va in giro da sola alle dieci si sera è in cerca di guai. Alla domanda sul perché, aveva risposto che era un comportamento contrario alla tradizione indiana e che perciò la donna trasmetteva segnali sbagliati. Ai ragazzi era stato poi chiesto se un abbigliamento come quello di una delle volontarie, jeans e canottiera, provocasse allo stupro. Uno di loro aveva risposto quasi con nonchalance
di sì.
Mio figlio era orripilato. «Questa è Bangalore, mamma. Che sta succedendo?».
Anche se si trattava di reazioni estreme di un piccolo gruppo di giovani, non posso non pensare che questi concetti esistano nei meandri della loro mente. Quali influssi hanno piantato questi sebrucerà”.
mi? Chi sono le persone che continuano a coltivare questi pensieri invece di sradicarli? È da questo che bisogna guardarsi. È questo che aveva innescato la situazione in cui mi trovavo.
Mentre l’ascensore si avvicinava al piano terra e mi chiedevo se non fosse il caso di tornare nell’atrio e aspettare, vidi due donne che conoscevo. Una era a capo di una casa editrice femminista, l’altra una poetessa.
Di nuovo per la prima volta nella vita mi avvicinai a qualcuno mormorando «Fatemi un piacere, accompagnatemi in stanza».
L’editrice capì. «Qual è?», chiese sotto voce.
«Quello alto con la giacca blu», dissi.
Quando arrivò l’ascensore, entrammo tutti in silenzio. L’editrice attese che schiacciassi il bottone del mio piano. «Andiamo in stanza di Anita», annunciò a voce alta rivolta alla poetessa. Il giovane mi guardò per un momento e spinse
il bottone dell’ultimo piano. Sapevo che non c’erano stanze lassù ma solo un ristorante che a quell’ora doveva essere chiuso. Non ero io la paranoica, dopotutto.
Mentre le due donne mi accompagnavano alla stanza mi sentii invadere da una strana depressione. Ho viaggiato nella maggior parte del mondo senza pensare troppo a dove stavo andando e alla mia sicurezza. Ho sempre creduto nell’innata bontà delle persone. Ho sempre pensato che non mi sarebbe mai successo nulla perché la gente fondamentalmente è buona — sono solo le circostanze a rendere le persone cattive. Ma forse nella mia ingenuità non mi ero resa conto che ero stata solo fortunata a non aver avuto nessun tragico spiacevole incidente. Questo episodio mi aveva insegnato a stare in guardia. Sempre. Avevo perso l’innocenza.
In India è cambiato poco in termini di “empowerment” delle donne. Esistono maggiori opportunità a livello di istruzione e di carriera. Le donne hanno lottato per la parità. Ma in qualche modo abbiamo dimenticato un aspetto importante. Nessuno ha ritenuto necessario insegnare ai ragazzi e agli uomini che i tempi sono cambiati.
Ai maschi fin dall’infanzia viene promessa la luna anche se la
madre sa che è fuori portata. Si soddisfa ogni loro capriccio, ogni loro desiderio. Crescendo diventano uomini convinti che sia loro diritto avere tutto ciò che desiderano. Anche se si tratta di una donna che potrebbe essere loro madre o di una ragazza in compagnia del fidanzato. “No” è una parola che non sanno né capire né afferrare.
Questo significa essere donna in India al giorno d’oggi: possiamo diventare quello che vogliamo lavorando sodo. Possiamo essere a capo di aziende o icone della cultura, possiamo essere epitomi di potere o di dignità. Possiamo andare sulla luna o definirci superdonne, ma nella realtà di una mascolinità distorta nulla conta. Perché nel momento in cui usciamo dai nostri spazi siamo costrette a ricordarci che siamo donne. Dimenticarlo equivale a renderci prede.
Ed è questo che mi distrugge.
(Traduzione di Emilia Benghi)

******

“Il male sociale che affligge il Paese della pace”, di JOHN LLOYD

L’India si prepara alle elezioni generali in primavera: il Congress Party al governo — il partito di Gandhi e Nehru — arranca nei sondaggi. La coalizione all’opposizione guidata da Narendra Modi, premier del Gujarat e candidato primo ministro per il partito Bharatiya Janata (Bjp), è saldamente in testa. Poiché il Bjp punta sul nazionalismo hindu, il Congress cerca di rubargli la parte, indossando i panni del partito che si erge a difesa della nazione. Direttamente e indirettamente, sono molti a farne le spese: l’Italia con il caso dei due marò e il contratto rescisso con Agusta Westland e con Vodafone; l’America con lo scandalo della diplomatica indiana perquisita a New York.
Ma ci sono anche altri segnali, non sempre legati alle pressioni del governo. Per esempio
il libro della studiosa indologa americana Wendy Doniger, ha attirato un profluvio tale di minacce contro l’autrice da indurre l’editore Penguin a ritirare Tutto ciò fa seguito alla campagna hindu del leader Dinanath Batra contro quel che egli definisce “le distorsioni” sull’induismo. Sull’altro versante dello spartiacque religioso, nel 2012 a Salman Rushdie è stato negato di parlare al Festival della letteratura di Jaipur in seguito alle minacce dei gruppi musulmani.
Questo trend ha l’avallo dei vertici della politica indiana: nel 2010 Sonia Gandhi, leader del Congress, ha cercato di fermare la pubblicazione di una sua biografia non autorizzata di Javier Moro, intitolata Il sari rosso, dopo che alcuni attivisti hanno protestato che «l’immagine dei leader nazionali non dovrebbe mai essere macchiata».
Eppure è l’immagine stessa dell’India che ora cambia nel mondo. Un Paese, che per decenni è stato il faro splendente della rivoluzione pacifica di Gandhi e dell’abbraccio di Nehru allo sviluppo nel mondo post-imperiale, ora fa più spesso notizia coi suoi problemi e le patologie sociali. Lo stupro di una giovane in un autobus a Delhi l’anno scorso, la sua morte in seguito alle sadiche violenze, ha gettato luce sull’uso diffuso dello stupro inteso — nelle parole della scrittrice Arundhati Roy, «uno strumento di dominio da parte delle caste superiori, la polizia e l’esercito». Ha portato in primo piano anche il trattamento tuttora discriminante delle donne nella vita quotidiana e sui luoghi di lavoro, assieme al profondo divario fra le caste, soprattutto nelle zone rurali ancora immiserite.
Gli accessi di nazionalismo, avallati dal Congress o dai potenti movimenti nazionalisti hindu, avvengono sullo sfondo di una crescita economica indebolita e della crescente insoddisfazione verso il Congress. La forza del partito al governo maschera, tuttavia, una fragilità di fondo. Il Congress è una creazione di Jawarlahal Nehru, discepolo del Mahatma Gandhi, fondatore di una dinastia politica. La figlia, Indira Gandhi, allevata e preparata a governare, gli subentrò. Dopo il suo assassinio nel 1984, le succedette il figlio Rajiv, assassinato a sua volta nel 1991. La moglie di quest’ultimo, Sonia Maino, nata in provincia di Vicenza, è diventata dopo l’omicidio del marito presidente del Congress. Oggi suo figlio Rahul è candidato all’incarico di premier. Il cognome Gandhi conserva ancora il suo potere (così crede il partito) in un Paese nel quale la famiglia ha raggiunto uno status semidivino. Ma Rahul è un candidato riluttante: è comprensibile che il destino di suo padre e di sua nonna gli pesi.
Negli ambienti politici di Nuova Delhi si dice che la dinastia Gandhi-Nehru sia ormai a corto di principi e principesse in grado di governare: alcuni credono addirittura che dopo quasi settant’anni il Congress abbia perso il suo status morale e non riesca a trovare un proprio ruolo ideologico. Nehru era tutto integrità. Il socialismo che egli abbracciò resta qualcosa di prezioso nell’animo di molti rappresentanti del Congress, malgrado la retorica sul libero mercato abbracciata con riluttanza.
Manmohan Singh, premier uscente, è un illustre economista orientato al mercato: all’inizio del mandato ha garantito una liberalizzazione che ha innescato una forte crescita, ma che ha pesato moltissimo su decine di milioni di poveri contadini. Frenato nel secondo mandato, il Congress non è parso né radicale né riformista: non può abbracciare il socialismo col fervore d’un tempo, e ha perso l’entusiasmo per la deregulation e le soluzioni del libero mercato.
Perciò, ora punta sul nazionalismo, sfidando il Bjp che ha già una forte impronta nazionalista. Ne fa le spese l’immagine dell’India, del Paese dedito alla pace, con una politica estera meno ambiziosa rispetto alle sue dimensioni (presto sarà la nazione più popolosa al mondo). E l’Italia, e il resto del mondo, si ritrovano lungo il percorso di questa valanga travolgente.
(Traduzione di Anna Bissanti)

La Repubblica 17.02.14

Roma – Link Coordinamento Universitario: Convegno nazionale "Il tempo è scaduto: ora i conti li fate con noi! L'emergenza del Diritto allo Studio in Italia"

LINK – Coordinamento Universitario – Via IV Novembre, 98 – 00187 Roma
PROGRAMMA DEI LAVORI – Sessione mattutina
10.30 – 11.30
Quadro introduttivo sul Diritto allo Studio in Italia
Mario Nobile, Responsabile Diritto allo Studio LINK – Coordinamento Universitario Federica Laudisa, Osservatorio Diritto allo Studio Regione Piemonte
ore 11.30 – 13.00
Cittadinanza studentesca e Politiche abitative
Giuseppe Catalano, Commissione ministeriale ex L. 338/2000
Alba Sasso, Ass. Diritto allo Studio Regione Puglia
Massimiliano Smeriglio, Vicepresidente e Assessore Formazione e Università Regione Lazio
ore 13.00 – 14.00
Italia e Francia: due esperienze a confronto
Marco Moretti, Presidente A.N.Di.S.U. (Italia)
Francois Bonaccorsi, Segretario Generale C.N.O.U.S. (Francia) Laurent Mandement, Board Member U.N.E.F. (Francia)
Rok Primozic, Presidente E.S.U. (Unione Europea)
Stefano Vitale, Consiglio direttivo Forum Nazionale dei Giovani (Italia)
ore 14.00 Buffet
PROGRAMMA DEI LAVORI – Sessione pomeridiana
ore 15.00 – 16.30
Livelli Essenziali delle Prestazioni: un’esigenza non rimandabile
Fulvio Esposito, Segreteria Tecnica M.I.U.R.
Stella Targetti, Delegata Tavolo ministeriale sui L.E.P. Conferenza Stato-Regioni Crescenzo Marino, Direttore Generale A.Di.S.U. Puglia
Enrico Conti, Istituto Ricerca Programmazione Economica Toscana
17.30 – 19.30
Tavola rotonda con Politica e Sindacato
Manuela Ghizzoni, Commissione Cultura Camera dei Deputati – PD
Nicola Fratoianni, Commissione Cultura Camera dei Deputati – SEL
Gianluca Vacca, VII Commissione Cultura Camera dei Deputati – Movimento 5 Stelle Domenico Pantaleo, Segretario Generale FLC – CGIL
Alberto Campailla, Portavoce Nazionale LINK – Coordinamento Universitario

"Le condizioni per l’Internet europeo", Juan Carlos De Martin

Fa un po’ sorridere l’idea che un capo di governo europeo – come la Cancelliera Merkel ieri – scopra all’improvviso che molto traffico Internet europeo passi fisicamente per gli Usa. O che i giganti del Web basati oltre-Oceano non siano pienamente soggetti alle regole sulla privacy dell’Unione Europea. E’ possibile, infatti, che i suoi analisti non l’abbiano mai informata che per motivi economici da molti anni, forse da sempre, spesso è più conveniente passare dagli Usa anche se si vuole mandare una email da, per esempio, Torino a Berlino? E’ possibile che il suo ministro che si occupa di privacy non l’abbia mai informata che dal lontano 2000 esiste un accordo Europa-Usa (approvato anche dalla Germania) chiamato «Safe Harbor» («porto sicuro») che di fatto consente alle aziende web Usa di operare in Europa senza il pieno rispetto delle rigorose norme europee sulla privacy?

Ovviamente un politico attento come la Cancelliera Merkel non può non conoscere questi dati di fatto fondamentali relativi a Internet e ai dati personali dei cittadini europei. Tuttavia, da politica navigata qual è, sa bene che in questi casi è politicamente conveniente fingersi ignari del passato in modo da poter chiudere un occhio sulle responsabilità – sue, dei suoi predecessori e dei suoi colleghi europei – e guardare avanti.

Ma veniamo al merito delle intenzioni che Angela Merkel ha espresso alla vigilia del suo incontro col presidente francese.

La prima intenzione è quella di far sì che il traffico Internet che collega mittenti e destinatari europei non esca, lungo la strada, dall’Europa, e in particolare non passi dagli Stati Uniti. Così come una raccomandata da Voghera a Lione di norma non passa per Dallas, così come una telefonata da Amsterdam a Barcellona di norma non passa per Mosca, allo stesso modo si vuole che la posta elettronica e gli altri flussi dati tra europei non passino per New York o Pechino. Ora non è così.

Come già accennato, infatti, per motivi che sono quasi sempre banalmente economici – ovvero, di minimizzazione dei costi – il traffico Internet tra due destinazioni europee passa non infrequentemente per l’estero, e in particolare passa per gli Stati Uniti che, anche per aver inventato e sviluppato Internet, hanno una infrastruttura di trasmissione dati molto competitiva. Tenere il più possibile in Europa i flussi dati intra-europei è un obiettivo ampiamente condivisibile. Paesi come Usa, Cina e Russia sono probabilmente da sempre attenti alle traiettorie fisiche dei propri dati web, ed è un bene che anche l’Europa si ponga finalmente il problema. L’effettiva implementazione, però, non sarà semplice. Da una parte, infatti, bisognerà mettere da parte il dogma che la mano invisibile del mercato sia la risposta, sempre e comunque, a qualsiasi problema. Dall’altra, bisognerà accuratamente evitare di «balcanizzare» la Rete, ovvero, di spezzare l’attuale Rete globale in sotto-reti nazionali o macro-regionali. A mio avviso è possibile farlo adottando un appropriato mix di «moral suasion», incentivi e regole, ma, ripeto, non sarà semplice: occorrerà molta accortezza, anche tecnica, e un acuto senso per le possibili conseguenze inattese di scelte in apparenza innocue.

Il secondo obiettivo della Cancelliera Merkel riguarda i dati personali.

Tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo che in Europa esiste un’asimmetria tra le aziende Usa e quelle europee. Le prime, infatti, possono usufruire del «Safe Harbor», l’accordo Usa-Europa sopra ricordato, che di fatto consente loro di operare con regole sulla privacy meno stringenti di quelle che invece valgono per i loro concorrenti europei. Questa asimmetria – che struttura il mercato dei dati personali a favore degli Usa – deriva, però, da una precisa politica europea, Germania inclusa.

Si è trattato all’epoca – con ogni probabilità – del risultato di qualche compromesso tra i molti dossier che giacciono sempre sul tavolo Usa-Europa. Ora Merkel sta forse segnalando l’inizio della messa in discussione del «Safe Harbor» sulla privacy. Se questo annuncio avrà seguito dipenderà dal sostegno che la Cancelliera riceverà dagli altri Paesi europei, sostegno che a sua volta dipenderà in larga misura dal prezzo che inevitabilmente ci sarà da pagare in qualche altro settore degli scambi Usa-Europa. Nei prossimi mesi vedremo se i nostri governi, italiano incluso, saranno disposti a sacrificare qualcosa in nome di una più stringente tutela dei dati dei cittadini europei.

La Stampa 17.02.14