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La battaglia dei filosofi: «Un errore cancellare lo studio del pensiero», di Cristina Taglietti

La filosofia è in pericolo. Scuola e università sembrano avviate verso un processo di espulsione della materia: la sperimentazione di un ciclo abbreviato di quattro anni potrebbe portare alla perdita di un anno di insegnamento (due invece di tre) nei licei, mentre in alcuni corsi di laurea, come Pedagogia e Scienze dell’Educazione, la filosofia è uscita dalle tabelle disciplinari. Decisioni che possono rientrare in quell’attacco all’umanesimo che alcuni intellettuali di varia estrazione denunciano, come hanno fatto Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito qualche mese fa con un appello congiunto pubblicato dalla rivista «Il Mulino».
La filosofia dunque sembra essere la prima vittima, ma i filosofi non ci stanno. «È l’errore più grave che si possa fare — commenta Giovanni Reale, filosofo cattolico —. Qualche volta ho sentito pronunciare da alcuni giovani le stesse cose che evidentemente pensa chi propone questi progetti: la filosofia si occupa di problemi astratti che non hanno a che fare con la vita, che appesantiscono la mente. Prevale l’idea che il sapere derivi dalla scienza e che la tecnologia risolva tutti i problemi. Eppure Popper e gli epistemologi hanno spiegato che la scienza per definizione non può avere idee universali e necessarie, ma coerenti con un paradigma dominante in quel preciso momento. La bellezza della filosofia è di poter contenere anche sistemi opposti, perché le nostre idee non sono definitive». Reale guarda anche all’estero: «In Francia e Spagna, dove l’hanno quasi eliminata dai licei, se ne sono pentiti. In Germania non c’è la possibilità di un livello intermedio di conoscenza. Un filosofo come Gadamer è capito molto meglio in Italia che in Germania. Una volta mi disse che quando veniva qui si sentiva come in un santuario: tutti quei ragazzi che andavano a sentirlo avevano strumenti di comprensione che in nessun altro Paese avevano».
Anche Giulio Giorello pensa «tutto il male possibile» dell’idea di ridimensionare l’insegnamento della filosofia. «Ma non per difendere la categoria — spiega —. Non penso ai filosofi come professionisti della parola o del pensiero, ma la filosofia è il respiro della mente, Hannah Arendt la definiva “la vita della mente”. Si può farne a meno, ma allora si deve respirare solo con il corpo. Come diceva Vladimir Jankélévitch si può vivere senza filosofia, ma molto male. La riflessione su se stessi e la meditazione sul nostro posto nel modo, quella che si chiama la “libertà filosofica” fa paura agli esponenti della cappa burocratica che mira a normalizzare il pensiero e vuole farci diventare tutti dei mestieranti mediocri».
Gianni Vattimo, che ha insegnato filosofia teoretica a Torino per 25 anni, si sofferma sull’idea di togliere l’insegnamento della materia nei corsi di laurea di Pedagogia e Scienza dell’Educazione: «È un passo verso la disumanizzazione. In generale i Paesi in cui non si insegna la filosofia sono i peggiori. Toglierla dai corsi di laurea in cui si dovrebbe “insegnare come si insegna” è un pessimo segnale. Se penso che si studia la decimologia, la scienza di come si danno i voti, allora preferisco che si studi Gentile». Secondo il teorico del pensiero debole una formazione puramente funzionale alla produzione è da buttare: «Ci ritroveremo una generazione di piccoli produttori legati a saperi specifici che poi velocemente tramontano. C’è invece una formazione che è tanto più significativa quanto più slegata all’uso delle macchine». Ma a che cosa serve la filosofia? Vattimo scherza, ma non troppo: «Serve a non farsi dirigere nella visione del mondo soltanto dalle canzonette. È una messa in ordine delle idee sulla vita e su noi stessi. Husserl diceva che studiare la filosofia è come fare di professione l’essere umano». Alzi la mano chi non ne ha bisogno.

Il Corriere della Sera 16.02.14

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“Chi vuole abolire la filosofia da scuola e università”, di Roberto Esposito

Il piccolo, ma agguerrito, mondo della filosofia italiana – quella che con qualche ridondanza si denomina “teoretica” – è in comprensibile fermento. In base ad una recente normativa tale materia è stata eliminata dalle tabelle disciplinari di vari corsi di laurea, come quelli di Pedagogia e di Scienze dell’Educazione, con la singolare motivazione che si tratta di una disciplina troppo specialistica. E che dunque dove si educano gli educatori non c’è alcun bisogno di essa. Ma c’è di peggio. Sta prendendo corpo il progetto, già sperimentato in alcuni licei, di abbreviare il ciclo delle scuole secondarie a quattro anni, con la conseguente riduzione dell’insegnamento della filosofia a due. L’idea, del resto, non è nuova. Già alla fine degli anni Settanta si pensò di cancellare lo studio della filosofia dalle scuole, sostituendola con le scienze umane. Ci volle la ribellione dei professori di filosofia dei licei – molti dei quali preparati e motivati – per scongiurare simile, sconcertante, trovata.
Che tali progetti siano solo disegni degli staff di funzionari del Ministero dell’Istruzione può essere. Sta di fatto che segnalano, ancora una volta, la spaventosa carenza culturale di coloro che sono preposti all’organizzazione della cultura in Italia. L’intenzione di ridurre il rilievo della filosofia, schiacciandola ai margini dei programmi scolastici e universitari, è la punta di un attacco generalizzato al sapere umanistico in Italia. Ma in essa c’è qualcosa di ancora più grave. Si vuole così occludere lo spazio dove si forma lo spirito critico. Indebolire ogni resistenza a un diffuso realismo in base a cui, qui o altrove, non c’è da prefigurare nulla di diverso da quello che abbiamo sotto gli occhi.

Tale progetto è sbagliato per più di un motivo. Intanto perché la filosofia, oltre che indispensabile di per sé, lo è nei confronti degli altri saperi. Non perché, come a volte si dice, li collega in un unico orizzonte, ma, al contrario, perché definisce le loro differenze, misura la tensione che passa tra i vari linguaggi. In quanto sapere critico, la filosofia impedisce la sovrapposizione di questioni eterogenee, delinea i confini dentro i quali esse assumono significato. Ma il suo ruolo non si esaurisce in una procedura metodologica. Tutt’altro che chiusa su di sé, essa è sempre aperta al mondo – alle sue potenzialità e ai suoi conflitti. Tale è la sua funzione. La capacità, e anche il desiderio, di aprire un confronto, in qualche caso uno scontro, rispetto a ciò che esiste a favore di una diversa disposizione delle cose.
In questo senso la filosofia – anche e forse soprattutto quella che si definisce “teoretica” – ha sempre un’anima politica. Non, certo, nel senso di fornire prescrizioni o indicazioni su cosa fare o come agire. Ma perché è situata lungo il confine tra il reale e l’immaginario, il necessario e il possibile, il presente e il futuro. Perciò essa è sempre in rapporto con la storia. Non parlo solo della storia della filosofia – pure indispensabile. Ma della storia nella filosofia. Il pensiero non solo ha, ma è storia, perché consapevole del nostro limite. Di quanto abbiamo, ma anche di quanto ci manca, dell’assenza che taglia ogni presenza, della scissione che attraverso ogni unità.

È un’idea, questa, che congiunge tutti i grandi pensatori, da Platone a Hegel e oltre. Il motivo per il quale, nonostante l’apparente inutilità che spesso le viene rinfacciata, si continua a praticare filosofia sta proprio nella coscienza che il suo compito è inesauribile. Che restano sempre spazi inediti da aprire, vie nuove da imboccare, opzioni diverse da sondare. Quando si è supposto che così non fosse, che la verità era stata raggiunta e il percorso compiuto, allora la filosofia è stata messa a tacere e i filosofi sono stati banditi dalla città. Con i risultati che sappiamo.

La Repubblica 16.02.14

"Renzi studia come sforare il patto di stabilità si apre una nuova partita con Bruxelles", di Federico Fubini

Tra due settimane si saprà se l’Italia è riuscita in ciò su cui si era impegnata. Quando saranno pubblicati i dati sul deficit di bilancio, sarà chiaro anche se Matteo Renzi avrà preso il testimone da un governo che lo ha tolto d’imbarazzo, perché ha rotto il tabù. Benché di poco, il disavanzo potrebbe risultare sopra al 3% del Pil già nel 2013.
Non è uno scenario scontato, e la Commissione europea potrebbe comunque mostrarsi tollerante di fronte a un superamento della soglia di appena lo 0,1%. Ma la partita non è chiusa: il fabbisogno di cassa dello Stato è molto elevato, oltre i 70 miliardi, e la ripresina di fine 2013 risulta più fiacca di come il governo l’avesse messa in conto.
Matteo Renzi, premier in pectore, potrebbe sentirsene sollevato: se davvero il governo uscente avesse violato il 3%, non dovrà essere lui a portarne la responsabilità. Comunque vada – il dato sul 2013 resta sul filo – i margini per quest’anno si presentano già strettissimi. Il governo Letta prevedeva una crescita dell’1%, ma ha probabilità minime di realizzarsi: l’anno è già iniziato con l’economia a velocità quasi di stallo ed è improbabile che acceleri troppo. Di certo aiuterà la ripresa europea, pronunciata in Germania, Olanda e visibile anche in Spagna e Portogallo. Per l’Italia, l’Ocse di Parigi vede una crescita del Pil dello 0,6% e la banca Morgan Stanley dello 0,2% dopo una contrazione del 9% dal 2007. Stime del genere sono fatalmente imprecise, ma suggeriscono che la debolezza dell’economia continuerà a tenere sotto pressione i conti pubblici. La tendenza è chiara: il debito oggi è al 133% del Pil e continuerà a salire. Il calo dello spread produce dei risparmi sugli interessi, ma l’inflazione quasi a zero fa sì che i tassi reali a cui deve far fronte il Tesoro siano ancora troppo alti per poter stabilizzare il debito. E anche nel 2014 il deficit viaggerà sul filo del 3%, ben che vada.
Per Renzi questa non è una condanna definitiva. Il futuro premier può sempre aprire un confronto con la Commissione europea e con l’Eurogruppo, il club dei ministri finanziari. Può dire apertamente che ha bisogno di violare il 3% di deficit per far respirare il Paese, mentre interviene in profondità per modernizzarlo. Nel 2003 lo fece la Germania di Gerhard Schroeder. Lo stanno facendo la Spagna del conservatore Mariano Rajoy e la Francia socialista di François Hollande. Il deficit di Madrid sfiora il 7% del Pil, quello di Parigi supera il 4%.
Questa strada non è chiusa, ma presenta degli oneri. Il primo è quello di presentare a Bruxelles un programma realistico che aumenti la capacità di crescita dell’Italia nel prossimo decennio. Gli annunci, specie quando vengono da Roma, non bastano più. Il governo uscente non è stato creduto quando ha promesso tagli di spesa per il 2% del Pil in tre anni con il lavoro del commissario del Tesoro Carlo Cottarelli. Dopo mesi di attesa, a Bruxelles non è arrivato alcun piano dettagliato, dunque la Commissione ha deciso di ignorare gli annunci e negare i margini di flessibilità sui conti dell’Italia.
La seconda possibile trappola riguarda invece le procedure. È possibile che la Commissione Ue accetti l’annuncio che l’Italia violerà la regola sul deficit, specie ora che la campagna elettorale per le europee è aperta. Per il governo, potrebbe sembrare un via libera. Poi però l’ingranaggio del Fiscal Compact partirà comunque: Bruxelles metterà l’Italia in procedura di violazione e chiederà un dettagliato piano di rientro entro un anno, o al massimo due. Le “missioni” di Bruxelles e le richieste tecniche si faranno sempre più pressanti. Quindi, la Commissione Ue potrà proporre sanzioni contro l’Italia e il governo potrà bloccarle solo se riuscirà a schierare una maggioranza rafforzata di Paesi europei (Germania inclusa) dalla sua parte. Un’Italia con debito e deficit in crescita rischia di sentirsi molto sola a Bruxelles. L’unico antidoto, ora più che mai, sono misure reali per rimettere il Paese in condizioni di camminare.

La Repubblica 16.02.14

"L’emergenza lavoro non aspetta la politica", di Massimo Franchi

La crisi la pagano gli operai. Anche quella di governo. La staffetta Letta-Renzi ha avuto come prima conseguenza quella di bloccare la convocazione dei tavoli per le aziende in crisi al ministero dello Sviluppo economico. Il primo è stato quello su Termini Imerese di venerdì scorso, domani invece tocca a Electrolux. E nel giro di una settimana verranno rimandati Alcatel (telecomunicazioni, con il rischio licenziamenti molto reale), Lucchini e Thyssen (siderurgia), Ideal Standard (ceramica), tutto il settore del trasporto ferroviario, Unilever (alimentare), Ferretti (cantieristica), Micron (elettronica), Irisbus (bus). Insomma, buona parte dell’industria ita- liana ha vertenze aperte che aspettano risposte e soluzioni nel giro di giorni. E che invece saranno bloccate – se va bene – almeno per tre settimane, rischiando di saltare e di lasciare per strada decine di migliaia di operai e lavoratori.

Dato per scontato un cambio della guardia al ministero dello Sviluppo economico – il più accreditato per sostituire Flavio Zanonato è l’ad di Luxottica Andrea Guerra che ieri ha incontrato Renzi – per fare una stima precisa dei tempi che serviranno a far ripartire i tavoli bisognerà attendere la nomina dei sottosegretari. Se non verrà confermato il professor Claudio De Vincenti che si occupava quasi esclusivamente delle tante patate bollenti, chiunque arriverà impiegherà settimane a capire il metodo e aggiornarsi sul merito e sul lavoro pregresso. Il rischio è dunque che per far riparti- re la complicata macchina serva più di un mese. Con conseguenze ancora più nefaste.

Il caso più scottante è certamente quello Electrolux. I quasi 5mila dipen- denti italiani della multinazionale svedese degli elettrodomestici sono ancora in presidio davanti agli stabilimenti – Solaro, Susegana, Forli – a partire da quello più a rischio di Porcia. Nel primo tavolo del 27 gennaio governo e Regioni aveva- no rigettato il piano dell’azienda che prevedeva un taglio del 20 per cento degli stipendi e la quasi certa chiusura del- lo stabilimento friulano. L’azienda aveva quindi fatto una parziale marcia indietro: Porcia non chiuderà, anche se in cambio – nell’audizione al Senato – aveva chiesto tre anni (fino al 2018) di sgravi sui contratti di solidarietà.

La convocazione del nuovo tavolo previsto per domani aveva portato all’allentamento dei blocchi della produzione (ora esce giornalmente, svuotando lentamente i magazzini prima stipati di merce), ma lo stop rischia di rialzare la tensione. Anche per questo l’azienda ha chiesto di incontrare comunque i sindacati lunedì. A stretto giro di posta è arrivato anche l’intervento del presidente del Friuli Debora Serracchiani che ha tranquillizzato: «Il premier in pectore è perfettamente al corrente della situazione di Electrolux e sono sicura che non ci saranno vuoti nella gestione della vertenza». I sindacati – Fim, Fiom, Uilm – domani si aspettano dunque che l’azienda «presenti comunque il nuovo piano industriale», ma sanno benissimo «che la trattativa deve tornare al ministero perché è il governo a dover trovare i modi e i soldi per ridurre il costo del lavoro» – in primis fondi europei sull’innovazione di prodotto. Facile comunque prevedere che Electrolux “sfrutti” il cambio di governo per non scoprire le carte e prendere tempo.

L’altra vertenza caldissima è quella di Termini Imerese. I quasi 2mila lavoratori della fabbrica Fiat chiusa ormai da due anni giovedì sono scesi in piazza insieme a tutta la cittadina in provincia di Palermo – parroci in testa – per chiedere di salvare il lavoro. L’anno e mezzo per- so da Invitalia dietro al carneade Di Risio e al suo progetto di assemblare auto cinesi, ha fatto perdere tempo prezioso, anche se la vera ragione della mancata re-industrializzazione sta nel fatto che Marchionne non vuole concorrenza in Italia. Il 30 giugno scade la cassa integrazione in deroga – già strappata per i capelli – dai lavoratori ancora formal- mente Fiat. Il primo luglio per tutti loro arriverà la mobilità, l’anticamera del licenziamento.

«CASSA» E TASSE AI MASSIMI

Ieri poi sono arrivati i dati sulla cassa integrazione a gennaio che confermano il quadro di continua emergenza occupazione. Gli 81 milioni di ore di Cig corrispondono ad oltre 440mila lavoratori a casa a zero ore, denuncia la Cgil. E sono quasi costanti dall’inizio della crisi: gennaio 2009. La riduzione sul mese prece- dente del -5,28%, così come su gennaio dello scorso anno (-10,36%) «si deve all’aumento della disoccupazione, come testimoniato dall’aumento delle domande di disoccupazione, e la riduzione delle autorizzazioni sulla cassa in deroga», che in prospettiva saranno sempre minori, vista la stretta prevista nel decreto interministeriale approvato dal governo Letta. Dati che portano il segretario confederale della Cgil Elena Lattuada ad invitare «il prossimo governo a dare un segnale di decisa discontinuità rispetto al passato, che produca effettivi cambiamenti, mettendo al centro della sua agenda politica il lavoro».

Le prospettive per il sistema economico e produttivo non sono poi di certo buone. Ieri la Cgia di Mestre ha denunciato come nel 2014 il governo Letta lascia in eredità 2,4 miliardi di tasse in più, specie per banche e assicurazioni. Il tutto sempre che la Spending review non faccia passare la prevista mannaia sulla spesa pubblica, ottenendo 3 miliardi di tagli di spesa. Che però «pagheranno» in gran parte gli stessi lavoratori sotto forma di meno welfare.

L’Unità 16.02.14

"Prof in fuga verso la pensione: quest'anno saranno quasi il 25% in più", di Salvo Intravaia

La Fornero non ferma la fuga degli insegnanti dalla scuola. I dati (quasi) definiti di ieri pomeriggio confermano le anticipazioni fornite da Repubblica la scorsa settimana. Non si tratta di un esodo, probabilmente, soltanto perché i paletti imposta dalla ministra piemontese sono così stringenti da costringere tantissimi che ne avrebbero voglia a rimanere ancora in cattedra per qualche anno. Ma basta fare un giro tra gli insegnanti per comprendere il livello di demotivazione. E chi può non ci pensa due volte ad andare in pensione.

LA LETTERA DI UNA PROFESSORESSA

I numeri, come sempre, sono la migliore delle argomentazioni possibili. Il 31 agosto del 2013 andarono in pensione 10.860 insegnanti e 3.662 Ata: amministrativi, tecnici e ausiliari. Il prossimo primo settembre toglieranno il disturbo in 13.380: 2.520 in più, con un aumento pari al 23 per cento. La quota di personale non docente che passerà la mano è invece sostanzialmente invariata: 3.697. A facilitare l’uscita degli insegnanti dalla scuola è anche l’età di tantissimi prof e maestri – di ruolo e precari – che fanno di quello italiano uno dei corpi docenti più anziani in Europa. Con percentuali di giovani insegnanti under 30 da prefisso telefonico: 0,3 per cento in Italia, contro l’11,3 per cento della Francia, il 12 per cento dell’Unione europea e il 18 per cento degli Stati Uniti.

È il sistema di reclutamento e la formazione iniziale che portano alla cattedra insegnanti già maturi. Per contro, il Belpaese è la nazione Ocse con la maggiore quota di insegnanti ultracinquantenni al mondo: il 41 per cento, contro il 26 per cento dell’Ue. Anche i precari della scuola, coloro che anelano al posto fisso dopo decenni di girovagare per l’Italia, sono abbastanza “anziani”: 9 su cento con meno di 30 anni e 10, sempre su cento, con cinquant’anni già suonati. Anche lo stress, stando agli studi del medico Vittorio Lodolo D’Oria, gioca un ruolo fondamentale. I sindacati parlano di categoria “ormai stanca”.

“Chi va in pensione – spiega Francesco Scrima, leader della Cisl scuola – non lo fa a cuor leggero ma, secondo quanto ci risulta ascoltando ogni giorni i docenti, per frustrazione: insegnare oggi richiede fatica e impegno che non vengono riconosciuti. Ecco perché in tanti hanno deciso di andare via dalla scuola. “Gli insegnanti, appena raggiungono il requisito, fuggono dalla scuola – commenta Domenico Pantaleo, leader della Flc Cgil – Il perché è presto detto: tra tagli, disorganizzazione crescente e condizioni di lavoro sempre più gravose il pensionamento è un’ancora di salvataggio”. Ma non solo. “Le persone – conclude il sindacalista – insegnanti compresi, temono che si metta mano ancora alla legge Fornero per allungare la permanenza al lavoro. E chi può se ne va”.

La Repubblica 16.02.14

"Ecco la ferocia dei teppisti con i bastoni contro i clochard", di Gad Lerner

La ferocia abbattutasi su due coppie di senzatetto che dormivano all’aperto in un gelido sabato notte, nel pieno centro di Genova, si presenta ora nuda e cruda sotto i nostri occhi, grazie ai fotogrammi sconvolgenti di una telecamera di sorveglianza. Guardiamoli. Impossibile girare la testa.
Vediamo quattro giovani resi anonimi dalle felpe o da passamontagna. Hanno i guanti per non lasciare impronte. Impugnano chi un tubo Innocenti, chi un manganello, chi mazze d’altro genere. Si appostano, fermi in attesa che il capo dia un segnale. Quindi, all’unisono, si avventano sui corpi addormentati. Bastonano con furia mirando alle teste sopra un giaciglio di cartone e una tendina da campeggio estivo. Li vediamo usare tutte e due le mani per colpire con maggior forza. Trentuno secondi in tutto, poi fuggono.
Anche i clochard meritano di essere riconosciuti per nome. Si chiamano Alice Velochova e Jan Bobak (ora è fuori pericolo, dopo una difficile operazione alla testa); e poi Susana Jonasova e Jonas Koloman (lui pure ferito grave). Hanno cittadinanza europea, slovacca. Sono vivi per miracolo. E allibiti.
I frequentatori del salotto buono di Genova, fra piazza De Ferrari e i portici di Piccapietra, fino al Teatro Carlo Felice e alla Galleria Mazzini, hanno una certa familiarità con questi clochard talvolta alticci e importuni, senza mai essere pericolosi. Cercano una grata che sputi aria calda dal parcheggio sottostante, s’imbottiscono di giornali, bevono vino dal cartone e tirano su una coperta. Getti uno sguardo, provi disagio e passi oltre.
La tentazione è di liquidarli come umanità di scarto, destinata prima o poi allo smaltimento. Gli stessi volontari e assistenti sociali che cercano di farsene carico offrendo loro un ricovero, spesso trovano ostacolo nel loro disagio psichico che li spinge ad aggrapparsi a un’illusoria autonomia: il loro illusorio simulacro di libertà. Talora occorrono anni di consuetudine per vincere la loro diffidenza e convincerli a lasciarsi curare. È anche il nostro alibi: cosa possiamo farci se rifiutano un tetto?
Solo che il “fenomeno”, se così vogliamo chiamarlo, lungi dal circoscriversi tende all’espansione. In mezzo alla strada arrivano pure gli sfrattati italiani e magari vanno fuori di testa persone che fino a ieri erano i nostri vicini di casa. Gli scarti umani si moltiplicano e insieme a loro non cresce la pietà ma piuttosto quella oscura tentazione dello smaltimento. Già, perché gli scarti umani tendono a raggrupparsi in centro, dove trovano isole pedonali, compagnia, illuminazione, qualche grado centigrado in più e il lusso da rimirare. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, a Genova i clochard sarebbero duecento.
A Milano gli studenti della Bocconi hanno fatto un censimento (“raccontaMi”) e ne hanno contati 2616. Nasconderli è diventato impossibile, e ora tocca fare i conti con chi
vorrebbe semplicemente spazzarli via.
Speriamo che la polizia sappia dirci presto chi sono i quattro giustizieri della notte, con età compresa fra i 20 e i 30 anni, che volevano ripulire a modo loro le strade della movida. Si vocifera di ultrà da stadio, ma chissà. In cerca di spiegazioni si ipotizza una vendetta seguita a un conflitto territoriale nei giorni precedenti. Ha poco senso anche parlare di razzismo: questi si sono avventati su corpi dormienti come gli toccasse debellare non persone, ma una nuvola di insetti nocivi.
Già prima di guardare le fotografie in cui si descrive l’odio che culmina nel crimine, si era mossa una trentina di cittadini genovesi, dandosi appuntamento per una notte di condivisione all’addiaccio in Galleria Mazzini. Si sono appuntati sul sacco a pelo un foglietto con scritto: “Io è te”.
D’accordo, “Io è te”. Ma invece chi sono loro? Chi sono i quattro incappucciati propagatori di questa atroce pulizia cittadina?
Da tempo avvertiamo che la serpeggiante propaganda del disprezzo per gli untermensch (sottouomini) — così i nazisti etichettavano i popoli inferiori non degni di vivere — rischia di sfuggire al controllo di chi aspira solo a lucrarci vantaggi politici. Il passaggio dalle parole ai fatti, la militarizzazione del rancore, l’importazione dalla Grecia dell’ideologia criminale organizzata di Alba Dorata, forse sono già un fatto compiuto anche tra noi. I pogrom, i linciaggi del Ku Klux Klan, non sono eventi lontani. Le obbrobriose fotografie del massacro di Piccapietra ci resteranno impresse come una testimonianza indelebile.

La Repubblica 16.02.14

"Tra tweet e turboleader la politica delle vecchie pastoie scopre il dogma della velocità", di Filippo Ceccarelli

Festina lente, affrettati lentamente, motto attribuito da Svetonio all’imperatore Augusto, si è scoperto essere il nome di una delle associazioni che hanno sostenuto sul piano finanziario la rapidissima ascesa di Matteo Renzi.
Dunque velocità, ma anche ponderazione, entrambe indispensabili in ogni impresa. Molto prima del Sindaco e dei suoi più fidati consiglieri Alberto Bianchi e Marco Carrai, l’antica massima era stata scelta da Cosimo de ’Medici, che pure l’aveva inserita nel suo stemma sotto l’immagine di una tartaruga sul cui guscio si leva una vela gonfiata dal vento.
Ora, per la verità, Renzi appare assai più affrettato che prudente. «O la va o la spacca», «mi gioco l’osso del collo» e così via, spesso attraverso twitter o Facebook, tecnologia dell’immediatezza. E tuttavia, anche al netto di altri mezzi e messaggi quali Smart, maratone e Frecce rosse, pare evidente che da quando il giovane leader ha stravinto le primarie, l’intera vita pubblica ha preso a correre.
L’accordo per l’Italicum, la direzione del Pd, la crisi di governo, perfino quelle consultazioni che vengono assimilate a vecchi riti perditempo tipo vertici & caminetti, a loro volta propedeutici a quella che il dinamismo renziano ha identificato come il male assoluto di questa fase: «la palude».
Presto! Presto! dunque, anzi: «Adesso», come recitava il penultimo slogan dell’allora Rottamatore. Scriveva del resto già lunedì scorso Ilvo Diamanti che Renzi è «l’uomo dei tempi veloci» e «dei fatti veloci». La cauta e munita tartaruga di Cosimo, peraltro visibile in varie fogge sui soffitti e i pavimenti di Palazzo Vecchio, è rimasta un po’ indietro, magari col suo ciuffo di lattuga; ma intanto il vento soffia forte in faccia al promesso leader promesso, il quale che l’altro giorno così s’è descritto: «In piedi sull’onda».
Nella stagione dell’enfasi va da sé che la retorica è sempre dietro l’angolo; e quando non sono le strategie di comunicazione, è il prevedibile tributo al vincitore che con sospetta spontaneità seleziona gli omaggi, ed eccoti puntualmente il «cambio di passo», lo «sprint», lo «scatto», l’»anticipo», l’»accelerazione», il «sorpasso», le «tappe bruciate», l’»attimo fuggente», l’»adrenalina», il «velocifero», addirittura, e l’inesorabile «turbo-leader».
E pazienza se ieri il classico programma «dei cento giorni» era già diventato «dei sessanta». Più immaginario che pratico il rischio – non se ne adonti Renzi, non è colpa sua – sta piuttosto in un gorgoglio di chiacchiere, oltretutto nemmeno consapevoli di rimestare nel pentolone dell’archeo e tardo futurismo. Per cui – punto quarto del Manifesto del 1909 (!) – «noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità».
Occorre dunque resistere strenuamente al grottesco e dotarsi quindi per il futuro di una riserva di avveduto scetticismo. Ma in fin dei conti si può senza dubbio riconoscere a Renzi di essere assai più veloce e anche più svelto, senza virgolette, degli uomini politici che fin qui si sono messi alla prova e ai quali il gentile pubblico non pagante si è abituato, anche se quasi mai affezionato.
Non si intendono qui Moro, che del rinvio fece una religione, o Berlinguer, che pagò duramente i suoi ritardi, o Andreotti, che tutto sminuzzava fino a disperderlo nell’iperuranio delle non decisioni. Ma Renzi appare senz’altro più rapido anche di gente parecchio sveglia come Craxi, o Bossi, o lo stesso Berlusconi.
A occhio, tale dote deve aver a che fare con un salto anagrafico, o l’evoluzione della specie. In questo senso colpisce che l’esordio del personaggio è avvenuto in tv, anzi in un telequiz (dal profetico nome de «La ruota della fortuna»). Ha spiegato in proposito il demoscopo Alessandro Amadori, che pure ha sperimentato la medesima esperienza sul video: «Tutto lì avviene all’insegna della velocità e tu impari a essere un fulmine nelle risposte».
Altra cosa è ovviamente governare. Per giunta in un paese che vanta un indubbio primato d’improvvisazione – sempre ridicola, talvolta tragica – e nel quale i leader politici adorano presentarsi e ancor più farsi credere, specie in tv, i più risoluti, decisionisti e sbrigativi possibile – e qui il pensiero corre, il meno grato che si possa immaginare, al Cavaliere che si vantò di aver fatto approvare dal Consiglio dei ministri la Finanziaria 2008 in nove minuti, o al governo Monti che riformò le pensioni in un battibaleno, dimenticandosi però di circa 300 mila esodati.
Ora arriva Renzi con i suoi blitz, e pur senza nutrire alcuna nostalgia per le vecchie pastoie che non finivano mai, sembra lecito chiedersi quali vantaggi, ma anche quali guai possono venire da una politica che di colpo scopre la virtù salvifica del movimento e un po’ anche della fretta. Certo, chi va piano va sano e va lontano, ma anche a prescindere dagli arcani del fund raising, «festina lente» pare un ottimo programma, e l’alacre testuggine di Cosimo un animaletto perfino rassicurante.

La Repubblica 15.02.14

"La battaglia negata", di Stefano Menichini

Renzi va a fare il suo governo, con le ovvie difficoltà. Il popolo del Pd e della Leopolda assiste all’avventura che è diventata di uno solo, mentre c’era la speranza che fosse di tutti. Partiti e partitini giocano le proprie carte e, come sempre nel pieno delle consultazioni, fanno facce arcigne, marcano più le distanze che le prossimità. La stampa mainstream, fino all’altroieri inclemente con Letta, ora si mostra infastidita dal modo del cambio in corsa a palazzo Chigi. Nei confronti di Renzi è tutto un aggrottare sopracciglia, porre condizioni, scuotere il capo. La minoranza del Pd ci ripensa ogni mezza giornata e quindi, strattonata da Bersani che si riaffaccia sulla scena, torna a esprimere disagio per la soluzione della crisi.

Insomma, il primo giorno dell’Era Renzi, come titolava ieri Europa, non è un letto di rose. Non che l’interessato – ieri tornato per l’ultimo giorno sindaco, con un certo visibile sollievo personale – si aspettasse nulla di diverso. Sa bene di dover camminare, anzi correre, controvento.

E il suo mondo? Dove sono, che cosa pensano e come si esprimono gli entusiasti della Leopolda, la base attiva delle primarie renziane che solo pochi mesi fa s’era ingrossata fino a farsi esercito, conquistare di slancio il Pd, prepararsi per ogni ulteriore ingaggio?

Qui a Europa, nel nostro piccolo, pensiamo possa essere utile lavorare sui dubbi di questo mondo, e sul modo migliore di scioglierli. Perché è vero, molti sono convinti che in Italia una rivoluzione sia possibile solo calata dall’alto. Ma noi sappiamo, da tempo, che a palazzo Chigi ci sono meno bottoni di comando che in qualsiasi municipio d’Italia. E che dunque la possibilità di cambiare in concreto le cose è una difficile risultante di leadership personale, qualità della squadra politica e amministrativa, sostegno di gruppi di potere e però anche coinvolgimento non diciamo popolare, ma almeno diffuso, democratico.

Questa arma, che era la più forte in mano a Renzi fino a pochi giorni fa, ora è scarica.

Se è vero che in questi giorni s’è consumato un tradimento, non è ai danni di Letta bensì dei tanti che pensavano l’adesione al progetto di Renzi come una chiamata a una grande avventura collettiva, una conquista del potere di decisione finora negato nella quale ognuno sarebbe stato chiamato a fare una parte, e ognuno poi avrebbe avuto una parte. Poteva essere la battaglia della vita di una generazione anagrafica, oppure degli esclusi, dei delusi, dei giovanissimi. Comunque, di un popolo. Il popolo di Renzi, diventato il popolo delle primarie. Invece si ritrovano tutti, ci ritroviamo tutti, spettatori della battaglia di uno solo, accompagnato più per calcolo che per passione dal gruppo dirigente del suo partito.

Intendiamoci, quella speranza di palingenesi collettiva conteneva tanta ingenuità, il modo naif di concepire la partecipazione che ha fatto la fortuna delle Leopolde. Renzi sta facendo altro, sta facendo politica con il feroce realismo che la politica vera richiede. In questo senso ha ragione lui, e hanno torto i delusi: c’è un tempo per il sentimento e un tempo per la tecnica. Sono state convincenti le risposte date in direzione sull’inevitabilità della scelta compiuta. E poi il consenso per un leader si misura su scala molto più ampia della sua base militante o simpatizzante: è perfettamente possibile – anzi, probabile – che la sensazione di deprivazione provata dalla gente della Leopolda sia poca cosa rispetto alle aspettative positive della ben più vasta opinione pubblica nazionale.

Lo sapremo presto, lo misureremo presto. Tutti avranno tempo e possibilità di cambiare idea, e Renzi è ampiamente in grado di risvegliare interesse e speranza. Rimane un filo di rimpianto per un appuntamento cancellato, che se anche si ripresenterà non sarà comunque mai più la stessa cosa. Bene che vada, la prossima volta i democratici dovranno battersi per tirare fuori dalle urne un governo Renzi Due. Prospettiva poco romantica, ammetterete. Pazienza, così impariamo.

da Europa Quotidiano 15.02.14