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«La sfida? Per lui sarà rottamare l’Europa dell’austerity» di Umberto De Giovannangeli

«Mi sembra che una delle parole vincenti, certamente di maggiore impatto e suggestione, di Matteo Renzi sia stata “cambiamento”. Ora questo orizzonte evocato deve essere praticato. Perché questo è il compito di un leader che si assume l’onere, oltre che l’onore, di guidare un Paese: coniugare, con gli atti di governo, idealità e concretezza. E ciò significa, in chiave europea,andare oltre l’angusto confine dell’austerità. Non basta evocare l’innovazione, occorre dare ad essa un segno sociale, una visione, un progetto di trasformazione. E per Renzi premier questa sfida si gioca in Europa». A sostenerlo è Jean-Paul Fitoussi, Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire Francais del Conjonctures Economiques, istituto di ricerca economica e previsione, autore di numerosi saggi, tra i quali l’ultimo è «Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale» (Einaudi, 2013). «L’Europa – rimarca ancora Fitoussi – ha un futuro se si libera dall’ossessione del deficit pubblico. Mi auguro che Matteo Renzi ne tenga conto nel suo agire da premier, anche perché la sua prima verifica elettorale riguarderà proprio l’Europa».
Professor Fitoussi, visto da Parigi quale effetto fa il cambio di leadership a Palazzo Chigi?

«Cosa vuole che le dica, i problemi del- la politica italiana sono complessi, spesso spiazzanti, certo “machiavellici”. Posso aggiungere che ho una grande stima per Enrico Letta, e ho avuto anche una buona impressione di Matteo Renzi, che ho avuto modo di conoscere di persona un paio di anni fa a Firenze, in un convegno sulla cultura». Sempre dall’osservatorio europeo: dopo Mario Monti ed Enrico Letta, ora è Matteo Renzi il terzo premier che a distanza di pochi anni entra a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale. Come vede questa «anomalia italiana»?

«Può essere un’anomalia, ma non mi pare che essa sia fuori dal dettato costituzionale. Non credo che sia una “scorciatoia”, di certo non stravolge la Costituzione italiana. In altri Paesi non sarebbe possibile. Questo pone un problema importante: quello della legittimità democratica e della legittimazione popolare. Il che porta al cuore di una delle sfide interne che Renzi dovrà affrontare…».

Quale sarebbe questa sfida?

«Una nuova legge elettorale, parte integrante di una riforma delle istituzioni rappresentative e del funzionamento dello Stato. Mi pare che Renzi abbia dato un’accelerazione alla riforma della legge elettorale con l’accordo raggiunto con il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Si tratta di vedere se questo accordo avrà un ulteriore impulso, ovvero subirà una battuta d’arresto, con l’ingresso di Renzi a Palazzo Chigi».

Il 2014 è l’anno dell’Europa: a maggio le elezioni e, subito dopo l’Italia avrà la guida del secondo semestre dell’Ue. Da convinto europeista qual è, cosa si attende dal governo Renzi?

«Quello che ci aspettavamo dall’elezione di Francois Hollande, un’aspettativa solo in parte, e nemmeno grande, realizzata: una pressione più forte sui Consigli europei per un cambiamento veloce e sostanziale delle politiche economiche comunitarie. L’Europa potrà uscire dal buco nero in cui ancora si trova, solamente se saprà attivare una vera politica di investimenti sia pubblici che privati. Bisogna favorire a tutti i costi gli investimenti, perché il problema fondamentale che l’Europa ha è che soffre di un deficit su cui poco si ragiona e ancor meno agisce: il deficit di futuro. Il fallimento delle ricette iper liberiste e del ciclo neoconservatore, avrebbe dovuto insegnare che quello degli investimenti è lo strumento essenziale, imprescindibile per dare un futuro alle giovani generazioni e rilanciare la crescita. Bisogna cambiare le politiche europee, operando per una modifica sostanziale del Patto fiscale».

Su quale direttrice dovrebbe muoversi il cambiamento da lei auspicato, e «consigliato» al probabile neo premier italiano? «È necessario togliere gli investimenti dal calcolo del disavanzo pubblico, solo così si potrà dare spazio e liberare risorse per affrontare il futuro, andando oltre l’orizzonte dell’austerità. A livello europeo, occorrerebbe puntare su grandi investimenti nel campo delle fonti energetiche, sulla green economy, così come nelle infrastrutture, nel sapere e nella ricerca. È questo il momento di farlo. Questa sì sarebbe una svolta verso il futuro e non verso il passato, che è poi quello che si continua a fare, pensando che il problema fondamentale siano i conti in ordine. Una Europa che resta prigioniera dell’ossessione del debito pubblico, è una Europa che rinuncia ad avere un futuro. Ecco, spero che Matteo Renzi contribuisca a “rottamare”, paro- la a lui cara, l’ Europa conservatrice, ripiegata su se stessa, Di certo non sarà l’austerità a tirarci fuori dalla recessione né a contrastare una preoccupante deriva populistica. Un europeismo coraggioso: questo mi sento di chiedere a Renzi».

L’Unità 15.02.14

"Contro l'odio che corre sul web", di Giovanni Valentini

Malfgrado il suo aspetto formalmente del tutto definito, il testo digitale è permanentemente e intrinsecamente instabile.
(da “Presi nella rete” di Raffaele Simone – Garzanti, 2012 – pagg. 91-92). Con il suicidio della quattordicenne padovana, perseguitata dagli insulti e dalle volgarità su un social network che non merita neppure di essere nominato, è stato raggiunto ormai un punto di non ritorno. Un’invalicabile linea di confine tra la libertà di espressione e la violenza verbale, tra la convivenza civile e la barbarie. E ha fatto più che bene perciò la presidente della Camera, Laura Boldrini, a lanciare nei giorni scorsi un richiamo alla responsabilità e un appello contro il cyber-bullismo.
Ora, prodotta tutta la letteratura sociologica e psicoanalitica del caso, bisogna passare alle soluzioni concrete e alle norme di legge. La Rete, come qui abbiamo già detto altre volte, è libertaria e anarchica per sua natura: e queste sue caratteristiche vanno rispettate e salvaguardate. In particolare, i social network sono un luogo virtuale di dibattito e di confronto che si configura legittimamente come una moderna agorà informatica.
Ma c’è un limite anche all’esercizio della libertà individuale. Ed è il rispetto per la libertà altrui: quindi per diritti fondamentali come la tutela della persona-lità, dell’onore e della reputazione. Troppo spesso, invece, la comunicazione sul web — favorita dall’immediatezza degli strumenti e dalla stessa rapidità del linguaggio — degenera in risse mediatiche, in attacchi e aggressioni o addirittura in campagne d’odio, compromettendo la funzionalità e la credibilità della Rete.
Occorre, dunque, una normativa adeguata ai tempi e alle modalità di questa comunicazione che non mortifichi o non imbavagli il web, ma stabilisca e garantisca il rispetto di alcune regole basilari. Sono proprio questi gli obiettivi del disegno di legge a cui stanno lavorando due deputati del Pd, Alessandra Moretti e Francesco Sanna, dopo i gravi abusi subiti dalla prima che recentemente s’è vista violare il proprio account di posta elettronica e anche quello di Twitter: “Rendere la rete uno spazio né di anomia né di censura, in cui cioè si promuovano i diritti e le libertà e non invece la violenza, l’ingiuria, la discriminazione (soprattutto nei confronti dei soggetti fragili)”.
Il primo criterio a cui ispirarsi non può che essere quello indicato autorevolmente da Stefano Rodotà, uno dei nostri giuristi più democratici e garantisti: ciò che è illegale offline dev’essere illegale anche online. Se una norma vale per la carta stampata, per la radio e per la televisione, vale necessariamente anche per Internet. Sia che si tratti di ingiuria, di calunnia o diffamazione, sia che si tratti di altre fattispecie di reato. E ciò, naturalmente, sul piano penale ed eventualmente su quello civile.
In secondo luogo, è necessario sancire anche in questo campo il “principio di responsabilità”. Ognuno è responsabile degli atti che compie come delle parole che pronuncia pubblicamente o che scrive e dei giudizi che esprime. Nella sua massima autonomia, la Rete non può diventare un’area off limits,
il regno dell’impunità, una “zona franca” per abusare della propria libertà a danno di quella altrui.
A questo proposito, la proposta di legge Moretti-Sanna prevede opportunamente di mantenere l’attuale regime di “anonimato tracciabile”: vale a dire la possibilità di restare anonimi, a condizione però che all’occorrenza l’autore del post o del tweet sia identificabile da parte della magistratura e della polizia postale. Né più né meno di quello che si fa da sempre per le lettere ai giornali, laddove chi pubblica deve conoscere nome e cognome di chi scrive e chiede di restare anonimo. Altrimenti, si rischia che l’irresponsabilità generi, appunto, istigazione all’odio e alla violenza.
Nella comunicazione sul web, tuttavia, non sempre l’identificabilità dell’autore coincide con quella dello strumento utilizzato: pc, tablet, smartphone e telefonini vari possono essere usati, anche occasionalmente, da altre persone diverse dai rispettivi proprietari. I testi digitali, come osserva l’autore del libro citato all’inizio, sono “intrinsecamente instabili”. E allora, con l’aiuto della tecnologia, converrà introdurre o rafforzare codici di accesso e password personalizzate, in modo da individuare l’utente effettivo di un certo device in quel determinato momento.
Per concludere: la filosofia del Diritto insegna che in un regime democratico la legge non serve a imporre coercitivamente modelli di comportamento, ma a codificare quelli che maturano nella coscienza collettiva e di conseguenza a indurli. Anche in questo caso c’è alla base una questione di cultura e di responsabilità. Ma, in difesa della funzione sociale della Rete, il legislatore è chiamato ora a sanzionare e impedire gli abusi di alcuni per garantire la libertà di tutti.

La Repubblica 15.02.14

"Torna la crescita, dopo due anni Moody’s migliora il giudizio sull’Italia", di Stefania Tamburello

Borsa ai massimi, Btp ai minimi: i mercati hanno salutato così, con palese entusiasmo, il cambio di governo. E in serata Moody’s ha promosso l’Italia migliorando da «negative» a «stabili» le aspettative (outlook) e confermando il rating sul debito al livello Baa2. Una valutazione, quest’ultima, conclusa il 10 febbraio e comunicata ieri, come da calendario. La nota dell’agenzia registra comunque le dimissioni di Enrico Letta e sottolinea che «le attese sulla designazione di Matteo Renzi alla guida del governo non cambiano le previsioni di Moody’s» sulla tenuta dei conti pubblici. Per il 2014 l’agenzia di rating stima un rapporto debito-Pil che tocca il picco appena sotto quota 135% nel suo scenario base, ed evidenzia la rafforzata capacità di fare fronte al debito pubblico grazie anche al miglioramento delle condizioni di mercato.
Sempre ieri l’Istat ha annunciato la prima variazione positiva del Pil, Prodotto interno lordo, dopo 9 trimestri di calo. Il debito pubblico, poi, inusualmente non ha fatto emergere un nuovo record ma una, seppure piccola e stagionale, contrazione. Non c’è che dire il tragitto di Matteo Renzi, verso Palazzo Chigi, per sostituire Enrico Letta che ieri si è dimesso, nasce sotto una buona stella. Era tempo che non si vedevano tutte assieme tante notizie positive in campo economico. Certo non tutte dello stesso valore, e non tutte collegabili alle vicende politiche di giornata, ma il segnale, per ora, è di quelli che indicano fortuna e la cosa non guasta.
Piazza Affari e titoli pubblici, per iniziare. In questo caso le vicende politiche e l’avvicendamento alla guida dell’esecutivo non sono state estranee al comportamento degli investitori. In un contesto positivo per tutti i listini europei spinti dai dati sulla fiducia dei consumatori Usa e dall’aumento del Pil dell’eurozona, la Borsa di Milano ha registrato il guadagno più alto dell’1,62% a 20.436,47 punti, ai massimi da tre anni.
Lo spread tra i rendimenti dei Btp decennali e Bund tedeschi di uguale durata, è tornato a scendere sotto quota 200 chiudendo poi a questo livello con il titolo italiano in miglioramento al 3,68% e con l’intera curva delle scadenze in riduzione. Ad influire sul mood degli investitori è stata la prospettiva di una rapida formazione del nuovo governo. Anche se le maggiori istituzioni finanziarie estere, nei loro rapporti raccolti da Bloomberg — da Nomura a Citigroup — puntano molto sulla capacità di Renzi e del suo governo a completare le riforme.
Certamente sui mercati ieri ha influito l’andamento positivo del Pil in Europa in dicembre. Per l’Italia la notizia è stata particolarmente significativa perché il progresso dello 0,1% rappresenta il primo accenno di ripresa dal secondo trimestre del 2011 e la speranza che la recessione sia finalmente finita. È il segnale che aspettavano Letta e il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e che è arrivato invece a salutare l’arrivo del nuovo esecutivo targato Renzi. Un segnale peraltro molto flebile soprattutto se si rapporta a quello della Francia che a dicembre ha registrato un passo avanti del Pil dello 0,3% e della Germania in progresso dello 0,4% mentre il Prodotto dell’Eurozona è salito nella media dello 0,3%. Il dato positivo di dicembre, poi, non cambia il dato complessivo del 2013 che si è chiuso con un Pil in calo dell’1,9% portando il costo della crisi, dal 2008, a quasi 9 punti percentuali, secondo i calcoli della Banca d’Italia.
Da Palazzo Koch ieri è arrivato il dato sul debito pubblico che a dicembre invece di far registrare l’ennesimo record è sceso di 36,5 miliardi rispetto a novembre, attestandosi a 2.067,5 miliardi di euro, comunque 78 miliardi in più di fine 2012. Quanto alle entrate fiscali hanno segnato nel 2013 — sono ancora i dati di Bankitalia — un leggerissimo aumento dello 0,26% rispetto al 2012.
Il ministero dell’Economia e delle finanze ha invece reso noti i dati di sintesi del conto del settore statale del mese di dicembre che ha registrato un avanzo di 14,474 miliardi. In particolare, le entrate sono ammontate a 119,386 miliardi mentre le spese a 104,912 miliardi (di cui 6,788 miliardi le spese per interessi).
Stefania Tamburello
L’Italia torna a crescere dopo oltre due anni E Moody’s: ora stabili
L’Italia torna a crescere. L’Istat ha annunciato la prima variazione positiva del Prodotto interno lordo (+ 0,1 %) dopo nove trimestri di calo, cioè dal 2011. Il debito pubblico ha registrato una lieve contrazione. Inoltre, l’agenzia Moody’s conferma il voto sull’Italia: «Outlook da negativo a stabile».
I mercati hanno salutato con la Borsa ai massimi e i Btp ai minimi il cambio di governo: era da tempo che non si vedevano tutte insieme tante notizie positive in ambito economico. È il segnale, per quanto flebile, che aspettavano Letta e il ministro Saccomanni e che invece è arrivato nel giorno delle dimissioni.

Il Corriere della Sera 15.02.14

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Il frutto della lentezza
FRANCESCO MANACORDA

Bo cciato dalla politica, promosso dal mercato. Nel giorno in cui deve abbandonare Palazzo Chigi, Enrico Letta incassa un riconoscimento ai suoi sforzi che suona come un premio di consolazione.

Il giudizio sullo stato di salute dell’economia pubblica italiana, arrivato a tarda sera dall’agenzia di rating Moody’s, migliora: le nostre prospettive non sono più considerate negative ma stabili.

Certo, il voto assegnato al nostro Paese da Moody’s non cambia e resta a un livello tutt’altro che eccelso. Vista la mole del debito pubblico non potrebbe che essere così. Ma per la prima volta in dodici anni non accade né che il voto scenda, né che resti stabile con un peggioramento delle prospettive dell’Italia. Questa volta, invece rimane stabile il giudizio mentre migliora l’orientamento su come cambierà la situazione. Nella stessa direzione va un altro dato reso noto ieri dall’Istat, proprio mentre Letta si chiudeva dietro le spalle il portone di Palazzo Chigi, ossia il (micro) aumento del Pil dello 0,1% nell’ultimo trimestre del 2013. Anche in questo caso il segnale arriva dopo un lungo periodo – due anni e mezzo – di Pil con segno negativo o al massimo con crescita zero. E se vogliamo, al bilancio in attivo si può aggiungere uno spread da mesi lungamente lontano dai massimi del 2011 che ieri – proprio sull’onda delle aspettative dei mercati per il governo di Matteo Renzi – è sceso sotto quota 200.

Si tratta, come è ovvio, di dati che non hanno più alcuna utilità politica per il governo uscente e che rischiano quasi di suonare come una beffa, ma che ci impongono di riflettere sull’impazienza con cui si giudicano i risultati delle politiche di governo.

Ma quello che ci indicano è che il Paese che Letta consegna – contro la sua volontà – a Renzi, ha probabilmente arrestato la caduta libera e va stabilizzandosi. Certo, non siamo ancora di fronte a una ripresa che pure qualcuno nel governo aveva evocato – uno 0,1% del Pil non autorizza a parlarne, mentre un tasso di disoccupazione che resta al massimo storico del 12,7% spegne qualsiasi ottimismo velleitario – ma quantomeno ritroviamo una base stabile sulla quale una ripresa si potrebbe innestare. Se Renzi riuscirà a farlo ne coglierà i frutti, in termini economici e forse anche politici. E se così sarà dovrebbe, anche se non è detto che lo farà, riconoscere che la sua esperienza avrà goduto di un «dividendo» derivante proprio dal risanamento portato avanti da chi lo ha preceduto.

I dati con cui si congeda il governo uscente spingono anche a riflettere sulla velocità del cambiamento. Renzi, come è noto, gioca proprio sulla velocità la scommessa per affermare la sua offerta politica, mentre non ha chiarito finora (tantomeno alla direzione Pd che si è scrollata di dosso Letta) in che cosa la sostanza di questa offerta si differenzi da quella del governo uscente. E quella di velocità è una delle richieste più pressanti che gli arrivano dalle parti sociali. Le imprese piemontesi che sono scese in piazza ieri davanti a Montecitorio, così come i commercianti e gli artigiani che martedì prevedono di ritrovarsi in almeno 30 mila a manifestare a Roma, hanno slogan che chiedono cambiamenti radicali e immediati e non a caso accusano il governo uscente non di politiche sbagliate, ma di immobilismo.

I dati di ieri ci dicono anche che la pianta delle riforme ha bisogno di tempi non brevi per mostrare i primi germogli e per consolidarsi. C’è da augurarsi che quella specie a fioritura istantanea che Renzi è pronto a piantare sia anche in grado di dare frutti.

La Stampa 15.02.14

"Quel divario tra ricchezza e povertà che minaccia crescita e coesione sociale", di Alberto Martinelli

Secondo il rapporto Istat «Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo» nel 2011 una famiglia italiana su quattro era in una situazione di «deprivazione»(ovvero aveva almeno tre dei nove indici di disagio economico come, per esempio, non poter sostenere spese impreviste, arretrati nei pagamenti o un pasto proteico ogni due giorni). Si tratta di un’ulteriore conferma di un problema generale di particolare gravità, quello della crescente disuguaglianza sia nelle diverse società nazionali, sia a livello dell’intero mondo. Per quanto riguarda il nostro Paese, anche l’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie nel 2012 mostra disuguaglianza in aumento: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% della ricchezza netta (ovvero la somma delle attività reali, ossia immobili, aziende e oggetti di valore; e attività finanziarie, dunque depositi, titoli di Stato, azioni, eccetera), mentre l’indice Gini di concentrazione della ricchezza ha raggiunto il 64%, in aumento rispetto al 60,7% del 2008. Quanto alla situazione mondiale, basti citare il rapporto dell’Oxfam da poco discusso al World Economic Forum di Davos: lo 0,7% della popolazione mondiale (32 milioni di persone) possiede il 41% della ricchezza, il 7,7% una percentuale di ricchezza più o meno equivalente a quella del primo gruppo (42,3%), al 22,9% spetta il 13,7% della ricchezza, mentre alla grande maggioranza della popolazione (il 68,7%) rimane solo il 3% residuo.
Il processo di aumento delle disuguaglianze di ricchezza e reddito è generale. Si verifica nei grandi Paesi emergenti, sia in società già fortemente diseguali — come quella indiana, o brasiliana, o nigeriana — sia in società un tempo più egualitarie, come la cinese o l’indonesiana.
Ciò non sorprende: diverse ricerche comparative sui processi di modernizzazione mostrano un incremento delle disuguaglianze nelle prime fasi dello sviluppo economico e una successiva diminuzione in virtù di condizioni favorevoli, come l’industrializzazione, la crescita delle classi medie, lo sviluppo dell’istruzione, l’attuazione del welfare state e di politiche ridistributive.
Nel mondo contemporaneo in realtà le diseguaglianze stanno aumentando sensibilmente anche nei Paesi sviluppati. Dopo i «trent’anni gloriosi», dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, in cui una certa ridistribuzione dei redditi è stata favorita da politiche socio-economiche riassumibili nella formula Keynes at home and Smith abroad (Keynes a casa e Smith all’estero), ovvero politiche anticicliche e di welfare in sede domestica e liberalizzazione degli scambi in ambito internazionale, nei successivi tre-quattro decenni — quelli della globalizzazione — si sono sì create le condizioni per l’emersione dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi e indiani ma, d’altro lato, sono fortemente aumentate le disuguaglianze nella grande maggioranza sia dei Paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo.
Una distribuzione fortemente disuguale del reddito e della ricchezza tra classi sociali, generi, generazioni, gruppi etnici minaccia la crescita economica, la coesione sociale e la stabilità politica dei Paesi in cui si verifica. In primo luogo, un aumento dei consumi da parte di una ristretta minoranza di super-ricchi, per quanto possano accrescere la loro propensione all’acquisto di beni e servizi, non riuscirà mai a compensare la contrazione della domanda determinata da un impoverimento relativo di una assai più ampia classe media, e impedirà il ciclo virtuoso rappresentato dall’aumento dei salari e della produttività con conseguente crescita della domanda di beni e servizi e ulteriore sviluppo della produzione. Inoltre, la percezione di disuguaglianze eccessive — sia all’interno di una stessa organizzazione ( in cui il reddito di alti dirigenti è centinaia di volte il salario medio dei dipendenti), sia tra tipi di lavoro (come nel caso della retribuzione di un medico ospedaliero, pari a una frazione di quella di un consulente finanziario o un consigliere regionale), sia tra gruppi che ricevono remunerazioni diverse per lo stesso tipo di lavoro (donne rispetto a uomini) — viola il fondamentale principio di equità nei rapporti sociali, incrina il patto di cittadinanza, ovvero la solidarietà e la collaborazione che rendono possibile la società, e mette a rischio la stessa tenuta democratica perché favorisce le oligarchie del denaro e del potere, il clientelismo e la corruzione. Come scrive Rousseau, infatti, in una società democratica «nessun cittadino deve essere tanto ricco da poterne comprare un altro e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi».

da Il Corriere della Sera

"Ma ce la può fare?", di Stefano Menichini

Renzi imprime alla politica italiana un’altra accelerazione formidabile. Il rischio è altissimo, tanti dubbi da vincere, Berlusconi e Grillo in agguato. E da domani nella corsa è coinvolto il popolo italiano.

Oggi l’Italia cambia governo, e benché l’evento sia stato vissuto e raccontato in questi giorni come uno scontro fra due individualità, la percezione immediata è che si stia in realtà spalancando la porta a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana.

Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso: una linea di condotta molto “prodiana”. Matteo Renzi si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva.

Naturalmente rimangono aperti i problemi, le incognite e anche le ferite di questo passaggio di consegne a palazzo Chigi. Ma la politica di questi tempi è impietosa, veloce, impone già di occuparsi del futuro. Anche perché soprattutto questa è la scommessa del presidente del consiglio in pectore: determinare in tempi rapidissimi una enorme mole di fatti nuovi, rotture di continuità, strappi alle regole, sì da cancellare in fretta gli aspetti negativi della svolta che lo vede protagonista.

Rimaniamo però ancora per un momento sulla tappa di ieri, che è stata importante per la luce che getta sul passato recente e sul futuro prossimo.

Ieri è stato il giorno della saggezza, come speravamo mercoledì nel momento più teso del rapporto fra Renzi e Letta. Dal duello rusticano descritto (senza inventare nulla) dai giornali, s’è passato a ragionamenti politici più lucidi e freddi. E poi è stato il giorno in cui il segretario del Pd ha dato la sua risposta alla domanda che era sulle labbra di tutti gli elettori, militanti e dirigenti del suo partito: perché lo fai?

Ora sappiamo perché Renzi ha giudicato inevitabile ciò che aveva sempre detto di voler evitare: sostituire il suo «amico», e farlo senza passare dal voto popolare. In sintesi, il segretario ha spiegato alla direzione Pd che il deterioramento del quadro politico e la stanchezza del governo erano ormai tali da compromettere il buon esito del più importante impegno assunto davanti agli elettori, cioè la riforma delle istituzioni. E che nell’impossibilità di andare al voto subito, l’unica strada percorribile era un rilancio pazzesco del coinvolgimento del Pd e del suo segretario. When in trouble, go big.

Non è detto che la risposta suoni convincente per tanti, soprattutto estimatori di Renzi, che pensavano per lui e insieme a lui a un altro percorso, a un’altra traiettoria per arrivare allo stesso approdo in modo più coinvolgente. E questo è uno dei problemi rimasti aperti, ammesso che Renzi lo consideri tale ora che deve occuparsi di rimescolare il quadro politico e di comporre una squadra di ministri da strappare applausi. Nella testa del futuro premier, la ricostruzione di un’immagine positiva e “altra” è ormai affidata a conquiste veloci e sorprendenti nell’azione di governo. Sempre che dal governo, in attesa di una riforma delle istituzioni che non ha tempi certi, sia possibile fare mirabilie.

Va notato che ieri in direzione Renzi s’è occupato solo di smontare l’argomento delle “elezioni subito”, più che di spiegare i limiti dell’azione di Letta. Evidentemente in quella sede il secondo tema era già dato per acquisito (in effetti critiche diffuse al governo nel Pd se ne ascoltano fin da quando era segretario Epifani), mentre sul primo punto negli ultimi giorni si sono svolte discussioni accanite fin dentro l’inner circle renziano. Tant’è vero che molti rimangono convinti che, senza poterlo ovviamente confessare (soprattutto ai gruppi parlamentari), Renzi dichiari di puntare al 2018 ma intanto abbia fretta di incamerare la riforma elettorale, pronto a ricorrere appena necessario o utile all’arma ora indisponibile delle elezioni anticipate.

Il sospetto è legittimo. Com’è suo tipico, Renzi sfida il politicamente corretto e rivendica di nutrire «una sfrenata ambizione». Fa bene, e io penso che l’obiettivo 2018 sia reale e non fittizio. Ma lui è il primo a sapere quanti ostacoli si frappongono alla realizzazione di questa ambizione.

Di difficoltà ne salteranno fuori a breve, nella trattativa inevitabilmente vischiosa per la formazione e possibilmente l’allargamento della coalizione di maggioranza. Ce ne saranno nei prossimi tre mesi, appena la campagna elettorale per le Europee imporrà toni da battaglia anche fra alleati. E saranno durissime nell’arco del primo anno di governo, quello decisivo per portare a casa le riforme costituzionali.

Quando Renzi chiuse l’accordo del Nazareno con Berlusconi, molti gridarono al miracolo: era riuscito dove tanti prima di lui erano falliti. Ora il segretario-premier dichiara di voler provare là dove sono caduti alcuni fra i più grandi leader politici italiani: gestire contemporaneamente, in prima persona e non per delegata bicamerale, una maggioranza di governo (nel pieno di una tragica crisi economica, dovendo contrattare con l’Europa a ogni passo) e un’altra per la riforma istituzionale: maggioranze diverse e in parte conflittuali fra loro. E di volerlo fare stando seduto al tavolo con un baro di professione come Silvio Berlusconi, sotto il fuoco alzo zero di Beppe Grillo, con l’accusa perennemente pendente di occupare palazzo Chigi senza un mandato popolare.

È un’impresa micidiale, che l’ormai ex sindaco affronta con apparente confidenza.

Eccesso di sicurezza? Diciamo che tutti quelli che hanno provato a colpire Renzi quando era molto esposto, se ne sono dovuti pentire. Così come quelli che hanno provato a farlo inciampare quando correva troppo. Ogni meta prefissata è stata raggiunta, lasciando ai lati della strada avversari e dubbiosi. La sua autostima non può che esserne uscita accresciuta, il che in politica è un vantaggio e oggi è un gran vantaggio per l’intero Pd.

L’importante è che Matteo Renzi si ricordi che, a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano.

da www.europaquotidiano.it

"La soluzione per salvare la legislatura", di Elisabetta Gualmini

Nasce il Renzi 1. Da ieri il sindaco-segretario è diventato di fatto primo ministro di un nuovo governo politico di coalizione a guida Pd. Ha detronizzato Enrico Letta e ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. Lo ha fatto con una spregiudicatezza non superiore a quella mostrata dagli accaniti sostenitori delle larghe e poi piccole intese rapidamente saliti sul nuovo carro, ma con molto coraggio in più.

Renzi vuole cambiare direzione, velocità e ritmo. Per rianimare una legislatura in stato comatoso, che tuttavia – guarda caso – nessuno dei suoi protagonisti vuole interrompere. In assenza di una prospettiva chiara sui destini della legge elettorale e, ancora di più, sulle altre riforme istituzionali (Senato e Titolo V), il leader Pd scommette e rilancia. Senza la consacrazione salvifica delle urne e senza staffetta. Nessuno scambio aggraziato del testimone tra atleti della stessa squadra, nessun passaggio di mano consensuale; tra il segretario e Letta è stata guerra aperta, uno scontro frontale con annesse randellate furenti. Tra due che non si possono vedere. Al confronto quelle tra Veltroni e D’Alema erano sberleffi e baruffe, lizzi e lazze tra educandi.

C’è da chiedersi se questa sia l’unica soluzione possibile. Nel metodo e nel merito. In un Paese ormai ai minimi storici di credibilità e di fiducia nella politica (ci siamo giocati praticamente tutto, i comuni, le regioni, l’Europa, figuriamoci i partiti). E cioè se la terza soluzione di palazzo, infiocchettata e servita già pronta ai cittadini-spettatori, sia la strada corretta da cavalcare. L’ultima possibilità che resta per dare un senso a una legislatura che, francamente, un senso non ce l’ha, dando davvero corpo alle riforme, che ancora sono scritte sull’acqua, nonostante le promesse, le scadenze e i file excel.

Sul metodo ci sarebbe da discutere. A prescindere da quali saranno le liturgie parlamentari per gestire la crisi, sta di fatto che sarebbe stato meglio per Renzi arrivare a Palazzo Chigi passando per le urne, magari subito dopo l’approvazione della nuova legge elettorale, come promesso durante le primarie: mai a capo delle larghe intese, mai senza passare per il voto. Ed evitando di mettere in scena l’ennesima puntata della telenovela sulle divisioni interne al Pd, per la gioia degli altri partiti.

Nel merito, invece, il Renzi 1 è probabilmente l’unica soluzione ragionevole a fronte del contesto. Un governo by default, in mancanza di alternative. Perché non è possibile andare al voto con questa legge elettorale. E perché i tempi per portarne a casa una nuova potrebbero, secondo Renzi, allungarsi un bel po’, rendendo ancora più alto il rischio che l’attesa sia vana.

Come abbiamo sostenuto in diversi, non solo su questo giornale, c’è da dubitare che la strada del «governo di necessità» sia quella giusta per realizzare «grandi riforme costituzionali». Anche l’esperienza di altri Paesi europei ci dice che di fronte a un Parlamento paralizzato dall’assenza di una maggioranza politicamente coesa, sarebbe stato meglio darsi pochi obiettivi concreti, per rammendare il rammendabile, e tornare a votare. Fare il meno possibile, per evitare disastri. Si è invece seguita, sin dall’inizio, la strada della massima ambizione e della massima propensione al rischio, confidando sull’attaccamento dei parlamentari alla seggiola.

Ora Renzi si metterà a capo di un governo sostenuto da partiti elettoralmente minuscoli (Scelta Civica, Ncd e forse Sel) mentre continuerà ad aver bisogno dell’intesa con Berlusconi sulle riforme, dalla legge elettorale al bicameralismo. In un contesto economico che non appare certamente florido, mentre i bilanci pubblici sono pieni di buchi, al centro e nelle casse degli amati sindaci.

Solo un fuoriclasse può far uscire da un governo debolissimo il coniglio, la colomba e anche un mazzo di rose. Renzi pare intenzionato a provarci e di coraggio, si sa, ne ha da vendere. Certo c’è anche il rischio che i tempi della legge elettorale da domani invece di accorciarsi riprendano ad allungarsi, che tutti si rilassino e che il neo-premier cominci a farsi logorare. Ma rivendicando una ambizione smisurata, Matteo ci prova. E già da oggi si metterà a correre come un forsennato. Archiviato velocemente Letta che oggi si dimetterà, Renzi-il-furioso riprende la volata. Ce la farà? Visti i precedenti, può darsi. E a questo punto, c’è proprio da sperarlo.

da www.lastampa.it

"L’eterna anomalia italiana", di Cesare Martinetti

Dunque Matteo Renzi ha calciato il suo rigore senza paura, come aveva annunciato. Ma ancora non sappiamo se è gol o se la palla è andata sopra la traversa. Per adesso il segretario del Pd ci ha messo la sua «smisurata ambizione» per licenziare Enrico Letta, ringraziandolo frettolosamente per il «notevole» lavoro svolto. La manovra è riuscita e la politica italiana è entrata in una dinamica vorticosa ed impensabile fino a pochissimo tempo fa.

Addirittura negata dallo stesso protagonista, Matteo Renzi, che ancora la settimana scorsa a chi gli chiedeva se stava lavorando per soffiare il posto al suo «amico» – secondo l’antico gergo democristiano – Enrico, rispondeva: chi me lo fa fare?

Ecco, questo è il punto: chi glielo ha fatto fare? Che cosa è accaduto in queste ultime ore per accelerare a tal punto gli eventi precipitati ieri nella più sfacciata dichiarazione di sfiducia subita da un presidente del Consiglio in carica? Come lo stesso Renzi aveva spiegato a «La Stampa» 48 ore prima, lui non è uno che si tira indietro: se mi danno un rigore io lo tiro. E infatti ieri pomeriggio Matteo ha messo i piedi nel fango, preso il pallone, lo ha sistemato sul dischetto e ha tirato. Ma chi aveva fischiato il penalty?

Scrive oggi «Le Monde» che gli italiani hanno tanti modi per definire le loro fantasiose crisi di governo quanti tipi di pasta in cucina. Facile scivolata sul luogo comune della patria degli spaghetti (manca il mandolino), ma la verità è che anche questa volta è difficile spiegare al mondo cosa sta succedendo nel nostro labirintico sistema politico. E visto che siamo a soli cento giorni dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, se davvero Matteo Renzi guiderà il nuovo governo, dobbiamo constatare che in questa legislatura Ue sarà il quarto premier italiano ad aver fatto parte del Consiglio europeo. Un record.

Nei corridoi e negli uffici di Bruxelles ieri si guardava a tutto questo con un certo effetto di rinnovato spaesamento. Nessuno dei tre primi ministri succeduti a Berlusconi – lui sì sfiduciato dall’Europa – è arrivato a Palazzo Chigi per effetto di un voto popolare. Non Monti e non Letta. Renzi è il sindaco eletto di Firenze, che è stata la seconda capitale d’Italia, ma non dell’Italia. L’8 dicembre scorso è stato eletto segretario del Pd con due milioni di voti alle primarie, ma nemmeno il Pd è l’Italia e non è nemmeno il partito che ha vinto le elezioni politiche con un risultato tale da poter governare da solo.

Siamo al ritorno dell’eterna anomalia italiana alla quale nei palazzi di Bruxelles si guarda con attesa, vista l’aria che tira in Europa e l’annunciato vento populista ed euroscettico nel prossimo Parlamento. Questo Renzi che animale sarà? Che succederà nel Consiglio europeo, il tabernacolo dell’Unione, quando si chiuderanno le porte e capi di Stato e di governo resteranno soli a confrontarsi sui dossier? Superata la stagione dell’aneddotico Berlusconi, imprevedibile, ma spesso fuori dalle grandi partite di Consiglio, l’Italia ha vissuto la breve stagione di Monti, il professore capace di far lezione – ascoltato – anche alla Merkel. Poi avevano già fatto l’abitudine al giovane Letta, uno che sul metro dell’Europa aveva costruito la sua cultura politica e da politico secchione arrivava al palazzo di Justus Lipsius con i compiti fatti. E Letta stava sgobbando a preparare il semestre italiano (dal prossimo giugno) come la prova della vita, l’esame definitivo della sua maturità di leader. Al presidente del Consiglio Van Rompuy e al presidente dell’europarlamento Schulz (possibile futuro presidente della Commissione) aveva anticipato con passione e diligenza i temi e gli obbiettivi della presidenza italiana. E ora?

Si pensava insomma da quelle parti che dentro l’anomalia ormai forzosamente accettata di un capo di governo non eletto ma espresso come l’unico punto di equilibrio politico possibile di un Parlamento in stallo, l’Italia avesse raggiunto una sua stabilità. E che in essa si potesse finalmente immaginare di realizzare qualche riforma, a partire da quella elettorale che doveva restituire al più presto la fisiologica normalità democratica. E invece ecco la nuova eccezione che un politico esperto e prudente come Piero Fassino ha definito ieri la «necessaria discontinuità» in un clima politico che appariva da tempo rassegnato all’afasia. Lo sbrigativo Renzi l’altro giorno aveva fatto l’elenco dei soggetti con i quali il governo non sembrava più in grado di dialogare: i gruppi parlamentari, i sindacati, la Confindustria, l’opinione pubblica…

La logica della politica è spietata. Un’altra eccezione si apre nel segno dell’Italia. Era illusorio e sbagliato pensare che uno come Renzi avrebbe vivacchiato aspettando il suo turno. La natura della sua azione politica è la velocità. Il pallone è in volo. Se finirà in rete o alto sulla traversa lo scopriremo tra un po’.

da La Stampa