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"L'azzardo dell'acrobata", di Ezio Mauro

DUNQUE tocca a Renzi, in anticipo sui tempi, cortocircuitando i modi, a dispetto forse perfino delle convenienze. Il sindaco di Firenze ha cambiato la scena in tre mosse, sempre muovendosi su un terreno di gioco parallelo a quello che voleva conquistare. Prima, puntando al governo, ha guadagnato la leadership del partito con le primarie. Poi, guardando alle elezioni, ha fatto ripartire in quindici giorni il treno delle riforme istituzionali bloccato da anni. Infine, scommettendo sul Pd, ha portato il governo sull’orlo del piano inclinato guardandolo scivolare ogni giorno più giù, fino a diventarne la naturale alternativa.
Nei confronti dell’esecutivo ha usato la formula “né aderire, né sabotare”. Lo ha trattato da governo “amico”, ma non da governo del Pd. Tutto questo ha accentuato la fragilità congenita del ministero, forte dalla cintola in su (per il buon credito di Enrico Letta in Europa), debole in Italia per la gestione troppo prudente di una somma algebrica dei veti incrociati in una maggioranza spuria, con il minimo comun denominatore come risultato. Era inevitabile che il protagonista delle riforme diventasse primattore politico. Era probabile che questo ruolo lo candidasse ad alternativa di governo. Era sperabile che tutto ciò avvenisse in forme e modi po-litici, attraverso un percorso condiviso e guidato da un partito in cui i contendenti si riconoscono e che parla al Paese più dei loro caratteri e dei loro progetti personali. Guida, comunità, condivisione non ci sono state.
Renzi ha badato solo all’opportunità da cogliere, accettando la sfida con tutti i pericoli che comporta. Letta ha reagito all’esaurimento del suo progetto provando a resistere per un giorno, ma la delusione personale non è un progetto politico e non cammina. Soprattutto se a lato cresce la calamita di una leadership forte, che attira a sé i soggetti di una politica debole e promette di dar loro un futuro o almeno quell’orizzonte che finora è mancato.
L’arma usata appare infatti semplice e antica: la promessa del tempo, l’impegno a usarlo per cambiare il Paese. Il sistema politico, parlamentare e istituzionale aveva introiettato il sentimento della propria precarietà, vivendo dall’agonia di Berlusconi in poi su un terreno instabile, con maggioranze innaturali, alleati-nemici, veti incrociati, programmi senza ambizione, elezioni inefficaci, prospettive di breve termine, navigazione a vista. Soprattutto, aveva assorbito come naturale la condanna all’interruzione permanente della legislatura, il ricorso alle elezioni anticipate come rimbalzo continuo più che come rimedio definitivo. Anche oggi, anzi fino a ieri, il cammino del governo e il cammino delle riforme erano destinati a congiungersi a breve in un unico punto terminale, con le Camere sciolte e il ricorso agli elettori, questa volta almeno nella speranza di una nuova legge elettorale.
Renzi ha detto che questo paesaggio poteva cambiare, perché non era una condanna obbligata. Il sistema poteva cioè provare a vivere di vita autonoma, come se fosse normale, impegnando la legislatura fino al suo termine naturale, cioè quattro anni, per provare a cambiare davvero il Paese. Una tentazione irresistibile per i piccoli partiti, terrorizzati dal voto mentre devono ancora definire la loro incerta identità, ma anche per il Pd, che per la prima volta può far pesare per quattro anni la massa dei suoi parlamentari, conquistati grazie al Porcellum: e nel Pd la tentazione è forte sia per la maggioranza che può portare al governo il suo leader e la sua voglia di cambiare, sia per la minoranza che può allontanare il momento della formazione delle liste elettorali nelle mani di Renzi, e può anzi contare intanto su un rimescolamento interno al partito.
Gli alleati — partitini, minoranza Pd — hanno dunque aperto la strada a Renzi, minando il governo in carica. Restavano due ostacoli materiali, Letta e soprattutto Napolitano, che in questo Paese senza maggioranza si è dovuto assumere il compito di Lord Protettore del governo, in nome della stabilità, garantendo sul piano internazionale per l’Italia e proteggendola sui mercati. Di fronte ad un trasloco del quadro politico, che ha cambiato il suo riferimento da Letta a Renzi credendo di trovare qui più forza, più durata, più garanzia soprattutto di dare quello scossone di cui il Paese ha necessità per uscire dalla crisi, il Presidente ha preso atto, ha dismesso il ruolo di protezione necessitata, ha riconosciuto l’autonomia ritrovata della politica e ha detto ai partiti: fate il vostro gioco, purché mi garantiate stabilità, riforme e solidità nei numeri. Il piano delle riforme, il piano del governo diventano a questo punto concentrici, nelle mani di Renzi, con due maggioranze diverse. Il sindaco ha ottenuto in poco più di un mese una sovraesposizione smisurata, quasi più una solitudine che una delega, qualcosa che concentra nelle sue mani buona parte dell’avventura politica del 2014 perché arriva addirittura a interpellare il berlusconismo, all’opposizione del governo, al tavolo per le riforme, alla finestra della curiosità mimetica per l’esperimento della novità renziana davanti alla sterilità politica di una destra con troppi delfini ma senza un erede.
In un sistema politico estenuato che perde forza, efficacia e fiducia a destra e sinistra — per non parlar del centro — è quasi una superstizione da ultima spiaggia questo investimento al buio che tutti fanno in Renzi, come se il Paese avesse toccato il fondo, immobile, e solo l’energia di cambiamento che il sindaco promette potesse farlo ripartire, più ancora di un progetto o di un programma. Se è così, siamo un passo oltre la personalizzazione della leadership: è l’antropologia che oggi viene scelta per dar carattere, natura e sostanza all’agire pubblico trasformandolo in meta-politica, psicopolitica, performance.
In questo senso Renzi non fa promesse di cambiamento, “è” una promessa di cambiamento. Qualcosa di biologico, pre-politico, naturale, addirittura primitivo. Per chi accetta questa scommessa il modo di realizzarla è secondario, conta il dispiegarsi della leadership. Anzi, la contraddizione è parte dell’azzardo, che è una componente della sfida, la quale a sua volta è indispensabile alla rappresentazione in forma nuova di una politica che invece di procedere con prudenza cammina ogni volta sul filo. Si sta col naso all’insù per applaudire l’acrobata alla fine, se ce la fa, ma anche per l’emozione che trasmette il rischio consapevole di vederlo cadere.
Tutto ciò ha delle conseguenze: l’attore politico in questo nuovo teatro è tecnicamente spregiudicato perché gli interessa solo essere se stesso e arrivare in fondo, è quindi disancorato da tradizioni ed esperienze precedenti perché vive della propria leggenda e deve raccontare di continuo solo quella, è
ideologico perché la sua forza è la contemporaneità, anzi l’adesione istantanea a tutto ciò che è contemporaneo, senza legami, obblighi e carichi pendenti, come se contasse solo la storia che ogni volta si inaugura, non quella che si è già compiuta.
Questa sollecitazione permanente al cambiamento, in mezzo ai riti stanchi del passato replicati senza vita, appare moderna, anzi innovativa, certamente diversa. Seleziona dunque attenzione e consenso nei due poli opposti, i delusi e gli innovatori, riattiva automaticamente un meccanismo di interesse e di attenzione, spinge a prendere parte. In questo preciso significato, la novità (generazionale, di modi, di forma e di linguaggio) diventa forza, o almeno energia politica, prefigurazione di potere.
Accade quindi che un sistema traballante si affidi a questa opzione, con motivazioni diverse e addirittura contraddittorie: c’è chi spera davvero di cambiare la sinistra, il governo, il Paese; chi si augura che la velocità possa almeno essere un surrogato della politica; chi crede nei nuovi metodi per spazzare le troppe incrostazioni del passato; chi calcola almeno di guadagnare tempo mentre la novità si dispiega e magari si consuma. C’è anche chi progetta di dar corda a Renzi premier in attesa che la premiership lo bruci, o perché non sarà all’altezza o perché l’Italia — definitivamente — non è riformabile. Messa alla prova, l’anomalia renziana potrebbe ridimensionarsi banalizzandosi, fino ad essere riassorbita in una medietà sfiduciata e omologante nella quale si affonda lentamente e definitivamente, tutti insieme.
Prima di prendere il comando Renzi sa benissimo di dover affrontare la contraddizione — grande come le sue ambizioni — che ha costruito tra le sue parole e le opere. Non è tanto il fantasma di D’Alema che lo imbarazza. È piuttosto la mitologia di sé costruita tutta contro il Palazzo e le sue manovre, dove il sindaco era sempre uno sfidante esterno, un outsider che invocava le regole contro le rendite di posizione, puntando tutto sulla democrazia diretta e il rapporto con i cittadini contro gli apparati, in una perenne riconsacrazione dal basso. Andare al governo perché la maggioranza lo ha deciso a tavolino, senza la legittimazione del voto popolare è un problema soprattutto per l’uomo delle primarie. Ma anche per il segretario del Pd che non ottiene l’investitura attraverso la battaglia elettorale, battendo la destra. E infine e soprattutto per il leader della sinistra, che va a palazzo Chigi ancora una volta dall’ascensore di servizio e non dallo scalone d’onore.
L’unica risposta possibile viene dalla prova del nove, dal cambiamento. Se il governo sarà capace di dare una scossa nei tempi, nei modi, nei nomi, nei fatti, allora è possibile che il Paese si rimetta in piedi e che la contraddizione venga scusata dai risultati, perché l’Italia è ancora in grave ritardo davanti alla crisi e non può più perdere tempo: il “tutti per Renzi” si spiega così, finché dura. Altrimenti, la sinistra avrà divorato un altro leader e un’ultima occasione. Per queste ragioni palazzo Chigi per Renzi non è un punto d’arrivo, ma una partenza. E il cambiamento non è un’opzione politica, ma una magnifica condanna.

da la Republica

"Disoccupazione giovanile Italia ai vertici in Europa", di Laura Matteucci

Ripresa economica ancora con il fiato corto in Europa, mentre i rischi per le prospettive di crescita «continuano a essere orientati al ribasso». Il bollettino mensile della Banca centrale europea sottolinea come pesino le incertezze dei mercati mondiali, in particolare dei Paesi emergenti, ed anche domanda interna e un export che potrebbero deludere le attese. Ma, soprattutto, la Bce lancia l’allarme sulla disoccupazione giovanile, il cui tasso resta altissimo soprattutto in Italia, Grecia e Spagna. L’Italia detiene pure il triste primato di essere il Paese dell’eurozona con il maggior numero di giovani Neet (persone di età compresa tra i 15 e i 24 anni che non sono né occupate, né impegnate in attività di studio o formazione): dal 2007 al 2012 i Neet italiani sono passati da circa il 16% a oltre il 21% del totale, con un incremento percentuale inferiore solo a quelli di Grecia, Spagna e Irlanda (che sono oltretutto sotto il 20%).

ALTROVE GLI OCCUPATI CRESCONO
Per il tasso di disoccupazione generale, le previsioni per quest’anno restano invariate al 12,1%, riviste al rialzo per l’anno prossimo (all’11,7%), con un piccolissimo ridimensionamento per il 2016. In questi numeri aggregati del mercato del lavoro, si nasconde il dramma della disoccupazione giovanile.
«Dall’avvio della crisi finanziaria – scrive l’Eurotower – il tasso di disoccupazione giovanile, definito come il rapporto tra il numero dei giovani 15-24enni disoccupati, e la forza lavoro nella stessa fascia anagrafica, ha registrato un aumento considerevole nell’area euro, dal 15% circa nel 2007 al 24% nel 2013». In Italia il tasso è al 40%, peggio di noi solo Spagna e Grecia.
«L’evoluzione del tasso di disoccupazione giovanile cela notevoli differenze fra Paesi», ricorda il bollettino, e «mentre in Austria e a Malta l’incremento è stato moderato e in Germania si è persino registrato un calo, il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato in maniera particolarmentemarcata nei Paesi soggetti a tensioni di mercato, portandosi nel 2013 su valori compresi fra il 50% e il 60% in Grecia e in Spagna e raggiungendo livelli prossimi al40% in Italia, Portogallo e Cipro e al 30% in Irlanda». L’analisi della Bce si sofferma poi sull’evoluzione del debito delle imprese.
Se l’Italia presenta uno dei rapporti debito/Pil più elevati (intorno al 133%, peggio sta solo la Grecia), al contrario le imprese, pur dipendenti dal credito bancario, presentano un rapporto tra i più bassi dell’Unione. Nel quadro disegnato dal bollettino, confermato poi un livello di inflazione basso nell’area euro (1,1% nel 2014 e all’1,4% per il 2015), mentre si ribadisce che i tassi di interesse «resteranno ai livelli attuali o più bassi per un prolungato periodo di tempo» e si chiede ai governi di «non vanificare gli sforzi di risanamento».
Gli indicatori economici dell’eurozona, sostiene la Bce, «suggeriscono, nel complesso, il protrarsi della moderata ripresa nell’ultimo trimestre del 2013».Macon rischi che «continuano a essere orientati al ribasso. Ci si attende un lento recupero del prodotto nell’area dell’euro, in particolare si dovrebbe concretizzare un certo miglioramento della domanda interna, sostenuto dall’orientamento accomodante della politica monetaria, da condizioni di finanziamento più favorevoli e dai progressi compiuti sul fronte del risanamento dei conti pubblici e delle riforme strutturali». Inoltre, chiude l’Istituto di Francoforte, «i redditi reali beneficiano della minore inflazione relativa alla componente energetica», e «l’attività economica dovrebbe altresì trarre vantaggio da un graduale rafforzamento della domanda di esportazioni dell’area».

da L’Unità

Nella scuola della violenza in bagno “Quella si è inventata tutto per i soldi”, di Massimo Calandri

La sedicenne isolata. I compagni degli arrestati: li hai rovinati

— Alle cinque di ieri pomeriggio la ragazzina è nello studio dell’avvocato, insieme ai genitori e alla sorella più grande che le accarezza piano i capelli, sussurrandole di non piangere. Sul suo cellulare arriva un altro messaggio. È la madre che lo legge, perché lei no, non ce la fa più. «Ma ti rendi conto di che cazzo hai combinato?», scrive un compagno di classe. La donna consegna il telefonino al legale, sono venuti per quello. Per le decine di sms arrivate in questi giorni: contengono soprattutto insulti e minacce alla sedicenne, che da vittima del branco è diventata colpevole.
In un caso uno studente ha fotografato la locandina di un giornale che racconta dell’arresto dei quattro coetanei: «Li hai rovinati per tutta la vita». In un altro le intimano: «Non farti vedere mai più». E poi: «Bugiarda», «Racconta la verità », «Avevi detto che non era andata così». L’avvocato Maria Teresa Bergamaschi spiega però che ci sono anche messaggi di un altro tono: «Come stai?», chiede un’amica. «Ci manchi», prova a confortarla un’altra.
Il legale non dice che esistono due sms ancora, forse i più importanti: li avrebbero scritti due degli studenti indagati per la violenza, uno è stato inviato il giorno dell’aggressione. Poche parole per consigliare alla sedicenne di non raccontare in giro tutto ciò che è davvero successo quella mattina nello spogliatoio dell’istituto scolastico. I messaggi sarebbero indirettamente la prova che non era «solo uno scherzo», come invece raccontano a scuola. Ma i quattro indagati, ora ospiti di diverse comunità per minori, avranno presto l’opportunità di raccontare la verità: potrebbero essere convocati al Tribunale dei minori di Genova già stamani, gli interrogatori sono fissati al più tardi per lunedì.
All’istituto alberghiero Migliorini di Finale Ligure dicono che il preside, Luca Barberis, abbia ordinato agli studenti di lasciar perdere i giornalisti. E però i ragazzi proprio non ce la fanno. Sembra quasi sia la prima volta che possono colmare un vuoto di comunicazione tra loro e gli adulti, due mondi che parlano un linguaggio diverso. Allora disobbediscono al preside, anche se finisce che ripetono la stessa cosa: «Quella si è inventata tutto. Non c’è stato nessuno stupro. Nessuna violenza sessuale». Era solo un gioco. Appunto.
I compagni di classe della prima G scuotono la testa, quasi perdono la pazienza: perché raccontano, ma sembra che tra i grandi nessuno ascolti. Era uno scherzo e quelli finiti nei guai sono bravi ragazzi. «Ragazzi come noi, possibile che non riusciate a capire?». Non c’è stata violenza perché non c’è stato stupro, spiegano: i quattro l’hanno «solo» trascinata a forza nello spogliatoio, l’hanno «solo» palpeggiata cercando di toglierle la camicetta, e «solo» obbligata ad inginocchiarsi davanti ad uno di loro con i pantaloni abbassati, mentre un compagno le spingeva il viso contro i boxer di quello mimando un rapporto orale. È successo «solo» questo, che volete ancora?
Cristina Maggia, procuratore presso il Tribunale dei Minori genovese, ha fatto una precisazione: «Ci è spiaciuto leggere notizie inesatte e poco aderenti alla realtà». Il magistrato ha detto che «una eccessiva enfatizzazione mediatica» contribuisce a accrescere il disagio e «stimola nei compagni condotte impulsive e non mediate che potrebbero avere anch’esse rilevanza penale».
L’avvocato della vittima è sulla stessa lunghezza d’onda e cioè: giornali più televisioni hanno detto che quattro studenti sono accusati di essere degli stupratori. In realtà quella denunciata è stata una violenza sessuale. Gli studenti non hanno capito e — come la migliore amica della sedicenne aggredita, che su Facebook le si è rivoltata contro — se la sono presa proprio con la vittima, accusata di essere una «bugiarda». Surreale.
«Questi ragazzi non hanno nessuna percezione della gravità del loro comportamento. Dicono sia normale. Che quelli sono scherzi che si vedono anche su internet», spiegano gli investigatori che li hanno ascoltati dopo la denuncia. Un linguaggio diverso, un mondo diverso. Come cercano di spiegare i ragazzi all’uscita della scuola. Su Facebook tra gli studenti dell’alberghiero qualcuno sembra dare fiducia alla sedicenne. «In una scuola ‘ste cose non dovrebbero proprio succedere». «E pensavamo di andare in una scuola quasi seria». Poi c’è chi va giù duro: «Non è vero nulla: la ragazza in questione ha mandato un sms a una sua amica con scritto: non mi hanno nemmeno sfiorata, l’ho fatto solo per i soldi. Cosa che si sapeva, quello che hanno scritto sono cazzate e ha confermato anche il preside ».
Maria Teresa Bergamaschi parla a nome della famiglia della vittima. Spiega che la piccola «è un soggetto
introverso ora in uno stato di profonda prostrazione. Le affiancheremo un supporto psicologico, siamo molto preoccupati. Speriamo che, chiarendo che non ha denunciato uno stupro ma una violenza sessuale, la sua migliore amica e gli altri compagni tornino a stare dalla sua parte». Si rigira tra le mani il cellulare della ragazzina: «Ci sono certi messaggi che non potete nemmeno immaginare. Sgrammaticati, violenti, brutali. Senza pietà. Come se venissero da un altro mondo».

da la Rpubblica

“Ecco la gastronomia della liberazione”, di Carlo Petrini

Il fondatore di Slow Food incontra Graziano da Silva, da due anni direttore generale della Fao. E, insieme, spiegano come i piccoli contadini possono riuscire a sconfiggere la fame nel mondo

Personalità della cultura, dello spettacolo, del mondo accademico, opinion leader e intellettuali saranno chiamati a confrontarsi sui grandi temi della sostenibilità, del sistema alimentare mondiale, dei cambiamenti che passano attraverso un nuovo approccio verso il cibo. Storie legate a Terra Madre, la rete mondiale delle comunità del cibo, e al suo concetto di ambiente, agricoltura, economia e rapporti sociali. Iniziamo con José Graziano da Silva, direttore generale della Fao, protagonista di una via inedita nel contrastare la fame nel mondo. È stato ministro straordinario del governo Lula in Brasile, dove ha fatto partire il programma Fame Zero, in grado di fare uscire dalla soglia di povertà 28 milioni di brasiliani. Si spera che le stesse forza e determinazione possano servire a un futuro dove la vergogna
della fame sia debellata per sempre.
Il 2014 è stato scelto dalla Fao come anno mondiale dell’agricoltura famigliare. Quest’iniziativa segna ulteriormente uno storico cambio di priorità per la Fao: non più l’inseguimento a tutti i costi di aumenti di produzione a livello globale, ma un rafforzamento delle microeconomie agricole locali, in grado di garantire una dignitosa sussistenza nelle regioni più problematiche.
«In tutto il mondo gli agricoltori famigliari provvedono a produrre cibo, impiego e reddito per miliardi di persone. Non dimentichiamo che più del 70% delle popolazioni che vivono in stato d’insicurezza alimentare risiedono in zone rurali nei Paesi in via di sviluppo. In grande parte si tratta di agricoltori famigliari, produttori di sussistenza, che coltivano per l’autoconsumo. Fino a non molto tempo fa, per questo motivo, erano visti soltanto come un soggetto a cui dedicare delle politiche sociali, e non come importanti attori produttivi. Erano considerati parte del problema della fame nel mondo, mentre sono parte della soluzione. Con l’anno mondiale dell’agricoltura famigliare vogliamo cambiare questo vecchio modo di pensare, introdurre un nuovo paradigma».
Lo trovo un approccio vincente, che ho potuto verificare grazie alla rete di Terra Madre: più di 2.000 comunità del cibo connesse tra loro, di cui molti produttori famigliari, in oltre 150 Stati. Questi agricoltori dimostrano che la sovranità e la sicurezza alimentari dipendono in gran parte dalla piccola e media produzione, soprattutto dove non ci sono le condizioni strutturali, climatiche e culturali per introdurre altri modi di fare agricoltura. Nel rapporto 2013 della commissione Commercio e sviluppo dell’Onu si legge: «Bisogna passare dalla Rivoluzione verde (innovazioni tecnologiche come varietà vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci, che tra gli anni ’40 e ‘70 hanno aumentato la produzione in tutto il mondo ma anche l’impatto ecologico insostenibile) a un’Intensificazione ecologica, a un mosaico di sistemi di piccola scala, sostenibili e rigenerativi, che consente un considerabile aumento della produttività».
«Sì, il nostro futuro dipende da un’agricoltura e da sistemi del cibo che devono essere equi, sostenibili ed efficienti. I piccoli contadini, gli indigeni, pescatori e pastori, sono quelli che rispettano queste tre qualità. Dobbiamo aiutarli a sfruttare completamente questo potenziale. La Rivoluzione verde ci aiutò nel dopoguerra, quando non c’era cibo sufficiente. Aumentare la produzione fu la risposta naturale al problema. La disponibilità di cibo pro-capite nel mondo è aumentata del 40% negli ultimi cinquant’anni. Oggi la causa principale della fame non è più la mancanza di cibo, ma il fatto che le popolazioni più povere non possono permettersi di acquistarlo, o non hanno accesso a strumenti, risorse o conoscenze per autoprodurlo. Occorre una nuova rivoluzione, doppiamente verde, che aumenti la produzione preservando l’ambiente».
Per sconfiggere la fame nel mondo, sono stime Fao, servono circa 34 miliardi di dollari. Per salvare le banche in crisi, pochi anni fa, in un paio di giorni sono state stanziate cifre superiori senza problemi. Questo significa che sconfiggere la fame è un obiettivo alla portata dell’umanità, ma non c’è una condivisa volontà di raggiungerlo.
«Dobbiamo unire le forze a tutti i livelli. Appena insediato, mi sono adoperato per creare nuovi rapporti di collaborazione, soprattutto con la società civile, le cooperative e il settore privato. È stato così che per esempio siamo venuti in contatto tra le nostre organizzazioni. Oggi la Fao sta portando avanti molte iniziative con soggetti non governativi come Slow Food. Queste alleanze consentono di operare in maniera più diffusa e complessa di provare nuovi approcci. Un esempio: il libro di ricette pubblicato insieme sulla quinoa (scaricabile su slowfood.it) ci ha consentito di avere anche un approccio gastronomico alla lotta contro la fame, un modo nuovo di agire».
Sono convinto che la gastronomia possa essere uno strumento fondamentale in questa lotta. La chiamo “gastronomia per la liberazione”, perché in tanti Paesi, come in America Latina, consente un riscatto anche nel nome del piacere alimentare. Lì i grandi cuochi diventano i leader di un movimento che sta aiutando gli agricoltori famigliari a far conoscere i loro prodotti tradizionali, dando loro orgoglio e nuove possibilità economiche. Auspico che un processo simile si inneschi presto anche in Africa, ricchissima di risorse e di cultura agroalimentare. Intanto, stiamo iniziando con il progetto di 10.000 orti famigliari,
comunitari e scolastici in Africa. Dopo i primi 1.000 rilanciamo, confortati dai risultati raggiunti. Sono molto felice che la Fao sia al nostro fianco anche in quest’avventura, che presenteremo a Milano il 17 febbraio.
«L’orto è uno strumento importante perché rieduca alla coltivazione, fornisce cibo, ha un basso impatto ambientale e consente, se fatto con le giuste caratteristiche, di mantenere la biodiversità locale grazie all’utilizzo delle varietà tradizionali. Guardo con interesse a questo progetto degli orti in Africa, soprattutto perché li realizzerete grazie a una rete di persone e comunità locali, senza inviare nessuno in missione. Si pongono quindi le basi per un vero sviluppo, che potrà durare nel tempo. All’evento di presentazione so che saranno presenti i giovani africani incaricati di gestire e dirigere il progetto, selezionati tra la vostra rete di Terra Madre e Slow Food e la nostra della Fao. Dobbiamo lavorare per far crescere le classi dirigenti del futuro nel continente africano e il fatto che siano in rete tra di loro, connessi con noi e con voi e con tutti i soggetti che lottano contro la fame e la malnutrizione nel mondo, mi conforta nella convinzione che tutti insieme potremo farcela».

da la Repubblica

"L’università italiana sempre più vecchia. Solo un docente su 8 ha meno di 40 anni", di Gian Antonio Stella

Agli ultimi posti anche per numero di professoresse e spesa per la ricerca

Ultimissimi. Nessuno, tra tutti i Paesi europei, ha così pochi docenti universitari sotto i quarant’anni. Nessuno. Ne abbiamo, compresi i «giovani» ricercatori, meno di uno ogni otto.Un dato umiliante. La Francia, rispetto a noi, di docenti sotto la quarantina ne ha oltre il doppio. La Gran Bretagna quasi il triplo. La Germania il quadruplo. Uno spreco assurdo di energie, intelligenza, creatività. Che pesa sulla ricerca, sull’innovazione, sul futuro del Paese.
Mette di malumore, la lettura in anteprima della decima edizione (speciale) dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 di Observa Science in Society, curato da Massimiano Bucchi (Università di Trento) e Barbara Saracino (Università di Firenze) ed edito da il Mulino. Mette di malumore perché, certo, puoi trovarci dati assolutamente positivi, come lo spazio che i nostri ragazzi hanno nei laboratori e nei centri d’eccellenza e sulle riviste scientifiche di tutto il mondo. Ma sono fiori che sbocciano dalla fanghiglia di una realtà troppo spesso vecchia, mediocre, trascurata dalla politica.
Spiega il dossier, ad esempio, che i ricercatori italiani pur essendo solo 4,3 ogni mille occupati (gli europei sono mediamente 7 cioè quasi il doppio, i tedeschi 8,1, i francesi 9, i portoghesi 9,9, i danesi 13,4 e i finlandesi addirittura 16) sono ottavi al mondo per articoli sulle riviste che contano (un settimo di quelli statunitensi pur avendo gli americani una dimensione enormemente più grande) e quarti nei progetti di ricerca europei finanziati dal «7° Programma Quadro».
Sono in gamba, i nostri. E il loro successo europeo e mondiale certifica come, nonostante tutto, le nostre scuole e le nostre università riescano a regalare degli studiosi di livello altissimo. Dietro, però, il panorama è sconfortante. E non solo nella scoperta che tra i primi 20 atenei e istituti di ricerca europei piazziamo solo il Cnr (quarto) contro 2 della Svizzera, 2 della Danimarca, 3 della Francia, 3 della Germania e 5 del Regno Unito.
Basti scorrere la tabella dei Paesi che (settore militare escluso, ovvio) spendono di più per la ricerca rispetto al Pil. Con l’1,3% (e va già impercettibilmente meglio che cinque anni fa) siamo ventottesimi, molto al di sotto della media europea (1,9%) e di quella Ocse (2,4%) e staccatissimi dai Paesi che hanno scelto con decisione di puntare sul futuro come il Giappone (3,4%), la Finlandia (3,8%), la Corea (4%) e Israele, che svetta con uno stratosferico 4,4%: quasi il quadruplo di noi.
Vale per il settore pubblico, vale per l’università, vale per il comparto privato. La nostra azienda che più investe in R&S (ricerca e sviluppo) è la Fiat: 2.175 milioni di euro. Ma tra i suoi stessi concorrenti è dietro le grandi case europee e staccatissima dalla Volkswagen che per i suoi laboratori spende molto più del triplo.
È l’intero Paese ad arrancare. Il 92,4% delle famiglie ha almeno un cellulare ma quelle che hanno un computer sono meno di una su sei. E il confronto fra i consumatori di televisione e quelli di Internet è da incubo. Siamo quinti al mondo per il tempo passato davanti al piccolo schermo: quattro ore e 12 minuti. Il doppio abbondante degli svedesi pur avendo loro un inverno lungo lungo che potrebbe invogliare alle lunghe sedute in divano. Per contro, 37 italiani su 100, cioè quasi quattro su dieci (la media europea è del 20%) sono analfabeti del digitale: mai toccato un computer e mai navigato sul web. Vale a dire che su Internet, che già oggi rappresenta una enorme fonte di ricchezza (in un solo giorno, l’11 novembre scorso, i soli consumatori cinesi hanno speso 5 miliardi di dollari e nel 2015 il solo e-commerce cinese varrà 300 miliardi) i nostri cittadini sono staccati di 22 punti dai francesi dai tedeschi, 27 dai britannici, 31 dai danesi e dagli olandesi, 32 dagli svedesi. Un ritardo storico umiliante. Che rischia di aggravare la crisi in cui annaspiamo.
Aggiunge l’Annuario che nella classifica («Innovation Union Scoreboard 2013») dei Paesi europei più innovativi, compilata sulla base di un insieme di 24 indicatori, ci ritroviamo (a dispetto del nostro vanto di essere il secondo Paese manufatturiero continentale) molto al di sotto della media delle 28 nazioni Ue e lontanissimi da quelli di testa: Olanda, Finlandia, Danimarca, Germania e soprattutto Svezia.
È ormai una guerra, la competitività internazionale sulla innovazione. E in guerra, come ricorda sempre Umberto Veronesi parlando proprio della ricerca, devono andarci i giovani. Lo dice la storia. Senza tornare ad Archimede che aveva vent’anni quando intuì la teoria del peso specifico dei materiali o ad Isaac Newton che ne aveva 23 quando cominciò a sviluppare il calcolo infinitesimale o ad altri talenti giovanissimi nei secoli dei secoli, val la pena di ricordare almeno alcuni casi più recenti. Marie Curie ebbe il suo primo Nobel a 37 anni, William Lawrence Bragg vinse quello per gli studi sui raggi X a 25, Albert Einstein si impose nel suo «annus mirabilis» a 26, Guglielmo Marconi dimostrò la bontà del suo telegrafo senza fili con un collegamento con l’isola di Rathlin quando ne aveva 24, Federico Faggin inventò il microchip che ne aveva 30. È la gioventù la stagione della creatività. Poi subentra l’esperienza, ed è importante. Ma la creatività è dei giovani.
Eppure, come dicevamo, il nostro è un Paese per vecchi. Con tutto il rispetto per il loro lavoro: possibile che i ricercatori dell’Enea abbiano mediamente 49 anni e che il 43% di chi in Italia frequenta i laboratori e gli istituti di R&S abbia più di 45 anni e cioè un’età media nettamente più alta di quella degli altri Paesi europei?
Lo vedi anche nella presenza femminile, quanto sia statico e chiuso il mondo della ricerca italiana. Ci sono 41 donne ogni 100 addetti in Sudafrica, quasi 44 in Estonia, 45 in Portogallo, 46 in Romania e 53 in Argentina. Noi siamo al 34,5. Una percentuale ancora più bassa di quella delle donne presenti fra i docenti universitari, ricercatori compresi: ne abbiamo il 36,2 percento. Contro il 43,5 del Regno Unito, il 45,4 del Portogallo, il 47,5 della Romania, il 54,7 della Lituania e addirittura il 58,7% della Lettonia.
Come dicevamo all’inizio, tuttavia, i numeri che fanno più impressione sono quelli sull’invecchiamento della nostra classe dirigente universitaria. Un problema, scusate la battuta, vecchio. Già nel gennaio 2007 una indagine del ministero dell’Università della ricerca sulla base dei codici fiscali accertò che su 18.651 docenti di ruolo nei nostri atenei, quelli con meno di 35 anni erano 9: lo zero virgola zero cinque per cento. Al contrario, quelli con più di 65 anni erano 5.647: quasi un terzo.
Sette anni dopo, i numeri dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 dicono che su 28 Paesi dell’Unione Europea i docenti che hanno meno di quarant’anni (ricercatori compresi e questo dovrebbe abbassare la media) sono quasi la metà (49,2%) in Germania, il 43,4 nei Paesi Bassi, il 40,5 in Polonia, il 35,8 in Portogallo, il 29,5 nel Regno Unito, il 28 in Austria, Svezia e Finlandia, il 27,4 in Spagna, il 25,9 in Francia e giù giù, staccata di oltre sei punti dalla Slovenia che è penultima, c’è l’Italia. Con quel 12,1% di professori e ricercatori insieme che hanno meno del doppio dell’età che aveva Bill Gates quando fondò la Microsoft.

da Il Corriere della Sera

"Smetto quando voglio?", di Manuela Ghizzoni

In queste ore “marziane”, che verosimilmente ci dividono da una crisi di governo, penso con insistenza ad un film di recente uscita: “Smetto quando voglio”.
Mi dedico allo svago mentre il Paese è spazzato da una bufera? No, penso proprio al Paese e alle sue emergenze, perché il bel film di Sydney Sibilia racconta, con ironia e competenza (e con maggiore efficacia di molti saggi) il dramma dei nostri migliori “cervelli”: giovani (ma non più tanto) ricercatori frustrati nelle loro legittime aspirazioni accademiche da “baroni” tiranni, inchiodati ad un eterno presente precario (come fai a costruirti un futuro a queste condizioni?), bistrattati da una società che disprezza la cultura. Ai quali non resta, dopo equilibrismi insostenibili per sopravvivere, percorrere senza convizione la via del crimine.
“Smetto quando voglio” è una perfetta commedia italiana (alla pari di La banda degli onesti e I soliti ignoti); è una lettura acuta e disincantata del corto circuito che sta compromettendo il futuro del nostro Paese: perché impedire a chi ha competenze e idee di metterle a vantaggio della comunità scientifica e del mondo produttivo (e di farlo con dignità e tutele del proprio lavoro) equivale a spegnere la loro speranza e quella dell’intero Paese.
Questo film è una accusa a tutti coloro i quali – io stessa inclusa – hanno o hanno avuto responsabilità nel determinare lo “spreco” della nostra meglio gioventù e agli stessi pone una domanda urgente: come pensate di risolvere questa situazione?
In queste ore “marziane” sarebbe bello sentire almeno un abbozzo di risposta.

"Lo scontro fra due velocità", di Mario Calabresi

Il passaggio politico in cui siamo stati tutti improvvisamente scaraventati crea a molti italiani, penso alla maggioranza, un senso di incredulità se non di disagio. Se i sondaggi, le lettere che arrivano ai giornali, i commenti sui social network e i ragionamenti che si ascoltano per strada hanno ancora valore, allora questo cambio di governo è inaspettato. Gli occhi erano puntati su un altro tema: le elezioni. La domanda più frequente, fino a tre giorni fa, era: andremo a votare questa primavera o nel 2015 con una nuova legge elettorale? Nessuno, o quasi, immaginava una sostituzione in corsa di Letta con Renzi.

Eppure questo strappo, che si sta consumando e di cui non conosciamo ancora l’esito finale, è figlio naturale dell’opinione pubblica di questo tempo, di un Paese impaziente che chiede spallate, forzature, che sogna fuochi catartici e non sopporta più il riformismo, le attese e i tempi lunghi, anche quando possono essere giustificati e inevitabili. Gli stessi che oggi dicono di non volere il segretario del Pd a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale sono anche quelli che nello stesso tempo lamentano le timidezze e le indecisioni del premier in carica e del suo governo.

Renzi lo ha capito perfettamente, perché tra le sue caratteristiche costitutive ha – oltre alla velocità – l’essere completamente dentro il suo tempo, in sintonia con gli umori profondi della nostra società. E su questo ha scommesso, sul fatto che il gesto rapido e plateale parla alla pancia del Paese più di ogni altra cosa e può dare soddisfazione a tutti coloro che identificano nell’immobilismo il principale nemico da affrontare.

E allora i tratti peculiari di Letta, che ieri ha elencato in conferenza stampa, paiono quasi antichi e fuori moda: essere uomini delle Istituzioni, essere rispettosi, non amare il protagonismo, non riuscire ad essere sexy o accattivanti. Poche settimane fa mi ha detto che è contro la sua natura fare conferenze stampa tutti i giorni e fare uno spot per ognuna delle decisioni del governo, che le cose buone dovrebbero quasi parlare da sole. Sarebbe bello se tutto questo fosse ancora vero ma purtroppo non vale più, siamo nella società delle narrative e dell’immagine e la politica non può pensare di non giocare quella partita.

Matteo Renzi invece pensa che correre e scartare siano doti necessarie per interpretare la modernità, ha di certo ragione se questo è necessario per non finire trascinati nel pantano, in quella densità di burocrazie, regolamenti e abitudini in cui viviamo, ma resta da chiedersi se governare non sia una maratona e se sia possibile arrivare in fondo tenendo la velocità con cui si affrontano i 100 metri.

Nell’ultimo anno e mezzo questo giornale è stato tra i primi a capire il fenomeno Renzi, a dargli spazio quando la sua corsa contro Bersani sembrava solo una testimonianza perdente, così abbiamo apprezzato la correttezza e le capacità di Letta, convinti che l’Italia meritasse finalmente un cambio generazionale.

Si poteva sperare che fosse possibile una forma di collaborazione, un passaggio concordato e condiviso, che la nuova generazione non ripetesse gli stessi schemi di duello di quelle precedenti, invece siamo ad uno scontro feroce che lascerà il segno.

Matteo Renzi ama ripetere che non ha paura di tirare i calci di rigore, che, se glielo chiedono, va dritto al dischetto e tira anche se c’è il rischio di sbagliare. Abbiamo tutti voglia di andare in gol, di ripartire, ma questa volta c’è un dettaglio da non sottovalutare: su quel pallone ci siamo tutti noi e non vorremmo finire fuori campo o, peggio, inchiodati contro un palo.

da www.lastampa.it