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"Stuprata dal branco nei bagni della scuola “Gli amici mi minacciano, cambio istituto”, di Massimo Calandri

PERSEGUITATA e costretta a lasciare la scuola che frequentava. Due settimane fa avevano abusato di lei nello spogliatoio maschile del-l’istituto, un insegnante era intervenuto per fermare l’aggressione. Poi la denuncia, l’apertura di un’inchiesta del Tribunale dei Minori e la misura cautelare nei confronti dei componenti del branco, indagati per violenza sessuale. Nel frattempo l’adolescente era tornata al proprio banco, cercava disperatamente di riprendere a vivere. Ma nei giorni scorsi sul telefonino cellulare ha cominciato a ricevere dei criminali messaggi da alcuni allievi dell’alberghiero “Migliorini” di Finale Ligure. Terrorizzata, non è più tornata in classe.
Nella scuola professionale della Riviera, nell’intervallo tra una lezione e l’altra, il 31 gennaio scorso quattro coetanei l’avevano trascinata in un bagno lontano dallo sguardo degli altri. Avevano iniziato ad abusare di lei, ma un professore aveva sentito le risate sguaiate e le urla d’aiuto: spalancata la porta dello spogliatoio si era fatto largo tra il branco, soccorrendo la ragazza in lacrime e accompagnandola a casa dai genitori. I quattro erano stati sospesi e qualche giorno dopo convocati dai carabinieri in caserma. Uno per uno, insieme a mamma e papà. «Sì, è successo qualcosa: ma non pensavamo di fare niente di male», hanno provato a difendersi. Sono stati arrestati per violenza sessuale e affidati a diverse comunità per i minori tra Liguria, Toscana e Piemonte. Non sono finiti in un carcere minorile solo perché incensurati. Saranno interrogati la prossima settimana dal gip Giuliana Tondina del Tribunale dei Minori di Genova.
Gli inquirenti hanno ascoltato a lungo la vittima e gli insegnanti, verificandone le dichiarazioni: sono arrivati a fotografare i diversi locali dell’alberghiero (quando sono accaduti i fatti era appena terminata una lezione di cucina e gli studenti stavano rientrando in classe), sulla ricostruzione non ci sarebbero dubbi. La ragazzina ha raccontato che già nelle settimane precedenti i quattro l’avevano molestata: ma per paura e vergogna aveva preferito tacere. Dopo l’intervento dei carabinieri pensava fosse tutto finito, e la settimana passata è tornata a scuola. Ma per pochi giorni: «Hanno cominciato a bersagliarla di messaggi minatori », ha raccontato il suo avvocato. «Ha preferito lasciare l’istituto».
Luca Barberis è il preside del “Migliorini”. «Aspettiamo la fine dell’inchiesta per poi adottare i provvedimenti disciplinari del caso», dice. «Spero si arrivi in tempi rapidi a chiarire le responsabilità delle persone coinvolte. La priorità è salvaguardare la vita di questi cinque ragazzi».
Non è una storia di giovani sbandati, di famiglie disagiate. Il capitano Michele Morelli, della Compagnia di Albenga, l’ufficiale dell’Arma che ha gestito questa orribile vicenda, confessa di essere rimasto stupito dalla “disponibilità” e dalla “comprensione” mostrata — pur nella disperata amarezza per quanto accaduto — dai parenti dei ragazzi coinvolti. Prima il padre e la madre dell’adolescente violentata: il cui unico pensiero è naturalmente la salute della figlia. Ma che vorrebbero anche “capire”: «Perché non è possibile che dei sedicenni non si rendano conto della gravità di quello che hanno fatto. Del dolore provocato», dicono. Anche gli altri genitori, che davanti agli investigatori non hanno in alcun modo giustificato i figli, vorrebbero capire. Sono piccoli commercianti, impiegati, operai. Famiglie normali con figli “normali”.
Convocati in caserma, i ragazzi hanno risposto che sì, sapevano perché si trovavano lì. E lo avevano anche confessato in famiglia, cos’era accaduto nei giorni precedenti. «In loro c’è come una forma di pentimento», spiegano gli inquirenti, «ma è legato al dispiacere provocato in casa: la vergogna per la sospensione dalla scuola, l’arresto, la consapevolezza di aver deluso i genitori. La violenza no, non l’hanno percepita. Continuano a ripetere che era solo uno scherzo. Un gioco. E si stupiscono, che proprio non riusciamo a capire».

da la Repubblica

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“Melita Cavallo, presidente del Tribunale dei Minori di Roma”, di Maria Elena Vincenzi

“In gruppo perdono il senso del limite così giustificano le loro violenze”
«Il problema è che oggi i giovani non hanno limite, non sono in grado di fermarsi e basta nulla per arrivare alla violenza. È sufficiente pensare agli episodi di bullismo: non ci si ferma più, anzi spesso c’è chi rinforza, chi aizza, chi rincara la dose». Melita Cavallo, è presidente del Tribunale dei Minori di Roma, e da anni si occupa dei giovanissimi.
Presidente, spesso accade che anche quando vengono arrestati, gli adolescenti non capiscano che hanno fatto qualcosa di grave.
«Non credo che non sappiano cosa sia un reato, lo sanno eccome. Il problema è che quando sono insieme non si rendono conto, non capiscono che avere avuto un ruolo, anche se marginale, è comunque avere partecipato. Sa quante volte nella mia carriera mi è capitato di sentirmi dire: “Ma io ho fatto solo quello”? Come se fosse una parte e non il tutto. E per questo non si sentono colpevoli».
E spesso poi accade che le famiglie o la comunità in cui vivono li giustifichino.
«Il processo penale per i minori è studiato per questo. Per metterli di fronte alle proprie responsabilità,
alle conseguenze di ciò che il reato ha prodotto sulla vittima. È tagliato sulla personalità del ragazzo per ottenerne il cambiamento ».
Magari non bisognerebbe arrivare in un’aula di tribunale per capirlo.
«Certo. Ma purtroppo è saltato il rispetto dell’altro. È saltato negli adulti, figuriamoci nei minori che sono fragili, oggi più che mai. E le famiglie in questo hanno una grandissima responsabilità perché poco regolative. Voglio però aggiungere che ci sono comunque tanti minori che hanno le idee ben chiare e si comportano bene».
Quanta e quale pensa che sia la responsabilità del mondo esterno oltre che dei genitori?
«Tanta. È la società che è così. Poi c’è la televisione e, soprattutto, ci sono internet, facebook».
Sembra che i ragazzi ormai vivano in un’altra dimensione, scollegati dalla realtà.
«Questi mezzi sono utilissimi perché permettono di mantenere il contatto con il mondo esterno. Ma anche in questo serve un limite. Quando li ascolto mi rendo conto che spesso, anche nelle famiglie semplici, i ragazzi hanno il computer in camera e ne fanno l’uso che vogliono. Sono su internet giorno e notte. E questo non va bene. Torniamo sempre allo stesso discorso: ci vorrebbe un limite che spesso non c’è».

da La Repubblica

"Vini, moda o auto il brand non siamo noi", di Valeria Fedeli

L’italian quality è un’urgenza: siamo al quinto posto nelle classifiche globali perché il marchio Italia non viene valorizzato come dovrebbe. Anche nei settori dove dovremmo primeggiare

I dati pubblicati da FutureBrand – ripresi dal Sole 24 ore – sulla forza del made in Italy nelle opinioni dei consumatori di tutto il mondo sono passati sotto silenzio, come un aspetto marginale rispetto ai problemi del paese. Penso che questa sia una visione miope, e che invece quei dati siano di grande rilevanza e segno pericoloso per tutto il sistema Italia.
Il made in Italy è al quinto posto tra i brand nazionali globali, dopo made in Usa, made in France, made in Germany e made in Japan.
La classifica emerge da una ricerca che ha misurato il valore di 140 paesi nelle percezioni e nelle opinioni dei consumatori globali. Agli intervistati è stato chiesto di valutare l’impatto sulle scelte di consumo della provenienza di un prodotto: attraverso una pluralità di indicatori e test che hanno riguardato brand di varia provenienza nazionale, si è misurato il valore che l’origine dai diversi paesi permette di attribuire ad un bene, in termini di sicurezza, qualità, reputazione.
Osserviamo che gli Stati Uniti sono il brand più apprezzato nei settori moda e cura della persona. La Francia vince su alimentare e vino. La Germania su automobili. Il Giappone sull’elettronica.
L’Italia non è prima in nessuno di questi settori, seppure molti di essi siano proprio quelli dove maggiore è stata la nostra competitività storica e più apprezzate sono le nostre eccellenze.
Ma a differenza dei competitor globali noi non sappiamo valorizzare il nostro brand-paese e tutti quei marchi di eccellenza che sui mercati ci stanno ogni giorno con fatica, passione e successo.
Valorizzare il made in Italy dovrebbe allora essere un obiettivo condiviso da tutti, perché significa difendere e far crescere il benessere e la qualità della vita italiana.
Proprio all’italian quality è dedicato il disegno di legge che ho presentato a novembre in senato e che è ora in fase di audizione e consultazione in commissione attività produttive. Il ddl punta alla creazione di un marchio volontario che renda l’italian quality riconoscibile su tutti i mercati globali. Il marchio è parte di una sfida più larga per regolare i mercati secondo i principi di equità e di reciprocità e per garantire la piena tracciabilità di ogni prodotto. È una sfida che dobbiamo affrontare con determinazione in Italia e in Europa, sapendo rilanciare una crescita sostenibile, da un punto di vista etico, ambientale, della salute e dei diritti.
In questo spazio di condivisione delle prospettive comunitarie, poi, l’Italia deve giocare la sua partita, con scelte chiare sui fattori su cui puntare per lo sviluppo, con politiche industriali innovative e coraggiose, con consapevolezza piena della forza produttiva che il made in Italy esprime oggi e può ancor più esprimere se accompagnato dalle giuste politiche pubbliche.
Se siamo dietro ad altri paesi, infatti, non è per responsabilità delle piccole e medie imprese, dei lavoratori o degli artigiani che creano il made in Italy, ma per quanto abbiamo saputo investire su noi stessi.
È una questione di modello di sviluppo, di reputazione, di credibilità del sistema. E veniamo da anni in cui non siamo stati all’altezza.
Tornando alla ricerca: i consumatori apprezzano quei prodotti che sanno esprimere in tutta la propria essenza e in tutta la filiera i valori intrinsechi di un paese, facendo breccia così nell’immaginario globale.
A me pare una indicazione estremamente chiara di come il made in Italy sia una diretta espressione della forza di tutto il paese e sia una prospettiva decisiva per costruire il futuro.

da www.europaquotidiano.it

"La Bce: “I tassi possono scendere” Ma Piazza Affari apre in negativo", di Luigi Grassia

Il bollettino della Bce conferma la ripresa nel 2014 ma la prevede lenta: non si prospetta un mini-boom all’americana che sarebbe invece necessario non solo a sostenere i numero del Pil ma anche quelli dell’occupazione e dei redditi delle famiglie. In compenso, la ripresina sarà senza tensioni sui prezzi, e questo consentirà alla Banca centrale di sostenerla con una politica monetaria accomodante: «L’inflazione resterà resti sui livelli attuali – si legge – e i tassi di riferimento della Bce saranno a livelli pari o inferiori a quelli attuali per un prolungato periodo di tempo».

Le Borse europee, compresa quella di Milano, sono partite in negativo, ma questo potrebbe legarsi più che altro al desiderio di incassare una parte dei guadagni dei giorni scorsi.

Comunque la Bce è prudente: «I rischi per le prospettive economiche dell’area dell’euro continuano a essere orientati al ribasso», una frase un po’ involuta per dire che non c’è da entusiasmarsi. Con più chiarezza il bollettino prosegue così: «La dinamica dei mercati monetari e finanziari mondiali e le connesse incertezze, soprattutto nei Paesi emergenti, potrebbero essere in grado di influenzare negativamente le condizioni economiche. Altri rischi al ribasso includono una domanda interna e una crescita delle esportazioni inferiori alle attese e una lenta o insufficiente attuazione delle riforme strutturali nei paesi dell’area dell’euro».

Nel bollettino si dice anche che Grecia, Spagna e Italia sono in cima alla classifica della disoccupazione giovanile fra 18 i Paesi dell’Eurozona, «su valori compresi fra il 50 e il 60% in Grecia e Spagna» e «prossimi al 40% in Italia, Portogallo e Cipro».

da La Stampa

"Un patrimonio si sbriciola in silenzio", di Gian Antonio Stella

Castelli, mura del Seicento e monumenti Il patrimonio italiano si sta sbriciolando Dalle fortificazioni di Palmanova ai bassorilievi della Galleria Umberto I a Napoli

Non sono venute giù, fermandoci il fiato, solo le mura di Volterra. La verità è che da settimane, un giorno dopo l’altro, vengono giù pezzi della nostra storia. Castelli medievali, antichi palazzi gentilizi, muraglioni, archi… Colpa dell’acqua? Sicuro: erano decenni che non pioveva tanto. Ma è troppo comodo maledire il cielo.
Troppo comodo scaricare sugli Dei altre responsabilità: l’incuria, la sciatteria, il disinteresse per la sana manutenzione quotidiana che nessuno gioca in campagna elettorale.
Gli ultimi a schiantarsi al suolo, rischiando di ferire i passanti, sono stati due pezzi del bassorilievo di uno degli archi dell’elegante (e ammaccata) Galleria Umberto I di Napoli, in faccia al teatro San Carlo. Uno di quegli archi sotto i quali, in una scena indimenticabile del film di Ettore Scola «Maccheroni», Marcello Mastroianni faceva conoscere a Jack Lemmon i piaceri irresistibili di un gigantesco babà con panna.
Più o meno nelle stesse ore, crollavano a Palmanova venti metri del «rivellino», una delle cinte fortificate della magnifica «città stellata» friulana. Una ferita. Tanto più che, dopo decenni di abbandono che avevano consentito agli sterpi di impossessarsi delle mura e agli alberi di affondare in profondità le loro radici tra i mattoni, la meravigliosa fortezza veneziana del 1593 edificata contro i turchi nella piana friulana all’incrocio tra l’antica via Julia Augusta e la Strada Ungheresca, è finalmente al centro d’un piano di recupero. Un’iniziativa bellissima basata, in mancanza di soldi, sulla generosità della Protezione civile, del Corpo forestale e dei volontari che da qualche tempo si sono messi d’impegno a ripulire le mura più antiche. «Non è un caso se lo smottamento ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel piano di pulizia della vegetazione infestante», ha spiegato Francesco Martines, il sindaco cui va il merito di avere avviato il recupero: «Gli alberi e i fichi selvatici con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali, i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto…».
In queste prime settimane del 2014, spiega, a Palmanova sono già precipitati 610 millimetri di pioggia, corrispondenti a 7 tonnellate d’acqua per ettaro. Un diluvio. Proprio la tenuta delle parti delle mura già restaurate, però, dimostra come siano determinanti le opere di manutenzione troppo spesso trascurate: «È necessario un piano di salvaguardia che impegni anche lo Stato, proprio in vista del percorso di candidatura Unesco, un riconoscimento per il quale ci stiamo spendendo molto tutti e che richiederà — come prevede la commissione di Parigi — la definizione di un piano di gestione per la conservazione del bene. Non vorrei che Palmanova diventasse un’altra Pompei…».
Un richiamo scontato. Dallo schianto della Scuola dei Gladiatori non c’è stata pace. Come spiega il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale, Antonio Irlando, in attesa che parta operativamente l’agognato piano di recupero, «crolli diffusi di intonaci decorati e parti di murature si susseguono quotidianamente in molte domus. Da tempo spieghiamo che per ogni crollo reso noto ve ne sono almeno nove, uno per ogni regione in cui è suddivisa Pompei, di cui non si ha notizia».
E se è vero, come ha scritto il New York Times , che «i crolli a Pompei sono diventati una metafora dell’instabilità politica e dell’incapacità dell’Italia di prendersi cura del suo patrimonio culturale», ogni pietra che si stacca dai nostri monumenti aggiunge nuovi elementi allo sconcerto che gli stranieri provano davanti all’inadeguatezza di chi ci amministra. Risuona nelle orecchie l’accusa del Guardian: «L’abbondanza di siti archeologici e culturali porta l’Italia all’indifferenza. La conservazione non si classifica tra le priorità di un Paese costellato di acquedotti, anfiteatri e altri siti di grande rilievo culturale».
Che sia costosissimo, e di questi tempi forse al di fuori della nostra portata, un gigantesco piano di recupero di ogni singolo tesoro che abbiamo, dalle Gualchiere di Remole al castello normanno di Maddaloni, dalla rocca di Sutera agli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo, è vero. Ma certo l’elenco dei lutti culturali che hanno colpito il nostro patrimonio nelle ultime settimane e negli ultimi giorni è impressionante.
A Pozzuoli, racconta sul Corriere del Mezzogiorno Antonio Cangiano, è rovinato al suolo vicino a una stazione della ferrovia Cumana un grande frammento murario del complesso dello stadio di Antonino Pio che un tempo ospitava gli Eusebeia, giochi ginnici quinquennali sull’uso di Olimpia. A Stigliano, in provincia di Matera, è venuta giù l’ultima facciata del castello medievale danneggiata nel Seicento da un violento terremoto.
A Frinco, in provincia di Asti, è smottata verso le case una parte del maniero che da secoli domina il paese, dando ragione ai timori del sindaco che qualche settimana fa aveva denunciato il rischio di una frana pericolosa. A Roma è crollato un contrafforte di una torre delle Mura Aureliane, già colpite da un cedimento simile, non lontano, nel 2001. A San Vito Chietino un gruppo di famiglie è rimasto isolato dallo sbriciolarsi di un tratto delle mura di cinta di un castello risalente all’anno Mille. A Subiaco il maltempo ha fatto crollare parte del tetto della Rocca Abbaziale, meglio nota come la Rocca dei Borgia. A Spoleto sono venute giù due capriate e parti della copertura del complesso dell’anfiteatro. E altre mura antiche hanno ceduto, sotto le piogge di questi giorni, a Vignola, in provincia di Modena. Per non dire dei crolli nei centri storici di Taranto o alla Vucciria di Renato Guttuso, nel cuore di Palermo.
Troppi traumi, in pochi giorni. Troppi. L’unica speranza è che almeno questi aiutino i ministri, i governatori, i sindaci e tutti i cittadini a capire che, nell’attesa di faraonici e costosissimi megaprogetti di recupero, che mai potranno accontentare tutti, l’immobilismo è un suicidio. E che un minimo di decorosa manutenzione quotidiana, porti o non porti voti, è un dovere verso noi stessi e verso quei tesori di cui siamo, forse immeritatamente, i custodi.

da il Corriere della Sera

"Quelle leggi ideologiche", di Gianluigi Pellegrino

Crescita esponenziale del mercato illegale e delle mafie, ingolfamento di tribunali e carceri, consegna al circuito criminale di masse di giovani, un aumento dell’uso di stupefacenti solleticato dal fascino caldo e perverso della clandestinità. Se qualifichiamo “complici” chi vende morte spacciando eroina e chi fuma una canna in compagnia, il crimine non si combatte ma si genera. Il cerchio si chiude (ma forse si spiega) con la conseguente periodica pretesa di amnistia per i delinquenti veri, colletti bianchi, corrotti e corruttori, concussi e concussori.
Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte costituzionale a porre rimedio. E a ricordarci quanto purtroppo la politica di questi anni sia stata incapace e dannosa proprio nella sua più alta proiezione istituzionale che è la funzione legislativa. Così come ha dovuto cassare l’inaccettabile Porcellum che altrimenti sarebbe rimasto lì per sempre, la Consulta oggi, semplicemente applicando la Costituzione, e spazzando via una norma assurda, garantisce la più razionale, equilibrata ed efficace misura svuotacarceri mentre anche qui in Parlamento si balbetta.
Niente però avviene per caso. Abbiamo assistito ad una progressiva rottura del principio di rappresentanza culminata con la “legge porcata” che non a caso, in quella legislatura che moriva, veniva varata negli stessi giorni della Giovanardi, approvata per servire l’ossessione ideologica dell’allora fedelissimo del Cavaliere.
Parlamentari ormai sotto ricatto del potere di nomina ebbero così l’impudenza di inserire la criminalizzazione delle droghe leggere in un decreto sulle Olimpiadi invernali. Ora l’ex ministro grida che la Consulta farebbe politica. Ma, così come allora, Giovanardi non sa di che parla. La Corte ha fatto semplicemente applicazione di un suo ribadito insegnamento (decisioni 22 del 2012, 32 e 237 del 2013), fondato su un principio basilare del nostro ordinamento, ricordato anche in numerosi messaggi di Ciampi e di Napolitano. Utilizzare la conversione di decreti per inserire norme “intruse” è il tradimento sostanziale della funzione del parlamento, perché genera una legislazione di “soppiatto”, sfuggendo non solo al principio di rappresentanza ma anche a quello di responsabilità.
Il che tra l’altro ci ricorda quanto giusta fosse nel merito costituzionale la recente critica per la misura su Bankitalia appiccicata al decreto Imu, ma pure quanto miope sia stato trasformarla in violenta gazzarra.
Se poi la legislazione di soppiatto è puramente ideologica come la legge Giovanardi, la torsione va al di là del singolo provvedimento perché vuol transitarci bendati sulle spire dello Stato etico, che impone con legge costumi e dottrina. Come del resto si tentò di fare sul “fine vita” con goffa esibizione di servilismo verso presunte aspettative curiali speculando sulle spoglie martoriate della povera Englaro. «Assassini! » gridò un Quagliariello invasato. Anche quest’abisso abbiamo conosciuto. Ma non sarà mai una nuova stagione se non tornerà con una decente legge elettorale, un consapevole principio di rappresentanza e la decisione responsabile della politica.

da la Repubblica

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La Consulta boccia la Fini-Giovanardi “E ora in 10mila usciranno dal carcere”. di Liana Milella

Incostituzionale equiparare droghe pesanti eleggere. La destra: regalo agli spacciatori
— La Consulta risolve forse, a sorpresa, il problema delle carceri, e salva l’Italia dalle multe salate della Corte di Strasburgo per via del sovraffollamento. Diecimila detenuti sono tanti, rispetto ai 61mila attuali, e potrebbero uscire di cella grazie alla decisione della Corte costituzionale che cancella — dopo una breve discussione e con i 15 giudici praticamente unanimi — le norme più contestate della legge Fini-Giovanardi sulla droga del 2006. Quelle che, infilate in un decreto che legiferava sulle olimpiadi invernali, cancellò la distinzione tra droghe leggere e pesanti, uniformò le pene per le une e le altre, e le alzò da 6 a 20 anni. Quel decreto cancellava la vecchia legge, la Iervolino-Vassalli del 1990, che distingueva tra i diversi tipi di droga, sia per la produzione che per il consumo e lo spaccio, e puniva quello più lieve, per hashish e marijuana, con una pena da 2 a 6 anni.
Ora si volta pagina. A deciderlo è la Corte che, su una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla terza sezione penale della Cassazione, boccia la Fini-Giovanardi perché la legge del 2006 forzò il decreto originario con questioni del tutto disomogenee. Ai fondi per le olimpiadi invernali, fu agganciato in aula il treno della droga, in evidente contrasto con l’articolo 77 della Costituzione che impone decreti in casi «di straordinaria necessità e urgenza» e omogenei. Fino all’ultimo, anche il governo Letta, con l’Avvocatura dello Stato, ha difeso la legge, dicendo invece che nel decreto c’era materia per inserire
pure le norme sulla droga.
Adesso il problema è che succede a chi sta dentro per colpa della Fini-Giovanardi. Come dice Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, arrestato per 21 grammi di hashish, picchiato dagli agenti e ucciso, «senza questa legge lui non sarebbe mai stato arrestato». Il punto è questo. Stefano Anastasia, l’ex presidente dell’associazione Antigone e oggi tra i promotori dell’appello per far bocciare la legge, parla di «una sentenza eccezionale che farà storia» e ipotizza che potrebbero essere proprio 10mila i detenuti che potrebbero uscire dal carcere. Ovviamente bisogna distinguere tra soggetti in attesa di giudizio e definitivi. L’ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick, che alla Corte ha rappresentato le tesi dell’incostituzionalità della Fini-Gionardi, ritiene che la decisione della Corte non tocchi quelli definitivi. Ma un precedente della Consulta è decisivo. Quando fu cancellata la famosa aggravante di clandestinità, la Cassazione stabilì che la porzione di pena inflitta dalla legge bocciata doveva essere di conseguenza cancellata. Quindi, per le sentenze definitive, il condannato potrà proporre un incidente di esecuzione per chiedere il ricalcolo della pena.
Com’è ovvio, in una materia da sempre caldissima, la decisione della Corte ha scatenato una bagarre politica. Tra chi, come tutto il Pd, la saluta come la benvenuta, a chi la contesta integralmente, come l’Ncd Giovanardi («frutto di una campagna orchestrata»), a chi la considera «un regalo agli spacciatori» (il leghista Molteni), a chi si mette contro la Consulta («non ci faremo fermare»), a chi come i Radicali chiede di liberalizzare del tutto le droghe leggere. Ma adesso, dopo anni di ritardo rispetto a una legge che riempiva inutilmente le carceri e produceva casi come quello di Cucchi, arriva il momento del “che fare”. Restare con la Iervolino-Vassalli o andare avanti? Dice il presidente di Magistratura democratica Luigi Marini che «ancora una volta è toccato alla Consulta riportare un po’ di razionalità nella materia, ma toccherà ai giudici rimboccarsi le maniche per trattare con intelligenza processi e persone». Gli avvocati penalisti chiedono di sfruttare subito il decreto Cancellieri sulle carceri (da convertire entro il 26 febbraio) che già contiene la minor pena per il piccolo spaccio. Donatella Ferranti, presidente Pd della commissione Giustizia della Camera, parla di «sentenza prevedibile e ampiamente giustificata», conferma che già dal 16 luglio a Montecitorio si lavora sulle proposte Farina (Sel), Gozi ed Ermini (Pd) per una nuova legge sulle droghe. Per Ferranti ora «è necessario rivedere la “datata” Jervolino». Un intervento che dovrebbe riguardare le tabelle, le norme sulla modica quantità, la coltivazione se ad uso personale. Materia caldissima, su cui l’Ncd Sacconi già dice che bisogna «mantenere il disvalore delle droghe leggere». Scontro assicurato. Basta leggere quanto dice Alessia Morani, la renziana responsabile Giustizia del Pd: «Equiparare droghe leggere e pesanti è stato un grandissimo errore che ha rovinato la vita di migliaia di giovani».

da la Repubblica

"10anni. Il Consiglio universitario: serve piano da 100 milioni", di Marzio Bartoloni

L’università italiana non perde solo studenti, ma anche docenti. Ne ha persi oltre 9mila negli ultimi 6 anni e da qui al 2018 – a bocce ferme – ne perderà altri 5mila. A conti fatti sono 15mila prof in meno in dieci anni: in pratica ogni anno tra ordinari e associati se ne vanno in 1500. Un buco nero che rischia di rendere ingovernabile l’università. Le stime sono del Cun, il Consiglio universitario nazionale – l’organo consultivo del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca – che nei giorni scorsi ha inviato una raccomandazione al ministro Maria Chiara Carrozza per chiede il «finanziamento di un piano straordinario per la chiamata di professori di seconda fascia» da 100 milioni. Un piano che secondo il Cun avrebbe un «effetto virtuoso» su tutto il sistema.

Un piano straordinario contro l’emorragia di docenti
Se tutto filerà liscio, dopo i tanti rinvii legati all’abilitazione introdotta dall’ex ministro Gelmini, quest’anno dovrebbe finalmente scattare il reclutamento di 5mila professori di seconda fascia (gli associati) «in gran parte – ricorda la raccomandazione – provenienti dalle posizioni dei ricercatori ora inquadrati nel ruolo a esaurimento». Nuovi ingressi questi che però non bastano perché «il fabbisogno di personale del sistema universitario – aggiunge il Cun – che negli ultimi 6 anni ha perso oltre 9mila professori, di prima e seconda fascia, resta tuttavia ancora largamente insoddisfatto». Da qui la richiesta di una seconda tornata del piano straordinario con l’obiettivo di reclutare a fine 2015 4-5mila prof di seconda fascia «con un impegno stimabile in circa 100 milioni a partire dal 2016». Un piano questo che avrebbe anche l’effetto virtuoso di liberare le risorse del turn over per reclutare nuovi giovani ricercatori ma anche professori ordinari.

Il rischio di una università senza governo
Il Cun sempre nella sua raccomandazione ricorda che solo per quanto riguarda gli ordinari nel 2017 sarà in servizio solo la metà di coloro che lo erano nel 2007 (11mila contro 20mila di dieci anni prima). Nel 2018 l’università italiana, se si calcola la prima tranche di assunzioni, raggiungerebbe quota 30mila tra ordinari e associati. troppo pochi. La causa di questa emorragia è dovuta soprattutto alle limitazioni al turnover degli atenei. Introdotte nel 2008 sono state accompagnate da una riduzione dei fondi alle università di circa 500 milioni in 5 anni. Le regole sono state poi ritoccate più volte in un continuo gioco al ribasso: prima modificando le norme sul reclutamento dei docenti (ad opera della Gelmini), poi introducendo nuovi e ancor più stringenti vincoli di bilancio per gli atenei. E lungo la stessa rotta si è mosso anche il governo Letta, posticipando al 2018 il momento in cui sarà possibile tornare al rapporto 1:1 tra chi va in pensione e chi viene assunto.

da www.ilsole24ore.it

Istituto Meucci di Carpi, on. Ghizzoni “Non usare il Mof come un bancomat”

La deputata carpigiana Pd raccoglie le preoccupazioni espresse dal Consiglio di Istituto

“Gli studenti, i genitori, gli insegnanti, i dirigenti e il personale Ata dell’Istituto Meucci di Carpi hanno ragione: non si può usare il Mof, il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa, come un bancomat”: la parlamentare carpigiana del Pd Manuela Ghizzoni, vice-presidente della Commissione Istruzione della Camera, risponde alla missiva che il presidente del Consiglio di Istituto del Meucci di Carpi ha inviato al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Carrozza e ai parlamentari modenesi, denunciando le pesanti ripercussioni sulla scuola derivanti dalla decurtazione del Mof, che in due anni è stato, di fatto, dimezzato con ripercussioni preoccupanti per l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Ecco la dichiarazione di Manuela Ghizzoni:

“Condivido le preoccupazioni di studenti, genitori, insegnanti, dirigenti e personale Ata: una riduzione così forte delle risorse per il miglioramento dell’offerta formativa non potrà non avere pesanti ricadute sull’autonomia scolastica e sulla qualità dell’offerta didattica dei singoli istituti. E questo l’ho detto in tempi non sospetti, cioè quando a fine 2012 l’allora governo Monti stipulò l’accordo che reperiva i fondi per il pagamento degli scatti stipendiali 2011 direttamente dal Mof, il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. Non si può usare il Mof come un bancomat, una strategia che ricorda troppo da vicino quelle adottate dal, non certo rimpianto, ministro Tremonti con i fondi FAS, i fondi destinati alle aree sottoutilizzate ri-orientati su una variegata gamma di altri usi.
L’intesa del 2012, quindi, non passò dal vaglio del Parlamento, fu frutto di un accordo presso l’ARAN, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale per le Pubbliche amministrazioni. Come dissi allora, oggi lo ripeto: non si può mettere in contrapposizione le giuste tutele sindacali del personale e le altrettanto sacrosante necessità delle scuole.
Il Senato sta ora discutendo un decreto in materia: si intende rinviare alla successiva contrattazione tra le parti la decisione su dove ricavare le risorse necessarie per pagare gli scatti di anzianità 2012. E’ l’occasione giusta per cambiare strada rispetto al passato: bisogna immettere risorse fresche per il buon funzionamento della scuola. Bisogna investire nella qualità dell’offerta formativa, favorire i progetti innovativi e non penalizzare gli insegnanti che svolgono funzioni strumentali a vantaggio della crescita dei nostri ragazzi e dell’intera comunità scolastica. E bene ha fatto il Partito democratico a porre questo obiettivo tra gli impegni prioritari per il rilancio del Paese: nelle ore che presumibilmente ci dividono dall’annunciata verifica di Governo, auspico che le esigenze concrete della scuola e della formazione rimangano un elemento di primissimo piano del confronto politico”.

da Ufficio Stampa PD Modena