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L'ANISA sostiene l'iniziativa PD "Metti in circolo il pittore"

L’ANISA – Associazione Nazionale insegnanti di Storia dell’arte sostiene l’iniziativa “Metti in circolo il pittore”, organizzata dai circoli del Partito Democratico in Italia e all’Estero

“In coerenza con l’intenso impegno sociale che da sempre accompagna la sua azione associativa, ANISA ha accolto l’invito del Partito Democratico a collaborare alla iniziativa “Metti in circolo il pittore”, volta a promuovere la Storia dell’Arte ed il suo insegnamento nei circoli del PD grazie al coinvolgimento di docenti di ruolo e precari della scuola italiana. Si tratta di una proposta fresca e intelligente che intende soprattutto arrivare al cuore del paese, nei piccoli come nei grandi centri, attraverso una molteplicità di incontri capaci di coinvolgere i cittadini in un grande fenomeno collettivo di valorizzazione del patrimonio diffuso e dei principi identitari che, da sempre, accompagnano la Storia dell’Arte nel nostro Paese. ANISA coinvolgerà le proprie sezioni provinciali, i referenti territoriali e le scuole per offrire assistenza alla elaborazione dei contenuti e delle manifestazioni collegate al progetto. Dopo gli anni difficili che hanno visto la contrazione delle ore di storia dell’arte nel curricolo scolastico, stiamo ora vivendo un entusiasmante momento di rilancio della disciplina come bene comune, componente irrinunciabile dell’educazione dei giovani e solida base per la costruzione dei principi di cittadinanza attiva. ANISA è in prima fila, da più di cinquant’anni, per la difesa del patrimonio artistico e per il potenziamento della storia dell’arte nella scuola. I nostri seminari di aggiornamento per i docenti, i progetti rivolti ai giovani come le Olimpiadi del Patrimonio, l’impegno civile, la ricerca metodologica, il ruolo di primo interlocutore in Italia e in Europa sul tema dell’educazione all’arte, testimoniano la qualità e l’entusiasmo del nostro lavoro.”

www.anisa.it – info@anisa.it

"Se il segretario si gioca tutto", di Massimo Adinolfi

Se non fosse per il titolo, che si potrebbe prestare a equivoci e ironie, il film di queste giornate potrebbe essere raccontato alla maniera del primo Kubrick,
quello di «Rapina a mano armata». Un colpo all’ippodromo, raccontato da punti di vista ogni volta diversi, con flash-back sincronici che costringono lo spettatore a rivedere più volte la stessa azione, da angolature e con sottolineature differenti.
È quello di cui il cronista avrebbe bisogno, per muovere nello stesso, complicato scenario il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il segretario del Pd, più gli altri attori politici (il centrodestra di Alfano, i frammenti del centro montiano, la minoranza Pd) relegati per il momento nel ruolo di comprimari, ma – come accade nel film – non per questo meno decisivi per la riuscita del colpo. Il colpo è il nuovo governo.
Allo stato, tutto o quasi sembra spingere in direzione di un incarico a Matteo Renzi. Le ipotesi alternative – il rimpasto, un nuovo governo Letta, il precipizio delle elezioni – non si sono ancora definitivamente consumate, ma appaiono ormai delle subordinate rispetto al piano principale, che prevede l’arrivo del sindaco di Firenze a Palazzo Chigi.
In verità, non si tratta di uno sbocco naturale dell’impasse che si è creato. Fino a qualche settimana fa, la doppia velocità dimostrata da Renzi nell’incardinare il processo di riforme, a cominciare dalla legge elettorale, sembrava legata essenzialmente alla distanza dall’attività di governo. Di qui in avanti, con Renzi al posto di Letta, non sarebbe più così, e anche se la maggioranza sul terreno delle riforme istituzionali continuerebbe a non coincidere
con la maggioranza di governo, l’attore che proverebbe a incassare la parte più grossa del bottino delle riforme sarebbe d’ora innanzi soltanto uno e il medesimo: il Pd di Renzi. La vera questione è dunque se, con il passaggio delle consegne, il processo innescato da Renzi conoscerà un’accelerazione o non piuttosto un freno, da parte di chi (in primo luogo Berlusconi) aveva sin qui immaginato un diverso modo di partecipare all’impresa.
L’operazione presenta cioè dei rischi. Certo, Renzi può investire un capitale di fiducia e di consenso e una credibilità ancora intatta, e genererebbe di sicuro aspettative anche maggiori di quelle sin qui riposte sul governo Letta. Se l’operazione avrà successo, e dunque col senno di poi, si potrà anzi disegnare una sequenza Monti-Letta, partorita dall’emergenza dapprima finanziaria, quindi, dopo febbraio, anche politica, che la vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe finalmente interrotto, creando l’energia politica necessaria per fissare un nuovo inizio.
Ma un nuovo inizio di solito coincide con nuove elezioni: Renzi lo sa benissimo. Scegliere di prendere le redini del governo per manifesta insufficienza del
dicastero che lo ha preceduto non procura ancora una piena legittimazione (oltre a rinfocolare tensioni nello stesso Pd). O meglio: in una democrazia parlamentare- qual è ancora l’Italia – non ci sarebbe bisogno di altro. Ma tutto il progetto politico di Renzi contiene una torsione politica rispetto a quella forma, che attende ancora di compiersi: riuscirà il sindaco a portarla a compimento da Palazzo Chigi? Di sicuro, le forze parlamentari su cui può contare
sono le medesime che sostenevano Letta (salvo forse qualche piccolo aggiustamento): e allora?
Resta dalla postazione di Palazzo Chigi una valvola con cui Renzi potrebbe provare a regolare i processi: quella delle elezioni. A ogni intoppo, a ogni ritardo, a ogni involuzione del corso politico nei meandri di Montecitorio Renzi potrà mettere sul tavolo un’impazienza, un’urgenza, un senso delle cose da fare
nuovo, imputando alla palude parlamentare tutte le colpe.
È una scommessa: se tutto filerà liscio, Renzi e il Pd incasseranno un risultato storico. Se la corsa si inceppa, qualcuno si ricorderà più o meno amaramente delle parole del sindaco: le elezioni convengono più a me che all’Italia.
(Non so se la metafora del film di Kubrick, colpo a parte, abbia funzionato. Quel che so è che nel film nessuno dei componenti della banda che assalta l’ippodromo conosce il piano completo dell’azione, il che è un guaio).

da L’Unità

"Quel vizio antico della staffetta", di Filippo Ceccarelli

La si chiami pure staffetta, ma non lo è, o forse sì. Dipende anche oggi da un’infinità di variabili che da una teorica e generosa collaborazione trascinano e insieme spintonano la parola verso il più inesorabile assassinio politico. In mezzo non c’è nulla. In un prezioso “bloc-notes”, la rubrica che un quarto di secolo fa compilava per l’Europeo, Andreotti vivamente consigliava di «lasciar fuori» dalle vicende del potere «questa terminologia non carica di troppa fortuna».
Con apparente spontaneità raccontava di un suo anonimo corrispondente, primatista mondiale della «5 x 50», che rivendicava al nuoto la primogenitura della staffetta. Ma qualche riga sotto ecco che in una lettera di un ferroviere andreottiano, erano menzionati i «trenistaffetta », quelli cioè che precedevano i convogli del re, «per verificare che non vi fossero imboscate », e qui la sublime malizia del Divo superava se stessa: «Un po’ come gli assaggiatori nelle messe papali, quando c’era l’hobby dei veleni».
Tutto questo per ribadire — ma Renzi&Letta lo sanno benissimo — l’inconfessabile corrispondenza che esiste fra la staffetta e a chi la subisce. Non occorrono
Machiavelli né repertori di nefandezze curiali per avere la conferma che il delitto accompagna quasi tutti i passaggi del potere. La cosa singolare, semmai, è che proprio ad Andreotti si deve la configurazione e il lancio della staffetta.
Senza troppo addentrarsi: nell’estate del lontano 1986 la Dc, consule Ciriaco De Mita, era finalmente e faticosamente riuscita a sbalzare da Palazzo Chigi Bettino Craxi, al culmine del suo successo. Al che il Divo, allora ministro degli Esteri, cercò di rappattumare non tanto l’alleanza, quanto il governo, comunque lasciando intravedere ai due leader la possibilità che nella primavera seguente, il capo socialista si sarebbe ritirato favorendo il ritorno di un dc alla presidenza del Consiglio.
Non si è mai capito il tasso di oscura ambiguità che recava in sè quell’innaturale programma che prese appunto il nome di staffetta. Fatto sta che i dc presero ad innalzarla al rango di patto, mentre al solo sentirla nominare Craxi reagiva con sonori mugugni e criptiche alzate di spalle, quando in un dibattito tv non diede dell’»insolente» a Gianni Letta che gliel’aveva ricordata.
Di sicuro sulla faccenda si creò un’ampia letteratura e in qualche misura anche una leggenda. Fu scritto che De Mita pretendeva dal presidente della Repubblica, il docile Cossiga di allora, una sorta di legittimazione costituzionale della staffetta; così come si potè leggere che Giuliano Amato, il braccio destro di Bettino a Palazzo Chigi, aveva affidato a un suo allievo una tesi di laurea sulle implicazioni, sempre istituzionali, del sempre più fantasmatico concordato.
Ragion per cui, col senno di poi e un pensierino a Enrichetto e Matteuccio, è irresistibile segnalare che gli unici a vederci lungo furono due personaggi ben fuori dal sacro recinto della politica; con il che una cartomante rom incontrata da Craxi in un ristorante di Belgrado, e poi il santone indiano Sai Baba, presso cui viveva il fratello del leader socialista, esclusero nel modo più assoluto ogni sorta di concordata alternanza al governo.
In primavera Bettino si fece intervistare da Minoli, a Mixer, e alla fine, con rabbioso sollievo, emise un sospiro dei suoi: «E così abbiamo liquidato la staffetta». De Mita, che qualche ragione doveva avere, andò su tutte le furie qualificando l’alleato-nemico «inaffidabile ». In pieno congresso riminese del tempio greco, Craxi rispose per le rime.
Il Mattino, che più demitiano non si poteva, lo espose a modello di ancestrale menzogna inchiodandolo al detto: «O’ vuoie cu’ le corn’, l’omm’ cu’ la parola», il bue con le corna, l’uomo con la parola. Fu la crisi, seguita da una violenta campagna elettorale.
Dopo di che per dieci anni si ebbe qualche comprensibile ritegno a ritirare fuori l’ipocrita e impossibile staffetta. Ma la memoria del potere è più corta di quanto dovrebbe e ancor più di quanto si possa immaginare. Così alla fine del 1997, quando Prodi governava e già da un pezzo D’Alema smaniava per governare lui, che tanto aveva fatto per conseguire quel risultato, ecco che quella paroletta si riaffacciò nelle cronache della conferenza di fine anno. Non è che si toglierebbe di mezzo per dare il cambio al baffuto leader del Pds?
Il leader dell’Ulivo diede in quel caso una risposta di circostanza, il classico buon viso a cattivo gioco. Passarono diversi mesi. Il 2 di ottobre del 1998 toccò al giovane vicesegretario del Ppi Enrico Letta — guarda che combinazione! — di scongiurare l’ipotesi: «E’ nocivo parlare di staffetta, è disinformazione». Il giorno 5, non senza rampogna d’ordinanza ai giornalisti retroscenisti, fu D’Alema a escludere ogni staffetta pronunciando le ultime parole famose: «Non ci saranno soluzioni di questo tipo… Io sono una persona rispettabile e trovo stupefacenti queste ipotesi». Il 19 ottobre ebbe l’incarico di formare il governo.
E vabbè che è sempre vano nel gioco del potere invocare pudore e coerenza. Ma appena quattro giorni fa, dinanzi all’eventualità di una staffetta, Matteo Renzi aveva negato con irridente twitter: «Nun ce provà!». Alla romana. Anvedi che impunito.

da La Repubblica

"Il branco virtuale", di Gabriela Romagnoli

SE UNA ragazza di 14 anni si uccide buttandosi dal tetto di chi o che cosa è la responsabilità? Della sua fragilità mentale? Di chi l’ha incitata a farlo dietro il lurido velo dell’anonimato?
Di due fratelli lettoni che, tra tante cose che potevano inventarsi, hanno creato un social per adolescenti dove ogni cosa può essere detta senza lasciare firma? A seconda delle opinioni (o del coinvolgimento) si attribuiranno percentuali diverse a questi tre fattori. Resta una differenza di fondo: tra le cose inevitabili e quelle superflue, tra il percorso ordinario e già di per sé dolente della vita e la straordinaria crudeltà che aggiunge la mano umana a quella del destino.
Partiamo dall’ultimo fattore: il sito Ask.fm. Lo hanno creato i fratelli Tarabin, ha un’utenza quasi esclusivamente compresa fra i 13 e i 18 anni e una particolarità: chi risponde alle domande (di qui il nome) immesse sul profilo lo può fare in maniera totalmente anonima. La differenza tra un post firmato (anche con pseudonimo) e uno anonimo è la stessa che correva fra una lettera con o senza mittente. Nel primo caso si scrive per comunicare, nel secondo per fare del male. Chi ti vuol parlare ci mette il nome o il volto, chi ti vuole offendere si nasconde. Ora, Internet è la più grande fonte di libertà creata negli ultimi cinqunt’anni. Nonché, di idiozia. È il vaso di Pandora che ha scatenato le pulsioni migliori (“cambiamo il sistema”) e le peggiori (“ucciditi, inutile grassone”). A spostare l’ago dal primo al secondo uso è la progressiva assenza di filtro. Creare un sito che ne rifugge era un’idea evitabile. Poco prima di scrivere questo articolo, seduto su una poltrona d’aereo, nell’indolenza di un viaggio intercontinentale ho guardato un documentario sull’invenzione del cellulare. Tra i momenti chiave si risaliva alla scoperta di Hedy Lamarr, un’attrice austriaca, fuggita dal marito e dal nazismo. Considerata a quel tempo la donna più bella del mondo, era anche una scienziata e, osservando il movimento dei tasti del pianoforte, inventò il salto di frequenza che, usato inizialmente per fini militari, è alla base delle comunicazioni satellitari. Ora, non so se i fratelli Tarabin siano bellissimi, né che cosa pensino del totalitarismo, ma ci sono creazioni volte al bene, altre inutili e altre ancora che possono fare soltanto del male. Lo si intuisce al volo, non occorre sperimentarle.
Ask.fm è tra queste ed era chiaro prima che i fatti lo dimostrassero. A dire che certi spazi nella rete andrebbero tappati si è tacciati spesso di illiberalismo, per lo più da persone che si esprimo in forma anonima o con pseudonimo. Eppure se la risposta alla domanda “A che cosa serve?” è “A eccitare istinti malvagi”, le conseguenze non dovrebbero essere in discussione. Dopodiché, la rete è una rete: tappi un buco e se ne apre un altro.
Il secondo fattore, la violenza verbale dei giovani senza volto, si scatena con la stessa naturalezza con cui da un rubinetto esce l’acqua. Per quella fisica occorre ancora un coraggio, per questa basta la viltà. Se possibile, il branco virtuale fa ancora più ribrezzo di quello reale. Se ne sta lì, nella stanzetta, a caricare immagini rubate con il cellulare, fotografie degradanti, didascalie offensive. La conosciamo tutti, per averla vissuta, la ferocia dei quindici anni. Per averla patita o, giù la maschera, condivisa. Non possiamo stupirci quando si manifesta. Basta darle una opportunità, una cantina buia, un sito anonimo.
Si può resistere? Certo che sì. Avendo spalle larghe e anima forte. La ragazzina che si firmava Amnesia non possedeva né le une né l’altra. Era debole. Un insulto su Internet non è una spinta dal tetto, è un soffio. Eppure ha lo stesso effetto per chi non sa reagire. Il che non è una colpa grave, il resto sì.

da la Repubblica

"Sorpresa: a fine 2012 arretrati dello Stato per “soli” 60 miliardi", di Alessandro Barbera e Marco Zatterin

Il governo Letta si è impegnato per quaranta miliardi di euro, ne ha versati finora 22. Un buon risultato, visti i tempi e le mille difficoltà burocratiche. Ma immaginate il pagamento degli arretrati dello Stato nei confronti dei suoi creditori come una corsa sulla lunga distanza: non conta quanto ci si è lasciati alle spalle, ma la strada che manca al traguardo. L’arbitro che sorveglia, l’occhiuta Commissione europea, non ha mai capito dove tracciare quella linea. A quota cento, come stimò l’allora ministro Passera? Addirittura oltre, a 120 miliardi, come hanno sostenuto alcune associazioni d’impresa? O ci si può fermare a 90, come ha autorevolmente ipotizzato la Banca d’Italia? A marzo dell’anno scorso – quando ancora Letta non si era insediato – il commissario Antonio Tajani chiese pubblicamente lumi all’Italia: non ha mai ottenuto risposta. Ma dopo ormai un anno di lavoro, nei corridoi di Tesoro e Ragioneria circola una cifra dello stock di debito accumulato al 31 dicembre del 2012, quello su cui si è concentrato il lavoro del ministro Saccomanni e dei suoi uffici. Non è un numero ufficiale, ma è considerato «credibile» dai tecnici. E soprattutto, al netto del debito accumulato nel 2013 ancora da stimare, fissa l’asticella ben al di sotto di quel che si è finora ipotizzato: al massimo 60 miliardi di euro.

Possibile uno scarto del genere rispetto alla stima della Banca d’Italia? Possibile. La vicenda degli arretrati dimostra le conseguenze nefaste della riforma del Titolo quinto della Costituzione, ciò che ha permesso a migliaia di Comuni, Province, Regioni, aziende sanitarie, società controllate ed enti decentrati di fare debiti senza rispettare i vincoli dello Stato pagatore. L’allora ministro Grilli impiegò quasi un mese per contare più di ventimila soggetti autorizzati. Le sole partecipate degli enti locali a fine 2011 hanno accumulato 2,2 miliardi di perdite. Gli ultimi dati emersi dal monitoraggio del Tesoro dicono che si è allargato il fenomeno dei debiti fuori bilancio, di enti che affidano commesse con la promessa futura di pagamento. Colpa – per così dire – del Patto di stabilità interno, unico argine al federalismo irresponsabile che però blocca le spese in modo rozzo e penalizza gli enti virtuosi: la cassa è bloccata, l’autorizzazione a spendere sulla carta no. Tesoro e Comuni discutono da tempo come superarlo, e la sua riforma è legata a doppio filo alla proposta lanciata dal segretario Pd Renzi di rivedere tutta la materia. Per ora il fenomeno è tutt’altro che risolto: l’Ance ha di recente denunciato fino a sette mesi di attesa per il saldo delle nuove fatture. L’Unione degli industriali di Torino ha presentato denuncia a Bruxelles, che il 3 febbraio ha messo l’Italia sotto procedura di infrazione per il mancato rispetto della direttiva.

La Commissione ha fatto dei pagamenti alle imprese una bandiera. Riteneva e ritiene che sia il modo più rapido per far confluire soldi nelle casse delle imprese, asciugata dalla crisi e dalla stretta al credito. Ormai un anno fa – era 18 marzo 2013 – Tajani e il vicepresidente Olli Rehn chiedevano all’Italia di fare in fretta, sottolineando che «la liquidazione di debiti commerciali potrebbe rientrare tra i fattori attenuanti» nella valutazione dell’andamento dei conti pubblici. Allo stesso tempo la Commissione si diceva pronta «a cooperare per aiutare l’attuazione del piano di liquidazione» e ad accogliere «la disponibilità di informazioni più dettagliate ed aggiornate sull’ammontare di tale debito ad ogni livello dell’amministrazione». Chiedeva numeri esatti per uscire dalle secche dei dubbi contabili. Nelle intenzioni dei due, avrebbero dovuto essere comunicati entro settembre. «Non abbiamo avuto notizie ufficiali», spiega una fonte europea. Nei contatti informali – raccontano da Bruxelles – Roma non faceva fatica ad ammettere le insidie di arrivare a mettere le cifre nero su bianco, visto che «non vengono contabilizzate numerose poste, ad esempio i pagamenti connessi a contenziosi legali». Al Tesoro garantiscono che la lunga corsa per raggiungere il traguardo prosegue, nella speranza che nel frattempo l’irresponsabilità di alcuni non lo sposti troppo oltre. Crisi di governo permettendo.

da www.lastampa.it

"Ma i ricercatori non sono postelegrafonici. Una ASN da ripensare in modo radicale", di Francesco Coniglione

Gli effetti del nuovo sistema di abilitazione nazionale (ASN) si stanno vedendo sempre più, via via che escono i risultati delle varie commissioni: oltre alle denunzie e ai cahiers de doléances quotidianamente presentati su tutti gli organi di stampa e su Roars, v’è chi vorrebbe anche accreditare l’idea che i nomi dei vincitori erano già scritti nelle stelle e che quindi in effetti l’ASN è il solito trucco per far passare i predestinati. V’è molto di vero e anche molto di falso in quest’ultima tesi, a seconda del lato da cui la si considera. Per un aspetto, diciamolo chiaramente e senza false ipocrisie, in un sistema normale che premia il merito scientifico, il fatto che si sappia in anticipo chi vincerà un certo concorso deve essere ritenuto la condizione normale e non può essere considerato affatto una patologia. Per un altro aspetto, invece, il fatto che si possa prevedere che un illustre sconosciuto possa risultare idoneo, rivela che effettivamente c’è qualcosa di marcio in Danimarca. Ma queste sono in effetti le due facce di una medesima medaglia.

Alla base della meraviglia per i due diversi esiti v’è infatti un errore di fondo, diffuso particolarmente sugli organismi di informazione di massa: ritenere il concorso per l’avanzamento scientifico alla stessa stregua di uno alle poste. In questo, infatti, tutti i candidati sono sullo stesso piano, in quanto posseggono solo un titolo di studio generico che è soltanto una condizione necessaria ma non sufficiente, sicché spetta alla commissione giudicatrice selezionare quelli che alle prove assegnate – nelle quali consiste tutto l’onere dell’accertamento – dimostrano i migliori risultati. È ovvio che in questo caso azzeccare i vincitori in anticipo, in assenza di qualsiasi altro indicatore, costituirebbe un segno evidente di concorso truccato.

Ma non è così all’università e nel sistema della ricerca, diversamente da quanto immaginano gli sprovveduti e gli estranei all’ambiente. In questo caso prima di arrivare ad una valutazione (come l’ASN), lo studioso ha pubblicato articoli e volumi, ha frequentato congressi, fa parte di società scientifiche, ha seguito studiosi e ha intessuto rapporti di amicizie e conoscenze che non sono solo “mafiose”, ma motivate da affinità disciplinari, da condivisione di scuole di pensiero, da comuni battaglie in nome di prospettive teoriche condivise. Insomma uno studioso degno del nome è conosciuto molto prima del momento in cui si sottopone a valutazione, specie in settori concorsuali molto specialistici e per le fasce più alte delle qualificazioni (come ad es. per associati e ordinari): di esso i colleghi parlano con maggiore o minore approvazione, hanno sviluppato una “communis opinio” e sanno bene se è meritevole o meno, se è un acchiappafarfalle oppure le sue ricerche sono ben fatte, documentate, originali. In tali condizioni la valutazione finale non è una sorta di terno al lotto, un concorso alle poste in cui tutti partono allo stesso livello, ma solo il momento finale in cui viene formalmente riconosciuto un consenso e una stima già socialmente consolidata nella comunità scientifica. Ecco allora che è del tutto possibile prevedere i vincitori di tale valutazione: anzi, se così non fosse, si dovrebbe sospettare che la commissione abbia adoperato criteri del tutto arbitrari, allontanandosi dalla consolidata stima (o disistima) che ciascuno dei candidati porta naturalmente con sé.

Tutto bene allora? Niente affatto, perché quando questo meccanismo di selezione progressiva, graduale e distribuita, che porta al consolidamento del prestigio di uno studioso, viene rattrappito e condensato in un sistema in cui una commissione nominata in modo accidentale (per sorteggio) si trova ad avere tutto il potere – di vita e di morte – nelle proprie mani; e quando si ha un concorso-monstre in cui solo cinque persone giudicano su macrosettori con centinaia di candidati, allora non possono che emergere le distorsioni e le patologie di un sistema malato, che vengono esaltate, amplificate, rese esplosive. Non bastano mediane, indici bibliometrici e raffinatezze del genere (peraltro mal concepiti e peggio implementati), perché s’è visto che se le commissioni vogliono, possono ignorarle del tutto, o tenerne conto quando loro conviene, in quanto nelle condizioni in cui s’è svolta l’ASN è pressoché impossibile resistere alle pressioni che provengono dall’esterno e che obbediscono alla logica del salire sulla carrozza del treno che passa: oggi la commissione mi è favorevole e quindi devo fare di tutto per farci entrare il brocco che mi aggrada (o l’amante o la figlia, ecc.); con la prossima commissione non si può dire. Non solo, ma diviene irresistibile, per le cordate che casualmente sono in maggioranza nelle commissioni, la tentazione di far passare “i propri” a discapito di quelli della scuola avversa e così via, con tutte le variazioni che l’italica mente è capace di immaginare.

E del resto, quale giudizio competente e nel merito possono dare solo cinque commissari, che il sorteggio ha possibilmente assemblato senza alcuna considerazione per la copertura disciplinare di macrosettori assai vasti (in settori molto comprensivi, possono esser mancati del tutto gli specialisti di ampi campi di ricerca)? La reputazione che si costruisce nei modi da noi sopra indicati, non viene certo attribuita da tutti i componenti di un settore assai vasto, ma solo dagli specialisti dell’argomento; per farla breve, lo studioso di Marsilio Ficino non conquista una buona (o cattiva) reputazione da parte dei più di 150 professori ordinari di Storia della filosofia, ma solo da parte dei quindici (dico numeri a caso) specialisti di filosofia del Rinascimento: e sono questi ultimi che ne devono giudicare la maturità scientifica. Una banale conditio sine qua non del tutto ignorata dall’attuale sistema di ASN. E non si obietti che i commissari potevano acquisire il parere pro veritate di un esperto esterno, in quanto mi paiono evidenti gli inconvenienti e gli arbìtri cui può dar luogo una simile procedura (basti solo pensare a quanto sia facile promuovere o bocciare scegliendo l’esperto giusto, come avevo già segnalato in un precedente articolo).

Ed ecco allora che i risultati a cui stiamo assistendo sono quelli da più parti denunziati: meritevoli bocciati (perché possibilmente non sono riusciti a incastrarsi in una delle combinazioni favorevoli) e brocchi vincitori (e questi sono possibilmente quelli che non sono prevedibili); straordinaria variazione dei giudizi e dei criteri a seconda dei candidati (in certi casi diventa indispensabile la pubblicazione “internazionale”, in altri casi viene del tutto ignorata la sua mancanza, all’uopo); giudizi sommari di tre righe e spesso incollati da un candidato all’altro con inevitabili ripetizioni; errori materiali a non finire; incongruenze, e così via in una sorta di galleria degli orrori. Tutto questo è il frutto di un meccanismo – come quello dell’ASN – che si è dimostrato essere il sintomo di una malattia della quale pretendeva essere la cura, fallendo così clamorosamente l’obiettivo: le mediane e gli indici bibliometrici, che avrebbero dovuto costituire la novità nella illusoria speranza di fissare argini all’arbitrio, sono state bellamente ignorate dalle commissioni, che non hanno esitato a idoneare chi non presentava alcuno dei requisiti o bocciare chi invece li possedeva tutti e tre. Ovvia conseguenza di quanto già contenuto nel decreto ministeriale, come ogni persona dotata di buon senso ha previsto, e non certo i talebani che hanno visto in questo nuovo sistema lo strumento per una resa dei conti o una rivincita rispetto a chi in passato aveva dominato certi settori concorsuali o che – persino in buona fede – si sono illusi delle sue virtù taumaturgiche.

Solo quando ci si sarà resi conto della necessità di superare la italica sindrome del Grande Concorso Unico Nazionale Per Tutte Le Discipline, mettendo in atto un meccanismo del tutto innovativo in cui la valutazione non sia il momentaneo arbitrio di una commissione che stila giudizi stereotipati di poche righe, ma la presa di responsabilità pubblica da parte di studiosi, scelti per competenza e non a caso, che producono un’ampia, motivata e argomentata decisione su ciò che si valuta, solo allora sarà forse possibile riavvicinare il consenso condiviso della comunità degli studiosi con il processo di avanzamento e riconoscimento dei meriti degli studiosi.

da www.roars.it

"Il 25% delle famiglie soffre il disagio sociale", di Marco Tedeschi

Famiglie italiane sempre più povere e sfiduciate. È questo il ritratto che emerge dall’indagine condotta dall’Istat, dal titolo «Noi, Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo». Secondo l’Istat, nel nostro Paese si può ormai parla di allarme povertà, soprattutto al Sud. Nel 2012 le famiglie in condizioni di povertà relativa sono il 12,7 per cento, pari a oltre 9,5 milioni di individui (15,8 per cento della popolazione). Il Mezzogiorno presenta una situazione particolarmente critica, con in media oltre un quarto di famiglie povere, mentre per il Centro e il Nord,
l`incidenza è viceversa molto più contenuta (rispettivamente 7,1% e 6,2%).

REDDITO
In Italia, nel 2011, più della metà dei nuclei familiari (circa il 58%) ha vissuto con meno di 2.500 euro al mese. Le diseguaglianze del reddito più evidenti si registrano in Campania, mentre la Sicilia primeggia nella poco invidiabile classifica del reddito medio annuo più basso (oltre il 28 per cento in meno del dato medio italiano).
Nell’isola il 50 per cento delle famiglie si colloca al di sotto di 17.804 euro annui (circa 1.484 euro al mese). Salari bassi e poca occupazione hanno fatto aumentare a dismisura la povertà. Secondo l’Istat nel 2012 quasi cinque milioni di persone erano in condizioni di povertà assoluta: si tratta del 6,8% delle famiglie per un totale di oltre 4,8 milioni di individui. Il Sud è in forte svantaggio rispetto al resto dell’Italia, con una percentuale di famiglie povere più che doppia rispetto alla media nazionale.
Incide, in questa situazione, il peso delle tasse: è l’unico indicatore che ci riporta ai livelli dei paesi del Nord Europa, della Svezia ad esempi. La pressione fiscale è infatti salita al 44,1 per cento, 3,6 punti percentuali in più rispetto a quella media Ue.
I dati negativi del Mezzogiorno non sorprendono, se si tiene conto che in regioni quali Calabria e Campania il tasso di disoccupazione, nel 2012, abbia toccato la soglia record del 19,3% contro una media nazionale del 10,7 per cento. E le cose non vanno certo meglio per i giovani del Sud: nel 2012, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile, in aumento per il quinto anno consecutivo, ha raggiunto il 35,3 per cento, con un picco del 49,9 per cento per le donne del Mezzogiorno. Del resto l’economia non va bene e la concorrenza delle nazioni in via di sviluppo si fa sentire.
Negli ultimi dieci anni, la quota di mercato delle esportazioni italiane sul commercio mondiale è diminuita dal 4% del 2003 al 2,7% del 2012, una tendenza comune a molte economie avanzate. Il contributo proviene dal Nord (oltre il 70%), mentre il Mezzogiorno ha una quota molto limitata (11,9%), anche se in crescita nell’ultimo anno. Ma il problema italiano, stando all’indagine dell’Istat, non riguarda soltanto la povertà sempre più diffusa, ma anche le condizioni disagiate in cui si trovano a vivere milioni di ragazzi, il futuro della società italiana. Sono oltre due milioni i giovani 15-29enni (il 23,9 per cento del totale) non inseriti in un percorso scolastico e/o formativo e neppure impegnati in un’attività lavorativa. Si tratta purtroppo di un valore fra i più elevati in tutta Europa. E che l’Italia non aiuti molto lo sviluppo dei giovani risulta chiaro anche dai dati sull’incidenza della spesa in istruzione e formazione sul Pil, pari al 4,2 per
cento, valore ampiamente inferiore a quello dell’Unione europea (5,3 per cento). Nel 2012 era solo il 43,1 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 anni ad aver conseguito la licenza di scuola media come titolo di studio più elevato, anche questo un valore molto distante dalla media europea (25,8 per cento) e superiore solo a quelli di Portogallo, Malta e Spagna.

da L’Unità