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"Napolitano: «Grazie a l'Unità testimone e protagonista della nostra storia»"

Caro Direttore,

In occasione del numero speciale con cui l’Unità festeggia il Novantesimo Anniversario della sua fondazione, intendo unire la mia voce a quella di quanti oggi ricordano la lunga storia del quotidiano da lei diretto. Sono lieto di rendergli omaggio per il contributo offerto alla causa delle istituzioni democratiche, al di là del personale ricordo delle mie collaborazioni, a partire da anni lontani, al dibattito politico sulle pagine de l’Unità.

In questi novant’anni, l’Unità è stata testimone, e spesso anche protagonista, delle vicende che hanno segnato la storia del nostro paese. Fondata da Antonio Gramsci nel pieno della lotta contro l’instaurarsi del regime fascista, essa ha traversato in clandestinità i duri anni della dittatura, rinascendo a nuova vita durante la Resistenza e la guerra di liberazione. Dal 1945 è stata uno strumento importante – malgrado vincoli politici, limiti culturali e fuorvianti schemi ideologici – dell’educazione alla rinnovata democrazia di vaste masse popolari, che ha via via, nei decenni repubblicani, accompagnato in un cammino positivo, seppur segnato da un’aspra dialettica politica e sociale, verso importanti traguardi di crescita economica, progresso sociale e maturazione culturale e ideale.

Per queste ragioni auguro a lei e a tutta la Redazione di riuscire ad affrontare – con sguardo attento e mente limpida – lo sforzo quotidiano di indagare e raccontare la complessa realtà del nostro paese, mentre sono in corso fenomeni profondi di trsformazione e innovazione del mondo dell’informazione. Al contempo, in una fase in cui forte è la crisi della politica e della sua capacità di entrare in contatto con ampie fasce di cittadini, auspico che l’Unità sappia concorrere alla formazione di una rinnovata coscienza civile, e ad una forte rinascita della partecipazione politica.

Con i più cordiali saluti e auguri di buon lavoro

Giorgio Napolitano

da www.unita.it

"L'Unità: c'era una volta il giornale del partito", di Filippo Ceccarelli

Il 12 febbraio del 1924 Gramsci fondava il quotidiano. Dalla guerra alla caduta del Muro alla crisi, il mondo raccontato da sinistra

VISTA, rivista, ricordata e analizzata dalle prime pagine di un quotidiano la storia procede necessariamente a sbalzi sacrificando l’umile quotidianità che pure anticipa e rincorre i grandi eventi illustrati con magnifiche foto e altissimi titoli. L’Unità compie dunque novant’anni.
“Puro e semplice” impose il titolo della testata Antonio Gramsci. Tale è rimasto, con più di 30mila numeri alle spalle, una piccola grande vicenda, la necessità, la cospirazione, la persecuzione, il tempo del ciclostile, la rinascita, il distinto perfezionismo di Togliatti che voleva il giornale “degli operai e dei contadini” ispirato nelle sue forme ai grandi giornali borghesi, la stagione di massa delle feste e della diffusione domenicale, il gran vivaio dei giornalisti che si consideravano “la Marina del Pci”, l’arma più elegante, quasi snob; poi la crisi del partito, la strenua resistenza e il patatrac del suo “organo”, come pure a lungo si diceva senza ridere, quindi le traversie, le peripezie e la lotta per la sopravvivenza.

Sempre più dura, quest’ultima, come se l’antica e impersonale proprietà, pur incarnata nella figura di Amerigo Terenzi, manager pratico e leggendario, finanziere misterioso, eppure sublime esperto d’arte e filosofo di luminoso scetticismo romanesco con quel suo passeggiare al Verano intrattenendo i suoi interlocutori dinanzi all’iscrizione tombale: “Quello che siete fummo/ Quello che siamo sarete”, ecco, è come se l’antica proprietà, una volta venuta meno, si fosse vendicata facendosi surrogare da una girandola di quote azionarie ammattite, residui ciellini, boss della Sanità, cavalieri di ventura, rampanti del meta-berlusconismo in ritirata e della psicologia ascendente e perfino un cane lupo, a nome Gunther.

Comunque fondata da Antonio Gramsci: “E allora i soldi – disse una volta Occhetto, giovialone – fateveli dare da Gramsci”. Sia come sia, mercoledì 12 i lettori troveranno in edicola uno speciale che raccoglie 90 prime pagine dell’Unità, inserto realizzato da Fabio Luppino con articoli di Alfredo Reichlin, Michele Serra, Paolo Di Paolo e una tavola inedita di Sergio Staino. Per ragioni anagrafiche, politiche e quindi anche sentimentali se ne consiglia la visione in compagnia. Forse un modo per attenuare l’ombra del tempo che fugge e insieme provare a riallacciare i fili, le fila e un po’ anche i filamenti della storia.

Non c’è gioia, infatti, in queste pagine e forse nemmeno più quella superba sicurezza che a lungo si avvertiva nel Pci, che come tale possedeva il monopolio della Razionalità. Quella specie di orgogliosa autosufficienza che si avverte risfogliando un opuscolo fotografico di fragile rilegatura – Come vive un giornale (1945-1972) – con Togliatti meticolosissimo in tipografia, le maestranze in canottiera e un teatro con drappi e pubblico incappottato per la cerimonia de “La Befana dell’Unità”. Un mondo a parte, ma più che rispettabile e forse, alla metà degli anni Settanta, indispensabile. Ma oggi?

Non dev’essere stata facile oggi la selezione, e non solo perché il giornale – come tutti, un po’ più di tutti – naviga in cattive acque. È che il comunismo è passato veramente e disperatamente di moda; e seppure l’espressione è orribile ritrovarselo lì, nudo e crudo, fa uno strano effetto; e i ricordi si aggrovigliano, stentano a trovare un senso, ondeggiano nel loro utile e contraddittorio susseguirsi.

Gli anni fondativi, come sempre, assomigliano a un’epopea. A Roma, notte fonda, camionette riportano a casa giovanotti stremati, Ingrao, Alicata, Pintor, Reichlin, Maurizio Ferrara, giornalisti “irruenti e sfacciati”, secondo Ingrao, “come missionari in Congo”, li ricorda Ferrara.

Giornalismo proletario, si diceva. All’edizione di Milano ci sono Renato Mieli e Davide Lajolo, due vite a loro modo fantastiche. Fattorini, segretari, autisti, centralinisti hanno conosciuto il carcere, l’emigrazione, la guerra partigiana. Per i corridoi si aggira “Nuvola”, una misteriosa donnina di origini bulgare dallo sguardo duro e indagatore che pare sia stata l’amante di Dimitrov. Legge, ritaglia e traduce vecchi articoli della Pravda e li consegna complice ai redattori: “Notizie fresche dall’Urss”. A Torino comanda un dirigente arcigno e triste, Mario Montagnana, cognato del Migliore, fissato con l’idea di arruolare come redattori operai veri. Un giorno ne trova uno alle Ferriere che è il più operaio di tutti, ma ha poco tempo di compiacersene perché quello, imparato il mestiere, si trasferisce alla Gazzetta del popolo. Nel frattempo Calvino è inviato sul set di Riso amaro, in redazione arriva Diego Novelli con chitarra che improvvisa una specie di équipe di cantastorie che gira per la città, ma si processa un giornalista che si è comprato delle scarpe di zebù, segno di inopportuno imborghesimento.

Mentre per il Sud e non per caso anche per il mondo femminile – gioie e dolori, fatiche e speranze – vale appena segnalare lo splendido romanzo di Ermanno Rea, Mistero napoletano (Einaudi, 1995), incentrato sul suicidio di una giovane, bellissima e libera, soprattutto, giornalista dell’Unità, Francesca Spada.

Poi, come tutto, anche questa storia continuò avventurosamente, per quarant’anni e più, senza riconoscere che stava avviandosi alla sua temeraria fine. Con musiche, balli e trenini, per dire, nella “festa d’addio del giornalista comunista”, ai margini del congresso di Rimini, nel 1991, dancing “Rio Grande”, Igea Marina. Ma da allora trascinandosi dietro un sentore di tristezza, come solo il vuoto gli dà essenza e colore.

E da Gramsci, passando per Cannavaro che solleva la coppa con le braccia tatuate, l’opuscolo del novantesimo arriva così a un orrido Renzi, ripreso dal basso, a occhio di rana, celebrandone “il trionfo”. Ma nulla al dunque riesce a eguagliare il fascino, tutto gramsciano, di quel titoletto là in basso, quasi invisibile del primo numero. Un dubbio che dice: “Rincuorare o illudere?” – e ognuno gli dia la risposta che può.

Www.repubblica.it

"Lo strampalato complotto di Belpietro & Travaglio", di Claudio Sardo

È stato un giorno di eccitazione ieri per i professionisti del complotto, per coloro che prosperano spacciando come trame occulte ciò che qualunque cittadino può vedere ad occhio nudo. Leggere le invettive congiunte di Maurizio Belpietro e di Marco Travaglio contro Giorgio Napolitano, nel loro mix di tragicità e di comicità involontaria, è istruttivo per comprendere il degrado del nostro dibattito pubblico. Che si è infiammato dopo la «rivelazione» di Alan Friedman sul colloquio riservato del Capo dello Stato con Mario Monti nel giugno del 2011, nonostante questa fosse la non-notizia più clamorosa dell’anno: ogni giornale allora scriveva del professor Monti come del candidato più accreditato alla successione di Berlusconi, nel caso, assai probabile, di un collasso del governo di centrodestra. E la consultazione di Napolitano era banalmente un dovere: sarebbe stato criticabile se non l’avesse fatta. Anzi, diamo un consiglio ai complottisti all’amatriciana: è probabile che Napolitano abbia avuto contatti con Monti anche nell’autunno del 2010, quando si consumò la rottura tra Berlusconi e Fini, e il governo del Cavaliere fu sul punto di cadere la prima volta. Del resto, la Costituzione assegna al Capo dello Stato il compito di indicare il presidente del Consiglio. E i professionisti del complotto farebbero bene a ricordare che un governo, per entrare nelle pienezza dei poteri, ha bisogno della fiducia del Parlamento. Solo chi considera i parlamentari e i leader di partito come bambini immaturi e un po’ scemi può esentarli dalle responsabilità che si assumono con il voto. Se è nato il governo Monti, e poi quello di Letta, il presidente della Repubblica non ha (secondo Costituzione) una responsabilità politica: l’intera responsabilità è di chi ha votato questi governi.
Invece Belpietro scrive su Libero che Napolitano ha ordito una trama indicibile, cercando nientemeno di capire in anticipo se l’eventuale crollo di Berlusconi avesse trascinato con sé la legislatura: «Il Capo dello Stato ha messo la Costituzione sotto i piedi, sottraendo agli italiani il potere di decidere da chi essere guidati». Verrebbe da chiedere a Belpietro: forse nel feroce complotto contro se stesso c’era anche Berlusconi, visto che il suo voto è stato determinante per la nascita del governo Monti. Ma a sostegno del complotto accorre anche Travaglio: il presidente della Repubblica «non ha mai esitato a travolgere le regole costituzionali», «s’è autonominato Badante della Nazione e ha perseguito scientificamente il suo disegno politico a prescindere dal voto degli italiani, e sovente addirittura contro di esso». L’accusa è di aver spinto sempre per le larghe intese, sin da quando il governo Prodi andò in affanno nella legislatura 2006-2008. Ma anche in questo caso tutto è stato trasparente: altro che complotti! Il presidente della Repubblica, nelle tre legislature che ha attraversato, ha sempre cercato di evitare le elezioni anticipate all’indomani dei fallimenti del centrosinistra o del centrodestra. E ha cercato di proporre larghe intese per riformare le regole del gioco prima di un nuovo voto. L’ha detto pubblicamente, ripetutamente. Il teorema di Travaglio è smentito proprio dalle libere scelte del Parlamento. Dopo la caduta di Prodi, né Berlusconi né Casini consentirono un secondo governo di legislatura. Dopo la caduta di Berlusconi, invece l’incaricato di Napolitano (cioè Monti) ottenne la maggioranza. E così Enrico Letta dopo il tentativo di Bersani.
Ovviamente si può criticare ogni singola scelta. Ma si critichino i partiti. Di quale complotto istituzionale straparlano Belpietro e Travaglio? «Appare evidente – sentenzia Belpietro – che si è trattato di un grave attentato agli organi costituzionali di questo Paese… Se questo non è alto tradimento, che cos’altro lo è?». Travaglio, a dire il vero, ha provato qualche imbarazzo nel festeggiare la piena concordia sull’impeachment tra il berlusconismo servile e il grillismo delirante. A un certo punto ha detto in modo grottesco che dei complotti Berlusconi ha anche beneficiato (se no che complotti sarebbero?). Poi, comunque, ha concluso l’editoriale su il Fatto, sostenendo che l’impeachment potrebbe essere «uno strumento persino riduttivo». Purtroppo non c’è limite all’estremismo parolaio. Il dramma è che, confondendo istituzioni e scelte politiche, strumentalizzando la Costituzione, si derubano i cittadini proprio mentre si promette loro un risarcimento.

da L’Unità

#medagliavalorecivile per #oberdan

Giuseppe Oberdan Salvioli ha compiuto un gesto coraggioso e generoso. Un gesto che gli è costato la vita, sacrificata per portare soccorso ai suoi concittadini travolti dall’alluvione del 19-20 gennaio a Bastiglia. Ecco perché è giusto che si attivino le procedure per onorare la sua memoria con il conferimento della medaglia al valore civile.
Credo che tutti coloro che hanno partecipato alle esequie – parenti, amici, conoscenti, cittadini, rappresentanti delle istituzioni – abbiano partecipato ad un comune sentimento: tributare a quell’uomo, divenuto eroe suo malgrado, un riconoscimento pubblico in grado di onorarne la virtù civica. E la medaglia al valore civile è la risposta.
Ritengo che tutti si impegneranno, ciascuno nel proprio ambito, a perseguire questo nobile obiettivo.

Alcuni ragguagli e un riferimento normativo sul conferimento della medaglia al valore civile
La medaglia al valore civile ha come finalità quella di premiare “atti di eccezionale coraggio che manifestano preclara virtù civica e segnalarne gli autori come degni di pubblico onore”.
I destinatari dell’onorificenza sono i cittadini “che abbiano esposto la propria vita a manifesto pericolo per salvare persone esposte ad imminente e grave pericolo; per impedire o diminuire il danno di un grave disastro pubblico o privato; per ristabilire l’ordine pubblico, ove fosse gravemente turbato, e per mantenere forza alla legge; per arrestare o partecipare all’arresto di malfattori; per il progresso della scienza o in genere per il bene dell’umanità; per tenere alti il nome ed il prestigio della Patria. Le ricompense sono concesse anche a reparti militari, Enti o Corpi i cui membri abbiano compiuto collettivamente gli atti di valore di cui sopra”.

Sulle proposte di conferimento della medaglia, esprime “un parere una Commissione, nominata con Decreto Presidenziale su proposta del Ministero dell’Interno, composta da un Prefetto Presidente, un Senatore e un Deputato, due membri designati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, un Ufficiale generale o superiore dell’Arma dei Carabinieri, un componente il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carnegie per gli atti di eroismo. Svolge le funzioni di segretario un Consigliere dell’Amministrazione Civile dell’Interno.”

DPR 6 novembre 1960, n.1616 (1).
Regolamento di esecuzione della legge 2 gennaio 1958, n. 13, contenente
norme per la concessione di ricompense al valor civile

1. L’istruttoria relativa ai fatti che possono dare luogo alla concessione di ricompensa al valor civile viene promossa dal Ministero dell’interno e svolta dai prefetti, con la procedura di cui al seguente art. 2. Per i fatti avvenuti fuori dal territorio dello Stato, la istruttoria è svolta dalla competente autorità consolare.
2.Gli atti di coraggio per i quali può farsi luogo alla concessione di ricompense al valor civile devono risultare da apposita deliberazione di Giunta del Comune, nel cui territorio sono avvenuti i relativi fatti, corredata da attestazioni di eventuali testimoni oculari nonché da un dettagliato rapporto circa i pregi dell’azione svolta. Per gli atti compiuti fuori dal territorio dello Stato non occorre la deliberazione di cui al comma precedente. Dalla suindicata procedura si può prescindere qualora, per le circostanze di tempo e di luogo nelle quali gli atti di coraggio siano stati compiuti o per la qualità delle persone che eventualmente vi abbiano presenziato, i fatti possono ritenersi sufficientemente accertati. Ugualmente non è necessario esperire la suaccennata procedura ove si tratti di Enti, Corpi o appartenenti a Forze armate dello Stato distintisi per atti meritevoli di riconoscimento compiuti collettivamente o singolarmente.
3. Le proposte di conferimento di ricompensa al valor civile o le istanze avanzate direttamente dagli interessati devono essere fatte pervenire al Ministero dell’interno – Direzione generale degli affari generali e del personale – entro il termine perentorio di un anno dal compimento dell’atto di coraggio.

VVFF, Ghizzoni “Il Governo rassicura sul futuro della sede di Carpi”

La parlamentare carpigiana ne ha parlato con il sottosegretario Bocci e Pini del C.N.VVFF

Dal Governo e dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco arrivano rassicurazioni: il piano di revisione del servizio di soccorso dei vigili del fuoco non comporterà alcun depotenziamento della sede carpigiana. La conferma è arrivata alla deputata carpigiana del Pd Manuela Ghizzoni dal sottosegretario dell’Interno Giampiero Bocci e dall’ingegner Alfio Pini. “Da loro ho avuto precise rassicurazioni sull’immediato futuro del distaccamento carpigiano – conferma l’on. Ghizzoni – C’è la piena consapevolezza del ruolo strategico dei nostri vigili del fuoco, al servizio di un ampio bacino di utenza e della vicina Autobrennero, primi a intervenire sia in occasione del terremoto che dell’alluvione”.    

Le preoccupazioni di chi vive e lavora a Carpi e nella Bassa modenese su un possibile depotenziamento della caserma dei vigili del fuoco di Carpi sono già state rappresentate al sottosegretario dell’Interno Giampiero Bocci e all’ingegner Alfio Pini, capo del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco. La deputata carpigiana del Pd Manuela Ghizzoni li ha contattati, dopo che, a livello locale, erano state pubblicate notizie di possibili trasferimenti di personale e di riduzione dei mezzi a disposizione della sede di Carpi. “Ringrazio sia il sottosegretario Bocci che l’ingegner Pini per aver risposto con celerità alle mie sollecitazioni – ha spiegato l’on. Ghizzoni – Da loro ho avuto precise rassicurazioni sull’immediato futuro del distaccamento carpigiano. E’ vero che il Ministero è impegnato in un progetto di revisione del servizio di soccorso dei vigili del fuoco, ma nel riordino, mi è stato garantito, si terrà conto dell’importanza strategica della sede carpigiana”. Il piano prevede anche elementi positivi per il modenese: si prevede, ad esempio, di promuovere il presidio di Vignola che diventerebbe sede permanente dei pompieri. E’ chiaro, però, che questi passi in avanti non possono essere compiuti a detrimento del presidio carpigiano. La parlamentare carpigiana ha ricordato che i vigili del fuoco di Carpi compiono una mole importante di interventi su un ampio bacino territoriale, che non è solo quello attorno alla città, ma si estende a tutta la Bassa modenese. Sono loro che intervengono sulle emergenze che si verificano in autostrada, sull’Autobrennero. Sono ancora loro che, per primi, sono intervenuti in occasione delle due calamità che hanno devastato l’Area nord della nostra provincia nel giro di soli due anni: il terremoto prima e l’alluvione poi. “Possiamo dire che l’allarme è rientrato – conclude Manuela Ghizzoni – sia dal Governo che dal Corpo nazionale arrivano un assoluto impegno e la convinzione forte del ruolo strategico del nostro distaccamento. Nelle prossime settimane, come parlamentari Pd, continueremo comunque a seguire da vicino la realizzazione pratica del piano nazionale”.

ufficio stampa PD Modena

"«La barca è piena», i populismi insidiano l’Europa", di Paolo Soldini

«La barca è piena». Chissà chi la inventò questa metafora che da decenni fa il giro d’Europa. Forse la Cdu tedesca, quando decise che per vincere le elezioni era arrivato il tempo di liberarsi dei tabù del passato che non passa.
O forse la Csu, la ancor più conservatrice sorella bavarese che irresponsabilmente ci ricama sopra ancor oggi. O forse proprio gli svizzeri: quelli del Partito popolare, alias Unione democratica di centro (che non è né democratica né di centro) rifondata sullo scheletro d’un vecchio partitello semirurale da un industriale di Sciaffusa che si chiama Christoph Blocher ed è stato anche ministro federale della Giustizia e della Polizia. I «liberali» austriaci della Fpö che fu di Jörg Heider ed ora è di Heinz-Christian Strache l’hanno fatta propria, mentre il Front National francese e il National Front dei fascisti britannici accarezzano suggestioni più «alte»: Anima, Tradizioni, Foyer, Home. E Popolo, che non manca mai dal tempo in cui i Romantici tedeschi riscoprirono il Volk e – senza saperlo né volerlo, va da sé – ne trasmisero l’idea fino ad Adolf Hitler. La Lega nord italiana ha provato ad essere altrettanto fantasiosa, ma fatica a scrollarsi di dosso il suo imprinting irrimediabilmente provinciale, condito di spadoni, corna (pseudo) celtiche e storia indigerita.
Ecco. A prima vista sembrerebbe che sotto lo sciagurato referendum con cui la metà degli svizzeri più trentamila ha deciso che gli stranieri nel paese di Guglielmo Tell dovranno essere contati e, possibilmente, rimandati a casa loro non ci sia poi granché di nuovo. Tante parti d’Europa non amano gli «altri», i non-svizzeri, i non-tedeschi, i non-francesi, i non-padani, i non-savoiardi, i non-norvegesi, i non-ungheresi. È una novità sconvolgente? Non sapevamo già che il Front National in Francia è primo nei sondaggi? E non predicono gli esperti che i populisti antieuropei prenderanno un sacco di voti alle elezioni di maggio e formeranno forse il terzo gruppo al Parlamento europeo? Cantoni arretrati
Certo che lo sapevamo già. E tuttavia quello che è successo domenica scorsa nella Confederazione rappresenta una novità grossa e inquietante. Per la natura del voto, innanzitutto. I promotori del referendum avevano condotto una campagna molto concreta e terra- terra: gli stranieri sono troppi, tolgono il lavoro agli svizzeri, pesano sul bilancio delle prestazioni sociali nei comuni, intasano le nostre autostrade, riempiono i nostri treni, affollano i nostri tram. E però gli elettori hanno bocciato l’introduzione delle quote proprio dove questi disagi si dovrebbero sentire di più: nelle grandi città come Zurigo, Ginevra, Basilea, Neuchâtel e nei cantoni di più forte immigrazione. A far vincere il blocco agli stranieri sono stati i cantoni tedeschi, quelli meno industrializzati e quelli in cui gli immigrati sono relativamente pochi. Il voto è stato espressione di una arretratezza, un po’ come lo fu, a suo tempo, quello in Italia alla Lega degli esordi. Espressione della paura di perdere ricchezze da poco raggiunte, come nel nostro Nord-est. Il rifiuto degli stranieri è un fatto culturale e ideologico più che una «naturale» reazione a un pericolo reale. La controprova è data dal risultato, in controtendenza, nel Canton Ticino. Una regione prospera, in cui una buona parte della ricchezza locale è data proprio dai frontalieri italiani e dagli industriali lumbàrd che delocalizzano, ma dove è forte l’influenza politico-culturale della Lega ticinese, sorella ed emula della Lega nord italiana. La quale ora pagherà cara la nemesi, come ha capito Maroni che si preoccupa e non ancora Salvini che festeggia.
Proprio il carattere arretrato, regressivo del voto in Svizzera e la soddisfazione con cui, ciononostante, è stato accolto da una consistente platea di partiti di destra, nazionalisti, xenofobi, antieuropei che dispongono di consistenti appoggi popolari nei paesi dell’Unione è ciò che deve preoccupare di più. Gli entusiasmi che si vedono in queste ore mostrano che c’è uno schieramento politico europeo, minoritario ma non irrilevante, che rifiuta non solo le politiche e le istituzioni dell’Europa, ma anche le sue basi ideali e culturali. Non solo l’euro, ma, per esempio, il principio che esiste la libertà di muoversi e di viaggiare: qualcosa che nel secondo dopoguerra nella parte libera del continente nessuno aveva messo in discussione in linea di principio. Rispetto agli anni passati, a quelli precedenti la valanga della crisi, è una novità con cui bisognerebbe cominciare a fare conti seri.
Le reazioni delle istituzioni e delle cancellerie europee sono apparse – è vero – abbastanza consapevoli della natura del problema. Manon pare che lo siano state altrettanto, nel passato, quando hanno scelto politiche economiche e sociali che hanno indubbiamente favorito l’emergere di spinte contro l’Europa così com’è. Sono queste politiche che debbono cambiare.

da L’Unità

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“Immigrati, il rompicapo svizzero”, di Virginia Lori
Allarme Ue dopo il referendum che reintroduce le quote. A rischio le relazioni con Berna, ombre sulle Europee. Merkel: «Problemi considerevoli». Stampa elvetica divisa: «Danno economico»

Il risultato del referendum svizzero sulle quote per i lavoratori immigrati «va in una direzione che non è la più facile in una prospettiva europea». È stato questo il commento dell’alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton al termine del Consiglio dei ministri degli Esteri tenutosi ieri a Bruxelles. «Sia la Commissione che il Consiglio – ha aggiunto – sono al lavoro per vedere come procedere». E assicura che è in corso la discussione con gli interlocutori svizzeri «per individuare i percorsi futuri».
Pare comunque certa una forte reazione dell’Unione europea alla decisione della Svizzera di porre un tetto agli immigrati. Ad una limitazione della libertà di movimento dei cittadini dell’Unione in territorio elvetico potrebbe seguire la revisione di tutti gli accordi esistenti e in discussione tra la Confederazione elvetica e l’Unione europea.
Per domani è in calendario la firma dell’accordo istituzionale Ue-Svizzera per adattare il corpo legislativo elvetico a quello dell’Unione, ma ora quella firma potrebbe essere a rischio. Non sono pochi i dossier aperti tra la Ue e Berna che ora ha tre anni di tempo per dare seguito al risultato del referendum, ma intanto è invitata a fornire chiarimenti. Da Bruxelles si fa notare che il negoziato sui nuovi accordi «parte in salita» e «non sotto i buoni auspici». Non si nasconde il «profondo rammarico» per l’esito del referendum che ha visto sconfitto il governo elvetico e vincente il partito antieuropeo dell’Unione democratica di centro (Udc).
80.000 posti in bilico
«È andato contro il principio – si legge in un comunicato della Commissione Ue – della libera circolazione delle persone fra l’Unione europea e la Federazione elvetica». Un principio «sacro» per l’Unione. «L’iniziativa svizzera avrà delle conseguenze nell’ambito dei rapporti con i Paesi membri» sottolinea il commissario europeo per la Giustizia, Viviane Reding: «La Svizzera non poteva aspettarsi di godere dei benefici del libero scambio con l’Ue, senza accettare la libertà di movimento. O si accettano gli accordi nella loro totalità o si lascia perdere tutto».
Insomma, aver posto i limiti alla libera circolazione per i cittadini comunitari non sarà indolore per la stessa Svizzera. Lo conferma il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. «È difficile – ha spiegato il socialdemocratico tedesco candidato alla carica di presidente della Commissione dal partito socialista europeo – limitare la libera circolazione delle persone e non limitare la libera circolazione dei servizi». «Se la Svizzera non è più in grado di soddisfare le condizioni dell’accordo sulla libera circolazione delle persone – ha osservato – tutti gli altri accordi firmati nel 1999 sono in pericolo, in base a una clausola che li lega insieme».
Reagiscono anche le cancellerie europee. «Il governo tedesco prende atto del risultato e lo rispetta, ma dal nostro punto di vista è chiaro che ciò pone problemi considerevoli» ha commentato il portavoce della cancelliera tedesca Angela Markel, Steffen Seibert. «Le relazioni che legano la Svizzera all’Unione europea apportano grandi vantaggi alle popolazioni delle due parti e la libera circolazione è il cuore di queste relazioni» ha proseguito Seibert. «Il nostro interesse resta quello di mantenere più saldo possibile il legame tra la Svizzera e l’Unione europea». È netto anche il giudizio del ministro degli esteri francese, Fabius che considera l’esito del referendum «una cattiva notizia per l’Europa» che «ora dovrà rivedere i suoi rapporti con la Federazione elvetica». «Ma – aggiunge – è una cattiva notizia anche per la Svizzera che, circondata interamente da paesi dell’Ue, si chiuderà in se stessa penalizzando l’economia». Non va dimenticato, infatti, che l’Ue è il primo partner commerciale della Svizzera e che il clima di incertezza legato all’introduzione delle quote per gli immigrati, secondo gli economisti del Credit Suisse, potrebbe portare ad un taglio di 80mila posti di lavoro in tre anni. Tra i Paesi più coinvolti vi è l’Italia. Esprime forte preoccupazione la responsabile della Farnesina, Emma Bonino. «A Bruxelles – afferma – si stanno valutando anche le eventuali conseguenze sui rapporti di tipo fiscale fra Ue e Svizzera». In ballo vi è il destino degli oltre 60mila «frontalieri» italiani che ogni giorno attraversano il confine elvetico.

da L’Unità

"Scuola, comparare non conviene", di Benedetto Vertecchi

Mentre di continua a discettare sulla posizione modesta (per usare un eufemismo) che le nostre scuole occupano nelle graduatorie messe a punto in base ai risultati delle rilevazioni comparative dell’Ocse, non sembra suscitare altrettanto interesse la ricerca delle ragioni del malessere del sistema educativo. Tutti si affannano a dichiarare la centralità dell’educazione per lo sviluppo del Paese, ma pochi si sforzano di superare interpretazioni di breve momento per individuare le radici di un malfunzionamento sempre più evidente. Accade anche di peggio, e cioè che si pretenda di superare la crisi con annunci sempre meno credibili di innovazioni che starebbero per essere introdotte, senza peraltro mai indicare elementi obiettivi che dovrebbero giustificare un atteggiamento di fiducia. Si direbbe che ormai si sia rinunciato a spiegare le ragioni della crisi e si utilizzino cascami interpretativi presi a prestito da altri settori della vita sociale, o si sfruttino gli aloni positivi associati a elementi di razionalità impliciti nello sviluppo tecnologico, per coprire l’assenza di interpretazioni e progetti originali per lo sviluppo del sistema educativo. Eppure, proprio cercando di capire quali siano gli scenari che nei diversi Paesi caratterizzano l’attuale fase di trasformazione dei sistemi educativi, si potrebbero trarre utili indicazioni circa le direzioni verso cui tendere. Anche se in modo schematico, potremmo separare nelle politiche scolastiche alcuni principali orientamenti. Il primo è quello di Paesi in cui l’analfabetismo continua a costituire una piaga diffusa e nei quali la miseria diffusa, unita a condizioni politiche sfavorevoli, impedisce che si promuova la crescita dei sistemi educativi. Un secondo orientamento è quello di Paesi che hanno effettuato scelte per uscire dalla marginalità delle condizioni postcoloniali e seguire un percorso di sviluppo che riguardi insieme la vita civile e politica, il sistema produttivo e l’educazione. Il terzo orientamento è quello che si manifesta in Paesi tesi a un potenziamento dalle strutture produttive che prescinde dal perseguimento di traguardi ugualmente impegnativi nella vita sociale. Infine, c’è da considerare l’orientamento dei Paesi europei e di quelli che, in altri continenti, si pongono in continuità con la medesima tradizione. Le comparazioni Ocse riguardano soprattutto quest’ultimo orientamento. Sono poste in evidenza le diversità che si manifestano tra un Paese e l’altro, ma le graduatorie sulle quali si richiama l’attenzione indicano, bene che vada, che ci sono Paesi che ottengono risultati migliori di altri, ma non che quei risultati sono da considerare di per sé positivi. Ciò ha favorito l’inserimento in chiave concorrenziale nelle posizioni elevate delle graduatorie del terzo orientamento, presente soprattutto in alcuni Paesi dell’estremo Oriente e, dall’ultima rilevazione (2012), in Cina, o almeno nella provincia presa in considerazione, quella di Shangai. Solo per il prevalere nell’attività dell’Ocse di una logica di globalizzazione si è potuto accettare di comporre in un unico quadro modelli educativi tanto lontani fra loro come sono quelli europei rispetto a quelli di alcuni Paesi che recentemente hanno conosciuto un rapido sviluppo dell’educazione scolastica, come quelli che prima sono stati menzionati. In quei Paesi il livello di competitività alla base del successo scolastico è incomparabile rispetto a quello che si osserva in Europa. Il successo è perseguito ad ogni costo, anche a quello di sacrificare altri aspetti importanti dell’educazione scolastica, sono quelli che si collegano alla socializzazione e allo sviluppo affettivo. Gli esami sono fortemente selettivi, e in conseguenza già a quindici anni (l’età presa in considerazione per le comparazioni Ocse) il percorso educativo appare segnato dagli effetti di una competizione esasperata, non di rado all’origine di un’autodistruttività che contraddice il ruolo dell’educazione, quello di favorire l’adattamento alla vita delle nuove generazioni. Ha senso comparare dati sul successo scolastico che si riferiscono a situazioni così diverse? Ma, anche restando all’interno del quarto orientamento, quello della scuola europea, ci si trova di fronte a differenze che riducono fortemente la capacità delle graduatorie di dar conto della capacità dei sistemi educativi di perseguire determinati intenti. Si passa da sistemi scolastici che si sono progressivamente caratterizzati per la loro capacità di organizzare una parte prevalente del tempo di vita degli adolescenti a sistemi che si limitano ad assicurare un certo numero di lezioni, senza tener conto della necessità di radicare l’apprendimento degli allievi attraverso attività che comportino l’esercizio di un saper fare intelligente. Nelle comparazioni internazionali non sono i nostri allievi che scapitano rispetto ai loro coetanei europei, ma è il nostro sistema scolastico che denuncia l’angustia delle scelte effettuate, sul piano della quantità (orari rachitici di funzionamento) e della qualità, ovvero, in primo luogo, dell’uso delle risorse. Quando si fanno annunci mirabolanti sulle prospettive salvifiche di un’innovazione fondata su soluzioni delle quali nessuno è in grado di dimostrare l’efficacia (e spesso è stato, invece, dimostrato che possono indurre effetti negativi), la comparazione non ha nulla a che fare con le prestazioni degli allievi, ma con le scelte dissennate operate a livello del sistema.

da L’Unità