Latest Posts

"Bando di 15 milioni di euro alle scuole per progetti didattici contro la dispersione", di Andrea Carlino

Punta a rafforzare gli strumenti a disposizione delle istituzioni scolastiche per diminuire il fenomeno degli abbandoni precoci dei percorsi di studio, a ridurre le ripetenze e i debiti formativi

Il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza ha firmato il decreto ministeriale, prot. n. 87, previsto dall’articolo 7 del decreto legge ‘L’Istruzione riparte’ che punta a rafforzare gli strumenti a disposizione delle istituzioni scolastiche per diminuire il fenomeno della dispersione scolastica

Il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, a seguito dell’accordo in Conferenza Unificata, ha firmato il 7 febbraio il decreto ministeriale, prot. n.87, previsto dall’articolo 7 del decreto legge ‘L’Istruzione riparte’ che punta a rafforzare gli strumenti a disposizione delle istituzioni scolastiche per diminuire il fenomeno degli abbandoni precoci dei percorsi di studio, a ridurre le ripetenze e i debiti formativi.
Il programma è finalizzato alla riduzione del numero di abbandoni non formalizzati nel corso dell’anno scolastico e nel passaggio da un anno scolastico all’altro, nonché alla riduzione del numero di ripetenze e debiti formativi nella scuola secondaria di secondo grado (soprattutto nelle discipline fondamentali quali italiano, matematica ed inglese), del numero dei giorni di assenza, del numero di sanzioni disciplinari.
Le scuole potranno presentare la propria candidatura agli Uffici scolastici regionali entro il prossimo 28 febbraio. Il progetto deve indicare le priorità dell’intervento di cui almeno due tra le seguenti:
a) prevenzione del disagio causa di abbandoni scolastici;
b) rafforzamento delle competenze di base;
c) integrazione degli alunni di cittadinanza non italiana.
Lo stesso progetto deve inoltre indicare eventuali partner che collaborano alle azioni previste. Il riparto delle somme assegnate al programma è definito per ambiti regionali, sulla base della popolazione scolastica di ogni regione, corretto dal tasso di dispersione scolastica.
Il finanziamento totale a disposizione è di 15 milioni di euro. Questa la divisione dei fondi per regione:
Abruzzo, 307.410, Basilicata, 139.667, Calabria, 578.551, Campania, 1.847.212, Emilia Romagna 993.611, Friuli Venezia Giulia, 247.721, Lazio, 1.361.781, Liguria 336.583, Lombardia, 2.204.827, Marche, 406.817, Molise, 22.545, Piemonte 1.016.417, Puglia, 1.244.651, Sardegna 492.820, Sicilia, 1.564.807, Toscana, 906.998, Umbria, 199.429, Veneto, 1.128.423.
Le attività didattiche proposte dovranno essere avviate nel corso di questo anno scolastico e proseguire nell’anno scolastico 2014/2015.
Potranno avanzare la candidatura tutti gli istituti comprensivi e le scuole secondarie di secondo grado (queste ultime per azioni rivolte alle classi del biennio iniziale). Apposite commissioni valutatrici selezioneranno i progetti migliori. I progetti saranno selezionati sulla base dell’impatto previsto sugli indicatori del rischio di dispersione scolastica, del grado di innovazione didattica, della trasferibilità delle azioni proposte e della solidità delle partnership. Il Miur, inoltre, ricorda che verrà data particolare a quelle azioni che vedono il coinvolgimento diretto degli enti locali.
I progetti selezionati riceveranno un finanziamento destinato alla realizzazione di percorsi didattici personalizzati e per piccoli gruppi di studenti a rischio abbandono e ad attività integrative rivolte a tutti gli studenti, anche attraverso il prolungamento dell’orario scolastico. Gli Uffici scolastici regionali predisporranno staff di accompagnamento e monitoraggio dell’andamento dei progetti finanziati.

da La Tecnica della Scuola

"Questione morale e austerità. Quel che resta di Enrico", di Jolanda Bufalini

A giugno sono trent’anni che è morto Enrico Berlinguer, significa che una giovane donna di trent’anni, o un giovane uomo, non ha il ricordo fisico della sua presenza. A novembre sono venticinque anni che è crollato il Muro di Berlino. Dunque per una ragazza o un ragazzo appena usciti dalla scuola il mondo diviso in due, la guerra fredda, il comunismo sono un periodo appreso sui libri, piuttosto complicato e difficile da immaginare nelle sue tensioni, nelle sue passioni. Non c’è da stupirsi se alla domanda «Chi era Enrico Berlinguer?» solo il 25% degli intervistati dà la risposta giusta «il capo del Partito comunista italiano» mentre il 30 per cento non sa proprio chi fosse (il 26 non sa, il 4 risponde in modo non pertinente).
Golpe in Cile, Salvador Allende esce dalla Moneda con il mitra in spalla. Gli articoli di Berlinguer sul compromesso storico. Vietnam, grappoli umani appesi ai pattini dell’elicottero militare Usa in fuga da Saigon. Italia, il referendum conquista la legge sul divorzio. Europa, crollano le dittature in Grecia, Spagna, Portogallo. Eurocomunismo, in Italia il più grande partito comunista dell’Occidente conquista il 34,4% dei voti, è a un soffio dalla Dc ma fallisce il sorpasso. I salari agganciati all’inflazione, il diritto allo studio. Governo di unità nazionale, la foto mostra una stretta
di mano fra Berlinguer e Moro. Il terrorismo. Rapimento e morte di Aldo Moro. Tremila morti nel terremoto in Irpinia, la svolta di Berlinguer: questione morale e alternativa democratica.
Le gigantesche trasformazioni del mondo al tempo di Berlinguer scoloriscono per densificarsi a quell’ultimo scorcio, il politico lascia il passo
alla figura morale.
Quali immagini avranno presenti i giovani intervistati dal sondaggio Ixè di Roberto Weber, fra i mille del campione dai 18 ai 64 anni? Berlinguer
nella cerata bianca da velista? Berlinguer in braccio a Roberto Benigni? Berlinguer andava a vela come giocava a calcio e si arrampicava sugli alberi,
senza nessuna spocchia, da ragazzo cresciuto in Sardegna. Una volta, già segretario del più grande partito d’occidente, sparì con il mare grosso
lasciando tutti col fiato sospeso. Dal sondaggio a campione viene fuori una figura atemporale, che difficilmente potrebbe dire qualcosa oggi: per il 38 la sua figura «appartiene al passato» anche se per il 33% «figure come la sua non tramontano ». Alla domanda «di lui cosa resta?» il 20%
risponde «la statura morale», il 32% «il carisma personale», solo il 22% risponde «l’opera politica» mentre per il 26% «non resta nulla di particolare
». La «grande onestà individuale» è di gran lunga il suo merito maggiore (27%) contro il 12% che gli riconosce di «avere posto il tema della corruzione
dei partiti e della politica», il compromesso storico è ricordato come un merito dal 6% del campione, l’8% gli riconosce l’aver resistito alle Br, altrettanti di «avere rotto con l’Unione sovietica », ma sono molti di più (il 12%) quelli che ritengono che «non ruppe abbastanza con l’Unione sovietica».
Sul piano della notorietà la figura di Enrico Berlinguer è superata da quella di Aldo Moro. La fama dello statista Dc appare però legata alla sua
tragica fine, infatti il 47% del campione risponde esattamente «il leader della Democrazia cristiana ucciso dalle Br» contro il 39% degli intervistati
da 18 a 64 anni che ricordano esattamente chi fosse il segretario del Pci. E solo il 32 % ricorda con esattezza chi fosse Bettino Craxi. Anche nel legame affettivo Aldo Moro è il più ricordato (36%) mentre il 23% ricorda «con affetto» Berlinguer che è, comnque, considerato «un grande leader
politico» (43%) e «l’ultimo grande leader comunista» (30%). Interessante che, nella valutazione della sua azione, i più giovani, dai 18 ai 29 anni,
che evidentemente hanno già inforcato gli occhiali della storia, valorizzano il compromesso storico (il 54 % pensa sia la sua azione più efficace). I
vecchi (45-64), al 75% ritengono la «questione morale» la battaglia ancora attuale di Berlinguer contro il 66% dei giovani.
Lo studio Ixè è stato commissionato in occasione della giornata di studi che si svolgerà oggi, dal titolo «Enrico Berlinguer. La serietà della politica
», a Roma, h 10 – 17, Aula dei Gruppi Parlamentari, via di Campo Marzio 78.
La Giornata di studio è promossa da Associazione per il rinnovamento della sinistra, Cespe, Crs, Associazione Berlinguer, Futura Umanità. Il
confronto, presideuto da Aldo Tortorella, sarà intessuto su 5 relazioni: Francesco Barbagallo (Enrico Berlinguer nella storia d’Italia), Laura Boella
(La politica e la vita), Lucio Caracciolo (Il mondo di Berlinguer), Giorgio Lunghini (L’austerità come filosofia sociale), Alberto Melloni (Chiesa e
questione cattolica in alcuni scritti di Enrico Berlinguer).
da L’Unità

"Le bandiere dell'isolamento", di Lucio Caracciolo

IERI in Svizzera, domani in Italia e nel resto d’Europa? Il voto popolare con cui il nostro vicino alpino ha approvato l’idea di contingentare l’immigrazione e di privilegiare la mano d’opera autoctona è un segnale d’allarme per tutti gli europei. È probabile che se analoghe consultazioni si svolgessero nei paesi dell’Unione Europea il risultato sarebbe simile, se non ancora più drammatico (quasi la metà dei votanti elvetici si è comunque espressa contro). Le reazioni a Bruxelles e nelle principali cancellerie europee non riescono a celare lo sconcerto per un risultato che mette a repentaglio i rapporti euro-svizzeri.
Ma apre soprattutto un varco nel quale si infileranno le formazioni xenofobe e protezionistiche in Francia come in Germania, in Gran Bretagna come in Italia.
Già alle imminenti elezioni per il Parlamento europeo potremmo trovarci di fronte al trionfo del riflusso particolaristico, con conseguenze imprevedibili sulla legittimazione delle istituzioni comunitarie. Nulla di straordinario in tempi di declino e d’incertezza. Ma una ragione di più per cercare di decifrare il messaggio svizzero. Di cui occorre tenere a mente almeno tre peculiarità che ci riguardano molto da vicino.
Primo. È stato un voto contro l’establishment. Governo, imprenditori, sindacati e mainstream politico-mediatico avevano invitato il popolo sovrano a respingere l’iniziativa promossa dalla destra radicale impropriamente autodefinita Unione Democratica di Centro. Ma le élite si erano mosse senza troppo compromettersi, fiutando l’aria negativa. L’argomento fin troppo razionale per cui la mano d’opera straniera è imprescindibile per il benessere e lo sviluppo della Confederazione non ha fatto abbastanza presa nella Svizzera profonda. Qui ha prevalso la paura dell’“invasione” straniera che minaccerebbe le radici della convivenza in una piccola ma fiera nazione multiculturale e plurietnica, ancora una volta spaccata lungo il
Röstigraben, la linea di faglia fra Svizzera francofona e germanofona (ma anche italofona), oltre che fra città e campagne. Un problema di costume e di criminalità transnazionale, ma anche di dumping sociale: gli immigrati di modesta qualificazione professionale accettano salari nettamente inferiori a quelli standard, così sconvolgendo il mercato del lavoro locale.
Secondo. Quando i referendum sono fatti non per decidere su una questione specifica — che sia la scelta fra repubblica e monarchia o la costruzione di un parcheggio pubblico — ma per raccogliere e sfruttare un sentimento popolare, senza offrire un preciso sbocco normativo, gli effetti sono imprevedibili. E facilmente manipolabili. I promotori del referendum “contro l’immigrazione di massa” si sono guardati dallo specificare le quote annuali da introdurre come limite all’ingresso di stranieri, richiedenti asilo compresi. Il governo dovrà fissarle entro tre anni. Insomma, gli svizzeri non possono conoscere le conseguenze del loro voto. Esse saranno determinate dopo un dibattito interno tutt’altro che tranquillo, mentre la diplomazia di Berna cercherà di ricucire lo strappo con l’Unione Europea e con i suoi singoli Stati membri. Si potrebbe anche finire con il reintrodurre i controlli alle frontiere fra la Svizzera e i suoi vicini. Nel frattempo, il clima dell’economia locale — investimenti esteri inclusi — sarà indubbiamente offuscato dal braccio di ferro sull’immigrazione.
Terzo. La schiacciante vittoria del “sì” in Ticino (68,2%) è un indicatore dell’italofobia cresciuta oltre Chiasso in questi anni di crisi. Soprattutto per l’“effetto frontalieri”: nel cantone italofono i lavoratori che passano e ripassano in giornata il confine italosvizzero sono aumentati dell’80% in dieci anni. Ad essi vanno sommati gli oltre 53 mila residenti italiani, su un totale di 341 mila ticinesi, in un cantone nel quale i residenti stranieri sono ormai il 26,7% della popolazione. Dumping a parte, persino i più compassati media svizzeri parlano di “turismo criminale”, che accentua il senso d’isolamento dei ticinesi: trascurati da Berna e minacciati dal vicino meridionale. Dunque gli episodi di intolleranza e di xenofobia contro gli italiani si concentrano paradossalmente alla nostra frontiera. Sono invece assai più rari a Zurigo, a Ginevra o a Basilea. Mentre il negoziato fra Roma e Berna sui capitali italiani impropriamente detenuti da banche svizzere segna il passo, c’è da temere per il complesso delle relazioni con un paese che rappresenta il quarto mercato di sbocco del made in Italy, più importante di Cina e Russia messe insieme.
Il tempo non lavora per chi vuole frenare la tendenza alla chiusura reciproca fra europei, che siano o meno parte dell’Ue. In assenza di un chiaro e condiviso progetto europeo, è prevedibile che nei prossimi anni la bandiera dell’Europa — capro espiatorio della crisi — sarà sventolata come un drappo rosso da avventurieri e opportunisti eccitare le fobie e i nazionalismi esclusivi. E così disintegrare quel poco o molto di comune che siamo riusciti a ricostruire sulle macerie di due guerre mondiali. Nessuno potrà dire di non averlo saputo.

da la Repubblica

******

“Il frontaliere alle porte che spaventa la Svizzera”, di Piero Colaprico

SONO le auto e la fretta degli italiani, che vanno e vengono tra i saliscendi del ricco paese di Mendrisio, a raccontare che cos’era e cos’è il loro lavoro. E sono anche i soldi che si mettono in tasca: «Mi spiace, ma la direzione non ci autorizza ad esprimere la nostra opinione sul referendum», rispondono in tanti, quando si cerca di capire meglio le possibili tensioni, e forse le paure, dopo il voto del referendum di domenica, che “chiude” agli immigrati la possibilità di libera circolazione. Persino alla pompa di benzina, dove si fa il pieno prima di tornare a casa, perché costa meno che in Lombardia, la bionda alla cassa ripete il mantra del «Mi spiace, non sono autorizzata».
Approfittando di un cancello aperto, entriamo nel grande garage sotterraneo della Consitex, gruppo Zegna. Ci sono decine e decine di auto, non da ricco, ordinate in file. Occhio alle targhe. Moltissime sono di Como, Varese. Le auto svizzere? Poche, una goccia nel mare di lamiere: sono le più vicine all’ingresso dell’azienda. Non è scritto da nessuna parte che gli svizzeri godano di maggiori comodità, ma nei fatti va in questo modo, e non solo qui, fabbrica per fabbrica, cantiere per cantiere. Dappertutto funziona così, a due velocità, in questo Canton Ticino, dove ogni giorno entrano ed escono passando dalle frontiere 60mila persone, i “frontalieri”: un mondo di lavoratori italiani in prestito alla Svizzera, ma non amalgamati alla Svizzera. Lo mostra alla perfezione l’ora del cambio turno. Sono le 14 e basta mettersi davanti alla Adaxis: la strada è stretta, ecco sette auto che escono in rapida successione dal parking e altre cinque che aspettano per entrare. Tutte targhe italiane: chi ha finito fugge verso casa, e chi arriva conquista il suo posto nell’ampio spiazzo. Fine turno anche alla fabbrica dell’oro, protetta da muraglioni e filo spinato: le giovani donne italiane in fila sul marciapiede accelerano il passo, comincia a nevicare. E là, alla fabbrica degli orologi, o forse a quella dei medicinali — sono stabili modernamente somiglianti — si scorgono dalla strada altre ragazze, una accanto all’altra, chine sulle postazioni di lavoro, a ripetere gli stessi rapidi movimenti. Gli oltranzisti, anni fa, hanno descritto gli italiani in un manifesto come «ratti famelici ». A vederli dalla strada, così da vicino, e lo si scrive con rispetto, al massimo possono ricordare i topolini: timorosi di un gatto che forse tanto immaginario non è.
Più d’uno, raccontandoci come stanno davvero le cose, chiederà l’anonimato. Lo fa anche il capo di un’intera famiglia di immigrati quotidiani, come se fossimo in un territorio, se non pericoloso, decisamente agguerrito: «Gli Svizzeri — dice, facendo sentire la “S” maiuscola — possono licenziarti da un giorno all’altro, senza motivo, e non si capisce mai cosa può dargli fastidio. Sono qui da 25 anni, ma preferisco non essere citato». Il suo suggerimento è di entrare alla “Fox town”, un centro commerciale, che con i suoi colori e le sue luci rompe le architetture da geometra infelice del resto del paese. Tre chilometri di vetrine su tre piani, marchi prestigiosi come Prada, Valentino, Missoni, Gucci, boutique, negozi per la casa, sette tra bar e ristoranti. Finalmente, qui l’esercito dei topolini è più conscio della sua forza: «Noi frontalieri qui saremo l’80%, senza di noi qui si chiudono tutte le saracinesche, e anzi dovunque a Mendrisio si chiude senza di noi, non hai visto quante auto italiane? ». E voi dove parcheggiate, nel sotterraneo? «No, è per i clienti. Noi dobbiamo parcheggiare oltre il ponte…».
Se Mendrisio per gli svizzeri è un bel paese, per gli italiani è una gigantesca fabbrica. E se queste ragazze e ragazzi, questi papà, questi lavoratori tacciono rispettando ogni imposizione, è soprattutto per una ragione concreta, anche se non evidente. Farsi dire quanto guadagnano è un’impresa, ma alla fine, dai e dai, uno accetta di dirlo: «Ci sono tante fasce salariali, da chi ha il tempo pieno al part-time, ma lo stipendio medio lordo qui è sui 2.900 euro al mese. Ognuno di noi, quindi, se ne mette in tasca ben più di 2mila. Per fare il commesso a Milano è vero che si prendono 700 euro, spesso in nero? Sono tre volte tanto. Non dirlo in giro, se no arrivano tutti qui».
Si può guadagnare il triplo, va bene: ma se il referendum in sostanza dice no allo straniero, questo “surplus” non potrebbe finire nel modo peggiore? «Ci hanno detto che se problemi ci saranno, non saranno per noi che siamo già qui». È questa la risposta di una giovane donna, elegante commessa di un marchio prestigioso, con un sorriso educato: l’implicita conferma che a qualunque latitudine chi «è già qui» si autoconvince, e s’illude, che i guai capitino sempre agli altri, a chi «verrà dopo».
Questa chiave d’accesso monetaria (valutaria) verrà confermata al cronista dovunque. «Faccio il part-time e guadagno come se in Italia lavorassi a tempo pieno», dice la concierge di un hotel. E un tecnico super-specializzato aggiunge: «Prendo, più o meno, il doppio di quanto prende in Italia uno con le mie mansioni. Prendo bene, via». Il meccanismo, però, s’è inceppato? «La verità è che questi stipendi, così allettanti per gli italiani, erano bassi per gli svizzeri. Qui un disoccupato cronico riceve 2mila euro al mese. Sempre qui uno svizzero doc che perde il lavoro, e certamente non accetta di fare tutti i lavori, specie quelli manuali, viene mantenuto dalla collettività per due anni — ci raccontano — con uno stipendio pari all’80% dell’ultima busta paga. Insomma, non è che tutti gli svizzeri si sbattano…». Questo fortunato relax alla ticinese viene ignorato dai partiti più di destra, dai populisti, ma il fatto è che «adesso girano ragazzi italiani, anche laureati, non più del Nord, ma di ogni angolo d’Italia. Vengono a Lugano con un pacco di curriculum alto così – spiega un imprenditore locale – e girano le agenzie interinali, o i bar e ristoranti, chiedono, s’informano, restano. Magari qui in un call center guadagni anche 20 euro all’ora».
Nella grande complessità di valori in gioco questo referendum, passato con il 50,3% dei consensi, è dunque, come dicono molte associazioni di frontalieri, un triste e crudele «ritorno nel passato»? Oppure nasconde altro? Lo si saprà forse a maggio. Perché un altro referendum è alle porte. L’ha proposto, tra gli altri, il sindacato Unia. Premessa: in Svizzera i contratti collettivi non sono affatto la norma, qui vale spesso il principio “arrangez- vous”, il “fate voi”, azienda per azienda, e non c’è un minimo salario. Sergio Aureli, 38 anni, uno dei responsabili e futuro candidato pd alle europee, la spiega così: «Abbiamo raccolto le firme, è tutto ok, e il 18 maggio, domenica, chiederemo agli svizzeri se accettano o no di imporre per tutti i lavoratori uno stipendio minimo garantito. L’abbiamo pensato di 4mila franchi, 3.200 euro lordi al mese. Questo per noi è l’unico modo per favorire la concorrenza leale, quella che si basa sulla qualità della manodopera, o no?».
Il fiorire di proposte popolari — dai minareti al tetto dello stipendio dei manager — colpisce e sembra sottolineare uno stile, o un’esigenza. Come se, forti delle banche e dei referendum, gli svizzeri, “nel loro piccolo”, volessero mostrare i muscoli. E dettare alla grande e malferma Europa qualche tema cruciale, anche se difficile da digerire.

"La politica della paranoia", di Massimo Giannini

C’È UN tratto di surrealismo pynchoniano, nella sindrome da complotto che accompagna da vent’anni le avventure di Berlusconi. Una paranoia che ricorda «L’incanto del lotto 49», le manie ossessive di «Oedipa Mass», le trame oscure ordite dal «Tristero ». Ogni disfatta del Cavaliere si spiega secondo la teoria del nemico esterno. Tutti complottano contro di lui, le toghe rosse, i mercati finanziari, le cancellerie europee. E naturalmente Giorgio Napolitano, «regista occulto » del ribaltone che nel novembre 2011 portò Mario Monti alla guida del governo.
Tra tutti i teoremi complottistici che ingombrano la mente del Cavaliere, quello che riguarda il presidente della Repubblica
è, al tempo stesso, il più ridicolo e il più drammatico. È il teorema più ridicolo, perché le «clamorose rivelazioni» raccontate da Alan Friedman nel suo libro sono note da tre anni a qualunque italiano medio che abbia letto un giornale. Nell’estate 2011 il governo Berlusconi è già alla frutta e la maggioranza che lo sostiene è già in frantumi. La caduta sembra imminente, già allora. Che in quella fase Monti sia uno dei possibili candidati alla premiership, contattato da numerosi esponenti dell’establishment politico ed economico, e che il Professore sia uno dei successori che lo stesso Berlusconi già allora teme di più, lo scrivono i quotidiani. Solo «Repubblica», in ben due occasioni: il 4 e l’8 agosto, in altrettanti retroscena. Pochi giorni dopo, al cronistacheglichiedese«èprontoadaccettare una chiamata in caso di emergenza per l’economia italiana», lo stesso Monti replica testualmente: «L’emergenza spero venga presto superata, di chiamata spero proprio che non ci sia bisogno. Se avessi sentito imperativa dentro di me la vocazione di far parte di governi, avrei risposto di sì alla richiesta del centro sinistra, della Lega e del Presidente Scalfaro dopo il ribaltone di fine ‘94… Allostessomodohorifiutatol’offertadello stesso Berlusconi di fare il ministro degli Esteri nel 2001 e di sostituire Tremonti all’economia nel 2004». Queste parole
Monti le pronuncia l’8 agosto, e non in confessionale, ma al Tg5 di proprietà della casata di Arcore.
Dunque di cosa parliamo? Quale «svolta»sinasconde,neicolloquichein quei giorni Monti intrattiene con Prodi e con De Benedetti, per chiedere consiglio sulla prospettiva di una discesa in campo? E quale patetico «attentato alla costituzione» si configura, nell’incontro che lo stesso Monti intrattiene con il Capo dello Stato, fortemente preoccupatoperlafragilitàdelgoverno del Cavaliere e giustamente interessato a capire la disponibilità del Professore a un eventuale esecutivo di «salute pubblica»? È fin troppo facile, per il presidente della Repubblica, ricordare ora nella sua lettera il contesto nel quale matura quell’incontro. C’è un’evidente emergenza politica: dallo strappo di Fini (che fonda Fli ed esce dalla maggioranza), alla faida tra ministri (che vede proprio Renato Brunetta, oggi fervido assertore della tesi complottarda, chiedere a più riprese la testa del nemico Giulio Tremonti). C’è un’incombente emergenza economica: lo spread non viaggia ancora verso quota 500 (come avverrà a novembre) ma tra giugno e luglio la Legge di stabilità è un Vietnam, viene scritta e riscritta due volte su ordine della Ue, e il 5 agosto la Bce manda al Tesoro la famosa «lettera di messa in mora».
Non è abbastanza per immaginare che quell’armoniosa Costa Concordia si stia per schiantare sugli scogli, tanto più che il suo Comandante Schettino è già penosamente svillaneggiato agli occhi del mondo per i suoi processi, le suecomparsateaCasoriaalcompleanno di Noemi Letizia, le sue cene eleganti con la D’Addario e le sue telefonate in questura per Ruby Rubacuori? Non è abbastanza per indurre il Capo dello Stato-rappresentantedell’unitànazionale a usare i poteri formali che la Costituzione gli attribuisce e gli strumenti informalichelaprassicostituzionalegli assegna, per immaginare una qualche «exit strategy» in caso di caduta del governo? Farideresoloilpensiero,cheper tutto questo i falchi di Palazzo Grazioli, usciti improvvisamente dalle gabbie, partanoall’attaccodelQuirinaleesiassocino addirittura all’accusa di «alto tradimento» del Movimento 5Stelle. C’è poco da stupirsi: berlusconiani e grillini sono due radici dello stesso albero. Da sempre i populismi crescono nutrendosi della stessa linfa. Ma al di là del ridicolo, c’è un lato drammatico che colpisce,nelteoremacomplottisticocostruito intornoalColle.Perché,oggi,Forza Italia ricade nella sua rancorosa mania dellacospirazione,eriportal’attacco al cuore delle istituzioni? Perché, oggi, Berlusconi lascia che si gettino ombre così meschine sulla più alta carica dello Stato, proprio mentre su un altro piano fingedierigersia«padrecostituente»delle riforme insieme a Matteo Renzi? Qui è racchiusoildrammadellafase.Sequesta offensiva berlusconiana è frutto di un calcolo politico, oltre che della «patafisica » del complotto, questo può voler dire solo una cosa. Il Cavaliere si accinge a rompere il patto sulla legge elettorale e a buttare al macero l’Italicum, alla faccia del profilo da «statista» che ha finto in questi giorni. E se fa questo è perché al «quizzone» sul destino della legislatura proposto dal leader del Pd (Letta-bis, staffetta premier-sindaco, elezioni) ha giàfattolasuascommessa.Oall’opposizione diungovernoRenzi,oallacompetizione nel voto anticipato. In tutti e due i casi,ilCavalieretornaafarequellochegli è sempre riuscito meglio: gioca allo sfascio. E lancia una minaccia preventiva a Napolitano: niente scherzi alla Scalfaro, niente «congiure di palazzo».
Una lezione utile per Renzi, sempre più tentato dalla scorciatoia che porta a Palazzo Chigi senza passare per le urne. Andare al governo con Alfano sarebbe un azzardo numerico: non fai le grandi riforme di sistema con la manciata di voti che al Senato ti garantiscono Pd, Ncd e Scelta Civica. Andare al governo con Berlusconi sarebbe un assurdo politico: non entri nella stanza dei bottoni con la messe di voti di una destra impresentabile, dopo aver giurato che vuoi farci un patto sulla legge elettorale oggi per non doverci più fare le Larghe Intese domani.

da la Repubblica

"Attacco al Colle: Forza Italia contro M5S nella competition anti-Palazzo", di Francesco Maesano

Le ragioni dell’attacco sferrato al Quirinale dal partito di Berlusconi sono almeno due: l’operazione di maquillage del Cavaliere e la competizione con i Cinquestelle

Debutta così la strana alleanza. Ieri Forza Italia ha messo la freccia e superato il M5S nel livore dello scontro con il Quirinale. L’innesco per le polemiche l’hanno dato le ricostruzioni di Alan Friedman comparse ieri sul Corriere della Sera nelle quali si spiega che Mario Monti era stato contattato dal presidente della repubblica per verificare la sua disponibilità ad accettare l’incarico di formare un nuovo governo già nell’estate del 2011, quattro mesi prima dell’arrivo del professore della Bocconi a palazzo Chigi.
I Cinquestelle hanno messo agli atti le anticipazioni del Corriere e hanno chiesto un rinvio del voto di archiviazione “per manifesta infondatezza”. La capigruppo della camera si è riunita per decidere solo ieri in tarda serata. «Non siamo assolutamente dell’idea di chiudere la discussione affrettatamente – spiegava ieri Lucio Malan di Forza Italia dando man forte al M5S –quando si è in presenza di un elemento nuovo, molto importante che sarà completamente leggibile mercoledì».
Il Quirinale ha risposto con una lettera indirizzata al quotidiano di via Solferino nella quale ha ribadito che «i veri fatti – l’espressione è sottolineata nel documento originale inviato al direttore De Bortoli – i soli della storia reale del paese nel 2011, sono noti e incontrovertibili. Ed essi si riassumono in un sempre più evidente logoramento della maggioranza di governo uscita vincente dalle elezioni del 2008».
Il premier Letta si è detto «stupito dalla contemporaneità di queste insinuazioni con il tentativo in corso da tempo da parte del M5S di delegittimare il ruolo di garanzia della presidenza della repubblica», mentre il segretario Pd Renzi ha inviato al Colle «l’affettuosa solidarietà delle democratiche e dei democratici».
Le ragioni dell’attacco sferrato al Quirinale dal partito di Berlusconi sono almeno due. Una, più evidente, legata al tentativo di maquillage dell’immagine del Cavaliere che dalle rivelazioni del Corriere cerca di isolare il dato per lui più interessante, quell’anticipazione temporale che, secondo lui, conferma la tesi del complotto ordito dalla potenze europee ai danni del suo ultimo governo.
L’altra, più elettorale, che si spiega con la competizione tra Forza Italia e Cinquestelle (ieri dati testa a testa nei sondaggi) per accaparrarsi quel voto animato da un generico sentimento anti-palazzo che poco distingue tra lo scenario di un complotto e le legittime prerogative della presidenza della repubblica. Ieri mattina da Forza Italia era partita addirittura l’ipotesi di aggiungersi alla richiesta di impeachment del M5S, ma Berlusconi non pare intenzionato a compromettere la tela delle riforme per come l’ha intessuta al Nazareno con il segretario Pd. L’Italicum piace al Cavaliere. Altamente improbabile che decida di compromettere gli equilibri che ne sorreggono il cammino parlamentare sostenendo apertamente un’iniziativa velleitaria come la messa in stato d’accusa.

da www.europaquotidiano.it

"I poteri del Quirinale come moderatore e intermediario", di Marzio Breda

Il ruolo riconosciuto al presidente da una sentenza della Consulta

Riassume quello che è stato un annus horribilis, sul quale gli pare sia calata un’amnesia. Ricorda il «tormentato» 2011, facendone un parziale indice, per dimostrare che alcune interpretazioni politiche «in termini di complotto» sulla genesi del governo Monti «sono solo fumo». Una puntualizzazione strutturata con l’intento di risvegliare la memoria, quella di Giorgio Napolitano. E che ha uno snodo, forse non a tutti chiaro, nella citazione della sentenza emessa dalla Corte costituzionale «n.1 del 2013», con cui fu sciolto (a suo favore) il conflitto con la Procura di Palermo sulle intercettazioni. Certo, è soltanto un inciso, ma sottintende un punto cruciale del pronunciamento, là dove le prerogative del presidente della Repubblica sono sintetizzate come un «potere moderatore e intermediario».
Che significa? Può sembrare pedanteria evocarlo, ma la formula mutua il pensiero di quello scienziato della politica che fu Benjamin Constant. Le sue teorie (l’opposto della lettura schmittiana del potere del capo dello Stato come autoritario e di «ultima istanza») accreditavano i princìpi di un potere neutro, protettivo, di equilibrio e limitazione degli eccessi degli altri poteri: un potere che può e deve dispiegarsi come un elemento di coesione. Un’idea che, applicata all’Italia di ieri, per Napolitano si è tradotta nell’urgenza di individuare soluzioni positive nel caso che il Paese, anzi, sistema, crollasse sotto il peso di una crisi sempre più grave, così da evitare l’extrema ratio dello scioglimento delle Camere. Soluzioni le cui responsabilità, comunque, ricadono sempre sul Parlamento e non su «capricci» del Quirinale.
Ecco lo schema nel quale andrebbero inquadrati i «contatti» avuti dal presidente e che fanno appunto parte del potere «moderatore e intermediario» segnalato dalla Consulta. Incontri, sondaggi e ogni altro tipo di attività informali connesse al proprio ruolo, sulle quali è implicita la raccomandazione al riserbo. O meglio, stando alle parole di Napolitano, una «riservatezza assoluta», come la correttezza istituzionale vorrebbe. Così, nella vicenda che ha coinvolto Mario Monti (e, di riflesso, i suoi confidenti) la spiegazione appare piana, al presidente. Tale che non dovrebbe servire alcuna «operazione verità». Era in corso una crisi politica cominciata fin dall’aprile del 2010, nel giorno del traumatico «che fai mi cacci?» pronunciato da Fini al cospetto di Berlusconi e che aprì una scissione nel più grosso partito della maggioranza. Il logoramento del governo cominciò allora e fu seguìto da altre vicende complesse, non tutte elencate nella missiva del capo dello Stato. Basti pensare alle prove di forza su Brancher e Cosentino, sfociate nelle loro dimissioni, prima di proiettarsi nel fatidico 2011. Quando alla crisi politica si sovrappose una pesantissima crisi economica e l’Italia finì sotto l’assedio dei mercati e lo spread s’impennò a quota 550, con l’evidente impotenza di Palazzo Chigi. La cui autorità, va detto ancora, sembrava diroccarsi anche per i continui scontri tra il ministro Tremonti e l’economista del Pdl Brunetta.
Erano in parecchi, già da mesi e non solo nel mondo politico, a vedere in Monti una «risorsa» da chiamare in servizio nell’ipotesi che Berlusconi si arrendesse. Del resto, che il Cavaliere fosse in estremo affanno per le pressioni dell’Europa sui nostri conti, lo provano le sue reazioni (non negative) alla lettera-ultimatum di Trichet e Draghi: non a caso stese un piano d’interventi che era conforme a quella lettera. Questi sono i fatti indicati da Napolitano, culminati nell’impegno del premier a chiudere la legge di stabilità, prima di cedere le armi.È così illogico che, in quello scenario, abbia valutato con persone di propria fiducia qualche prospettiva per far uscire il Paese dal guado? È così strano, riflettono al Quirinale, che abbia sentito l’esigenza di saggiare la praticabilità di un’alternativa al voto?

da il Corriere della Sera

"L'emergenza dimenticata", di Massimo Franco

L’idea che di fronte a una situazione in bilico un capo dello Stato sondi la possibilità di governi alternativi non deve scandalizzare, ma paradossalmente rassicurare. E il fatto che Mario Monti fu contattato per Palazzo Chigi anche quando al Quirinale c’era Carlo Azeglio Ciampi, quindi prima di Giorgio Napolitano, rappresenta una conferma: che l’Italia da tempo aveva coalizioni scelte a furor di popolo, eppure in costante affanno e incapaci di rispettare gli impegni presi con l’elettorato e l’Unione Europea; e che, agli occhi delle istituzioni italiane e continentali, a torto o a ragione, Monti era visto come una garanzia per arginare la speculazione finanziaria all’attacco del Paese.
Sulla parentesi successiva del Professore che ha voluto far politica è meglio non addentrarsi. Bisognerebbe invece tornare ai mesi un po’ lunari nei quali esisteva un governo guidato da Silvio Berlusconi, che la comunità internazionale non riteneva credibile. Tra l’altro, a quei tempi la Lega era in rotta di collisione sulla riforma delle pensioni. La maggioranza parlamentare si reggeva in piedi con la colla di pochi voti raccattati qui e là. E, soprattutto, con i mercati in ebollizione l’esposizione debitoria stava avvicinando rapidamente l’Italia al collasso.
Senza tenere a mente questo sfondo non è possibile analizzare le mosse di Napolitano di allora; e forse neanche le più recenti. La tesi, cara a una parte del centrodestra e, di colpo, a una filiera trasversale di avversari del Quirinale, secondo la quale quel governo fu vittima di un complotto, è comprensibile: permette di scaricare all’esterno le convulsioni e l’epilogo di una fase da dimenticare. Ma suona piuttosto singolare: anche perché, se ci fosse stata congiura, Berlusconi non l’avrebbe consentita. Rileggere in modo strumentale alcuni episodi avvenuti in quei mesi non basta a restituire credibilità al complotto; né a mettere sotto tiro il presidente della Repubblica .
Le reazioni dimostrano piuttosto l’avvelenamento delle relazioni politiche; l’incapacità, da parte di molti, di leggere con lenti oggettive quanto è accaduto; e la tendenza sempre più diffusa a usare il Quirinale come parafulmine di vicende nelle quali ha svolto un ruolo obbligato. Altrimenti, non si spiega nemmeno perché sia stato Berlusconi il primo a chiedere al capo dello Stato di ricandidarsi di fronte a un Parlamento lacerato: nel 2013, e cioè due anni dopo il presunto «complotto» che si cerca implicitamente di accreditare.
Non si può escludere nemmeno che l’obiettivo sia proprio il secondo settennato al Quirinale: magari sfruttando la richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, avanzata dal movimento di Beppe Grillo. Ma per il momento, l’unico vero «golpe» sembra essere quello involontario di una politica alla ricerca eterna di scorciatoie e scaricabarile. Il rischio non è che un presidente della Repubblica pensi a come rimediare agli errori e ai limiti di un governo. Il vero pericolo è che anche questa possibilità si esaurisca, e il «dopo» sia disegnato e deciso direttamente dagli esponenti di un potere sovranazionale dal quale, piaccia o no, l’Italia non può prescindere.

da Il Corriere della Sera