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"Lo stallo che non si può accettare", di Federico Geremicca

Paese affascinante, l’Italia, capace di discutere per un’intera giornata – mentre il governo pare a un niente dal collasso e il quadro politico va sfarinandosi come fosse una meringa – di storia o addirittura di preistoria: e cioè se sia stato corretto (o non si tratti invece di «golpe») il fatto che il Capo dello Stato abbia sondato e parlato con Mario Monti nel giugno del 2011 piuttosto che nell’autunno, quando poi lo incaricò di formare il suo governo.

Intendiamoci: la discussione, a suo modo, non è oziosa. Ma è stata inevitabilmente spazzata via – in serata – da eventi più attuali, diciamo così: e che paiono preludere ad un nuovo e temuto precipitare della situazione.

Il primo e più importante degli eventi, ieri, è stato l’ultimo in ordine temporale: il lungo, lunghissimo incontro tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi, convocato al Quirinale affinché chiarisse – definitivamente – quel che intende davvero fare.

Infatti, tre opzioni – tre modelli diversi – per la legge elettorale da varare, si potevano ancora accettare; tre ipotesi per il prosieguo o addirittura la fine della legislatura, invece no. Non foss’altro perché a proporle al dibattito politico è il leader del maggior partito di governo.

Che piuttosto che chiedere ad alleati ed avversari cosa intendano fare, dovrebbe (deve) spiegare lui quale crede sia la rotta da seguire.

Magari tra qualche anno anche questo incontro finirà nell’oscura collezione dei «gialli politici» italiani: Napolitano convocò Renzi nell’inverno del 2014 per fare la festa al governo di Enrico Letta… Ma diciamo subito che è valsa la pena correre questo rischio: perché rischio senz’altro maggiore è l’ormai sfiancante gioco a rimpiattino che vede protagonisti il segretario del Partito democratico – e anche, ma in subordine, sindaco di Firenze – e il Presidente del Consiglio – e anche, ma in subordine, vicesegretario uscente del Pd – (e gli incisi servono a elencare gli incarichi in ordine di importanza e, dunque, le rispettive responsabilità).

Le posizioni dei due «alfieri democratici» sono ormai sufficientemente note: Enrico Letta è attestato sull’antico e comprensibile «resistere, resistere, resistere»; Matteo Renzi lo accerchia, lo assedia, lo stringe ma sa che non può scatenare l’assalto capace di abbattere quella resistenza. E dunque «che fai, mi cacci?» sembra dire il premier, evocando un interrogativo diventato un cult; e «molla, se non ce la fai», ripete invece il segretario da settimane, con una cantilena provocatoria e ormai assordante. Il problema è che si potrebbe andare avanti così per mesi: peccato sia un lusso che il Paese non può permettersi.

Enrico Letta non intende mollare perché ha chiaro che dimettersi equivarrebbe ad una disfatta dalla quale sarebbe difficile riprendersi: attende la scena spettacolare (e improbabile) del suo partito che lo sfiducia nelle aule del Parlamento e lamenta le voci messe in giro ad arte circa sue imminenti dimissioni. Ma anche Matteo Renzi non intende arretrare (verbo che, come la parola rimpasto, gli procura bolle e allergie…) perché il passo indietro rappresenterebbe un vulnus alla sua immagine di schiacciasassi e lo esporrebbe ad una lunga quarantena capace di fiaccarlo e logorarlo. E così, stando alle tre opzioni proposte dal leader Pd (Letta-bis, elezioni o governo Renzi) potremmo dire che il premier prende in considerazione solo la prima e il segretario solo la seconda e la terza…

La situazione parrebbe dunque di stallo: ma è proprio lo stallo ciò che il Paese oggi non può accettare. Lentamente, un po’ per la forza delle cose e un po’ per paura che la paralisi possa precipitare in elezioni anticipate, la maggioranza del Pd e buona parte degli alleati di governo sembrano convincersi che un cambio di mano – una «staffetta» – sarebbe forse la cosa migliore. Chi ancora non pare convinto di questa via, però, è il Capo dello Stato: ed è uno scetticismo non da poco.

Napolitano continua a pensare – e a Renzi lo ha ripetuto ancora ieri – che la cosa migliore sia assicurare al Paese stabilità di governo (con Letta) e al sistema politico le riforme sulle quali Renzi si è impegnato col massimo delle energie. Non resta che pazientare e attendere sviluppi. Pronti a leggere, tra qualche anno, dell’inverno nel quale Giorgio Napolitano dimissionò Letta rendendosi protagonista del suo secondo o terzo golpe…

da www.lastampa.it

"Era l’estate 2011 e Grillo chiedeva a Napolitano di sostituire Berlusconi", da www.europaquotidiano.it

Oggi il Movimento 5 Stelle attacca il presidente della repubblica e ne chiede la messa in stato d’accusa anche (e oggi soprattutto) per il ruolo svolto nella nascita del governo Monti. Eppure in quell’estate del 2011 era proprio il diarca genovese del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, a chiedere a Napolitano di intervenire in una lettera pubblicata sul suo blog il 30 luglio 2011. Eccola:
«Spettabile presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quasi tutto ci divide, tranne il fatto di essere italiani e la preoccupazione per il futuro della nostra Nazione. L’Italia è vicina al default, i titoli di Stato, l’ossigeno (meglio sarebbe dire l’anidride carbonica) che mantiene in vita la nostra economia, che permette di pagare pensioni e stipendi pubblici e di garantire i servizi essenziali, richiedono un interesse sempre più alto per essere venduti sui mercati. Interesse che non saremo in grado di pagare senza aumentare le tasse, già molto elevate, tagliare la spesa sociale falcidiata da anni e avviare nuove privatizzazioni. Un’impresa impossibile senza una rivolta sociale. La Deutsche Bank ha venduto nel 2011 sette miliardi di euro dei nostri titoli».
«È più di un segnale: è una campana a martello che ha risvegliato persino Romano Prodi dal suo torpore. Il Governo è squalificato, ha perso ogni credibilità internazionale, non è in grado di affrontare la crisi che ha prima creato e poi negato fino alla prova dell’evidenza. Le banche italiane sono a rischio, hanno 200 miliardi di euro di titoli pubblici e 85 miliardi di sofferenze, spesso crediti inesigibili. Non sono più in grado di salvare il Tesoro con l’acquisto di altri miliardi di titoli, a iniziare dalla prossima asta di fine agosto. Ora devono pensare a salvare sé stesse».
«In questa situazione lei non può restare inerte. Lei ha il diritto-dovere di nominare un nuovo presidente del Consiglio al posto di quello attuale. Una figura di profilo istituzionale, non legata ai partiti, con un l’unico mandato di evitare la catastrofe economica e di incidere sulla carne viva degli sprechi».
«Ricordo, tra i tanti, l’abolizione delle Province, i finanziamenti pubblici ai partiti e all’editoria e le grandi opere inutili finanziate dai contribuenti, come la Tav in Val di Susa di 22 miliardi di euro. Gli italiani, io credo, sono pronti ad affrontare grandi sacrifici per uscire dal periodo che purtroppo li aspetta, ma solo a condizione che siano ripartiti con equità e che l’esempio sia dato per primi da coloro che li governano. Oggi non esiste purtroppo nessuna di queste due condizioni».
«In un altro mese di luglio, nel 1943, i fascisti del Gran Consiglio, ebbero il coraggio di sfiduciare il cavaliere Benito Mussolini, l’attuale cavaliere nessuno lo sfiducerà in questo Parlamento trasformato in un suk, né i suoi sodali, né i suoi falsi oppositori. Credo che lei concordi con me che con questo governo l’Italia è avviata al fallimento economico e sociale e non può aspettare le elezioni del 2013 per sperare in un cambiamento. In particolare con questa legge elettorale incostituzionale che impedisce al cittadino la scelta del candidato e la delega invece ai partiti. Queste cose le conosce meglio di me. Lei ha una grande responsabilità a cui non può più sottrarsi, ma anche un grande potere. L’articolo 88 della Costituzione le consente di sciogliere le Camere. Lo usi se necessario per imporre le sue scelte prima che sia troppo tardi. Saluti. Beppe Grillo».
Questi i fatti. Il Presidente venne tirato in ballo, in quella difficilissima estate, proprio da chi oggi ne lamenta l’eccessivo protagonismo.

da www.europaquotidiano.it

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“E meno male che c’era Napolitano”, di Stefano Menichini
Altro che golpe. La vera storia dell’estate 2011 parla di un paese non governato e di un Berlusconi senza idee, consenso e credibilità. Ora si può discutere la scelta di Monti, l’alternativa era la catastrofe.

Da tutto questo polverone sollevato intorno e contro il Quirinale solo tre cose emergono come rilevanti. La prima è la conferma dell’ingenuità di Mario Monti e dell’errore commesso a suo tempo nell’investire tanto su di lui. La seconda è il disperato bisogno di Forza Italia di marcare stretto Beppe Grillo, fino a confondersi con lui, con le sue battaglie, con i suoi toni, perfino con le sue fantasiose iniziative parlamentari. La terza è la scarsa memoria di un paese che sembra ogni giorno voler riscrivere la propria storia di un foglio bianco, evitandosi la fatica e la pena di ricordare i passaggi cruciali della crisi nazionale.
Allora magari servirà anche a qualcosa, questo “scandalo Friedman” sollevato dal Corriere della Sera: a dare ancora maggior valore e merito al presidio di lucidità, integrità e senso della responsabilità rappresentato in questi anni da Giorgio Napolitano.
Basta andarselo a riguardare tutto, il film di maggio, giugno e luglio 2011: la vigilia del precipizio. Altro che golpe, come strepita Brunetta sempre più somigliante ai peones grillini con i quali infatti fa comunella.
Nel giugno 2011 l’Italia politica parla solo e soltanto della irrimediabile crisi di credibilità del governo Berlusconi. Lui fa di tutto per dar ragione a chi pensa che dovrebbe mollare la poltrona sulla quale è inutilmente inchiodato. Mentre i dati economici nazionali crollano, al G8 di Deauville sbalordisce i leader mondiali avvicinandosi a Obama e agli altri per denunciare «la dittatura» che sarebbe ormai diventata l’Italia dei giudici. L’Europa sollecita una manovra correttiva da 40 miliardi di euro che Tremonti fatica a imporre, in una versione edulcorata, in consiglio dei ministri. Napolitano chiede alle opposizioni di collaborare in parlamento: emendare, correggere, non aggredire una maggioranza che potrebbe collassare. Loro lo fanno. Durante il dibattito alla camera il premier si addormenta ripetutamente: è un uomo in caduta libera. Si scrive apertamente di ipotesi di governi tecnici, o “del presidente”. Intanto anche gli elettori dicono la loro, ad alta voce: alle comunali di fine maggio il centrosinistra fa cappotto, da Milano a Napoli, da Torino a Trieste a Cagliari; a metà giugno i referendum vengono letti da tutti i commentatori come un plebiscito contro il governo che ha puntato sul mancato quorum. Quel «consenso popolare» di cui si parla oggi allora era già evaporato.
Tutto questo prima dell’esplosione dello spread. Che sarà nient’altro che l’inevitabile voto di sfiducia da parte della comunità internazionale nei confronti di un paese palesemente non-governato.
Fu una manovra? Un colpo di stato? Fu una vera emergenza nazionale, diciamo meglio. Nel pieno della quale, per fortuna, l’Italia ebbe a palazzo Koch e al Quirinale chi tenne la testa a posto. Rileggete cronache e commenti: sono Draghi e Napolitano che cercano di raffreddare la crisi e svolgono un enorme lavoro di supplenza rispetto a un governo che non esiste già più da tempo. Verranno poi la lettera della Bce, l’incapacità di rispondervi in maniera adeguata, la paura, l’avvitamento di Berlusconi che lascia campo libero alle ingerenze franco-tedesche. Infine la resa di novembre. Tardiva. E l’avvento di Mario Monti.
Napolitano ha predisposto tutto ciò in spregio della democrazia e della sovranità popolare? Ma per favore. Il centrodestra teneva l’Italia in ostaggio grazie alla blindatura di un parlamento – ne abbiamo la conferma oggi – eletto con un sistema anticostituzionale di cui Berlusconi e Bossi erano stati ideatori e beneficiari. Era lì che si consumava lo spregio della democrazia, col sovrappiù della incompetenza e della irresponsabilità di chi si guardava intorno e vedeva soltanto «ristoranti affollati e charter per le vacanze pieni».
Poi si può discutere del rimedio. Che allora venne considerato da tutti salvifico, anche dal Pd che si inchinò mal volentieri a Napolitano, a Monti e alle larghe intese. Ma la storia che comincia nel novembre 2011, e che in qualche modo dura tutt’oggi, è la storia di un affannoso tentativo di salvataggio da parte di un pezzo di establishment che non poteva più fidarsi e affidarsi alla “normale” dialettica politica.
Di questa storia Monti è stato protagonista: forte nelle sue competenze, convinzioni e credenziali europeiste; debole nella sua improvvisata ambizione politica e nella sua vanità personale. Se i partiti hanno poi potuto almeno provare (senza riuscirci) a riprendere le redini della situazione, è soprattutto grazie alla transizione montiana, a quelle parziali e contestate riforme che, guarda caso, sono state al massimo corrette ma non revocate da nessuno.
Oggi l’era dei governi tecnici ci appare deleteria. Siamo anche già esausti dell’era delle larghe e delle medie intese. Il Pd è di nuovo a rischio di compiere scelte emergenziali, invece di percorrere la via maestra della conquista del consenso popolare. Napolitano, suo malgrado, è ancora nella cabina di comando della crisi italiana.
Tutto e tutti sono criticabili. La storia però va lasciata agli storici. I reati ai magistrati e i segreti agli occultisti. La vicenda politica dell’estate 2011 è fin troppo chiara, trasparente, comprensibile, e ci rammenta senza equivoci una cosa sola: quale disastro sia stato, e sarebbe ancora, consegnare questo paese nelle mani della destra di Silvio Berlusconi.

da www.europaquotidiano.it

"Serve tempo per imparare", di Luca Canali

L’invito del latinista a non trascurare l’approfondimento. La nuova cultura tecnologica ed elettronica ha meriti di concretezza e velocità ma anche pericoli di una eccessiva superficialità

Quando si è molto vecchi, come io sono, e si sono attraversati quasi tutti i possibili ambienti, e io li ho atttraversati,dalle università alle carceri politiche, al Pci – che già di per sé li conteneva quasi tutti -, dalle cellule operaie ai ceti medi, dai bancari agli assicuratori, alle redazioni dei giornali, ma anche a quelli frivoli della dolce vita (ciao Fellini, scomparso troppo presto!), e si è tipi che si affezionano e hanno molti amici, anche se poi molti e molti se ne sono andati, e altri tradiscono e te ne restano sì e no due o tre che poi hanno altro da fare, mentre tu, con le cataratte agli occhi devi cessare di leggere (maledetta grafia minuscola!) e per scrivere devi lasciare le predilette biro e sostituirle con i pennarelli a grafia «neretta» per me
di più facile lettura, allora ti immergi nel passato con nostalgia di tante persone care e il loro ricordo ti ingoia e devi difenderti persino da tentazioni suicide (se dall’aldilà mi sentite, vi abbraccio Carlo Lizzani e Lucio Magri e altri ancora, che a quella tentazione, autodistruttiva, purtroppo non avete resistito), e ti consoli ricordando la pubblicazione dei primi versi del De rerum natura di Lucrezio da te tradotti e pubblicati su Rinascita, e ti viene in mente Togliatti che volle conoscere quel giovanissimo segretario politico della sezione Colonna, che la sera andava con i compagni ad attaccare i manifesti e, se capitava, a picchiarsi con i fascisti, ragazzi in buona fede anche loro, e poi t’immergi in quell’abisso di poesia che è il poema lucreziano, oppure ricordi Giancarlo Paietta che ti avvertì (stavi per accettare una cattedra a Cuba): «Guarda Canali, se lì fai i capricci politici come qui, là ti fucilano».
Insomma ora io mi lascio pervadere dalla nostalgia, ma cerco anche di immergermi nel presente, anche se mi fa ribrezzo, non parlo della gente, parlo dei cosiddetti «potenti» e «poteri forti» che non valgono un pelo di compagni quali Trusiani, capo della cellula degli operai delle Officine Centrali Atac, o Taticchi, segretario politico della sezione Colonna, che però tutte le estati tornava
a trebbiare nella sua Umbertide, città dove era nato, o Virginio Bologna detto «er cocomero», capo dei gasisti motorizzati della Romana Gas.
Certo non si può negare che attualmente si sta diffondendo una nuova cultura che potremmo definire tecnologica ed elettronica alla quale io per ragioni anagrafiche e di formazione – legate a una
cultura tradizionale e fortemente ancorata ai valori estetici della letteratura e dell’arte – non riesco ad adeguarmi anche perché credo che, nonostante tutti i suoi meriti di concretezza e velocità di apprendimento, queste nuove modalità di apprendimento e di comunicazione superficializzino l’attività di ricerca e di riflessione.
Così accade che anche la formazione di una nuova classe dirigente, che con eccesso di enfatizzazione punta sulla categoria etico-politica del cosiddetto giovanilismo e della un po’ volgare definizione di rottamazione (più adatta agli sfasciacarrozze che agli uomini di cultura o semplicemente degli intellettuali e dei politici) rischia di produrre invece guasti difficilmente riparabili nell’intera società. Aggettivi e trovate linguistiche di tipo avanguardistico possono talvolta ottenere l’effetto contrario alle intenzioni di coloro che le hanno inventate ed essere pericolosamente vicine a una terminologia di vago e forse involontario sentore «di estrema destra».
Non dimentichiamo che su questi concetti di distruzione e ricostruzione di valori teorici si sostanziarono ideologie pericolose che finirono per disumanizzare la lotta politica e la spinsero pericolosamente vicina a fenomeni deteriori di comportamento umano. A tale proposito è inutile fare esempi chiari e raggelanti. La civiltà dei nuovi mezzi di comunicazione va accettata. Serviamoci dunque dei telefoni cellulari che fanno tutto, aiutiamoci con google e altri motori di ricerca, ma cerchiamo al tempo stesso di evitare che questa digitale semplificazione e velocizzazione diventi una specie di pericolosa chimera per le giovani generazioni che andrebbero invece educate alla severità dell’impegno per scongiurare l’impoverimento progressivo, e a velocità trionfante, della società soggetta in questi ultimi anni a programmi economici basati sui tagli, tagli e ancora tagli anche sulla scuola, sulla ricerca, sull’Università e sulle misure per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. Tutte le facilitazioni introdotte dalla cultura tecnologica ed informatica stanno rischiando di diventare la premessa di una ulteriore divaricazione tra la povertà (anche intellettuale) e il lusso, lo snobismo di quella parte, non molto limitata come si crede, costituita dagli estremamente privilegiati membri della società affluente.

da L’Unità

Anno 2014, fuga dei prof dalla scuola “Siamo stufi, mandateci in pensione”, di Salvo Intravaia

Boom di pensionamenti in arrivo nella scuola. Nonostante la riforma Fornero abbia bloccato in cattedra tantissimi insegnanti pronti a passare la mano ai più giovani, si profila un consistente incremento di uscite dal lavoro a partire dal primo settembre 2014. I dati, che Repubblica è in grado di anticipare, sono ancora provvisori ma in ogni caso abbastanza significativi per descrivere la voglia che hanno gli insegnanti italiani di gettarsi alle spalle un lunghissimo periodo di lavoro nelle classi senza troppe soddisfazioni, almeno dal punto di vista economico. E per presentare domanda ci sarà tempo ancora fino al 14 febbraio, giacché il termine dello scorso sette febbraio è stato prorogato.
L’anno scorso, quando la riforma del governo Monti sulle pensioni fece crollare i pensionamenti nelle scuole, gli insegnanti che abbandonarono la cattedra furono appena 10.860. Quest’anno, stando alle anticipazioni provenienti dagli uffici di viale Trastevere, saranno parecchi di più se sul finire della scorsa settimana le domande online inoltrate avevano già superato le 12mila e 500 unità. Con un incremento del 15 per cento che potrà soltanto incrementarsi visto che il precedente termine del 7 febbraio per inoltrare le domande è stato prorogato al 14 febbraio prossimo.
Ma perché coloro che hanno maturato i requisiti per la pensione non ci pensano due volte a fare largo ai giovani? Secondo il segretario della Cisl scuola, Francesco Scrima, si tratta di un «chiaro messaggio di stanchezza da parte della categoria». «Chi va in pensione — continua Scrima — non lo fa a cuor leggero ma, secondo quanto ci risulta ascoltando ogni giorno i docenti, per frustrazione: insegnare oggi richiede fatica e impegno che non vengono riconosciuti. Ecco perché in tanti hanno deciso di andare via dalla scuola. E per questa ragione chiediamo al governo, al parlamento e alla politica di attivare tutte le azioni per il riconoscimento del lavoro degli insegnanti e di aprire il confronto per il rinnovo del contratto di lavoro».
I docenti e gli Ata (gli ammini-strativi, i tecnici e gli ausiliari) hanno il contratto scaduto ormai dal 2009, con stipendi tra i più bassi d’Europa. In più, l’ultimo governo Berlusconi e il governo Monti hanno bloccato gli scatti stipendiali automatici previsti dal contratto per consentire almeno un piccolo recupero dell’inflazione. E nei casi in cui gli scatti sono stati pagati, i sei anni tra un avanzamento di stipendio e il successivo si sono dilatati a sette o ad otto. «Gli insegnanti, appena raggiungono il requisito, fuggono dalla scuola», commenta Domenico Pantaleo, leader della Flc Cgil». «Il perché è presto detto: tra tagli, disorganizzazione crescente e condizioni di lavoro sempre più gravose il pensionamento è un’ancora di salvataggio». Ma non solo: «Le persone, insegnanti compresi, temono che si metta mano ancora alla legge Fornero per allungare la permanenza al lavoro. E chi può se ne va». Opportunità negata anche ai cosiddetti docenti “quota 96” (con almeno 36 anni di servizio e 60 anni di età o 35 anni di servizio e 61 di età) che avendo già maturato i requisiti per andare in pensione con la vecchia normativa sono stati bloccati a scuola fino a 67 anni dall’entrata in vigore della legge Fornero perché non è stato previsto che nella scuola l’anno scolastico termina il 30 agosto e non il 31 dicembre. Una “ingiustizia” alla quale il governo Letta sta cercando di porre rimedio.

La Repubblica 10.02.14

Alluvione, questa sera alla Camera i deputati Pd ricordano Salvioli

I parlamentari Pd hanno partecipato alle esequie e all’incontro con Rete Imprese Italia. Nel giorno in cui Bastiglia ha proclamato il lutto cittadino, una delegazione dei parlamentari modenesi del Pd ha partecipato alle esequie di Oberdan Salvioli – la cui figura verrà ricordata nella tarda serata di oggi in Aula a Montecitorio – mentre un’altra delegazione si è incontrata con i rappresentanti di Rete Imprese Italia. “Una prima risposta, anche se non ancora sufficiente, è arrivata in tempi celeri – hanno spiegato i parlamentari Pd – Per il prosieguo, ci impegniamo ad approfondire il tema della fiscalità di vantaggio, così come richiesto anche dalla risoluzione approvata dall’Assemblea Legislativa regionale”. Entro un mese, ci sarà un nuovo incontro con gli imprenditori per informarli dei passi avanti compiuti.

L’acqua per fortuna è defluita, ma l’attenzione sulle zone colpite dall’alluvione rimarrà inalterata. I parlamentari modenesi del Pd, in mattinata, hanno partecipato con una delegazione alle esequie di Oberdan Salvioli, mentre un’altra delegazione ha preso parte all’incontro promosso da Rete Imprese Italia. I deputati Manuela Ghizzoni e Davide Baruffi hanno voluto testimoniare vicinanza alla famiglia di Salvioli, vittima dell’alluvione mentre si prodigava nell’aiuto a chi era in difficoltà. Lo stesso Baruffi, nella tarda serata di oggi, interverrà a Montecitorio per rendere omaggio al suo sacrificio: “Abbiamo chiesto di poter ricordare in Aula la figura di Salvioli proprio nel giorno in cui Bastiglia ha proclamato il lutto cittadino – spiegano gli on. Ghizzoni e Baruffi – Manteniamo i riflettori accesi sulla nuova tragedia che ha colpito le nostre terre”. Un’altra delegazione di parlamentari modenesi del Pd, composta dal viceministro Cecilia Guerra, dal senatore Stefano Vaccari e dal deputato Edoardo Patriarca, ha partecipato, nelle stesse ore, all’incontro promosso da Rete Imprese Italia. I rappresentanti delle imprese locali hanno ribadito le richieste che arrivano dalle aziende dei territori colpiti dall’alluvione: “Abbiamo garantito, come parlamentari Pd, il nostro sostegno attivo e concreto – spiegano Guerra, Vaccari e Patriarca – Possiamo dire che l’unicità di quanto accaduto in queste terre, con il terremoto prima e l’alluvione poi, è stata compresa anche a Roma. Alcune risposte, anche se non ancora sufficienti, sono arrivate in tempi certamente più rapidi qui che non in altre parti del Paese. La proroga del pagamento delle tasse, la dichiarazione dello stato di emergenza, lo stanziamento di 19 milioni da parte del Ministero dell’Ambiente sono stati decisi, crediamo, con una modalità consona rispetto alla drammaticità degli eventi. Naturalmente non ci fermeremo qui, stiamo lavorando per ottenere l’indennizzo dei danni – continuano i parlamentari Pd – In particolare, poi, ci siamo impegnati ad approfondire il tema della fiscalità di vantaggio, così come richiesto anche dalla risoluzione approvata dall’Assemblea Legislativa regionale. Occorre mettere a punto uno strumento equo e coerente con la normativa europea, in grado di attagliarsi alle esigenze dei territori danneggiati. Con gli imprenditori abbiamo preso l’impegno di tornare ad incontrarci entro un mese per rifare il punto della situazione e informarli dei passi avanti compiuti”.

"Non lasciamo a Grillo i sogni dei giovani", di Amalia Signorelli

In Italia non scarseggiano gli idioti che esorcizzano le proprie frustrazioni ricorrendo alla violenza verbale – e spesso anche a quella fisica – contro le donne. A nostre spese, noi donne lo sappiamo bene. Ma che un leader politico non solo si comporti così, ma incentivi pubblicamente gli uomini a comportarsi così, questo è una novità. La domanda che la scorsa settimana Grillo dal suo blog ha rivolto ai suoi follower a proposito di Laura Boldrini, offrendo loro per giunta la possibilità dell’anonimato di rete, è ributtante: ripropone l’immagine della donna-preda, della donna-cosa, ma contemporaneamente ha fatto riemergere il tipo dell’uomo viscerale perverso (non voglio definirlo né bestiale, né primordiale, né selvaggio per il sommo rispetto che bestie, esseri umani preistorici e i cosiddetti selvaggi meritano) per il quale il sesso si identifica con il possesso violento. Dopo lo sdoganamento della prostituzione, abbiamo dovuto assistere anche allo sdoganamento dello stupro. Perché su questo punto Laura Boldrini ha ragione: di incitamento allo stupro si tratta.
Per quel che riguarda noi donne, è l’ennesima delusione, ma non una sorpresa. Non da oggi ci tocca fare i conti con il machismo italico (che tale è, anche quando si manifesta in forme solo apparentemente meno violente). Ma, insisto, quando il machismo è praticato o anche solo predicato da chi, per il ruolo che occupa, è inevitabilmente un modello culturale, la questione si allarga: non è più solo violenza sulle donne.
Penso che l’episodio di cui sto parlando sia particolarmente doloroso e pericoloso per i giovani, per le ragazze e i ragazzi che hanno provato a «crederci». Come sappiamo, tanto l’elettorato di Grillo quanto la rappresentanza parlamentare da esso espressa, è composta prevalentemente da persone giovani. A cui va riconosciuto, se si ha il coraggio di farlo, di aver espresso una domanda di rinnovamento, di onestà mentale e morale, di coerenza, di rispetto per la Costituzione, le leggi e le regole. Domanda espressa da un fiume di voti politici che, del tutto inaspettato com’era, lasciò stupiti politici e commentatori. Stupiti o spaventati?
Oggi la questione vera non è, a mio avviso, il destino di Grillo e del suo sodale: la questione vera la pongono i giovani che l’hanno votato. Pessimista come sono, per loro vedo ripetersi un copione che già operò negli anni 70 del secolo scorso e i cui danni sono ancora visibili: di fronte a una domanda giovanile di cambiamento e di innovazione, di fronte a una creatività e a un entusiasmo diffusi che, intemperanti e massimalisti com’erano nelle loro richieste, avrebbero potuto far saltare l’apparato burocratico-politico conservatore, quelli che allora si chiamavano i partiti dell’arco costituzionale si dimostrarono del tutto incapaci di esercitare una qualche forma di egemonia. Cooptarono i più ambiziosi e si impegnarono energicamente nella criminalizzazione dei più intransigenti. Che ovviamente si criminalizzarono, confermando così l’affermazione che erano stati sempre e solo dei criminali. Tutti gli altri, abbandonati a se stessi, si sono lentamente ma sicuramente depoliticizzati.
A distanza di oltre quarant’anni, il copione sembra ripetersi con mutamenti più tragici che farseschi. I giovani sembrano aver perso la capacità di esprimere in proprio sia dei leader che dei progetti politici. È stato un adulto a egemonizzare e organizzare il loro disagio, con il rischio, ovviamente, di strumentalizzarlo. Per contro, oggi i giovani non si trovano di fronte dei conservatori, magari anche ottusi ma comunque impegnati a difendere valori comprensibili anche se non condivisi; si trovano di fronte un ceto politico che, quand’anche alcuni individui che lo compongono non siano corrotti, è diventato comunque incapace di agire con lealtà. Era una furbata, era un trucchetto da pochi (!) soldi anche quella che ha innescato gli episodi che sto discutendo. Era il solito decreto omnibus al riparo da eventuali modifiche in aula grazie al ricatto incorporato: se non fate passare il provvedimento sulla Banca d’Italia, diventerete quelli che obbligano gli italiani a pagare l’Imu.
Certo, le reazioni dei deputati Cinque Stelle sono state esagitate. Maleducate. Eccessive. Ma in quella stessa aula si sono già visti nodi scorsoi, bandiere sventolate per usi indicibili, fette di mortadella e quant’altro: tutte iniziative di “onorevoli” che abbiamo visto poi far parte del governo della Repubblica, senza che nessuno avesse preteso almeno le loro scuse; e nel disporre la nuova legge elettorale, ci si preoccupa di garantir loro la possibilità di una nuova partecipazione ai futuri governi. Otto milioni di voti sono sufficienti per giustificare la convocazione in casa propria di un condannato per truffa (per tacere del resto) e verificare che esiste con lui una profonda intesa. Perché altri otto milioni e passa di voti non bastano per ottenere attenzione e ascolto? Perché sia riconosciuto il diritto a una partecipazione paritaria e trasparente al lavoro istituzionale, senza pretendere in cambio compromissioni, rinunce e scambi? Terribile è l’ira dei giovani onesti. Ma una volta di più la sola risposta di cui si è capaci è la criminalizzazione. Con zelo sospetto anche da parte del Pd. Eppure la posta in gioco è alta, anche questa volta. Non si tratta affatto di «salvare » Grillo o di «accordarsi» con lui. Ci mancherebbe. Si tratta però di sottrarre alcuni milioni di giovani alla sua influenza costruendo, come diceva Gramsci, un’altra egemonia.

L’Unità 10.02.14