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"È il Pd che deve decidere", di Claudio Sardo

Ora però, dopo tante parole, bisogna decidere. L’Italia non può aspettare: ha bisogno di un governo dotato di forza parlamentare ed energia politica per affrontare la drammatica crisi sociale, la troppo fragile ripresa, la sfiducia crescente verso le istituzioni democratiche. E il Pd non può essere spettatore, o arbitro. Non può permetterselo. Nonostante lo smacco elettorale, resta il perno del sistema. Ha le maggiori responsabilità davanti ai cittadini: e, se possibile, queste responsabilità sono aumentate con la vittoria di Matteo Renzi alle primarie e con le speranze che ha suscitato. Nessun governo nella legislatura avrà la forza necessaria, se il Pd non scommetterà su di esso. È finito il tempo di sfogliare la margherita e dire che sì, forse, nascerà un nuovo governo Letta per guidare il semestre europeo e portarci al voto nel 2015; o forse basterà un restyling nel programma e in alcuni ministeri; o forse no, bisognerà giocare subito la carta Renzi affidandogli l’impegnativo mandato di arrivare al 2018.
Di certo, un governo non nascerà mai da un referendum tra gli alleati e/o gli avversari del Pd. Tocca anzitutto al Pd e al suo segretario fare la scelta, e costruire attorno ad essa il consenso e il contesto perché risulti la più efficace possibile. Il passaggio non è facile. E sono comprensibili le incertezze, persino le polemiche interne. Il dualismo tra Renzi e Letta, per certi aspetti, era inevitabile. Anzi, una dialettica tra partito e governo è ineliminabile in presenza di una maggioranza multicolore e di un cantiere aperto sulle riforme istituzionali. Ma, se Renzi e Letta non saranno capaci di un’intesa, il risultato rischia di essere disastroso per il Paese, e per il Pd. Peraltro, Renzi e Letta non possono sbagliare nell’intendere le rispettive leadership: il Partito democratico è una realtà politica e sociale più ampia, che non può riassumersi in un uomo solo al comando, ma neppure nella competizione personale dei suoi due dirigenti oggi più importanti. C’è molta rozzezza nella polemica sulla democristianità» dei due: tuttavia, è un campanello d’allarme che Renzi e Letta devono saper ascoltare. All’inizio della settimana della verità, Enrico Letta sembra avere buone chance per avviare una seconda fase del suo governo. Il programma dovrà avere ambizioni forti e misure credibili. Per il lavoro, anzitutto. Il Paese ha bisogno di interventi strutturali, di innovazione e ricerca, di politiche industriali, di un rilancio degli investimenti pubblici, di semplificazione burocratica. Ha bisogno di politiche di contrasto alla povertà, ed è assurdo che si contrappongano gli interventi necessari a sostegno della famiglia con il giusto riconoscimento delle unioni civili.
Letta sta anche, da tempo, preparando il semestre di presidenza italiana della Ue. Sarà un semestre cruciale per il nostro destino: il discorso di Giorgio Napolitano a Strasburgo ha tracciato le linee-guida di quella che deve diventare la svolta dell’Europa, dalla cieca austerità a una nuova stagione di crescita economica e civile.
Letta si giocherà la sua carta. Ha però bisogno del Pd per riuscire. Se resta questo muro di incomunicabilità, se non viene rimossa questa diffidenza, a Letta mancherà l’ossigeno. E il Pd pagherà un prezzo altissimo, se la sua apparirà come una battaglia di mero potere. Renzi ha detto e ribadito che non vuole sentir parlare di rimpasto.
Molto bene. Ma questo vuol dire che il varo di un nuovo programma per il 2014 va suggellato con un nuovo governo. E che il segretario del Pd è pronto a firmare.
Renzi comprensibilmente teme di perdere nel passaggio un po’ della sua carica innovativa. Non intende identificarsi nel governo Letta per preservare il suo Pd come perno di un’alternativa politica, da proporre alle elezioni. In una certa misura, Renzi fa bene a tenere una distanza dal governo espressione della strana maggioranza. Ma sarebbe assurdo, se l’avarizia del Pd arrivasse al punto di impedire a Letta di formare un nuovo governo e di sostenere esplicitamente il rinnovato programma: il risultato paradossale sarebbe proprio uno striminzito rimpasto e un governo ancora sotto tiro, anzitutto dal Pd. Non può essere il Pd a stringere la corda di Letta, tanto più adesso che il confronto sulle riforme è entrato nel vivo e che a quel tavolo anche Berlusconi si è accomodato come uno dei protagonisti.
Guai a illudersi che il Pd possa salvarsi, o preservarsi, agli occhi degli italiani se un governo guidato da un suo uomo dovesse fallire. Comunque, è arrivato il momento delle decisioni. E la più importante spetta al neo-segretario. Se non fosse convinto di rinnovare il mandato a Letta, se ritenesse troppo angusti gli spazi politici in questo 2014, se temesse la trappola sulle riforme, allora dovrebbe indicare l’altra strada. Assumendosi la responsabilità conseguente. L’altra strada non sono le elezioni immediate (visto il carattere ultra-proporzionale della vigente legge elettorale). L’altra strada è un governo Renzi. È tentare di mettere subito sui binari un governo per «la riforma
dell’Italia» (come lo stesso segretario ieri l’ha definito), nonostante l’incerta maggioranza. Molti consigliano Renzi di non farlo, e forse neppure lui è convinto. In ogni caso, fatte le necessarie consultazioni, la scelta finale spetta a lui, non ad altri. Se decidesse di entrare in campo anzitempo, tutto il Pd, compreso Enrico Letta, avrebbe il dovere di sostenerlo. Ma se Renzi, per convinzione o per opportunità, scegliesse di puntare ancora su Letta, allora toccherebbe a lui sostenerlo senza taccagnerie.

da L’Unità

"Le paure che muovono l’Europa", di Giovanna Zincone

Il referendum di revisione costituzionale che ha vinto ieri in Svizzera mira a limitare l’immigrazione in generale, ma impatterà in specie su quella dei cittadini dell’Ue.

Infatti, non si limita a introdurre la possibilità di programmare i flussi migratori imponendo tetti massimi, ma prevede pure la revisione degli accordi internazionali in contrasto con questa politica: di fatto, quelli con l’Unione Europa, rispetto ai quali vigeva una politica di libera circolazione. Il referendum promosso dal partito di destra Udc ha visto avversi il governo federale e il mondo imprenditoriale.

Il copione classico si ripete: le imprese sono favorevoli all’immigrazione, così come lo sono i governi più ragionevoli, ma una ampia parte della popolazione, non solo in Svizzera, vede l’immigrazione come una minaccia e una somma di problemi. La vittoria non è quindi, nonostante i sondaggi che l’hanno preceduta, una grande sorpresa. Semmai dovrebbe positivamente sorprendere il fatto che si tratta di una vittoria di stretta misura (50,3%). Anche in Paesi membri dell’Unione, in tempi recenti, non sono mancate minacce di restrizione alla libera circolazione: Cameron in Gran Bretagna e la Csu in Germania hanno avanzato con insistenza la proposta di escludere bulgari e romeni, e anche lì ad opporsi sono stati soprattutto gli imprenditori. Ma anche lì, come in Svizzera, sono i lavoratori nazionali a temere la concorrenza al ribasso da parte degli stranieri. E i cittadini in generale non hanno solo paure economiche: conta pure la paura di essere spodestati, di non ritrovare più il proprio panorama urbano, le proprie consuetudini di vita.

Per accrescere queste paure i partiti xenofobi sono pronti a esagerare. Anche in questa campagna svizzera sono ricomparse le immagini di donne musulmane ricoperte dalla testa ai piedi, insieme con fantasiose proiezioni demografiche sul numero di musulmani pronti a islamizzare la Svizzera del futuro prossimo. Le fantasie demografiche usate in campagna elettorale hanno riguardato più in generale gli stranieri, che secondo questi poco attendibili scenari, potrebbero uguagliare gli abitanti svizzeri entro il 2060. Di fatto, anche a causa della crisi economica che non ha risparmiato la Confederazione, il saldo migratorio è sceso nettamente dal 2008 al 2013. Ma la presenza di stranieri in Svizzera è decisamente alta ed è cresciuta anche nel nuovo millennio. Secondo i dati più recenti si tratta del 23,3% della popolazione, nel 2001 si era al 19,9%: perché, se gli ingressi rallentano, non vuol dire che si fermino e i tassi di fertilità degli stranieri sono comunque più alti (1,8) di quelli dei nazionali (1,2).

Tutto sommato, al di là delle esagerazioni dei promotori del referendum, non si può negare che la percentuale di stranieri in Svizzera sia decisamente alta: in Italia si mugugna per un dato che si colloca a meno di un terzo del loro. Va osservato, peraltro, che quando di tratta di opportunità e di diritti degli stranieri, il referendum è un’arma poco leale, perché a tenerla in mano sono soltanto gli altri, i cittadini. Infatti in Svizzera ben tre referendum hanno respinto tutte le proposte di facilitare l’acquisizione della cittadinanza per i minori nati nella confederazione. In generale, il referendum funziona poco quando si tratta di promuovere o tutelare i diritti delle minoranze. Ma di quali minoranze stiamo parlando per questo specifico referendum? Vale la pena di osservare che negli ultimi anni a incrementare le presenze straniere in Svizzera non sono stati gli ingressi di immigrati che si potrebbero considerare culturalmente distanti, alieni.

Secondo dati del 2013 sono infatti altri europei a costituire i due terzi della popolazione straniera, con un peso preponderante anche nei flussi, che hanno visto in testa tedeschi e sud-europei, questi ultimi in netta crescita anche a causa della crisi. Insomma, anche in questo referendum si è brandita la retorica della lotta alla islamizzazione e del rischio di perdita dell’identità culturale, ma sul piano della concorrenza economica lo sguardo degli elettori si è probabilmente posato molto più vicino. Qual è infatti la prima minoranza nazionale oggi residente in Svizzera? Siamo noi, gli italiani. E si noti che la nuova normativa costituzionale approvata con il referendum di ieri prevede pure la possibilità di limitare l’accesso ai frontalieri. Si tratta in gran parte di lombardi e piemontesi. E il cantone in cui il voto ha più entusiasticamente sostenuto il referendum anti-immigrazione è stato il Canton Ticino, con il 68% di favorevoli. A dimostrazione che del fatto che siamo tutti i «terroni» di qualcun altro.

da la Stampa

"Generazione Boomerang così la crisi spinge i 30enni a tornare dai genitori “Impossibile farcela da soli”, di Maria Novella De Luca

Il nuovo fenomeno mentre l’Istat avverte: 7 milioni di giovani a carico della famiglia
Alcuni dicono che è come avere le ali spezzate. Altri non disfano mai la valigia. Altri invece, più ottimisti, parlano di “scalo tecnico”, di pausa obbligata, di momentanea sosta. Per tutti però, a venticinque, a trenta, addirittura a quarant’anni, l’approdo è lo stesso: la casa dei genitori, il welfare sicuro di mamma e papà, il luogo da cui si era andati via per tornare al punto di partenza. I sociologi l’hanno definita “generazione boomerang”, ti lanci fuori e vieni ributtato dentro, ma il dato ancora più nuovo è che tra i boomerang sono ormai anche le classi dell’età adulta, chi ha perso il lavoro, chi si è separato, chi non ce la fa più a pagare l’affitto. Un (mesto) gioco dell’oca che riguarda oggi in Italia uno spropositato numero di giovani, il 70% degli under 30, che dopo aver provato a farcela da soli sono costretti a ripiegare
sul nido domestico.
E così si fa marcia indietro, a volte addirittura in coppia, con i figli piccoli, verso l’unico ammortizzatore sociale che seppure azzoppato in Italia ancora resiste, e cioè la famiglia e le pensioni dei genitori. (Nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni il 41,9% dei figli vive ancora a casa, ma persiste anche un 7% di quarantenni che non vogliono lasciare la residenza di sempre o che invece lì sono tornati). «Quando è fallito il nostro negozio di elettronica — scrive Sonia sul suo blog Ricominciamo — i miei genitori ci hanno proposto di sistemarci nella loro mansarda con i bambini. È stata una salvezza, anche se passare da una casa vera ad un monolocale di 30metri quadri in quattro, e tornare a convivere con mamma e papà a 35 anni è stata davvero dura. Ma senza più l’angoscia dell’affitto, dovendo soltanto condividere le bollette e la spesa, Ettore ed io abbiamo provato a rimetterci in pista. Oggi vendiamo online prodotti bio per l’infanzia, soprattutto i pannolini di stoffa. Ho quasi paura nel dirlo, ma sta andando bene…».
In tutta Europa, ma a sorpresa anche negli Stati Uniti e in quei Paesi che avevano fatto dell’autonomia dei giovani un cardine sociale, è in corso una rivoluzione al contrario. Il lavoro precario, gli affitti impossibili, la fine dei percorsi di studi, la stessa instabilità della vita affettiva, stanno creando il fenomeno dei “ritorni indietro”. E se in Italia la “famiglia lunga”, e i legami comunque molto stretti tra genitori e figli anche adulti fa sì che da noi l’effetto boomerang abbia caratteristiche del tutto particolari, per nazioni come l’Inghilterra o gli Stati Uniti è un vero shock culturale. E infatti la definizione boomerang kids è americana, ed è il racconto di migliaia di studenti, che dopo aver contratto il prestito d’onore per poter pagare l’università, non trovano lavoro, sono indebitati, e dunque devono rinunciare all’autonomia.
Questa migrazione al contrario è per l’Italia invece un’emergenza nuova, come dimostra il “Rapporto giovani 2013” dell’Istituto Toniolo di Milano, che ha dedicato al “boomerang” un intero capitolo. «Il nostro paradosso — dice Alessandro Rosina, demografo e direttore scientifico del rapporto — è che proprio quando i giovani italiani stavano provando a farcela da soli, ad anticipare l’uscita dalla famiglia, la crisi ha bloccato questa voglia di autonomia. Il dato, altissimo, del 70% di under 30 che tornano a casa, vuol dire che però in tanti ci hanno provato a rendersi indipendenti». Ma nel giro di pochi anni l’entusiasmo si spegne.
«Si rientra alla fine di un periodo di studio all’estero, si torna perché il lavoro precario con cui si sperava di cominciare una vita nuova si interrompe, perché le risorse sono finite. Tra i boomerang kids c’è chi vive la casa di famiglia come uno scalo momentaneo, una sosta per ripartire, e c’è chi invece progressivamente si ripiega su se stesso, accade soprattutto ai più adulti, la famiglia diventa un rifugio dal mondo». Il senso di fallimento induce alla rassegnazione, e così anche chi aveva provato ad uscire in mare aperto, scivola nell’esercito dei “neet”, quegli oltre due milioni di trentenni che non studiano, non lavorano, ma soprattutto non cercano più né un impiego né una nuova strada.
«Per la mia generazione — ragiona Piero, 27 anni, napoletano, una laurea in Storia, un dottorato in Inghilterra — ripiombare nella condizione di figlio è davvero qualcosa di regressivo, una specie di anticamera della depressione. Viaggio da quando ero al liceo con il progetto Leonardo, poi ho fatto l’Erasmus, sono riuscito con orgoglio ad avere una borsa di studio alla London School of Economics. Ma finiti i fondi sono dovuto tornare. Non sopravvivi in Inghilterra senza un buon lavoro. Qui da noi l’università è chiusa, figuriamoci, volendo posso insegnare gratis e lo faccio, meglio di niente. Sto cercando di ripartire. Sì, il mio è uno scalo tecnico. E intanto mi ritrovo ad essere figlio. Dormo nella stanza con mio fratello che di anni ne ha 25. A volte ridiamo come pazzi. A volte ci viene da piangere».
Sì, perché questi “rientri adulti”, come sottolinea Elena Marta, docente di Psicologia di Comunità alla Cattolica di Milano, non sono indolori. Nonostante la famiglia italiana sia antropologicamente disposta all’accoglienza. «Se più generazioni si ritrovano sotto lo stesso tetto tutto è da riscrivere, anzi da rinegoziare: spazi, abitudini, confini. Il rischio è che i genitori ricomincino a comportarsi come se avessero in casa un adolescente, e i figli già grandi, complice il fallimento della vita autonoma, scivolino in una dimensione di rinuncia». Quando poi a convivere le età sono tre, nonni, figli e nipoti, tutto è ancora più complicato. Ed è quello che sta accadendo oggi sempre più spesso, perché la “generazione di mezzo” non ce la fa più, e sono ormai interi nuclei a cercare riparo sotto il tetto (e la pensione) dei nonni.
«Se si sopravvive alla coabitazione forzata — aggiunge Elena Marta — si può anche creare una relazione virtuosa di aiuto reciproco, in cui i figli adulti riscoprono i genitori anziani, e i nipoti si ritrovano in una dimensione di affetto più vasta». Anche se, tornando ai più giovani, è proprio la conquista dell’autonomia il vero gol dell’andare a vivere da soli. (Lo afferma il 67% degli intervistati nel “Rapporto giovani”, mentre per il 77,2% affrancarsi significa soprattutto poter gestire più liberamente un rapporto di coppia).
«Il problema dei boomerang kids non è più soltanto italiano — conferma Alessandro Rosina — ma oltre i nostri confini la situazione è sicuramente più dinamica, esistono i centri per l’impiego, ci sono i sussidi, canali più solidi per entrare nel mondo del lavoro, mentre da noi resistono soltanto le reti informali, legate molto spesso alla famiglia».
Certo, a guardare i numeri, sembra una disfatta. Perché al 70% di ragazzi costretti ad emigrare al contrario, si aggiungono gli adulti che perdono il lavoro e tornano a pesare sugli anziani. E infine una categoria ben precisa: i separati e i divorziati. Luca Salmieri insegna Sociologia della Cultura all’università “La Sapienza” di Roma. «Quando la coppia si rompe i maschi riapprodano nella dimora d’origine. Per cultura, per bisogno, per comodità. Oggi è sempre più difficile avere due vite autonome dopo una separazione, spesso la casa resta alla madre con i figli, quindi è frequente che si cerchi soccorso dai genitori. Permanenze che possono durare anni, e che dunque ingrossano le file dei boomerang kids». Infatti. La famiglia italiana è diventata più piccola, ha perso il suo carattere di clan, ma, dice Salmieri, i legami restano stretti, «come fosse un elastico che si allarga e si restringe a seconda delle generazioni che deve contenere».
Giovanna ad esempio che dopo essere rimasta sola con Isabella, 5 anni, è tornata nella casa materna. «Una brutta separazione, e lui è scomparso. Niente soldi, niente telefonate, nulla. Forse economicamente ce l’avrei potuta fare, ma ho un lavoro impegnativo e Isabella era sempre da sola con la baby sitter. Così quando mia madre mi ha proposto di andare a vivere con lei, ci ho pensato a lungo e poi ho accettato. Ho perso la mia autonomia, a 37 anni tornare nella casa dei genitori può sembrare una sconfitta. Ma Isabella oggi è protetta e felice e mia madre fa la nonna a tempo pieno. E in fondo siamo tutte più serene».

da la Repubblica

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“Mai via dai genitori per l’Istat sono in sette milioni”, di Maria Elena Vincenzi

Sarà la crisi o, forse, semplicemente, sarà che a casa di mamma e papà si sta troppo bene. Con zero spese, pranzo e cena pronti e lavatrice fatta. Soprattutto se si è maschi e single. Sono quasi sette milioni i giovani tra 18 e 34 anni che ancora vivono con i genitori. E non si tratta solo di chi ancora fa l’università: oltre tre milioni hanno superato i 25 anni. Insomma, sono sempre di più i trentenni che preferiscono gli agi della casa d’origine alle difficoltà di doversi gestire da soli.
Numeri che crescono se si considera chi ancora non ha detto sì: oltre sei su dieci single non sono ancora andati a vivere per conto proprio. Fotografia di un Italia sempre più “mammona”, qualcuno diceva “bambocciona”, quella che viene scattata dal Rapporto sulla coesione sociale di Istat, Inps e Ministero del Lavoro. E anche quando proprio si deve lasciare la casa paterna, mamma e papà restano sempre un punto di riferimento: secondo Coldiretti, quasi 4 italiani su 10, il 37 per cento, ha chiesto aiuto economico ai genitori. E anche quando alla fine si sceglie di fare le valige, in ogni caso, è sempre meglio non allontanarsi troppo: quasi un figlio su due, il 42,3 per cento, se ne va, sì, ma sceglie una casa che non sia lontana più di 30 minuti a piedi da quella di mamma e papà.
I dati Istat riguardano il 2012, anno in cui il fenomeno è cresciuto rispetto all’anno precedente. I ragazzi che vivono con i genitori sono 6 milioni e 964mila, 31mila in più rispetto al 2011. Una crescita confermata dalle percentuali: si è saliti dal 59,2 al 61,2 di tutti i giovani tra i 18 e i 35 anni celibi e nubili. I più affezionati alle cure materne, cosa che in Italia non stupisce, sono i maschi: quelli che continuano a dormire nella loro cameretta sono quasi quattro milioni, uno in più rispetto alle coetanee. E la concentrazione più alta di “mammoni” è al Sud: nel Meridione gli under 35 che ancora hanno lo stesso indirizzo dei genitori sono più di due milioni. Scelta o necessità, questo è difficile dirlo. Sta di fatto che i ragazzi senza lavoro, nella fascia di età tra i 18 e i 35, sono quasi un milione e mezzo. Ed è forse per questo che si cerca di rimandare il momento dell’uscita da casa. A maggior ragione se ancora non si è trovata l’anima gemella. Sembra essere quella, infatti, la ragione che più delle altre convince i figli ad andarsene: il 60 per cento di chi non ha moglie o marito, infatti, rimane a casa con i genitori. Per di più, di solito, quando si decide di fare i bagagli e chiudere la porta della casa in cui si è nati, lo si fa se si ha pronta una casa di proprietà, sono pochi quelli che ricorrono all’affitto, probabilmente anche per una questione economica. Stando ai numeri del 2011, il 68,8 per cento degli under 35 che hanno detto arrivederci a mamma e papà hanno una casa loro, mentre solo il 31,2 ha un contratto di locazione. Come a dire che se per andarsene bisogna pure pagare, beh, allora proprio il gioco non vale la candela.

da la Repubblica

"Migliorano i conti maper la ripresa c’è da aspettare", di Carlo Buttaroni

Se la prima ondata della crisi economica, tra il 2008 e il 2009, è stata dura, la seconda, arrivata nel 2011 dopo una parziale ripresa economica, è stata devastante. Basti pensare che nel2009la spesa delle famiglie italiane è diminuita a 843miliardi di euro, rispetto agli 863 miliardi di due anni prima. Nel 2010, la temporanea ripresa ha ridato ossigeno ai consumi (+12 miliardi), ma nel 2011 si è registrata una nuova contrazione, prima modesta (-2miliardi), seguita da un vero e proprio crollo nei due anni successivi (-35miliardi nel 2012 e -20 miliardi nel 2013). Una crisi da vero e proprio ko, come testimoniano proprio i dati sui consumi delle famiglie: -20miliardi tra il 2007 e il 2009 e -55 miliardi tra il 2011 e il 2013. Un andamento che si traduce in un balzo indietro di quindici anni. Anche l’occupazione ha seguito un percorso analogo: tra il 2007 e il 2009 il saldo è stato di 200mila unità in meno, mentre tra il 2011 e il 2013 gli effetti si sono triplicati con la perdita di 600mila posti di lavoro. Gli occupati sono tornati ai livelli del 2004, con la differenza, però, che l’Italia ora ha quasi 2milioni di abitanti in più. UnPaese, quindi, che se dopo la prima crisi è rimasto in piedi, con la seconda è finito in ginocchio.
Dove siano i problemi lo si capisce immediatamente se si mettono a confronto la domanda interna e le esportazioni, cioè le due principali componenti del Pil. Mentre la prima, tra il 2010 e il 2013, è calata di quasi 9 punti (se nel 2010 era 100 nell’ultimo anno è scesa a 91,1), la seconda, nello stesso periodo, è cresciuta di 9 punti. Le esportazioni,
però, contribuiscono all’andamento del Pil per meno di un terzo del totale e questo spiega la variazione negativa registrata nell’ultimo anno (tra -1,8 e -1,9%).
Nel 2013, tra le economie avanzate, l’Italia ha registrato l’outlook peggiore e la fase recessiva di più lunga. E a fare la differenza è proprio la sofferenza della domanda interna che ha risentito delle politiche di bilancio fortemente restrittive messe in campo negli ultimi due anni. Politiche che hanno frenato i consumi e alimentato la spirale recessiva. A tutto questo ha contribuito anche la stretta del credito, che ha ulteriormente compresso il mercato interno.
La crescita del Pil che si registrerà nel 2014 sarà determinata essenzialmente dal miglioramento del contesto internazionale. In altre parole, sarà la crescita delle altre economie a portare un po’ di ristoro all’Italia e a trainarla verso l’atteso segno “+”. Ma sarà una crescita debole (tra +0,6 e +0,8) accompagnata da un tasso di disoccupazione
ancora in aumento e da consumi interni abbondantemente sotto i livelli pre-crisi. Non chiamiamola, quindi, ripresa. Anche perché, nel frattempo, le altre economie sono uscite dal tunnel della crisi prima di noi e crescono a velocità ben diversa da quella dell’Italia, accentuando il divario. Anche in questo caso i dati sono inequivocabili. Fatto 100 il livello del Pil del 2010, nel 2014 quello dell’Italia scenderà a 96,9, mentre quello del mondo salirà a 114,3. Stessa dinamica rispetto ad altre economie: i Paesi della zona euro nel 2014 dovrebbero attestarsi a 104,6, gli Usa a 109, il Giappone a 104,7, i Paesi avanzati a 106,4 e quelli emergenti a 122,4.
Analizzando gli andamenti delle diverse economie durante l’intero periodo di crisi, si scopre anche che i Paesi che si sono rimessi in marcia a velocità sostenuta sono quelli che hanno fatto registrare una ripresa della domanda interna. Chi, invece, oggi fatica a ripartire dopo la lunga fase recessiva (ed è proprio il caso dell’Italia) ha fatto registrare il crollo della domanda interna, seguita da una sostanziale stagnazione dei consumi, pur essendo cresciuto, nel frattempo, il livello delle esportazioni. In sostanza, se la domanda interna cresce, allora anche il Pil segue lo stesso andamento. Al contrario, se la domanda interna langue, cala l’occupazione e il Pil si contrae. Le esportazioni non possano far molto per compensare il deterioramento economico, come dimostra la debole crescita che si prospetta per il 2014 in tutta l’eurozona, dopo la cura dell’austerity messa a punto nei laboratori di Bruxelles, che ha avuto effetti pesanti proprio sui redditi e sui consumi. Una cura che si è dimostrata, alla prova dei fatti, una follia,mache ancora si continua a somministrare come se nulla fosse accaduto, nonostante la ormai certezza che si poteva risparmiare tanta sofferenza alle popolazioni con politiche economiche espansive anziché recessive.
Oggi l’Italia è intrappolata nell’illusione di una ripresa talmente debole da apparire un prolungamento della crisi. Con un paradosso: il miglioramento di alcuni parametri economici si stanno traducendo in una crescita del risparmio anziché dei consumi. D’altronde, due anni di politiche del «rigore dei bilanci pubblici», sorde ai bisogni della popolazione, ha sfiancato la fiducia dei cittadini. Un ingrediente, questo, che nell’economia reale è più importante di quella dei mercati.Unsentimento di diffuso pessimismo che, insieme alla contrazione dei consumi e alla crescita della disoccupazione, rappresentano le principali conseguenze delle politiche «lacrime e sangue». Per entrare nella traiettoria della ripresa serve una riqualificazione della spesa pubblica, che liberi risorse da destinare alla riduzione della pressione fiscale, occorre incoraggiare le assunzioni attraverso una sostanziale riduzione degli oneri sul costo del lavoro, avviare politiche dei redditi per dare ristoro alle famiglie e riuscire
a stimolare ladomanda interna. Così com’è del tutto evidente che se non si ricostruisce un ceto medio corposo, il Paese troverà con sempre maggiore difficoltà le risorse per crescere economicamente e socialmente, approvvigionarsi finanziariamente e fare quegli
investimenti che servono a far crescere il Pil e l’occupazione. Finora si è agito in senso opposto, col risultato che la spesa delle famiglie è diminuita ed è cresciuto il tasso di disoccupazione, soprattutto nelle sue componenti più pericolose, quella giovanile e quella di lunga durata. Entrambe anticamera di quella disoccupazione strutturale, non legata cioè ai cicli economici, che rischia di trasformare il sogno della ripresa in un incubo.

da L’Unità

"Effetto Volterra. Nella città che resiste all’Italia che frana", di Adriano Sofri

Volterra, il gioiello dalle mura fragili “Così resistiamo nell’Italia delle frane”
La voragine dei giorni scorsi ha svelato un mondo di artisti e artigiani di talento, un fervore di festival e teatri Palcoscenici negli ex manicomi e nelle carceri, laboratori di restauro, caffè culturali. Un argine a crolli e degrado.

Viene giù una strada e si scopre un mondo. I vigili del fuoco fanno entrare brevemente Carlo Bigazzi nel palazzo evacuato sulla frana a prendere qualche indumento, e mi lasciano affacciare alla finestra, che ora dà sullo strapiombo.
«Quelli sono i soffioni di Larderello, vedi come li piega il libeccio, domani piove; e oltre c’è l’Elba del monte Capanne, e la Capraia e in fondo il dito della Corsica».
Il pavimento è ondulato e ha delle crepe: qualcuna vecchia, qualcuna no.
Anni fa gli abitanti raccolsero firme chiedendo di chiudere il traffico nel vicolo interno, intitolato a Persio Flacco: per proteggere anziani e botteghe, e c’erano crepe, se ne discusse in comune, non se ne fece niente.
Un pompiere guarda giù e borbotta: «Qui rifrana». Fuori, sulla strada Lungo le Mura, a ridosso del tratto transennato che è venuto giù, un uomo sta gridando al telefono, per sovrastare il vento: «Sono a vedere di fuori il tramonto che vedevo da casa». Ai volterrani piace sentirsi come un’isola: invece che nel mare, un’isola nel vento. «È stato come il crollo di una banchina del porto», dice Carlo. La frana ha portato via per 40 metri le mura medievali, la strada e il ripiano sottostante. Gli edifici hanno fondamenta brevi, e poggiano su uno strato di riporto, sopra la roccia, la panchina. È impressionante come il crollo sia separato dal centro, da Duomo e Battistero, e dalla piazza dei Priori, appena da un isolato. A Volterra la Piazza per antonomasia («la più fredda d’Europa…») è quella dei Priori («il palazzo pubblico più antico di Toscana…»), le altre si chiamano San Giovanni, San Michele, senza bisogno di dirle piazze. Tra gli sfollati c’è una sorprendente comunità di artisti e artigiani, che fa capo al Caffé dei Fornelli, a pochi metri dalla voragine.
Mostre, letture, colazioni da osteria — «Mi raccomando, non chiamarlo bar!». Carlo, il titolare, scherza: «Dicono che voglio fare il business con la frana…». Ennio Furiesi detto Pizzi, 77 anni, decano di questa Montmartre, è un pittore geniale di spartiti di pioggia e schegge di soldati, maestro di generazioni di alabastrai: l’ultimo a venir via dal Padiglione Chiarugi, che a manicomio e riformatorio dismessi era diventato un centro di cultura. Sloggiato dal Chiarugi pericolante, evacuato ora dallo studio sulle mura, Furiesi si è scritto un epitaffio (da vivissimo): «Nello specchio ho visto un vecchio, / crollato nel fisico e nel morale, / come l’antico muro medioevale». Hanno protestato in tanti che il muro medievale franato stava per risalire la china e ritornare in sesto da solo. Alessandro Marzetti, già suo allievo, ora insegna e lavora tutte le pietre, ha anche lui il laboratorio sullo sprofondo: c’è di tutto, nodi escheriani, senza capo né coda, dunque perfetti, ricavati svuotando l’alabastro, più dolce del marmo e molto più fragile. Mi vergogno delle mie tasche piene di uova di alabastro da turisti, a 3 euro l’uno; lui le riscatta facendoci delle microsculture. «Era la via delle botteghe di alabastro. Ha visto più trippa e vino… Erano mille, intagliavano e cantavano, donne e bambini lustravano, si lasciavano impronte di polvere bianca come in una neve perpetua ».
Ora l’alabastro per Volterra viene dalla Spagna, come le arance in Sicilia, le cave vendute alla Knauf, che ne fa il cartongesso… Andrea Bianchi, architetto, evacuato anche lui, è impegnato con geologi e costruttori a rimettere in sesto il crollo con le modalità della “somma urgenza”: incarico del Comune e soldi, per ora, della sola Regione. C’è Ilaria Tognarini, 39 anni, pittrice e ceramista, Alessio Marolda, 27, pittore. Giacomo Saviozzi è il fotografo, ha pubblicato un libro sul manicomio, “L’interruttore del buio”. Volterra, onusta di storia com’è, viveva del manicomio e del carcere- fortezza. Con l’aggiunta delle saline — fiorenti al tempo del monopolio, il salgemma pregiato per la chimica fine — fomentavano, dicono, “la cultura del 27”, il giorno fisso dello stipendio, a scapito della creatività culturale. Per farsi strada si andava via, come lo scultore Mauro Staccioli a Milano negli anni ‘50 — “ma torna sempre” — o il writer Nico Lopez Bruchi oggi. Suldi
l’asfissia progressiva provocata dai tagli a tutto ciò che sa di cultura, i giudizi sono unanimi. Non è qui la notizia che la frana porta a galla: piuttosto nella proliferazione di iniziative nutrite di inventiva e buona volontà. Illustri alcune, benché sempre costrette a divincolarsi fra gelosie e suscettibilità, come la Compagnia della Fortezza, che in 25 anni ha trasformato un istituto di pena in un istituto di cultura, e il festival annuale di teatro, animati da Armando Punzo, che persegue tenacemente il progetto del primo teatro stabile dentro il carcere.
C’è il festival del jazz, e quello del teatro romano (il parco archeologico romano, ai cui scavi furono decisivi i pazienti del manicomio, basterebbe a render preziosa Volterra), c’è lo “Hidden Theater”, il “teatro di nascosto” dei reportage di Annet Henneman. C’è l’università di Detroit (“la città più fallita del mondo” ha ristrutturato un palazzo storico, di cui disporrà per 30 anni), e l’università canadese di Windsor; la scultrice canado-giapponese Laura Shintani che si è innamorata dell’alabastro. C’è il Progetto Leonardo per giovani tedeschi impegnati al restauro di edifici cittadini, nella recuperata Villa Palagione, quella di “Vaghe stelle dell’Orsa”. C’è chi lavora a salvare il poco che si può delle vestigia del manicomio — che arrivò a essere una città nella città di più di seimila persone, e ospitò il titanico
libro murario, graffito con la fibbia, da Oreste Fernando Nannetti (1927-1994), “astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale”, al cui lascito dilapidato lavora l’associazione “Graffio e parola”.
Elena Capone, critica e “ufficio stampa” del Caffè, va avanti con l’elenco delle iniziative culturali, preoccupata che ne lasci fuori qualcuna: succederà. Intanto arriva Bruno Niccolini, 76 anni, già operaio dell’Enel, socialista ecologista pacifista, “storico del territorio in tutti i suoi angoli”, ha scritto 11 libri sul Volterrano, ha gli ultimi tre tomi sui “Luoghi di Velathri” sotto il braccio. «La mia università l’ho fatta fra le capre di Micciano» — che è una frazione Pomarance di 65 abitanti, vedo, capre non so. È un fiume in piena, ed enumera acque e fontane. «Ho contato almeno 75 sorgenti a Volterra, e d’estate manca l’acqua! C’è lo zampone dell’uomo ».
Volterra è un crostone di calcare arenaceo, pietre e sabbione, e sotto argilla, l’acqua drenata trova l’argilla impermeabile e scivola, è lo scorrimento che genera le balze. «Hanno chiuso la strada vicinale della Pescaia, le più belle mura etrusche non solo non si possono più vedere, ma franano. Passeggiarci sopra era almeno un modo di tenerle compatte…». Ha appena visitato una tomba etrusca “costruita”, raro esempio, «perché erano scavate, perciò le chiamiamo buche. C’erano due tholoi, uno è franato, l’altro è affogato nei lecci e nei rovi …». Massimiliano Casalino, consigliere provinciale, fa i numeri dello spopolamento e dell’invecchiamento, ricorda che l’ultimo piano risale al 2009, che l’allarme riguarda l’intero centro storico, che manca un vero investimento culturale. C’è la Deposizione del Rosso, c’è Finaz della Bandabardò, l’Urna degli sposi e l’Ombra della sera, e il Duomo e il Battistero come in ogni città toscana, ma più sobri e austeri. Volterra è meno elegante di Lucca e Siena, meno dolce della Toscana di collina, anzi a volte, isola nel vento e nelle nuvole, è arcigna e quasi cupa, ma i tramonti dalla frana Lungo le Mura o dal Maschio inciso dai galeotti glieli può contendere solo una Sant’Elena nell’oceano.

da la Repubblica

"La carica dei candidati tra inquisiti e abbuffate ", di Gian Antonio Stella

Tira una strana aria, su queste prime elezioni del «dopo». Dopo l’irruzione di Renzi. Dopo la cacciata di Berlusconi dal Senato. Dopo la rottura del Pdl. Dopo la rinuncia a correre dei grillini. Dopo l’inquisizione di gran parte dei vecchi consiglieri. Fatto sta che metà dei sardi, alle Regionali di domenica, non sa ancora chi votare.
Nell’incertezza generale manca perfino quello che, nei ricordi di Mario Segni, era il segno dominante delle campagne elettorali: «Pecora bollita, pecora bollita, pecora bollita: sempre così finivano, i comizi: “non mi faccia torto, onorevole, un po’ di pecora bollita!”» Ora, più che mai, dominano i porcetti. Simbolo dello «scandalo rimborsi» grazie al pidiellino Sisinnio Piras, ammanettato un mese fa per avere messo in nota spese, tra l’altro, costosi convegni finti organizzati nella palestra della moglie tra i quali uno dal titolo «L’obesità nella società moderna» concluso con una trimalcionica abbuffata di maialini arrosto pagati dalla Regione (cioè dai cittadini) e forniti dall’azienda di famiglia. Maialini peraltro probabilmente importati: la peste suina e la «Bluetongue», che sta facendo stragi fra le pecore sarde, sono ben lontane dall’esser vinte. Forse anche perché, come denuncia Coldiretti, gli aiuti all’agricoltura sono scesi in quattro anni da 120 a 12 milioni di euro: un nono dei soldi (93 milioni) destinati alle burocrazie delle agenzie regionali.
Crisi nera, in Sardegna. Per l’agricoltura. Per le miniere. Per l’industria pesante, che dopo il fallimento del sogno delle ciminiere piantate dallo Stato e dagli imprenditori del Nord, spesso bucanieri, si aggrappa a Porto Torres alla speranza della «chimica verde». Perfino il turismo, nonostante il boom mondiale, segna il passo.
«Colpa dello Stato patrigno», giura Ugo Cappellacci, che cerca la riconferma rialzandosi come l’«Ercolino Semprinpiedi» dopo mille inciampi. Gli sono caduti intorno, con le inchieste, un mucchio di pidiellini. L’hanno coinvolto in due processi per bancarotta (uno finito: assoluzione piena) e uno per la loggia P3. Gli hanno rinfacciato di tutto. Di aver dato 950 mila euro (in parte presi dalle risorse destinate a «ospedali e servizi sanitari», ha scritto Pablo Sole su sardiniapost.it ) al reality «Sweet Sardinia» in onda sulla berlusconiana «La5» con uno share dello 0,7%. Di avere speso 18 mila euro di pubblici denari per «Detto, fatto», un libretto autocelebrativo anticipato sul sito ufficiale regionale che come è ovvio appartiene a tutti sardi, compresi gli oppositori. Di avere «giocato all’armatore» affittando dei traghetti per portare turisti («lo farei di nuovo») e lasciando un buco finanziario rinfacciatogli dall’Europa.
Come non bastasse, ci si è messo l’«amico Silvio», che prima ha aperto il comizio a Cagliari raccontando una barzelletta su «Ugo Merda», poi ha telefonato a un altro convegno facendo in diretta una battuta su Aquileia: «Presidente, qui è Alghero!»
Uno scivolone dal quale il Cavaliere si è rialzato con un colpetto da maestro ma che a molti ha ricordato il ruzzolone sul copia-incolla (la Sardegna risultò avere 11 Province) dell’ex governatore Mauro Pili. Il quale, smessi i panni dell’«enfant prodige» berlusconiano, corre oggi con «Unidos» rivendicando di essere sempre stato autonomista: «Anche quando stavo con Berlusconi, sono sempre venuti prima i sardi. Sempre. Ho votato 1.200 volte contro le indicazioni di partito. Sempre in difesa dei sardi».
C’è un diluvio di sardismo, nelle urne. Finita l’egemonia del Partito sardo d’azione, che negli Anni 80 riuscì ad esprimere anche un presidente e oggi galleggia dalle parti della destra, sono spuntate liste come funghi. Oltre a quelle lanciate da Pili (Unidos, Fortza Paris, Soberania, Movimento sardo pro territorio, Movimento amministratori socialisti sardi, Movimento popolo sardo, Casa Sardegna) ecco il Partito dei sardi fondato dai docenti Paolo Maninchedda e Franciscu Sedda e poi Sardigna Natzione, Sardigna libera e RossoMori e Soberanitas e le due schegge di «Zona franca»: una schierata a destra, l’altra che corre da sola con un suo aspirante governatore, Gigi Sanna. Più il Fronte Indipendentista Unidu di Pier Franco Devias, lui pure candidato a presidente e qualche altra sigla che certamente, nel caos, dimentichiamo.
Chi è difficile da dimenticare è Michela Murgia, la scrittrice che, dopo aver fatto la cameriera, l’insegnante di religione, il messo di cartelle esattoriali, la portiera di notte, la telefonista, ma soprattutto dopo aver vinto il SuperCampiello, ha deciso di buttarsi in politica alla testa di tre liste, ProgReS, Gentes e Comunidades, che si richiamano alle radici e teorizza una nuova Sardegna che si rilanci con un mix tra i punti di forza tradizionali (l’agricoltura, l’allevamento, i grandi prodotti gastronomici, il vino…), il turismo colto e l’incontro con i nuovi mondi del web.
Web che potrebbe darle una mano, stando ai sondaggi, grazie al buco lasciato da Beppe Grillo. Il quale, dopo aver preso una valanga di voti alle politiche dell’anno scorso e dopo le delusioni in tutte le successive elezioni locali, ha preferito lasciar perdere. Tanto più che il Movimento 5 Stelle sardo era così litigioso intorno all’albero della cuccagna delle candidature da rischiare un naufragio controproducente per le Europee.
Proprio le Europee, infatti, anche a dispetto delle giuste rivendicazioni di un po’ tutti i candidati («Parliamo della Sardegna! Della Sardegna!») sono uno dei temi centrali per chi guarda le cose da Roma. Perché qui, nell’isola, sono messe alla prova tante cose. Il vuoto lasciato dai grillini resterà tale o sarà riempito dalla Murgia da giorni impegnata in scazzottate (micidiale lo scambio di colpi con Cappellacci: «Lui è come Schettino». «Lei ha la stazza della Costa Concordia» «Grazie presidente, con battute così mi porta voti») con la destra e la sinistra? Darà frutti, dopo le baruffe, l’alleanza post-Pdl tra berlusconiani e alfaniani? Ma soprattutto: riuscirà Renzi a vincere la sua prima prova da segretario Pd o, come scommette la destra, «finirà rollato come Veltroni»?
Certo è che il candidato del centrosinistra Francesco Pìgliaru, renziano della prima ora, somiglia al suo segretario come il pomo alla pera. E tanto quello è giovane, gagliardo, irruento, impaziente, impregnato di vis polemica quanto lui, già assessore di Renato Soru e subentrato in corsa a Francesca Barracciu (azzoppata dall’inchiesta sui rimborsi dopo aver vinto le primarie), rivendica le physique du rôle del docente universitario sessantenne, riflessivo, tranquillo, paziente, restio alle risse se proprio non ci viene tirato dentro. E anche questa, nella rissosa politica di oggi, è una scommessa.

da il Corriere della Sera

"Ma le frasi vivono di quei due segni", di Stefano Bartezzaghi

PAREVA oltretutto di aver letto recenti allarmi in senso contrario, secondo i quali la virgola avrebbe sostituito tutti gli altri segni di interpunzione. Si è già mangiata il punto e virgola e i due punti, i nuovi formati di scrittura sembrano imporla come unica pausa multiuso. È invece vero il contrario per John McWhorter, un anglista della Columbia University di New York, che verso le virgole mostra di avere le stesse certezze che il compianto Pier Paolo Pasolini appunto nutriva riguardo alle lucciole.
McWhorter ha osservato una certa, negligente trascuratezza nella distribuzione delle virgole da parte degli utenti di Internet e social network e non si sente di disapprovare la tendenza: «Potete toglierle da parecchi testi americani moderni e in chiarezza perderete tanto poco da pensare che sia il caso di omettere le virgole del tutto». La conclusione è che la virgola è convenzione, è moda, qualcosa di rinunciabile. Si può contestare. Ma quello che contestare invece si deve non è la conclusione bensì il presupposto: che il linguaggio sia funzionale alla «chiarezza » — questo mito, immortale per chiunque scriva e legga poco o male — e che quanto nel linguaggio si riveli non funzionale alla chiarezza sia superfluo e, appunto, rinunciabile.
La virgola ci aiuta a dare forma allo scritto o a rappresentare, nello scritto, il parlato. È uno strumento espressivo e all’espressione si può rinunciare solo non avendo nulla da dire.
La letteratura italiana del Novecento si apre con Gabriele D’Annunzio che scrive: «L’anno moriva, assai dolcemente » (Il piacere, 1889) e si chiude con Aldo Nove che scrive: «L’amore, ha lo stesso meccanismo del Gratta e Vinci» (Puerto Plata Market,
1998). Si può pensare che quelle due virgole, diversissime ma parimenti espressive, vadano cancellate: infatti non sono necessarie alla «chiarezza». Ma allora tanto vale cancellare anche le frasi in cui compaiono, che vivono di quelle due virgole, delle loro rispettive volontà di sublimità e squisita rozzezza, più che delle parole che le virgole stesse dividono.

da la Repubblica

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“La sconfitta della virgola nell’era dei social network “Non si usa più: aboliamola”, di Enrico Franceschini

— Forse ve ne siete già accorti da soli, scrivendo un messaggino, un post, un’email o twittando. Ma adesso un illustre accademico l’ha gettata, per così dire, nello stagno della grammatica, e il mondo letterario sembra sostanzialmente d’accordo. Virgola, addio. Anzi: virgola addio (senza virgola nel mezzo). Il segno d’interpunzione che esprime una pausa breve, come lo definisce il dizionario, la “piccola verga o bastoncino” (dal latino “virgula”) messa in basso in fondo a una parola, sta diventando obsoleta. Viene usata con sempre minore frequenza nel linguaggio digitale, e poiché quello di Internet è ormai il linguaggio universale, la sua dipartita sul web potrebbe estinguerla anche dalla scrittura su carta, dunque nei giornali, nei libri, nella corrispondenza privata, per i pochi che si ostinano a scambiarsi messaggi in tale antiquata forma.
È stato John McWhorter, docente di letteratura alla Columbia University, a pronunciare l’eureka che fotografa una situazione sotto gli occhi di tutti: dal momento che gli internauti e anche numerosi scrittori dimostrano crescente indifferenza all’utilizzo del “comma”, la sua definitiva scomparsa potrebbe essere imminente. «La si potrebbe togliere da buona parte dei testi contemporanei e la chiarezza non ne risentirebbe», afferma lo studioso sulla rivista online Slate.
«La maggior parte dei segni grafici sono convenzioni, ed è naturale che cambino nel corso del tempo ». Concorda Simon Horobin, professore del Magdalene College di Oxford: «C’è una tendenza generale a un uso più lieve della punteggiatura, che sta mettendo chiaramente al tappeto l’utilizzo della virgola». In particolare i più giovani, la
web generation, osserva lo studioso, possono venire confusi dal diverso stile grammaticale del linguaggio online rispetto a quello insegnato nelle scuole, dove la virgola (per il momento) resiste.
Il Times di Londra fornisce esempi di informazioni pubblicitarie, cartelli stradali e articoli di giornale in cui ci si aspetterebbe una virgola, ma non la si trova. E anche i più ligi alla grammatica riconoscono che certe regole, come quella (in inglese ma non in italiano) di metterla dopo il penultimo elemento di una lista (“Tizio, Caio, e Sempronio”), non vanno più di moda. Del resto autori come Jane Austen praticamente la evitavano, preferendovi la lineetta (erano i suoi editori a sostituirla con la virgola), Hemingway la rimpiazzava spesso con una sfilza di “e”, mentre il romanziere americano Tao Lin taglia corto in una recente poesia: «La grammatica è stupida / ucciderò grammatica e simboli». È vero, tuttavia, che la virgola appare meno necessaria nell’inglese scritto, in cui si prediligono frasi secche separate da un punto: soggetto verbo complemento oggetto. Come faremmo noi italiani, maestri dell’inciso dentro
un inciso dentro un inciso, a scrivere (e pure a parlare), senza la virgola? Chissà, magari impareremmo a non perdere il filo del discorso.

da la Repubblica