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"Se si ammala la democrazia", di Michele Ciliberto

In questi giorni, sono molti a criticare i comportamenti e le scelte del Movimento cinque stelle, ed è giusto. La gazzarra che i suoi rappresentanti hanno inscenato in Parlamento non ha molti precedenti e va condannata con severità, come ha fatto opportunamente anche il presidente della Repubblica. Non sembra però, leggendo i giornali o ascoltando le reazioni, che si sia capito cosa è veramente in gioco e cosa sia alla base di quei comportamenti.

Come avviene in genere da noi, si parla subito, e in modo generico, di fascismo o di rigurgiti di tipo fascista. È la stessa reazione infatti che in molti hanno avuto anche nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo, presentandoli, appunto, come una nuova forma di fascismo. Sono un’analisi e un giudizio sbagliati in entrambi i casi.

Il che non toglie che Grillo e Berlusconi abbiano elementi in comune, ma di natura assai diversi. Sono entrambi un frutto della lunga, e profondissima, crisi della nostra della democrazia parlamentare, arrivata ormai a un punto di estrema gravità: o si riesce, infatti, a invertire subito la rotta oppure diventa assai difficile prevedere quale possa essere il futuro della Repubblica.

È una crisi di vasta portata, risalente agli ultimi decenni del secolo scorso, alla quale Berlusconi e Grillo hanno dato due risposte simmetriche, e al tempo stesso assai differenti, anche se entrambe ben note, sul piano storico. Il primo ha sostenuto, e propagandato con mezzi nuovi e originali, una soluzione in termini autoritari e dispotici imperniata sulla sostanziale liquidazione della legalità costituzionale e sul sovvertimento dell’equilibrio fra poteri, con una forte enfasi sul potere esecutivo e sulla funzione carismatica del leader; il secondo ha scelto di affrontare, e risolvere la crisi, ricorrendo ai principi, agli strumenti e ai comportamenti tipici delle forme di democrazia diretta.
Per essa il Parlamento ha una funzione puramente strumentale, proprio perché è una istituzione di carattere rappresentativo. Non si tratta solo del Parlamento: dal punto di vista della democrazia diretta tutti gli organismi rappresentativi hanno una funzione puramente accessoria e subalterna. Sono, come si è visto in questi giorni, un terreno di scontro, anche violento; non un luogo di discussione o di confronto. In questa concezione non esistono, infatti, rappresentanti con il compito di legiferare, ma solo delegati del popolo, ai quali devono rendere conto e dal quale essi possono essere revocati, secondo un principio «democratico» di ordine genetiste.

Nel caso specifico del Movimento 5 Stelle, c’è poi un ulteriore elemento di novità importante: il popolo è costituito dalla Rete, la quale si sostituisce alla piazza, e rappresenta – o dovrebbe rappresentare – il luogo in cui il popolo prende le sue decisioni che i delegati, in qualunque Assemblea, hanno il compito di sostenere e di realizzare. Ma se le forme cambiano, e vengono aggiornate, la sostanza non muta, ed è sempre la stessa: quella tipica della democrazia diretta, impiantata sul potere, senza alcuna mediazione, del «popolo», dei cittadini.

Quali siano gli effetti di questa concezione è verificabile sul piano storico: bruciate la forme della rappresentanza, quello che si afferma è un potere senza controllo, di tipo dispotico, incarnato in primo luogo dal capo, dal leader che diventa, in ultima analisi, il vero, e unico, depositario della volontà popolare che a lui fa capo e da lui riceve legittimità. È una sorta di circolo vizioso: da un lato, il popolo è l’unica fonte della sovranità; dall’altro, è il capo, il leader che dà forma, e voce, al «popolo» interpretandone bisogni ed esigenze, e dirigendolo verso gli obiettivi comuni, se necessario anche in modo violento, autoritario. Con un processo di trasfigurazione – reso, oggi, più evidente e più visibile, dalla presenza della Rete – la figura del leader, del capo assume in questo modo i tratti del «profeta», del «legislatore» che, con saggezza e lungimiranza, conduce il suo popolo oltre il Mar Rosso, come una sorta di «moderno» Mosè.
È un fenomeno complesso nel quale si intrecciano elementi vecchi e nuovi che qui non posso specificare. Mi interessa invece sottolineare tre punti: il Movimento 5 Stelle è un effetto diretto della crisi della democrazia italiana, e su questo piano va combattuto; la democrazia diretta di cui esso è alfiere e patrocinatore si risolve in nuove forme di dispotismo autoritario e nel potere incontrollato della leadership, fatti entrambi ben conosciuti sul piano storico; non ha alcun senso interpretare un fenomeno come questo nelle vecchie categorie del fascismo. Non serve soprattutto a comprendere il consenso che il Movimento 5 Stelle raccoglie, che scaturisce proprio dalla sua opposizione frontale agli organismi della democrazia rappresentativa resa a sua volta possibile, ed efficace, dalla crisi organica da cui essa è, da tempo, investita. È questo il suo terreno di coltura e di sviluppo: quanto più la «rappresentanza» appare impotente e senza prestigio, tanto più il principio della «delega» appare l’unica arma a di disposizione del cittadino per risolvere i suoi problemi quotidiani e anche quelli del Paesi. È per questo che, se il Parlamento funziona, o ricomincia a funzionare, il Movimento reagisce in modo violento, rompe gli argini come se fosse tarantolato: intuisce che il funzionamento degli organismi rappresentativi può essere l’inizio della sua crisi ed anche della sua fine. È un principio, verrebbe da dire, di «scienza» politica.
Se c’è una lezione da imparare dagli avvenimenti di questi giorni è dunque costituita dalla necessità e dall’urgenza di rimettere in moto il Parlamento approvando la legge elettorale e avviando il riassetto istituzionale della Repubblica più volte sollecitato dal capo dello Stato. È su questo terreno che si può contenere e sconfiggere, politicamente, il Movimento 5 Stelle, sottraendogli l’acqua in cui è cresciuto fino ad ora. Ma non c’è molto tempo a disposizione. Non so se tutti ne siano consapevoli, ma in questi mesi si sta giocando con il fuoco: in gioco è il destino della democrazia italiana; anzi, quelle che sono oggi in discussione sono differenti idee e concezioni della democrazia, e la configurazione che essa, potrebbe avere, in Italia, nei prossimi anni. È uno scontro sia politico che etico-politico: forse bisognerebbe spiegare, o ricordare a chi se ne è dimenticato, quale principio di civiltà e libertà individuale e collettiva sia la democrazia rappresentativa, quando essa è viva e vitale. Come diceva Clemenceau, è come l’aria: se ne sente la mancanza quando non ce n’è più.

da http://campodimarte.com.unita.it/culture/2014/02/01/se-si-ammala-la-democrazia/

"È una battaglia di civiltà per tutta l’Europa", di Valeria Fedeli*

Partiti dalla Spagna, come giusta reazione alla proposta di legge sull’aborto – che limita fortemente il diritto di scelta e di autodeterminazione – la mobilitazione delle donne sta diventando un movimento europeo. Il «treno della libertà» che parte da Madrid toccherà poi capitali e città di molti paesi dell’Unione. Sono in gioco non solo i diritti delle donne, ma le condizioni di uguaglianza e le opportunità di crescita per tutti i cittadini e tutte le cittadine europee. Questo deve essere un punto chiaro della sfida nuova. «Yo decido», slogan con cui le donne spagnole hanno lanciato la protesta contro la legge Rajoy, si deve unire alla battaglia per una democrazia paritaria, che riconosca e valorizzi le differenze di genere e che fondi la capacità di innovazione e costruzione del futuro contando sul pieno contributo di donne e uomini. Aborto, contrasto a stereotipi e linguaggi sessisti, lotta alla violenza maschile, valorizzazione del capitale femminile, percorsi di carriera e equa rappresentanza in tutte le posizioni apicali dei settori pubblico e privato, conciliazione dei tempi privati e di lavoro, condivisione dei carichi di cura, leggi elettorali paritarie: abbiamo di fronte, partendo dal punto di vista femminile, un programma largo di cambiamento.
Non si tratta di rivendicare spazi e occasioni solo delle donne, o di rilanciare quelle che sono state considerate da sempre, con uno sguardo miope, questioni femminili, ma di un cambio di paradigma culturale, che metta al centro le persone, l’uguaglianza, la democrazia.
L’Europa deve diventare un modello di sviluppo sostenibile, di convivenza democratica, dove ci sia una condivisione piena di valori che sono l’essenza stessa dell’essere europei, oltre che l’unica opportunità per ritrovare un posto nel mondo.
Per fare questo è decisivo che su alcune questioni si compia una battaglia dentro tutta la Ue senza confinare valori, libertà, diritti e opportunità ai singoli stati. È in questa direzione che va la mobilitazione che parte oggi e verso la quale ci si muove anche a livello istituzionale, dopo che la bocciatura del rapporto Estrela ha riaperto il dibattito sul ruolo dell’Unione nel garantire diritti e libertà. Il 2014, anno decisivo per l’Europa – con le elezioni e il rinnovo della Commissione, e aggiungo il semestre di Presidenza italiano – deve essere l’anno in cui si afferma, in modo coerente con lo spirito dei fondatori dell’Unione, un’idea di Europa della crescita, dell’uguaglianza, dei diritti delle persone, del benessere.
Oggi al centro dell’attenzione c’è la Spagna, perché lì il governo ha dichiarato l’intenzione diretta di limitare la possibilità di una maternità scelta e consapevole, dopo che negli scorsi anni c’erano stati significativi avanzamenti grazie alle riforme di Zapatero. Ma quella stessa attenzione ci riguarda tutte e tutti. L’Italia non è certo distante da questi problemi. Sia per quel che riguarda il tema dell’aborto, con l’applicazione della 194 messa a rischio dal gran numero di medici obiettori, sia per quel che riguarda la violenza di genere o le scelte che rendano praticabili le scelte di libertà delle donne e delle giovani donne ancora di più. Anche in questi ultimi giorni abbiamo assistito ad uno spettacolo indegno, con l’uso, anche dentro i palazzi istituzionali, di linguaggi violenti e sessisti.
Mi riferisco agli insulti indirizzati alle deputate Pd dal loro collega De Rosa – la cui difesa, «ho detto quello che pensano tutti», la dice lunga sulla cultura «machista» profondamente radicata nel sentire di molti uomini – e agli attacchi dello stesso genere rivolti alla Presidente della Camera che Letta ha definito antidemocratici. Chi calpesta la dignità, chi non rispetta gli altri, chi pensa che sia giustificabile il ricorso alla violenza – verbale o fisica – contro le donne non può in alcun modo pretendere di difendere gli interessi delle persone, e ancor meno, di rappresentarli nelle istituzioni. Ecco perché c’è bisogno di un cambiamento culturale profondo, capace di modificare il modo in cui bambine e bambini guardano al mondo, le relazioni tra sessi e i processi di socializzazione. C’è bisogno di un’alleanza larga, che parta dalle scuole, che sia condivisa dai media, dai soggetti vitali della società civile e della rappresentanza economica e del lavoro. E c’è bisogno, fortemente bisogno, di una politica positiva, che costruisce, che decide e che rilanci la funzione democratica ineludibile delle istituzioni.
Siamo in campo e impegnate per questo. Spero saremo sempre di più ad agire il cambiamento. Spero e ho fiducia nelle tante donne e uomini che si stanno muovendo per dare all’Italia le risposte urgenti e necessarie per essere un Paese davvero anche per donne. E spero ci siano tanti uomini che sentano loro – leader, parlamentari, giornalisti, uomini tutti – la sfida di una società più giusta, più uguale e più libera.
*Vicepresidente del Senato

da L’Unità

I dubbi in Commissione Difesa: “Ne bastano 45, un miliardo all’anno di risparmi per armamenti” Costano troppo, meglio gli Eurofighter il Pd dimezza l’acquisto degli F35", di Alberto Custodero

ROMA — Dimezzamento del programma F35 che, attualmente, è sospeso. Rilancio del velivolo Eurofighter made in Ue. E risparmio di un miliardo all’anno per gli armamenti del Paese. Sono questi, in sintesi, i punti principali che mercoledì prossimo saranno presentati dai 21 componenti del Pd della Commissione Difesa della Camera al gruppo parlamentare democratico. L’“Indagine parlamentare conoscitiva sui sistemi d’arma” s’è conclusa, anche se manca l’audizione del ministro della Difesa. «La ricca documentazione raccolta — ha dichiarato il deputato Pd Carlo Galli — ha dato dignità istituzionale ai tanti dubbi sulla opportunità del programma F35». «Quel che è emerso — ha aggiunto Galli — è che L’Italia a Nord è ben protetta da solide alleanze. Ma a Sud lo “stivale” affonda in una palude perché i Paesi del Nord Africa costituiscono, parafrasando il latino  mare nostrum, in un mare di guai nostri. Ecco perché è assolutamente necessario dotarci di sistemi d’arma moderni». Ma quali?
I lavori non termineranno con una relazione della Commissione, ma ogni partito utilizzerà i dati raccolti per formulare un proprio documento politico. Quello del Pd è il più atteso perché il partito di Renzi era quello che aveva voluto fortemente l’“indagine” conoscitiva, osteggiato da M5S e Sel che vedevano in quello studio il tentativo di insabbiare il problema. E invece, per la prima volta nella storia della Repubblica è stata restituita la piena sovranità alle Camere in materia di armamenti. La vera rivoluzione consiste nel fatto che il documento politico del maggior partito di governo rilancerà il progetto dell’aereo militare del consorzio europeo che era stato stoppato da due ex ministri della Difesa La Russa e Di Paola, e da quello in carica Mauro. La vera posta in gioco che si cela dietro il dibattito sull’F35, va detto, è di strategia politico-militare. L’F35 significa la totale sudditanza per il futuro ai sistemi aerei militari americani. L’Eurofighter significa puntare a costruire un sistema di difesa integrata Ue che non finirà certo nella produzione dei velivoli. Ma proseguirà, ad esempio, nel creare una logistica militare che faccia da sinergia tra i vari Paesi membri. Un esempio: che senso ha che ogni Stato disponga di un poligono quando ne basterebbe uno europeo comune per tutti? Solo con questa politica europea si potrà raggiungere lo scopo che la Commissione s’era data di risparmiare un miliardo l’anno. La proposta del Pd dunque prenderà in esame un dimezzamento dell’F35, da 90 a 45 velivoli E la rinascita dell’aereo made in Europa. Le ricadute in termini occupazionali non sono da poco. «Ogni euro per l’F35 — spiega Carlo Galli — finirà nelle casse della americana Lokheed. Inoltre, dai lavori della Commissione è emerso che i cantieri di Cameri per l’assemblamento delle ali lavoreranno in perdita». «Il progetto di aereo europeo, invece — aggiunge il deputato democratico — comporterà per noi un indubbio vantaggio economico e occupazionale, in quanto ogni euro investito, sarà restituito all’Italia dal consorzio Ue in termini di commesse».
L’“Indagine conoscitiva” ha fatto emergere, a sorpresa, quanto poco sia coesa la strategia della Difesa italiana. Dopo cinque mesi di discussione su quanto fosse obsoleta la nostra aeronautica, a spiazzare tutti è stato l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Agli attoniti commissari-deputati, infatti, il comandante della Marina militare italiana ha svelato, a sorpresa, che l’emergenza è la nostra flotta, che si trova in condizioni critiche, forse peggiori di quelle dei velivoli militari. «La nave più giovane ha vent’anni», ha spiegato. E il suo allarme è stato talmente grave che il governo ha ritenuto di assegnare subito alla Marina un contributo di 5,8 miliardi di euro per i prossimi 20 anni per l’adeguamento dei mezzi navali militari.

da la Repubblica

Duello sulla legge elettorale: "Io realista, i tuoi sistemi ideali non sono attuabili", di Roberto d'Alimonte

Sì, è vero. Lo confesso. Ho il difetto di distinguere il fattibile dal desiderabile. Mi piacciono i collegi uninominali maggioritari a due turni. Ho qualche dubbio, che Sartori non ha, sul semi-presidenzialismo francese, che per altri studiosi è in realtà un iper-presidenzialismo. Ma sulla bontà dei collegi francesi non ho dubbi.
Vorrei che fossero il perno del nuovo sistema elettorale italiano. Purtroppo però sono certo che hic et nunc questo mio desiderio è irrealizzabile.
Lo è per ragioni politiche, non prive di una base empirica, che a Sartori evidentemente sfuggono.
er questo lascio perdere le sue «soluzioni esatte» e preferisco cercare di capire e di suggerire quali modifiche migliorative dello status quo siano realisticamente praticabili oggi e non domani. Perché l’Italia ha bisogno non di proposte su sistemi elettorali «esatti», ma di una riforma che, per quanto imperfetta, sostituisca il proporzionale che ci ha regalato la Consulta con un sistema più funzionale e che allo stesso tempo trovi in Parlamento i voti per essere approvato. In questo sta il mio peccato come consigliere del Principe.
Quanto alla equiparazione tra sistema uninominale di tipo inglese e il premio di maggioranza Italicum torno a quanto già scritto (si veda Il Sole 24 Ore del 28 gennaio) e che Sartori ha banalmente frainteso. Tutti i sistemi maggioritari tendono a trasformare una minoranza di voti in maggioranza di seggi. Come ho già fatto notare Tony Blair con il 35% dei voti ha ottenuto nelle elezioni del 2005 il 55% dei seggi. La differenza tra il maggioritario inglese e quello italiano è che in Gran Bretagna il premio nasce collegio per collegio, mentre da noi con l’Italicum il “first past the post” che piace a Sartori si applica in un collegio solo, quello nazionale. Chi ottiene un voto più degli altri a livello nazionale ha la maggioranza assoluta. In un turno se ha ottenuto almeno il 37% dei voti. In due turni se nessuno arriva a questa soglia. Né si capisce perché questa soglia sia precalcolata sulle previsioni dei sondaggisti. Che c’entrano i sondaggi? Non c’è verso di sapere oggi chi possa arrivare a quella soglia. La soglia serve da una parte ad accontentare la Consulta e dall’altra ad accontentare Berlusconi che spera – con una soglia relativamente bassa – di vincere in un colpo solo. Un sistema simile non esiste in altri paesi? È vero. Ma nemmeno il voto alternativo usato in Australia, che è un ottimo sistema elettorale, esiste altrove.
L’Italicum non è una novità per noi. I sistemi elettorali usati nei comuni, nelle province e nelle regioni sono tutti versioni dell’Italicum. La ragione di questa sua “popolarità” sta nel fatto che questo tipo di sistemi consente di coniugare frammentazione partitica e governabilità. Se superano le varie soglie di sbarramento i partiti hanno seggi ma per far parte delle maggioranze di governo devono allearsi prima del voto e non dopo. La coalizione che ottiene un voto più delle altre governa. Nel caso dell’Italicum occorre aggiungere che assomiglia molto al modello con cui si eleggono i sindaci nei comuni sopra i 15mila abitanti. Non è la stessa cosa, ma è vero che una volta impiantato produrrà una modifica della nostra forma di governo perché gli elettori capiranno che il loro voto servirà a decidere chi guiderà il paese. Soprattutto nel caso di ballottaggio. In tal modo ci sarà un primo ministro eletto “direttamente” dal popolo e un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento. Meglio o peggio del sistema semi-presidenziale o iper-presidenziale di stampo francese che piace a Sartori? Questo merita discutere e non il fatto se Grillo decida lui per i suoi. Altro esempio di “irrealismo sartoriano”.

Duello sulla legge elettorale: “Io idealista? Tu fuori dai modelli dell’Occidente”, di Giovanni Sartori

Da tempo D’Alimonte ed io dissentiamo sui sistemi elettorali. Secondo lui, io sarei un idealista (e pertanto un irrealista) mentre lui sarebbe un realista. Ora, è noto da tempo che io sostengo (in prima scelta) il semi-presidenzialismo fondato sul doppio turno che esiste da tempo in Francia, e che dunque è una realtà. Mentre l’Italicum di Berlusconi si fonda su un premio che trasforma una minoranza in maggioranza; un meccanismo che non esiste (che io sappia) in nessun Paese dell’Europa liberaldemocratica.
Pertanto non convengo sulla distinzione tra idealista (io) e lui (realista).
La distinzione è che io sono uno studioso che cerca di spiegare e di proporre soluzioni esatte (realistiche o no), mentre D’Alimonte bada al fattibile e preferisce fare il consigliere del Principe.
Ma il punto sul quale davvero dissento con D’Alimonte è sulla equiparazione del sistema uninominale diciamo di tipo inglese al premio di maggioranza Italicum. No. Il principio del maggioritario è “first past the post” e cioè che vince chi sorpassa, anche se di un solo voto, gli altri contendenti. E questo non è un premio ma la nozione stessa di maggioranza. In dannatissima ipotesi potrebbe anche accadere, in Inghilterra, che i due maggiori partiti ottengano esattamente lo stesso numero di voti in ciascuna circoscrizione. In tal caso non ci sarebbe nessun premio e si dovrebbero indire nuove elezioni.
Tornando al nostro premio Italicum, quel premio è precalcolato sulle previsioni dei sondaggisti. E siccome io persisto nell’essere, a detta di D’Alimonte, un “idealista” persisto anche nel ritenere che la vituperatissima legge truffa di Ruini non fosse per niente tale, visto che assegnava un premio di maggioranza a chi aveva già ottenuto una maggioranza elettorale; ma che è una «truffa», come si strillò a torto allora, ma che è una truffa (ripeto, ignota in tutti i paesi seri dell’Occidente) quando si trasforma una minoranza precalcolata dai nostri chiromanti in una maggioranza. E nemmeno è vero che solo l’Italicum fa sapere subito chi governerà. Anche negli Stati Uniti, anche in Inghilterra, gli elettori lo sanno subito. E mi fermo qui. A meno che mi venga consentita una divagazione per mia curiosità.
Il Grillismo è senza dubbio un movimento politico. Ma può diventare un partito politico a tutti gli effetti? Sicuramente no. Per l’articolo 67 della nostra Costituzione («ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione e esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). Mentre Grillo decide lui per i suoi. Segnalai subito il problema ma tutti zitti, nessuno fiatò. Ritenni che i partiti facessero i furbi (o “i realisti”) contando al momento delle elezioni di pappare in quel serbatoio di voti. Mi ha stupito però il silenzio del Capo dello Stato di solito così preciso e attento alla legalità costituzionale. Forse anche per lui vige il “realismo D’alimontiano”?

da Il Sole 24 Ore

"Stessa pioggia, città cambiate", di Mario Tozzi

Scrivo con l’ultimo residuo di batteria del mio pc, mentre, a pochi passi da San Pietro, nella capitale d’Italia, molti isolati ed edifici sono senza corrente elettrica da ore. Roma è rimasta quasi isolata: strade consolari allagate, il Gra interrotto, voragini che si aprono dovunque. L’Italia tirrenica è sotto la tormenta e piove in poche ore la stessa acqua che un tempo cadeva in mesi.
Ma questo ormai lo sanno anche i sassi: bombe d’acqua le abbiamo chiamate un po’ impropriamente, e sono figlie di un tempo meteorologico che si è fatto estremamente variabile e di un clima complessivamente molto più caldo rispetto agli ultimi decenni. E’ gennaio ma non fa freddo: abbiamo avuto temperature atmosferiche fino a 15°C. E, non a caso, piogge torrenziali. E siamo andati vicini al disastro: se oggi piovesse in Arno l’acqua che è piovuta nel novembre del 1966, avremmo danni molto più gravi e vittime a Pisa e a Firenze.

Se piovesse con continuità lungo tutta l’asta fluviale del Tevere, nemmeno la città eterna sarebbe immune da una dolorosa alluvione che invaderebbe pure il Vaticano, Trastevere e Piazza Venezia.
Sembra quasi che a ogni pioggia abbondante (per fortuna nessuno le chiama più eccezionali) le cose vadano addirittura peggio. Ma come, non abbiamo ormai tecnologia e strumenti sofisticati per regolarci meglio? Effettivamente le previsioni del tempo sono oggi davvero molto attendibili e gli scenari ipotizzabili con precisione: possiamo seguire l’andamento delle tempeste e individuare i punti di atterraggio dei cicloni.
Ma l’unico vantaggio rispetto al Medioevo è questo, per il resto siamo indifesi rispetto agli eventi meteorologici come secoli fa: uomini in mezzo alla tormenta. Anzi, in un certo senso, siamo più indifesi di allora, perché il nostro territorio è complessivamente più fragile: non sono cambiate solo le piogge, sono cambiate anche le città.

I corsi d’acqua sono stati fatti sparire sotto la terra e i palazzi, oppure precipitati in fondo ad argini di pietra in cui sono stati dimenticati. E tutto attorno le aree di naturale esondazione dei fiumi, quelle che, da sole, difendono le aree inurbate, sono ormai invase dalle costruzioni. In questo paese si è costruito troppo: ogni anno si asfaltano e cementificano forse duecentomila ettari di suolo, con il risultato di un rischio idrogeologico in progressivo aumento, invece che in diminuzione.
Perciò non è un problema di tecnologia: di quella ne abbiamo fin troppa e, anzi, l’affidarcisi troppo rende meno pronti al momento in cui, comunque, toccherà affrontare la natura, questo mostro che tentiamo di tenere fuori dalla nostre mura domestiche per undici mesi all’anno, illudendoci invano di recuperarlo solo durante le ferie. E’ una questione culturale: con gli eventi naturali bisogna farci i conti prima di tutto accettandoli. Non saremmo mai immuni, rassegniamoci.

Soprattutto rispetto al clima. E hai voglia a tenere pulite le caditoie, i greti dei fiumi, e i tombini dalle foglie morte e dalla immondizia (tutte cose comunque da fare), qui il problema è che riduciamo queste operazioni a un fatto puramente tecnico, mentre meriterebbero ben altra cura, comprensione e ragionamenti. I romani antichi non si scomponevano poi troppo ad attraversare il Velabro in barca, qualche volta all’anno, e uno dei monumenti più vistati di Roma è la Bocca della Verità (dove non si deve infilare una mano se si è bugiardi), che altro non è che un inghiottitoio per l’acqua di pioggia, cioè un tombino, cui i nostri antenati dedicavano marmi pregiati e sculture dell’oceano con i delfini. Si chiamava rispetto per la natura. E consapevolezza che essere invulnerabili non è prerogativa dei viventi su questo pianeta.

La Stampa 01.02.14

"Italicum l'intesa regge 25 franchi tiratori", di Silvio Buzzanca

Un respiro di sollievo. Sembra provenire dai banchi del Pd, quando Laura Boldrini annuncia che la Camera ha respinto a scrutinio segreto, con 351 voti contrari, 154 favorevoli e 5 astenuti le pregiudiziali di costituzionalità sulla legge elettorale. Prova tangibile che l’accordo Renzi-Berlusconi regge. E regge anche l’unità dei democratici. Non a caso la dichiarazione si voto contro le pregiudiziali è stata affidata a Alfredo D’Attore, un bersaniano che più si è segnalato nel criticare l’intesa fra il segretario e il Cavaliere.
La conta così soddisfa Matteo Renzi che incita i suoi a proseguire su questa strada: «Bene così, avanti tutta», dice il sindaco di Firenze.
I suoi, intanto, fanno notare come sia raro che dal segreto dell’urna esca una maggioranza così “bulgara”. E soprattutto, dicono, i “franchi tiratori» sono stati fra 20 e 30. Sono 34, annuncia in aula il capogruppo di Sel Gennaro Migliore. Forse sono meno, dicono gli altri e sono una “quota fisiologica”. E quelli nostri, commentato i democratici, si dovrebbero contare sulla dita di una mano.
Contro le proposte di Sel, grillini e Fratelli d’Italia hanno votato
Forza Italia, Pd Scelta civica e Nuovo centrodestra. Ma subito dopo democratici, forzisti e alfaniani non sono riusciti, per mancanza dei 3/4 dei voti nella capigruppo, a fare calendarizzare il provvedimento per il 6 febbraio. Tutti gli altri erano per lo slittamento. Così, di fronte al disaccordo fra i gruppi, Laura Boldrini ha deciso di fare ripartire la discussione l’11 febbraio. Messo da parte l’Italicum, da lunedì la Camera sarà impegnata a discutere il decreto “svuota carcere” e il “destinazione Italia”.
Questo slittamento però preoccupa Renato Brunetta, timoroso che l’ostruzionismo grillino sui due decreti in scadenza possa ritardare l’iter della legge elettorale. E le sue parole trovano orecchie attente fra i renziani: «Si riapre il rischio palude tra Grillo, che proverà a fermarci, e i piccoli che tenteranno di riaprire una trattativa chiusa», si ragiona fra gli uomini del segretario. E al novero delle minacce possibili bisogna aggiungere anche l’idea di Angelino Alfano che insiste nel volere Renzi coinvolto nell’esecutivo. «Occorre che Renzi sia protagonista della nuova fase del governo; se Renzi non è protagonista, noi non crediamo che si possa andare avanti. Il Pd dica con chiarezza qual è la strategia», dice il vicepremier.
Ma di fondo resta un certo ottimismo basato sul fatto che alla ripresa della discussione ci saranno i tempi contingentati e l’asse Pd-Forza Italia è sicura di portare a casa il provvedimento per metà febbraio. Anche se Laura Boldrini, dopo la decisione della capigruppo ha riaperto il termine per la presentazione degli emendamenti e ha deciso di dedicare all’esame della legge elettorale 22 ore.
Un tempo finora mai concesso per un provvedimento. Infine, sempre la Boldrini, visto che si voterà per principi e gruppi di materie, ha triplicato il numero degli emendamenti che i gruppi potranno segnalare alla presidenza come fondamentali.
Un piccolo successo delle opposizioni che ieri hanno protestato vivacemente contro procedure e metodi usati fin qui nella vicenda legge elettorale. Ma si sono visti respingere anche la richiesta di un ritorno in commissione del testo per un approfondimento. Le proteste, alla fine sono culminate nella decisione di Lega, grillini e Fratelli d’Italia di abbandonare l’aula. Pressioni che hanno ottenuto il risultato dello “slittamento”.

La Repubblica 01.02.14

"Le ceneri", di Ezio Mauro

Qualcosa sta cambiando nel patto repubblicano che tiene insieme maggioranza e opposizione e le vede divise radicalmente sulle scelte politiche, ma unite nella tutela delle istituzioni e della loro libera funzionalità democratica.
Oggi il Movimento 5Stelle esce da questo patto, inaugurando un’opposizione di sistema. Nudi di politica, per il rifiuto ostinato di entrare in relazione con gli altri per un cambiamento possibile, i grillini vivono di campagna elettorale permanente, spettacolarizzando la decadenza del Paese fino a scommettere su un collasso istituzionale, indifferenti ai rischi per la democrazia.
Tutto ciò porta a privilegiare i mezzi sui fini riducendo la politica a conflitto, lo Stato a nemico, il Parlamento a teatro eroico dell’opposizione. È il rifiuto dell’atto politico (faticoso, ma utile a smuovere le cose) in nome del gesto politico che consuma se stesso mentre si compie, in un salto permanente nel cerchio di fuoco.
Questa trasfigurazione estetica punta sul superamento di ogni distinzione tra destra e sinistra, perché tematiche tradizionalmente progressiste possano essere emulsionate in format nichilisti: proponendo al cittadino esasperato un corto-circuito permanente capace soltanto di produrre cenere politica, però dopo l’illusione di un bagliore consolatorio, col botto finale.
Bisogna sapere che di questo si tratta, non d’altro. Un’illusione rivoluzionaria che si nutre di disprezzo per la democrazia. Alla quale si può rispondere solo con un cambiamento autentico che restituisca legittimità alla politica, e fiducia ai cittadini.

La Repubblica 01.02.14