Latest Posts

Caos Parlamento, Ghizzoni e Pini “Il M5s punta allo sfascio”

Le deputate modenesi Pd denunciano il grave attacco alle istituzioni democratiche
“Noi non permetteremo che, nella loro disperazione, si aggrappino alle istituzioni democratiche per trascinarle nel baratro”: le parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Giuditta Pini denunciano la gravità di quanto sta accadendo in queste ore a Montecitorio. “L’impressione è che dall’esterno non si percepisca la gravità assoluta di quanto successo – affermano Ghizzoni e Pini – Oltre agli insulti sessisti, pur gravi, non si percepisce a fondo l’attacco frontale alle istituzioni democratiche. Oggi il presidente Napolitano ha detto di essere preoccupato non per sé – che pure è oggetto di un attacco violento e inedito – ma per il Parlamento. Ecco questa preoccupazione dovrebbe essere di tutti”.

“Non è la solita bagarre politica, non è più neppure opposizione dura, è il gioco allo sfascio, con l’alibi della riforma di Bankitalia, ma con l’obiettivo di non fare la riforma elettorale”: le deputate modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Giuditta Pini provano a spiegare cosa sta accadendo in queste ore in Parlamento, con i parlamentari del Movimento 5 stelle che occupano le Commissioni, impediscono il normale lavoro parlamentare, censurano preventivamente il capogruppo Speranza che non riesce a parlare, marciano addirittura in formazione lungo i corridoi di Montecitorio. “L’impressione è che dall’esterno non si percepisca la gravità assoluta di quanto sta accadendo – affermano Ghizzoni e Pini – Oltre agli insulti sessisti, pur gravi, non si percepisce a fondo l’attacco frontale alle istituzioni democratiche. Oggi il presidente Napolitano ha detto di essere preoccupato non per se – che pure è oggetto di un attacco violento e inedito – ma per il Parlamento. Ecco questa preoccupazione dovrebbe essere di tutti. Perché c’è differenza tra fare opposizione anche dura (avendola fatta per anni noi in Parlamento) e giocare allo sfascio. Noi crediamo che le reali ragioni della vera e propria aggressione alle istituzioni dei deputati pentastellati debbano emergere chiare: Bankitalia è solo la foglia di fico. Non vogliono la riforma elettorale perché solo il perpetuarsi delle Larghe intese consente loro di sopravvivere politicamente. Il Porcellum garantisce loro di avere parlamentari, la riforma elettorale può sbloccare lo stallo in cui vive la politica italiana e apre le porte all’alternanza sinistra-destra alla guida del Paese”. L’escalation di violenza a Montecitorio ha avuto il suo culmine, in mattinata, quando a lavori dell’Aula ancora in corso, i deputati del M5s hanno semplicemente annunciato che se ne andavano: “Prima occupano le Commissioni, poi quando l’Aula lavora spariscono, un completo cortocircuito – commentano le parlamentari modenesi del Pd – Si sono presentati agli elettori in nome del cambiamento, ma una volta entrati nelle istituzioni hanno saputo fare solo delle sceneggiate o rifugiarsi sui tetti. Questo Paese va cambiato. Tutti devono lavorare per questo. Se i pentastellati vogliono continuare a giocare allo sfascio, saranno gli elettori, come già stanno facendo, a ritirare loro la fiducia. Ma noi non permetteremo che, nella loro disperazione, si aggrappino alle istituzioni democratiche per trascinarle nel baratro.”

Alluvione, i parlamentari Pd “Bene il Governo, ora gli indennizzi”

I parlamentari Pd esprimono soddisfazione per il riconoscimento dello stato di emergenza

I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari esprimono soddisfazione per il riconoscimento da parte del Consiglio dei ministri dello stato di emergenza per le zone colpite dall’alluvione del 19 gennaio, così come aveva richiesto la Regione Emilia-Romagna: “Un altro passo importante nella giusta direzione, a sostegno di comunità che prima hanno dovuto subire i danni del sisma e ora quelli dell’acqua”. Ecco la loro dichiarazione congiunta:

“Il Consiglio dei ministri ha riconosciuto lo stato di emergenza per le zone del modenese colpite dall’alluvione del 19 gennaio. E’ un altro passo importante nella giusta direzione, a sostegno di comunità che prima hanno dovuto subire i danni del sisma e ora quelli dell’acqua. E lo è ancora di più alla luce di quanto, purtroppo, sta accadendo anche in altre parti d’Italia, a Roma, a Firenze, a Pisa: un Paese, il  nostro, a costante rischio idraulico. Ora, come abbiamo già chiesto con atti parlamentari specifici alla Camera e al Senato, è necessario che vengano disposti gli indennizzi per gli ingenti danni che famiglie, imprese e Amministrazioni locali hanno subito. Non verrà meno il nostro impegno per il raggiungimento anche di questo obiettivo”.

 

"Cinque stelle, strategia del suicidio" di Luigi La Spina

Non è un segnale di maleducazione, è un sintomo di disperazione. È comprensibile che davanti a certi spettacoli vergognosi in Parlamento, alle risse, agli schiaffi, agli insulti più volgari, ci si indigni e si invochi un minimo di rispetto per le istituzioni, ma soprattutto un minimo di rispetto per se stessi. È pure comprensibile che la memoria si eserciti nel confronto sia con la storia del nostro, non sempre fulgido, costume parlamentare, sia con quello, ancor meno invidiabile, di alcune aule terzomondiste. Ma se fosse solo un problema di etichetta, quello che si imputa ai parlamentari grillini, forse basterebbe aspettare che il noviziato movimentista degli adepti di Grillo si consumi nella routine dei lavori alle Camere e nell’indifferenza di un clamore mediatico sempre bisognoso di furori inediti per potersi alimentare.
La vera questione è un’altra e riguarda, in fondo, quei quasi dieci milioni di italiani che avevano sperato nell’effetto taumaturgico della presenza di un forte «Movimento 5 stelle» in Parlamento e che vedono quella promessa di essere gli «apriscatole» della politica italiana ridursi miseramente alla realtà di semplici «rompiscatole».
Costretti ad alzare sempre di più la voce e a inventare iniziative sempre più clamorose e improbabili per segnalare l’utilità della loro azione. Tutto quello che sta avvenendo nelle aule parlamentari indica chiaramente la consapevolezza, da parte dei grillini, del fallimento di una strategia tanto ingenua quanto suicida, quella del rifiuto assoluto a qualsiasi trattativa con gli avversari. Una strategia che in politica è sempre sbagliata, come la storia insegna, dalle «mani nette» di Giolitti all’Aventino.
La sensazione di un terribile errore, da parte del «Movimento 5 stelle», è acuita, tra l’altro, dalla contemporanea irruzione nella politica italiana di Renzi e dell’ipotesi di un sorprendente suo successo nell’ottenere proprio quei risultati di sblocco di una lunghissima impasse politica che erano l’obbiettivo sbandierato da Grillo. Una concorrenza, anche mediatica, che non solo oscura il carico di novità portato dal «Movimento» nella vita pubblica italiana e ne denuncia la scarsissima reale efficacia, ma rischia di comprometterne perfino l’esistenza. Se la legge elettorale in discussione alla Camera, infatti, dovesse completare il suo iter, arrivando alla sospirata approvazione in termini relativamente brevi, i grillini sarebbero condannati alla più sterile delle opposizioni, senza alcuna speranza di influire nella vita politica italiana, non per loro volontà, questa volta, ma per volontà altrui.
Ecco perché l’esasperazione dello scontro, al di là del folklore psicomotorio e della indecenza parlamentare fino alla richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, una mossa così assurda da denunciare palesemente la sua strumentalità propagandistica, punta a impedire, ad ogni costo, il varo di una legge che ridurrebbe l’attuale tripartitismo quasi perfetto del nostro sistema politico in un bipartitismo altrettanto quasi perfetto. Nella speranza che, dopo il naufragio della riforma elettorale, naufraghi anche la legislatura e si vada a votare con quel proporzionale puro che la Corte Costituzionale ci ha regalato. L’unica prospettiva che consentirebbe al «Movimento 5 stelle» di continuare ad esercitare il ruolo di interditore assoluto. Un ruolo che gli permetterebbe di costituire l’unica forte opposizione a future, obbligate e sempre più difficili, «larghe intese».
L’ipotesi di una chiamata alle urne in primavera per rinnovare il Parlamento nazionale, magari in abbinata con le elezioni europee, consiglia, poi, al «Movimento», di intensificare la propaganda contro l’euro; battaglia che il demagogico «spirito dei tempi» assicura rivelarsi molto promettente. Cavalcare il populismo delle destre continentali, del resto, non sarebbe un problema per un «Movimento 5 Stelle» che, sulla protesta traversale agli schieramenti, ha trovato il successo elettorale. Anche in questo caso, però, le fondamentali regole della politica, quelle che valgono in tutto il mondo, potrebbero consegnare lo stesso risultato fallimentare. Come in Italia, per cambiare davvero qualcosa, non bisogna auto-escludersi dal gioco, così anche uscire dall’Europa e dall’euro non servirebbe a mutare alcunché nelle strategie economiche continentali. Servirebbe solo a lasciare alla nostra moneta il destino del peso argentino e a impoverire, di colpo, la grande maggioranza degli italiani. Ma, quando si è in preda alla disperazione, non si ha voglia di ascoltar lezioni.

La Stampa 31.01.14

«Gli evasori hanno i giorni contati», di Sergio Bocconi

«L’accordo complessivo fra Italia e Svizzera può essere raggiunto entro maggio». Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha appena terminato il pranzo di lavoro con la «collega» elvetica Eveline Widmer-Schlumpf e alla stampa dichiara che il negoziato fra i due Paesi in materia finanziaria e fiscale va avanti. L’auspicio è che si concluda «in vista della visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano», in calendario appunto per il 20 e 21 maggio. L’incontro bilaterale fra i due responsabili delle Finanze si è tenuto poco prima dell’avvio del secondo «Forum per il dialogo fra la Svizzera e l’Italia» che si concluderà oggi nel corso del quale fra gli operatori sono emersi tra l’altro dubbi e perplessità sui nodi ancora da sciogliere.
Saccomanni, intervenuto insieme al presidente della Confederazione svizzera Didier Burkhalter in apertura dei lavori, ha sottolineato di aver informato il consigliere federale «dell’approvazione venerdì scorso da parte del governo italiano del decreto legge sulla “voluntary disclosure”, cioè l’autodenuncia di redditi e capitali non dichiarati detenuti all’estero. Un «pacchetto di misure strumentale alla definizione dell’accordo con la Svizzera sulla regolarizzazione del passato e sul regime transitorio, prima del definitivo passaggio al regime di scambio automatico di informazioni». Intesa che «non potrà rappresentare un’alternativa» più favorevole rispetto alle misure che saranno approvate dal Parlamento italiano e «in particolare non potrà essere anonima e non potrà contenere ipotesi di sanatoria, amministrativa e penale, diversa da quelle previste dalla voluntary disclosure». In sostanza, come il ministro aveva già detto in conferenza stampa, «niente sconti e anonimato», aderire all’autodenuncia «conviene» perché «si sta chiudendo il cerchio sui paradisi fiscali». «I giorni per gli evasori sono ormai numerati».
Il negoziato dunque prosegue, come ha confermato anche una nota ufficiale elvetica, «al fine di trovare una soluzione soddisfacente per entrambe le parti». «Il mese prossimo è previsto un incontro tra Jacques de Watteville, segretario di Stato per le questioni finanziarie internazionali, e Vieri Ceriani, consigliere economico del ministro Saccomanni». E prima della visita di Napolitano a Berna è atteso anche il premier Enrico Letta. Sul tavolo, oltre alla questione dei capitali esportati illegalmente (che Carlo De Benedetti, presidente onorario del Forum, nel suo discorso ha stimato in circa 180 miliardi), la normativa contro le doppie imposizioni, il trattamento fiscale dei transfrontalieri e di Campione d’Italia e, non ultimo, il capitolo «black list», la lista nera dei Paesi che non collaborano sul fisco dalla quale la Svizzera vuole uscire. «Abbiamo fatto tre anni di accordi bilaterali con Regno Unito Austria e Stati Uniti, il prossimo speriamo di farlo con l’Italia. E’ questa la strada da seguire e non quella delle liste nere che penalizzano export e crescita», ha detto Burkhalter. E Saccomanni ha assicurato che quando l’Italia nel secondo semestre di quest’anno assumerà la Presidenza Ue, si attiverà «personalmente perché vadano avanti i dossier tra Svizzera e Ue». Un elemento in più forse per dimostrare la volontà di accordo. Le delegazioni vanno avanti a trattare. Si arriverà all’intesa entro i termini auspicati? Burkhalter è chiaro: «Volere è potere».
Nei gruppi di lavoro a porte chiuse, costituiti da banchieri, professionisti e imprenditori dei due Paesi e che approfondiscono diversi temi centrali sulle relazioni italo-svizzere, non manca però chi manifesta un certo scetticismo. Da parte elvetica, in particolare, è diffuso il dubbio che la voluntary disclosure possa funzionare perché ritenuta non conveniente per chi dovrebbe autodenunciarsi anche per i tempi, previsti lunghi. Si insiste poi sulla black list e sull’accesso al mercato delle banche svizzere in Italia. Ma c’è anche chi fa notare che fra gli stessi istituti elvetici è diffuso l’auspicio di un’intesa, che determini un quadro chiaro su cui operare. E, possibilmente continuare a farlo in modo «trasparente». Obiezioni, resistenze e riflessioni che identificano l’esistenza di nodi difficili da sciogliere? La strada ancora da percorrere non appare comunque breve.

Il Corriere della Sera 31.01.14

"Franceschini: in gioco c’è la democrazia", di Maria Zegarelli

«Casaleggio ha dato la linea. Poi la vio- lenza, fisica e verbale, l’impeachment, l’arrivo di Grillo. Vogliono scardinare le istituzioni». Parla il ministro Franceschini.
«Siamo andati oltre. Quello che è successo in questi giorni alla Camera non ha precedenti». Il ministro per le Riforme Dario Franceschini chiede una condanna ferma del comportamento del M5S, «insulti, violenza verbale e fisica» come mai si era visto prima.
Attentato alla democrazia come dice il Pd?
«Quello che credo sia un elemento su cui riflettere tutti è l’assuefazione a episodi sempre più gravi che vengono liquidati come se fossero fatti di normale cronaca politica. Non è così. Il presidente della Camera ha avuto un comporta- mento ineccepibile: ha messo in votazione un decreto in base al principio costituzionale dei sessanta giorni di tempo per la conversione. Approvarlo o bocciarlo è una prerogativa del Parlamento, ma non può essere la violenza fisica, oltre che verbale, a impedire i lavori parlamentari. Abbiamo assistito all’occupazione delle Commissioni, è stato impedito a Roberto Speranza di fare il suo intervento… Lo scontro politico è una cosa, lo scontro nelle istituzioni è un’altra cosa».

Avevano avvertito i pentastellati: apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno.
«A me sembra che stiano cercando di scardinare le istituzioni. Non credo che sia casuale quanto avvenuto in questi ultimi giorni, c’è stata un’escalation: l’arrivo di Casaleggio, che ha dato la linea; la violenza inaudita in Aula, con i commessi colpiti; gli insulti gravissimi alle parlamentari Pd; l’impeachment a Napolitano e l’annuncio dell’arrivo di Grillo… Credo che ci sia bisogno di un’azione collettiva di condanna perché qui siamo di fronte ad un interesse superiore, la tutela del confronto democratico nelle istituzioni».

Eppure sul web c’è chi condivide questo comportamento. Non crede che Grillo e il Movimento stiano dando corpo a quella rabbia crescente che c’è nel Paese? «Non scherziamo neanche. Grillo ha cavalcato dei sentimenti più che compresibili di rabbia e insofferenza che c’erano nei cittadini anche per gli episodi di ma- la politica. Ma adesso sta prendendo quei voti e li sta gettando nel cestino perché stanno cercando di distruggere tutto senza proporre nulla».

Teme che il percorso parlamentare delle riforme si areni in questo Vietnam?
«È evidente che se il Pd e le altre forze politiche riescono a portare a termine la riforma elettorale, il titolo V della Co- stituzione e il superamento del bicameralismo, per il Movimento 5s diventa dif- ficile trovare un proprio ruolo. Hanno tutto l’interesse a far sì che salti il tavolo, che nulla cambi e visto quello che è successo nei giorni scorsi ci si può aspettare di tutto perché per loro questa è la battaglia finale».

Eppure Pippo Civati muove delle critiche: basta con i decreti omnibus. Ha bagliato il governo a mettere insieme Imu e Bankitalia?

«Ma davvero c’è qualcuno che crede che il tema fosse Bankitalia? I decreti omnibus sono un male del passato e per questo sono stati ridimensionati moltissimo, ma se non li vogliamo più dobbiamo correggere i regolamenti della Ca- mera, disinnescare questo corto circuito. Il tema è: discutiamo pure dei decreti omnibus, ma vogliamo affrontare questo gravissimo comportamento del M5S?».

Il tema di fondo è la legge elettorale che potrebbe essere fatale per il M5s ma non piace né ai partitini, né a una parte del Pd protesta, né ad Alfano che annuncia battaglia sulle liste bloccate.

«Il confronto sui contenuti è legittimo, come è legittimo che ogni partito tiri la coperta dalla sua parte quando si parla di legge elettorale, ma poi bisogna decidere se vale la pena mandare all’aria tutto oppure fare una riforma non più rinviabile. Se il dibattito è trasparente non c’è alcun problema, ma ci tengo a dire che se questo testo, con le ultime modifiche, fosse stato proposto al Pd tre mesi fa, tutti nel partito lo avrebbero firmato all’istante».

Renzi dice di non temere il voto segreto, davvero non temete imboscate in Aula? «Se qualcuno avesse la tentazione, e non penso al Pd, di usare il voto segreto per far fallire la legge elettorale deve sa- pere che andrebbe incontro ad un suicidio. Ce la ricordiamo la vicenda Prodi? Domani mattina (stamattina per chi legge, ndr) si affronta la questione delle pregiudiziali: stiamo attenti perché un Parlamento che attraverso il voto segreto affossa la riforma fa un enorme regalo a Grillo e un altrettanto enorme danno al Paese».

Le chiedo ancora se ci sono dei margini per intervenire sulla rappresentanza di genere, la soglia all’8%, le liste bloccate. «C’è un principio a cui ci si rifà sin dall’inizio di questo percorso: si può migliorare se c’è la condivisione tra le forze che hanno condiviso il testo base. Non si può procedere a colpi di maggioranza e si deve aver presente che l’impianto generale non può essere stravolto con emendamenti in contraddizione tra di loro. Il Pd farà del tutto per tenere insieme il quadro con la consapevolezza che quando non si decide da soli ognuno deve rinunciare a qualcosa». Superato lo scoglio della legge elettorale, ammesso che lo si superi, il Pd deve affrontare un altro nodo: il patto 2014. Passa anche attraverso la nomina di nuovi ministri il rilancio del governo?

«Questo lo decideranno il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio e i partiti che reggono la maggioranza. Ma adesso, prima di tutto, dobbiamo procedere con la riforma elettorale che dovrà essere votata il prima possibile».
Renzi vuole starne fuori. Le chiedo come pensa possa rimodularsi il rapporto tra il suo partito e il governo.

«Mi pare evidente che stando in una maggioranza che non è frutto di una coalizione che ha vinto le elezioni, ogni partito dovrà mettere sul tavolo le proprie proposte e il Pd più di ogni altro essendo l’azionista maggiore. Ma tutti devono avere chiaro, anche in questo ca- so, che l’accordo, si trova se si accetta la mediazione del governo. Quando vince- remo le elezioni con un nostro programma sarà tutto più semplice.

Secondo Brunetta fatta la legge elettorale si torna al voto?
«Non confondiamo i desideri con la realtà. Sarebbe impossibile andare a votare con la nuova legge elettorale e il bicameralismo. Con il doppio turno ci sarebbe il rischio di due maggioranze diverse e quindi di nuovo paralisi. Renzi ha preso un impegno preciso: il pacchetto è completo. Torneremo al voto nel 2015, quando tutto sarà cambiato. Finalmente».

L’Unità 31.01.14

"Rai, quella storia spezzata", di Oreste Pivetta

Come è possibile che la tv (la Rai, servizio pubblico) riesca a trasformare la «nostra» storia in una mortificante sequenza di immaginette prive proprio di «storia», lontane dalle ragioni, dai sentimenti, persino dalla cronaca? Dalla fiction sull’assassino di Calabresi a quella sulla Fiat e la marcia dei 40mila, vince la mistificazione. Sto cercando di mettere in fila i titoli di quei romanzi, tra i più belli, che hanno raccontato la storia. Faccio fatica a non pensare all’Iliade o all’Anabasi di Senofonte, la cronaca di una lunga marcia di ritorno dalla guerra e dalla morte (come lo fu La tregua di Primo Levi). Ryszard Kapuscinski, il grande giornalista polacco scomparso nel 2007, in un libro spiegava quanto gli fosse stata d’insegnamento la lettura delle Storie di Erodoto (il suo libro si intitola appunto In viaggio con Erodoto). Capisco che l’antico e immenso Ero- doto (forse solo antiquato, polvere da museo, per alcuni) metta paura, ma basterebbe la lettura di qualcuna delle sue pagine per capire che cosa significhi «scrivere la storia»: il rapimento di Elena ad esempio.

Continuo di titolo in titolo, di autore in autore, Walter Scott della nostra infanzia (amatissimo da Lukacs), Tolstoi, Balzac, Stendhal, Victor Hugo, Dumas, Manzoni… una linea infinita. Se penso, al nostro Novecento italiano, non saprei dove fermarmi. Certo qualche decennio fa la critica lamentava la fragilità del romanzo storico italiano. Ma sarebbe bastato mettere in ordine, come ha fatto in un volume dei Meridiani Eraldo Affinati, quanto ci ha lasciato Mario Rigoni Stern, da Storia di Tonle a Il sergente nella neve, per ammirare l’affresco dell’Italia dalla prima guerra mondiale alla Liberazione…

Sto ritrovando allo stesso modo titoli di film, dalla Corazzata Potemkin, se non mi risuonasse ancora nelle orecchie l’urlo di Fantozzi. Taglio corto fino ai giorni nostri, tutti italiani. Visconti, Lizzani, Rosi, i fratelli Taviani, fino a Martone (con il risorgimentale Noi credevamo), fino a Marco Bellocchio con il fascismo di Vincere (con uno splendido Filippo Timi, che rifà Mussolini senza sentirsi obbligato ad assomigliare a Mussolini nel naso o nella pancia).

Anche questo è il patrimonio che ci sta appena dietro le spalle o addirittura accanto. Mi chiedo, di fronte a tanta ricchezza di cultura, tradizione, lavoro, scuola, come sia possibile che la televisione (la Rai, servizio pubblico) riesca a trasformare la «nostra» storia in una mortificante, per tutti, sequenza di immaginette prive proprio di «storia», tanto sono lontane dalle ragioni, dai sentimenti, persino dalla cronaca, persino dai gesti dei tempi che pretenderebbero di rappresentare. Se si decide di mettere in scena una gara di atletica, anni Ottanta, quando correva Gabriella Dorio, non si può lasciare in pista un gruppetto di dolcissime ragazzine cicciottelle, che non sanno che cosa significa il gesto atletico, candidandole a rappresentare le future speranze azzurre nel mezzofondo. Se si decide di presentare ai gio-ani, ovviamente ignari di quelle lotte e di quegli scioperi, Luigi Arisio come il don Chisciotte della catena di montaggio o l’apostolo del salone delle presse, non si può ignorare come la famosa «marcia dei quarantamila» (che poi erano poco più di diecimila) fosse stata un’idea dei vertici Fiat, come rivendicò qualche anno fa Carlo Callieri, capo del personale di Mirafiori (e come ricordava ieri su questo giornale l’ex sindaco di Torino, Diego Novelli). Non si possono trasformare migliaia di operai che esercitano un sacro- santo diritto, quello di difendere il lavoro, in fiancheggiatori dei terrorismo o essi stessi in terroristi. Non si può oltraggiare la memoria di Enrico Berlinguer, presentandolo come comiziante che aizza le folle, quando chiunque abbia nozione di politica sa che mai il segretario del Pci avrebbe condiviso un’occupazione della fabbrica che non avrebbe aperto alcuna strada: Berlinguer aveva espresso, come sentiva, la propria solidarietà ai lavoratori in lotta. Chi negherebbe la propria solidarietà agli operai della Electrolux.

Chiusa l’altra sera la sequenza di «fiction» che secondo la Rai avrebbe dovuto restituirci tre terribili momenti del nostro Novecento (da piazza Fontana con la morte di Pino Pinelli e l’assassinio del commissario Calabresi, al rapimento del giudice Sossi, agli scioperi di Torino e alla «marcia dei quarantamila»), allineati ai santi veri (alle cui biografie si è dedicata la nostra televisione con analoga banalità) i nuovi «santini» alla Arisio, resta inevasa la domanda: perché non riesce la «storia» in tv se non nelle forme di RaiStoria, che vive della virtù somma di presentarci documenti originali, aspri, crudi, documenti in bianco e nero che sanno trasmettere tanta verità oggettiva e insieme tanta emozione, che non coltiva l’ambizione di sceneggiare, inventare, colorare (attraverso peraltro quei colori perfidi che non stanno né in cielo né in terra, alla lettera), romanzare insomma?

Intanto non si può escludere che la Rai non condivida l’ignoranza del paese nel delirio che pare debba travolgerci (e che travolge anche l’abc della tecnica cinematografica). Si può ovviare: c’è una schiera di grandi storici che potrebbero offrire le chiavi giuste per interpretare secondo tanti punti di vista (come insegnava Erodoto) anche gli episodi più tragici, per rimettere insieme il «contesto»: come si possono capire lo scio- pero di Mirafiori e la «marcia dei quarantamila» senza sapere quali crisi industriale e politica vivesse l’Italia d’allora?

Non si può escludere però che qualcuno, las-ù, non si eserciti a rifare tutto a proprio gusto e a proprio vantaggio: in fondo il grande pubblico continua a istruirsi lì, sui Rai1, tra le padelle della Clerici e i pacchi di Insinna, e si può sempre pro- vare ad organizzare un «senso comune», che giovi alla causa, alla «propria causa» (si potrebbe usare maggior talento e maggior discrezione).

Si potrebbe sempre immaginare un’altra ragione più profonda: non ci appartiene una me- moria comune e la Rai nazional-popolare ne avrebbe bisogno vivo. La riflessione sul passato (dal fascismo al berlusconismo) ha sempre animato faide, mistificazioni, strumentalizzazioni e non una ricerca solidale e una critica condivisa e il vizio o il peccato non ci vogliono proprio abbandonare, «perché non siamo popolo, perché siam divisi». Però da qualche parte si dovrebbe cominciare e la Rai (a partire da chi la comanda), qual- che responsabilità dovrebbe avvertirla. In fondo il maestro Manzi, Mike Bongiorno e persino Carosello un po’ di educazione civica ce l’avevano insegnata.

L’Unità 31.01.14

"Il caso Electrolux e l’esigenza di politiche industriali", di Gianluca Rossi

Dal dibattito sul futuro Electrolux emerge la necessità che questo Paese torni a confrontarsi con il tema delle politiche industriali. Se ne parla in modo carsico, alla luce di singole vicende, con scarsa visione strategica, solo a valle di crisi occupazionali. Mai per definire gli orizzonti e far leva per l’economia del Paese. Il quadro per questo 2014 è drammatico. Migliaia di lavoratori e famiglie per le quali si apre uno scenario d’incertezza, che si traduce in un impoverimento del paese, sia dal punto di vista sociale che sul versante produttivo e industriale.
Vengo dall’ area Terni-Narni, a lungo «terra promessa» dell’industrializzazione: acciaierie, polo chimico e altre eccellenze produttive, espressione della filiera della conoscenza e dell’operosità di migliaia di lavoratori. Oggi, Terni è la provincia con la più elevata presenza di multinazionali dopo quella di Milano. L’esperienza maturata da assessore regionale allo sviluppo economico mi ha dato la possibilità di riflettere sui percorsi possibili verso quel ruolo strategico, genericamente definito «politiche industriali».

Singolarmente, territori, aziende, distretti produttivi non sono indipendenti, ma figli della stessa matrice, che interroga scelte industriali nazionali. Il nostro Paese richiede una governance multilivello e sinergica, perché le soluzioni alle crisi non giungono né dalle sole forze del governo, né solo dall’iniziativa privata. Nessuno degli attori, da solo, ha strumenti e risorse sufficienti ad essere vincente su un tavolo da gioco con poste elevatissime.

Il tema delle multinazionali e della competizione globale richiede una diplomazia istituzionale e di governo più forte, scevra da neostatalismi, che difenda e potenzi le produzioni e il lavoro italiani e contemporaneamente sia in grado di offrire vantaggi localizzativi sul piano dell’efficienza amministrativa e della giustizia, infrastrutture materiali e immateriali, professionalità, qualità della manodopera, e dell’investi- mento. Cioè su quella indissolubile rete di capitale sociale e umano che può fare la differenza per la crescita e la competitività di un Paese.

Occorre una riflessione collettiva per calibrare nuove politiche industriali, a cui vanno associate scelte orientate verso lo snellimento dell’apparato burocratico, agevolazioni fiscali e incentivi per nuova forza lavoro. Non aiuti di Stato, ma una nuova stagione di scelte che investano su industria, ricerca e sviluppo, pubblica e privata, e si mettano al fianco del sistema delle imprese e del lavoro. Infine, una legislazione innovativa per adeguati strumenti di accesso al credito come i Confidi. In Italia le imprese dipendono per l’85% dalle obbligazioni con sistema bancario, non è possibile lasciarle sole di fronte al tema del credito. Il sistema delle garanzie e dei Confidi diventa chiave di nuove politiche pubbliche che non occupano il campo altrui e simultaneamente fanno gli interessi del paese. Perché è necessario dare risposte e farlo presto.

L’Unità 31.01.14