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"Le nuove tenebre", di Corrado Augias

Mossa calcolata a freddo, sapeva che cosa sarebbe successo. Infatti è successo. Ometto le risposte, fantasie di uomini repressi, oscenità correnti, postribolo. Poi perfino lui dev’essersi reso conto d’aver esagerato e ha fatto sparire la sequela di (banali) oscenità. Battute di quel tipo le sentivamo nei film degli anni Cinquanta, uomini in calore che si sussurravano «Quella bottana è». Lì era satira di costume, qui è in gioco la terza carica dello Stato. Anche il fascismo demoliva gli avversari col ridicolo. Li si imbottiva d’olio di ricino, poi tutti a ridere nel vedere il disgraziato torcersi. Ogni giorno il grillismo scende un po’ più giù, l’attacco alla Boldrini non è certo il livello più basso. Gente di quella risma quando tocca il fondo non ci pensa due volte: comincia a scavare.
Davvero non c’è in quelle file di soldatini obbedienti qualcuno che conservi di sé un’opinione un po’ meno umiliante? Quelle faccette pulite, quelle barbette ben curate, quella ragazzette in tailleur, basta davvero così poco a trascinarle a questo livello? Ne ho fatto le spese anch’io. Venerdì ero ospite del programma di Daria Bignardi su La7,
Le invasioni barbariche.
Ho espresso alcune critiche sul M5S, su ciò che ha combinato in questi giorni alla Camera. Apriti cielo! Twitter e mail inondate di contumelie, Grillo mi inserisce nella sua gogna. Uno dei commenti più gentili mi definisce: «Scrittore della Kasta». Un altro, più rude: «Penso che lei sia un po’ rincoglionito. Comunque meglio così che servo del potere». C’è un banale «emerito imbecille » e un estremo: «Sei un morto che cammina ». Per fortuna c’è anche uno che mi vuole solo querelare. Anche Daria Bignardi è stata inondata di insulti, declinati ovviamente nelle usuali varianti femminili.
La pioggia di improperi e la loro qualità non hanno comunque molta importanza. Si tratta di rifiuti di tipo meccanico che eludono la sostanza della questione usando l’invettiva come scudo. Lo psicologo Nicola Artico mi aveva scritto giorni fa per darmi la sua interpretazione dei recenti comportamenti: «Ho visto giovani deputati fronteggiare con il proprio viso quello di un altro come lupi di rango superiore, ho letto insulti di un sessismo arcaico nutrito da pulsioni mai sopite, ho riconosciuto un noto cluster diagnostico: il narcisismo. Non voglio fare una diagnosi a distanza, ma il tema del narcisismo, clinicamente, evoca un mix coordinato come un senso grandioso di importanza, credere di essere speciali, e dunque di poter essere capiti solo da persone (o istituzioni) altrettanto speciali; avere la sensazione che tutto ci sia dovuto, esibire comportamenti arroganti. Più in generale manifestare incapacità di controllare gli impulsi. Ogni volta che si passa all’agito (violento), si è incapaci di dare parola a un’emozione, e costruire simboli, dunque cultura. Si passa all’atto con la negazione anche semantica del concetto di “parlamento”. Questa dimensione colpisce in giovani parlamentari che, in gran parte, s’erano proposti come il nuovo».
Non credo di esagerare definendo questi comportamenti fascismo inconsapevole in senso tecnico e storico. Nemmeno il fascismo movimento degli inizi tollerava obiezioni, anche loro preferivano l’azione, il grido, l’odore della polvere, a tacere d’altro. Un fascista vero come Francesco Storace diceva (con humour) «Il cazzotto sottolinea l’idea». Questi, che humour non hanno, usano l’ingiuria, che l’idea si limita a scansarla.
Prima di me, dalla Bignardi, aveva parlato il giovane deputato grillino Alessandro Di Battista. È un uomo d’aspetto gradevole, molto consapevole, molto compiaciuto, parla con calma, lanciando, soavemente, insulti terribili: quello è un falsone, quello è un condannato, quello è un pollo da batteria e via di questo passo. La sua calma mi è sembrata spaventosa; traspare la sicurezza di chi ritiene di possedere la verità. Dal punto di vista psicologico gli si addice l’immagine del “lupo di rango superiore” descritta da Artico. Ridurre i problemi a slogan orecchiabili per meglio padroneggiarli e che nessun dubbio incrini le certezze, dividere il mondo in due con un taglio senza sfumature.
Questi grillini, che rifiutano il bipolarismo elettorale perché non gli conviene, politicamente hanno adottato la visione rigidamente dualista dei manichei: la Luce e le Tenebre. C’è chi la proclama urlando, chi l’accompagna con gesti osceni, chi come Di Battista la dichiara soavemente. Immagino che con uguale soavità mi farebbe accompagnare al rogo, se potesse. Confesso: se fanatismo è, preferisco il fanatismo da energumeno del suo capo che sempre più spesso ci mostra di che cosa sia fatto il suo movimento, di che pasta siano molti suoi seguaci.
A quei seguaci, Grillo ha dato in pasto la presidente della Camera esponendola a una violenza senza precedenti nel mondo civilizzato che non diventa meno grave per essersi consumata solo sulla Rete.

da La Repubblica

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“Mi hanno ferita ma non ho paura questo è un attacco alla democrazia”. La presidente della Camera: la gogna dei 5Stelle ormai colpisce tutti, di Alessandra Longo

«Io, terza carica dello Stato, cui viene riservata, in quanto donna, una aggiuntiva e terrificante aggressione sessista. Lo ripeto: è in corso un attacco alla democrazia che riguarda anche la libertà di stampa. Mi riferisco ai giornalisti messi alla gogna sul blog di Grillo, al capogruppo Pd Roberto Speranza che si vede ostacolato l’accesso in sala stampa a Montecitorio. I cittadini l’hanno capito. Questo non è dissenso: questi sono atti violenti e intimidatori…». Alle nove della sera, Laura Boldrini è nel suo studio di presidente alla Camera. Ferita, indignata, decisa a non darla vinta a chi la sta massacrando: «Le ho lette le cose che hanno scritto sul blog di Grillo. E’ semplicemente orribile. Non discutono del mio operato. Essendo donna, gli insulti all’istituzione si traducono in volgarità a sfondo sessuale. Ed è meschino, patetico, che mi si venga a dire che i messaggi sono arrivati di notte e non li hanno potuti controllare! Questa roba girava da un giorno e mezzo e ogni giorno su
quel blog ci sono commenti di questo tenore fomentati da Grillo e mai nessuno li rimuove».
Non c’è più il sorriso aperto, lo stupore e l’entusiasmo di quando, nel marzo 2013, Laura Boldrini venne eletta presidente della Camera. Sembrano lontane nel tempo, e peccare persino di ingenuità, le sue parole nel discorso di insediamento: «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica ». Oggi ci sono le cicatrici del combattimento quotidiano, la pressione per un clima insopportabile,
la preoccupazione per il Paese: «Vorrei che fosse chiaro a tutti il tentativo eversivo in corso. C’è chi parla di inesperienza, di reazioni violente dovute alla frustrazione di non incidere ma questa è un’altra cosa. Loro non sono in grado di usare gli strumenti democratici garantiti all’opposizione ». Loro, dice. Non riesce quasi a pronunciare il nome di chi le vomita contro cose irripetibili: «Loro hanno dimostrato l’incapacità di accettare il metodo democratico. Il Parlamento non è lo sfogatoio
della rabbia ma un luogo di confronto, di scambio dove si vota e si decide». Sì, ha deciso di usare la «tagliola», di garantire la votazione di quel decreto su Imu/Bankitalia: «Sarebbe stato più comodo scegliere di non usarla, la tagliola, peraltro adottata al Senato in altre occasioni. Alcuni di quelli che mi hanno eletto la pensavano così, era meglio non farlo. Ma io sono una figura di garanzia e mi sono assunta le responsabilità mie e anche quelle di altri». Un frontale inevitabile. Con i Cinque Stelle
paralizzati: «Loro non sono riusciti a far modificare il decreto e io ho risposto anche della rigidità dell’esecutivo ». Adesso arrivano gli insulti, le volgarità: «Cosa faresti in macchina con Laura?». Legge, si fa male, ma non si pente: «Credo di aver fatto la cosa giusta. Se non fossimo arrivati alla votazione del decreto, gli italiani avrebbero pagato la seconda rata dell’Imu. Non solo: sarebbe stato come ammettere che la Camera, per la protesta di una minoranza, non era più in grado di garantire il voto finale».
Il ruolo comporta sacrifici, responsabilità, sovraesposizione. Ma certo nulla può giustificare il profluvio di oscenità che le è stato riservato, «lo stupro simbolico», come lo chiama Vendola, colui che l’ha portata — merito o generosa trappola — in Parlamento. Con i suoi collaboratori la presidente si sfoga: «Quello che succede mi addolora moltissimo, sto svolgendo un servizio pagando un alto prezzo personale. Sono cose che ti fanno assorbire negatività… «. Ciò nonostante la signora è di carattere. Ieri sera era al suo posto, occhiali inforcati, a leggere gli insulti, le minacce di stupro, e valutare querele. E a ricevere centinaia di telefonate di sostegno: «Ringrazio tutti quelli che fanno quadrato, le parlamentari e i parlamentari di tanti partiti, le associazioni, le persone, un fronte di alleanza democratica contro quello che è un tentativo eversivo». Uno si chiede se non ne ha abbastanza, se la pressione è troppa: «Ne ho abbastanza delle insolenze ma questo mi carica ancora di più. C’è ancora più bisogno di tenere il punto, di fare fronte democratico. Non mi fermeranno, non cederò di un millimetro. Io vado avanti, tenendo fede all’impegno che mi sono presa di rafforzare e rendere più trasparenti le istituzioni». Il suo motto? «Continua a essere lo stesso: “Facciamo della Camera la casa della buona politica”».

da La Repubblica

"La scossa di Prodi al premier: non abbia paura, ora tenti una sortita", di Aldo Cazzullo

Professor Prodi, l’Italia vive uno dei momenti peggiori del dopoguerra. E il sogno europeo appare infranto, con la Germania che vuole farla da padrone.
«Non è che vuole: la Germania la fa da padrone. E continua per la sua strada, anche se molti osservatori, tedeschi e non tedeschi, pensano che l’eccessivo surplus renda il rapporto di cambio dell’euro insopportabile per gli altri Paesi. Un surplus minore aiuterebbe l’economia di tutta l’Europa».
L’euro è troppo forte per noi?
«Oggi siamo quasi a 1,40 sul dollaro. Fossimo a 1,10, anche 1,20, saremmo in una situazione ben diversa».
L’euro era stato pensato per valere un dollaro?
«Più o meno. Ricordo, quand’ero presidente della Commissione europea, gli incontri annuali con il presidente cinese Jiang Zemin. Avevamo dossier alti una spanna, ma a lui interessava solo l’euro. Gli consigliai di comprarne come riserva. All’inizio il valore dell’euro crollò a 0,89 rispetto al dollaro e, quando tornai da Jiang, avevo la coda fra le gambe. Ma lui mi rasserenò subito: “Lei pensa di avermi dato un cattivo consiglio, ma io continuerò a investire in euro. Perché l’euro salirà. E perché non mi piace un mondo con un solo padrone: sono felice che accanto al dollaro ci sia un’altra moneta”. A causa degli errori europei, l’altra moneta accanto al dollaro sta diventando lo yuan. Le divisioni europee ci hanno fatto perdere occasioni enormi. Vai in Medio Oriente e ti senti dire: “Siete il primo esportatore e il primo investitore, ma non contate nulla”. Non c’è un grande problema internazionale in cui l’Europa abbia contato qualcosa».
Alle elezioni del 25 maggio si profila un successo delle forze antieuropee. Può essere una scossa?
«Lo sarà senz’altro. Questa del resto è la storia d’Europa. L’Unione ha sempre avuto uno scatto dopo le crisi. La prima volta accadde con la “sedia vuota” di De Gaulle. Oggi la sensazione è ancora più forte perché abbiamo sul collo il fiato della Cina, dove fortunatamente il costo del lavoro continua a crescere. Anche se rimangono ancora grandi differenze nel costo della mano d’opera standard, oggi Unicredit paga i neolaureati di Shanghai come quelli di Milano. Dobbiamo ritrovare una politica europea comune, se vogliamo avere ancora una leadership. Occorre ribaltare la situazione. Nelle svolte del mondo bisogna essere i primi a capirle».
L’Italia si impoverisce. Eppure non c’è rivolta sociale. Perché?
«Perché la perdita del lavoro avviene goccia a goccia: infinite gocce che fanno molto più di un fiume, ma non fanno una rivoluzione. È un fenomeno mondiale: la frantumazione della classe media; la jobless society ».
La società senza lavoro.
«Si distruggono i lavori di medio livello. Disegnatori. Segretarie. Praticanti degli studi legali. Cassieri. Impiegati delle agenzie di viaggio o degli sportelli bancari e assicurativi. L’altro giorno parlavo con il responsabile di una grande banca. Gli ho chiesto se tra dieci anni i dipendenti saranno più o meno della metà rispetto a oggi. Mi ha risposto che saranno molto meno della metà. Aumenta la disoccupazione diffusa, cui si cerca rimedio con i “minijobs”: spezzoni di lavoro pagati sotto la soglia di sussistenza. Ma quando tagli la fascia media, si distanziano non soltanto i redditi; si distanziano due parti della società. Si salvano solo gli innovatori. Non a caso gli Stati Uniti, patria dell’innovazione, vanno meglio di noi».
Perché proprio l’Italia è il grande malato d’Europa?
«Perché non agisce come un Paese unito. I problemi aperti esigono una risposta corale. Invece la società è frammentata. Il governo ha una cronica mancanza di autorità. I sindacati si saltano gli uni con gli altri, sono divisi anche all’interno della stessa organizzazione, e la Confindustria è stata sempre ben contenta di dividerli. Tra sindacato e grandi imprese ci sono tensioni, come alla Fiat, che non si sono viste in nessuno stabilimento europeo. Il problema non è il costo del lavoro: in Spagna è inferiore di appena il 7%; in Germania è superiore di oltre il 50%. Il problema è il modo in cui si lavora. È la paralisi del sistema produttivo. È la mancanza di una politica industriale».
Che valutazione dà del Jobs Act di Renzi?
«La direzione è quella buona. Ma bisogna tradurla in decisioni concrete. Devono capirlo tutti: il potere politico, i sindacati, le imprese. In questi anni si sono aperti molti tavoli di concertazione; la frammentazione li ha uccisi tutti».
Voi varaste il pacchetto Treu.
«Sì, noi usavamo l’italiano e lo chiamammo pacchetto».
Oggi a Palazzo Chigi c’è un suo allievo, Enrico Letta. Quale consiglio gli darebbe?
«Di tentare una sortita. Di prendere iniziative anche contestate. Di non avere paura di mettersi in una controversia».
In un articolo sul «Messaggero » lei ha ricordato che il potere pubblico è intervenuto ovunque in difesa dell’industria dell’automobile, dalla Spagna agli Stati Uniti, tranne che in Italia.
«È oggettivo che l’affare Fiat si sia concluso senza la voce del governo. E sull’Electrolux c’è stata solo una mediazione a posteriori».
Perché è andato a votare alle primarie del Pd?
«Ho deciso il giorno dopo la sentenza della Consulta. Perché ho avuto paura che riemergesse una legge elettorale che rendesse impossibile governare il Paese».
La nuova legge le piace? Cosa pensa dell’attivismo di Renzi?
«Non rispondo a questa domanda. Ho sentito il dovere di votare alle primarie come risposta a un’emergenza, non come scelta di tornare alla partecipazione. Il ruolo elettorale è un dovere civico, non significa proporsi o essere disponibili ad accettare una carica. Ho ritenuto che il Pd fosse indispensabile per evitare lo sfascio totale. Dopo di che non ho più preso parte alla politica attiva. Sarei solo di disturbo».
Perché?
«Perché ogni azione sarebbe interpretata come appoggio all’uno o all’altro, come un disegno personale per un futuro che non esiste».
Non vuole fare il presidente della Repubblica?
«No. Mi pare di averlo già chiarito in più di un’occasione. Il Paese è cambiato. C’è un nuovo mondo. Occorrono persone nuove che lo interpretino. La nuova politica, per linguaggio, contenuto, velocità, supera la mia capacità di comprensione. Non sono un uomo 2.0».
Lei ha raccontato una telefonata con D’Alema, nel giorno dei 101 franchi tiratori, da cui dedusse che sarebbe finita male. Come andò?
«Fu anche divertente. Ero in riunione a Bamako, in Mali. C’era un’atmosfera distesa. France Presse scriveva che stavo diventando presidente della Repubblica, tutti i capi di Stato africani mi facevano il pollice alzato. Io rispondevo con il pollice verso, perché sapevo già come sarebbe andata a finire. Avevo fatto le telefonate di dovere. Prima a Marini, poi a D’Alema, che mi disse che certe candidature non si possono fare in modo così improvvisato. Fu allora che chiamai mia moglie Flavia in Italia, per dirle di andare pure alla sua riunione, tanto non sarebbe accaduto nulla. Poi telefonai a Monti, che mi avvisò che non mi avrebbe votato perché ero “divisivo”. Infine telefonai a Napolitano perché ormai era chiaro come sarebbe andata a finire. Anche se mi aspettavo 60 defezioni, non 120: perché furono più di 101».
È stato scritto che lei è in contatto con Grillo e Casaleggio. È vero?
«Mai avuto rapporti politici di nessun tipo, salvo quello di spettatore divertito. Grillo venne a trovarmi nell’81 a Nomisma, per discutere gli aspetti economici dei suoi testi. Nel 2007 mi fece un’intervista strumentale a Palazzo Chigi: all’uscita disse che dormivo. Avevo invece risposto a tutte le sue domande, spesso con gli occhi chiusi, come faccio d’abitudine quando penso, e il filmato lo dimostra. Casaleggio è venuto una volta a salutarmi a un convegno pubblico a Milano. Stop».
Come valuta il successo dei Cinque Stelle?
«È un movimento di protesta che si manifesta in varie forme in tutti i Paesi europei, tranne che in Germania. La Merkel è stata molto abile ad assorbire il populismo, riassicurando i tedeschi a scapito del resto d’Europa. Anche per questo Italia, Francia e Spagna dovrebbero reagire presentando un programma alternativo nei confronti della Germania. Noi abbiamo gli stessi interessi, ma ognuno pensa di essere più bravo degli altri. Dai consigli europei si esce con le stesse decisioni con cui si è entrati».
La sua immagine pubblica è legata alla bonomia, alla fiducia. È raro trovarla così pessimista.
«Io sono pessimista per poter essere ottimista. Il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. L’unico fatto positivo di questa crisi drammatica è che sta maturando la consapevolezza dell’emergenza, e della necessità di cambiare. Sempre più ci si rende conto che c’è troppa gente che soffre. Finora la sofferenza arrivava alla Caritas. Ora si è affacciata persino al Forum di Davos. Anche se la finanza ha ripreso a operare come prima».
C’è il rischio di un’altra bolla e di un altro crollo?
«Non ci sono state riforme fondamentali nel sistema finanziario. C’è più paura e quindi più consapevolezza ma non ci sono veri strumenti nuovi».
Nella storia italiana recente, e quindi nel declino del Paese, anche lei ha avuto un ruolo. C’è qualche errore che non rifarebbe?
«Questa è una domanda inutile. Ci sono sfide che si affrontano sapendo perfettamente che si incontrerà la resistenza e la reazione del sistema, e quindi con buone possibilità di fallimento; eppure sono sfide che affronterei di nuovo».
Faccia un esempio.
«La privatizzazione dell’Alfa Romeo. Trattai con Ford perché ritenevo necessario che ci fosse concorrenza. Arrivammo ad un progetto di accordo di grande respiro, però avvertii i negoziatori: se si mette di mezzo la Fiat, salterà tutto, perché si muoveranno i sindacati, le autorità ecclesiastiche, gli enti locali, insomma il Paese. Fu proprio quello che accadde. È vero che la Fiat offrì qualche soldo in più ma, in ogni caso, non vi furono alternative. I negoziatori della Ford conclusero dicendo: “Ci spiace molto; lei però ci aveva detto la verità”».
Le chiedevo di farmi l’esempio di un errore.
«È un errore sopravvalutare le proprie forze. Ma penso che oggi l’Italia abbia bisogno di essere messa di fronte alle sue sfide. Per questo parlo di “sortita”. Verrà il momento in cui le sfide non si potranno non affrontare. Se hai un disegno, devi anche rischiare. E io credo di aver rischiato sempre. Non a caso, sia il primo sia il secondo governo Prodi sono stati fatti saltare. Anche se tra le due cadute c’è una bella differenza».
Quale differenza?
«Nel 2008 il mio governo è caduto a causa della frammentazione politica e dei personali interessi di alcuni suoi membri ma, in ogni caso, era un cammino faticoso. Nel 1998 il mio primo governo è caduto perché andava bene. Non solo hanno buttato giù un ottimo governo, con Ciampi all’Economia, Andreatta alla Difesa, Napolitano agli Interni, Bersani all’Industria e poi Flick e Treu… Peggio ancora: hanno distrutto l’entusiasmo. E ci vuole più di una vita per ricostruire l’entusiasmo».
Rifarebbe pure il Pd?
«Il Pd è l’unico punto di solidità del Paese. Ma se fosse andato avanti l’Ulivo avremmo avuto il Pd già quindici anni fa, e l’Italia non sarebbe sprofondata in questa crisi politica».

da Il Corriere della Sera

"Astensione, un doppio rischio", di Gian Enrico Rusconi

Il vergognoso comportamento grillino in Parlamento e la faticosa prosecuzione del dibattito sul sistema elettorale, influenzeranno l’atteggiamento dei molti, troppi cittadini che da tempo si astengono dal voto? In quale direzione?
Non è una domanda secondaria. Con il nuovo sistema elettorale infatti gli elettori di ritorno potrebbero fare la differenza decisiva per la conquista del premio di maggioranza. E quindi favorire un nuovo indirizzo della prassi politica.
Se così fosse, saremmo al paradosso che il successo del partito vincente, ottenuto per qualche percentuale in più, dipenderà dal comportamento di quei cittadini che hanno seguito con indifferenza se non con disgusto la vita politica di quest ultimi anni. Cittadini che non si sono lasciati coinvolgere in «primarie» o in altre mobilitazioni più o meno fittizie promosse dai partiti. Che hanno avuto simpatia per il movimento di Grillo, ma poi si sono ricreduti.

In realtà delle intenzioni degli astenuti e di un loro eventuale ripensamento conosciamo molto poco. Non sappiamo se i potenziali elettori provenienti da quel terzo di aventi diritto al voto che hanno dichiarato di rimanere lontano dalle urne o di votare scheda bianca, rimarranno dubbiosi di fronte alle metamorfosi e alla convulsioni del panorama politico. Se stanno volonterosamente raccapezzandosi davanti al renzismo, al new look del berlusconismo, al grillismo fuori controllo. O se invece rimangono scettici di fronte alle capacità innovative legate ad un eventuale nuovo sistema elettorale.
Le indagini demoscopiche ci informano sulle piccole variazioni percentuali delle formazioni politiche note, grandi e piccole, guidate dalle solite facce da talk show. Sono invece in difficoltà nel quantificare e qualificare il potenziale elettorale di coloro che, abbandonando l’astensione, creerebbero la massa critica decisiva per una nuova linea politica.

L’attuale astensionismo è composto da due raggruppamenti che si intersecano e si sovrappongono. Da un lato ci sono gli elettori di ceto medio allargato verso il basso, ma privati ormai di ogni precisa identità socio-culturale, entrati in sofferenza. Un tempo si sarebbero lasciati chiamare «moderati». Tali si considerano in fondo ancora, anche se incidentalmente alcuni di loro si sono aggregati a forme di protesta clamorose ma estemporanee come «i forconi» (pensiamo a quanto è successo a Torino alcune settimane fa). La loro collocazione rimane la grande area di centro con le sue tipiche varianti e oscillazioni verso destra e sinistra. Lì si giocherà – ancora una volta – la partita decisiva..
La seconda componente, minore ma più qualificata, è la galassia chiamata «giovani» (con confini anagrafici incerti dopo la trentina). La sua collocazione è difficile se si seguono i tradizionali parametri di destra e sinistra. Certamente è trasversale per classe, per qualità di aspettative, per livelli di pazienza e di impazienza. Ma se fossero davvero valorizzati i loro potenziali di risorsa, sempre enfaticamente e retoricamente evocati da tutte le forze politiche, «i giovani» farebbero saltare definitivamente la tradizionale geografia politica.
Notoriamente però sinora non si è fatto nulla di incisivo nei loro confronti. Nelle scorse settimane il dibattito politico-mediatico è stato assorbito dalla questione elettorale in modo così ossessivo e esclusivo da cancellare ogni riferimento operativo alle riforme che si dovrebbero fare. Certo, è risuonata continuamente la litania: «crescita», «lavoro», «giovani», «tasse», «Europa» ecc. Ma con una vaghezza impressionante. Lo stesso schema renziano del Jobs act è rimasto nel vago.

Ma prima della prova elettorale nazionale ci sarà la grande incognita delle elezioni europee. Arriveremo impreparati. Prima di quell’appuntamento infatti le forze politiche pro-Europa non riusciranno a mettere a punto discorsi credibili e precisi sulle innovazioni da apportare, anche a livello istituzionale, per un’autentica governance europea. Diranno solo belle parole e faranno affermazioni di principio. Sarà quindi facile per le forze ostili all’Europa e/o all’euro lasciarsi andare alle loro irresponsabili proposte demagogiche di uscita dalla moneta unica ecc. Sarà la linea Grillo, anche per disincagliare il suo movimento finito sugli scogli.
Di fronte a questa situazione è facile prevedere un alto tasso di astensione dalle urne europee. Ancora una volta.

da www.lastampa.it

“Niente politica, solo protesta. E il M5S va in crisi di consensi”, di Carlo Buttaroni

Non è la prima volta. E c’è da scommetterci che non sarà neanche l’ultima. Gli episodi (gravi) di cui si sono resi protagonisti i parlamentari cinquestelle sono solo l’ennesimo riflesso di quel sentimento che Giovanni Sartori ha definito «liquidismo». Rimuovere, cioè, senza avere nulla da offrire, nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento.
Un processo dove scompaiono le idee e la capacità di progettare il futuro, mentre prevalgono gli insulti, la delegittimazione, le insinuazioni. Occupando quel territorio grigio al confine fra politica e farsa.
L’OSTILITÀ VERSO LE ISTITUZIONI
L’Italia ha, in passato, vissuto fenomeni simili. Come negli anni del dopoguerra, con l’Uomo Qualunque di Giannini. Anche allora il qualunquismo, come il liquidismo oggi, anziché un insulto sembrava una virtù. Quasi fosse un istinto incastonato nel Dna del nostro Paese, latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere, nutrendosi dei problemi irrisolti e degli stati d’animo più deleteri.
Un sentimento che si afferma e si diffonde perché il problema è in quel nichilismo tenue che porta a preferire il nulla anziché il cambiamento e che si trasforma in protesta cieca, senza prospettive e direzioni, favorendo forme di apatia, quando non di vera e propria ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche.
Il Movimento Cinque Stelle interpreta questo sentimento, tradendo però quel desiderio di riforme che lo anima nel profondo, quasi che ogni cambiamento fosse impossibile o, peggio, inutile. La base elettorale di Grillo è una sorta di astensionismo che si esprime nelle urne. È la rottura di un invaso sociale che si riversa con forza distruttrice sulle istituzioni. E se nel desiderio di cambiamento che alimenta il consenso al Movimento Cinque Stelle c’è più politica di quanto possa apparire a prima vista, nel canale verso cui confluisce il risentimento di molti italiani c’è assai meno politica di quanto Grillo si sforzi di far apparire.
Il cortocircuito tra politica e «non-politica» si riflette in una geografia del consenso che non si deposita in alcun aggregato sociale e politico definitivo. I pentastellati non hanno uno zoccolo duro corrispondente ai consensi provvisori che raccolgono. Anche per questo, alle amministrative hanno
sempre ottenuto risultati inferiori alle attese.
Alle politiche dello scorso febbraio il risultato delle urne è stato alimentato da elettori delusi sia del centrosinistra che del centrodestra e, in quota minore, da quanti non avevano votato alle precedenti elezioni. Nel corso dei mesi successivi alle elezioni, una quota consistente di quanti avevano votato il movimento sono tornati nel proprio campo, altri invece hanno seguito il percorso opposto, orientandosi verso i pentastellati. Il saldo pressoché «a zero» registrato in questi mesi dagli istituti di ricerca, non rileva compiutamente questo continuo cambiamento della base elettorale e il consistente numero di elettori borderline che fluttuano tra le due principali coalizioni e il Movimento di Grillo. Anche per questo continua a essere difficile fare una stima dei consensi del Movimento Cinque Stelle, perché è una risultante provvisoria, legata al momento e alle circostanze. Matteo Renzi, appena eletto segretario del Partito democratico si è rivolto al Movimento Cinque Stelle. E più che ai parlamentari o a Grillo, il suo appello è stato a quelle masse di elettori accomunati dal desiderio di cambiare e dal rifiuto nei confronti di una politica immobile di fronte alle sfide che aveva davanti. Grillo ne ha pagato immediatamente un prezzo in termini di consensi. Renzi e il nuovo Pd, così come Berlusconi e la neonata Forza Italia, stanno sfidando Grillo sul terreno per lui più difficile, quello delle scelte, delle regole, delle cose da fare subito. Perché, alla fine, il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. E la risposta al «liquidismo» di Grillo non può essere altra che quella di far tornare la politica alla responsabilità delle scelte.

PENSARE DAL BASSO
D’altronde ciò che si chiede alla politica è attenzione e sensibilità rispetto alla vita reale, insieme a un maggiore coinvolgimento nella progettazione e nella gestione delle politiche pubbliche. E questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi anche per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. Per farlo la politica deve tornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società. Un terreno sul quale il Movimento Cinque Stelle mostra tutte le sue difficoltà. Su questo le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto, ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa diffusa che in realtà non si è indebolita, ma ha soltanto cambiato forma e nome.

Da L’Unità

"La prima crepa", di Alberto Statera

Si narra che i “parricidi”, assassini di padri, affini, congiunti venivano chiusi in un sacco con una bestia capace di martoriarli, come un cane, una scimmia o una vipera e gettati “in mare profundum.” Enrico Letta sfaterà forse l’antica leggenda.
Dopo aver suscitato, con stile ma fermamente, le dimissioni del presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, collezionista superbo e insolente di poltrone, di onori e anche di denari. Anzi, la sua rapida reazione alle notizie alquanto sconvolgenti sulle multiformi attività del suddetto capo del più grande ente previdenziale d’Europa, coinvolto con tutta la famiglia in attività di ogni genere nelle pieghe di uno Stato corrivo più che distratto, rischia di farne forse un candidato alla qualifica di statista, oggi quasi sempre usata a sproposito. Oltre che ad allentare quella di democristiano a molti carati, che rischia ormai di inseguirlo come una condanna, anche ad opera dell’altro ex democristiano, Matteo Renzi, che per ora governa il Pd con piglio decisionista.
Mastrapasqua non è il padre del presidente del Consiglio, né uno stretto congiunto diretto, ma è uno dei capisaldi di quella immensa ragnatela che dopo un ventennio di berlusconismo avvolge il paese, fatta di potenti e vice-potenti spesso senza volto, spesso sopravvalutati, quando non del tutto incapaci o gaglioffi, tessuta con sopraffina dedizione per decenni da un altro Letta: Gianni. Allo zio Gianni, Enrico, figlio di un professore di calcolo delle probabilità disinteressato al potere, è molto legato. Racconta che vari passaggi della sua vita, fin da bambino, li ha trascorsi a casa sua, dove era, ad esempio durante i giorni del rapimento Moro. Lì ha respirato di certo l’aria del potere burocratico-feudale dello zio e forse lì ha anche conosciuto Mastrapasqua, uno dei boiardi di casa, tra i più vicini al network politico-familiar-relazionale, che ha contribuito a condurre l’Italia nella crisi presente e a farne uno dei paradisi mondiali della corruzione. Non solo per gli appalti truccati, per il malaffare, per le ruberie calcolate in centinaia di miliardi, ma soprattutto per il familismo amorale che ha ridotto a un’utopia per allocchi la meritocrazia, la liberalizzazione autentica di una società incagliata in un feudalesimo, di cui Letta zio ha incarnato il comando. Mentre le semplici buone maniere ne facevano non solo l’ambasciatore beneducato di Silvio Berlusconi, ma una specie di riserva della Repubblica, apprezzata con poche riserve a destra e a sinistra e persino al Quirinale. Dove forse oggi lo avremmo presidente della Repubblica se il suo leader-padrone non avesse ecceduto nel disprezzo delle leggi, abbandonando a sé stesso un paese avviato alla crisi più grave della sua storia recente.
Mastrapasqua, intimo amico del cugino di Enrico Letta, Giampaolo, dirigente ovviamente di un’azienda berlusconiana, è in fondo l’altra faccia dei Bertolaso e dei Balducci, le facce ormai più note di quel mondo di poteri intersecati tra loro in un groviglio di interessi spesso inconfessabili: dall’Opus Dei alla Massoneria, dal Vaticano alle banche, dai Servizi segreti alla nobiltà nera, dal generone romano al peggio della finanza internazionale. E alla politica debole e malleabile da ogni tipo di interesse. Qualcuno ricorderà la frase dell’avvocato Cesare Previti, pronunciata dopo una delle elezioni che confermarono il successo di Berlusconi: «Non faremo prigionieri». Non ne fecero e riempirono i posti di vertice dello Stato, che dovrebbe ammantarsi di terzietà, di personaggi improbabili per titoli e capacità, quando non loschi.
Passati due anni dalla caduta di Berlusconi, comincia a disvelarsi nei dettagli il sistema di potere che il grande imprenditore “liberale e liberista” aveva costruito sulle macerie di uno Stato permeabile a qualunque trama. Manca ancora un censimento realistico delle gesta dei vari Bertolaso, Balducci, Maliconico che sponsorizzati dal padrone di Palazzo Chigi Gianni Letta buttarono centinaia di miliardi in appalti emergenziali, grandi eventi, celebrazioni di santi e martiri, mondiali di nuoto e quant’altro. Il tutto scavalcando Parlamento, controlli di legittimità, Corte dei conti, Ragioneria dello Stato, attraverso il sistema delle ordinanze. Il caso Mastrapasqua è significativo anche per questo: perché rivela quanto il potere burocraticofeudale sia impermeabile ad ogni forma di controllo, quando i gangli dello Stato sono nelle mani di un’alta burocrazia infiltrata dagli interessi privati, dalle sirene della carriere e dei denari.
Se il governo farà davvero quello che il presidente Letta (Enrico) ha promesso, nonostante a Palazzo Chigi sieda al posto di Letta (Gianni) il nipotino Antonio Catricalà, aspettiamoci un’epidemia di casi Mastrapasqua: patenti conflitti d’interesse, poteri senza controllo alcuno, indebiti arricchimenti, malaffare diffuso ai vertici di uno Stato feudale, crocevia di cricche di interessi senza controlli da parte di una politica compromessa e di assai esili principi etici.
Ma ora l’occasione c’è per fare sul serio: a cominciare dal rinnovo di duecento poltrone al vertice delle società controllate dal ministero del Tesoro. Basta boiardi. Primo precetto: che Letta (Gianni) che Letta (Enrico) sembra aver messo definitivamente in cantina, non ci metta bocca.

da La Repubblica

"Le Scelte rinviate nel Paese che frana", di Gian Antonio Stella

La cura che manca all’Italia dei Disastri. Le Frane sono 13 Volte quelle dell’800. Tra abusi, omissioni e terreni completamente «denudati» dagli alberi

Una tabella dice tutto: nell’ultimo mezzo secolo le frane sono state tredici volte di più che nella seconda metà dell’800. O San Defendente non sa più fare il suo mestiere di patrono oppure, dato che i meteorologi escludono che siano avvenuti mutamenti epocali,
è colpa di come l’Italia è stata gestita.
E sarebbe ora di ricordarcene non solo quando, come in questi giorni di diluvio, viviamo l’incubo di nuove tragedie.
La statistica, elaborata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy» e ripresa ne L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013 , a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, è chiara: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. Parallelamente crescevano morti e dispersi: 614 nella seconda metà dell’Ottocento, 4103 nell’ultimo periodo considerato.
Certo, la registrazione degli eventi è probabilmente più curata oggi di un tempo. Ma proprio il passato deve essere di monito. Prendiamo la catastrofe di Sarno del 1998 che uccise 160 persone: prima che venisse giù un pezzo di montagna, c’erano state 5 frane in un secolo (dal 1841 al 1939) e 36 (una all’anno) dopo la seconda guerra mondiale. Eppure l’area aveva una densità abitativa sei volte più alta della media italiana.
Giorgio Botta, ne L’Italia dei disastri , ricorda che «il grado di dissesto idrogeologico della Campania è il più grave tra quelli in atto nel Paese». E tra le cause di tanti disastri cosa c’è? Le colate di fango «prodotte da terreni completamente denudati dagli incendi dolosi che si ripetono ormai sistematicamente da anni». L’anno prima dell’apocalisse di Sarno, nel 1997, ne erano stati contati 1.486. E «gli incendi bruciano perfino le radici degli alberi, rendendo definitivamente sterile il suolo».
E sempre lì torniamo, al monito, mezzo millennio fa, di Francesco Guicciardini: è vero «che le città sono mortali, come sono gli uomini», ma «essendo una città corpo gagliardo e di grande resistenza, bisogna bene che la violenza sia estraordinaria e impietosissima ad atterrarla. Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città».
Vale per le frane, per i terremoti, per le alluvioni. E se Roma ha passato momenti di apprensione per la piena del Tevere, Paolo Camerieri e Tommaso Mattioli ricordano nel libro citato che la città eterna è stata allagata un sacco di volte fin dai tempi più antichi e che dopo aver liquidato la deviazione del fiume come un’«opera superflua e troppo costosa» senza per questo fermare la spinta edilizia nelle aree a rischio «incrementando enormemente il livello di pericolosità dell’onda di piena», nel 13 a.C. ci furono «migliaia di morti». E ciò nonostante trent’anni dopo, in seguito a un’«ennesima alluvione catastrofica», come racconta Tacito, le divisioni sulle cose da fare divisero il Senato al punto che «si finì con l’accogliere il parere di Pisone, ossia di non fare nulla».
Certo, non è facile fare delle scelte in questo campo. La stessa Venezia ci pensò trent’anni, prima di decidersi a costruire «un nuovo sboradore al fiume Po», cioè un canale che raccogliesse una parte delle acque del fiume. Alla fine, però, decise. E con i consigli di «otto pescadori» (accanto ai professori dotti e sapienti la Serenissima affiancava sempre gente dalla visione più pratica) costruì in quattro anni, coi badili e le carriole, quel grande canale lungo sette chilometri che tanti danni avrebbe evitato nei secoli a venire.
Gli studi del geologo Vincenzo Catenacci dicono che «tra il 1948 e il 1990 ben 4.570 comuni italiani sono stati interessati da calamità di tipo idrogeologico, che hanno causato 3.488 vittime, di cui almeno 2.477 a seguito di frane e almeno 345 a seguito di inondazioni, nonché danni a carico dello Stato stimati in circa 30 miliardi di euro, rivalutati al 2010». E Marco Amanti ricorda che il progetto Iffi «contiene più di 480.000 eventi franosi censiti, il più antico dei quali risale al 1116». Eppure, finché non ci troviamo con l’acqua che uccide invadendo interi quartieri abusivi come a Olbia, finché non fa crollare le mura antiche di città come a Volterra, finché non tira giù i costoni facendo accasciare su un fianco i treni in Liguria, il problema della sistemazione del territorio viene rinviato, rinviato, rinviato.
Basti ricordare la reazione dello stesso governo Letta alla risoluzione firmata da tutti i gruppi parlamentari che chiedevano uno stanziamento per il rischio idrogeologico «pari ad almeno 500 milioni annui».
Risposta in finanziaria: 30 milioni. Un sedicesimo della somma richiesta. Nonostante la denuncia che «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10 per cento della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’89 per cento dei comuni (6.631)» e che «il 68 per cento delle frane europee si verifica in Italia».
Scrive Claudio Margottini che «nei Pai (Piani stralcio per l’assetto idrogeologico) vengono individuati più di 11.000 interventi riconosciuti come necessari alla sistemazione complessiva dei bacini, per un fabbisogno di circa 44 miliardi di euro, di cui 27 miliardi per il Centro-Nord e 13 miliardi per il Mezzogiorno, oltre a 4 miliardi per il recupero e la tutela del patrimonio costiero. Di questi, circa 11 miliardi sono necessari per mettere in sicurezza le aree a più elevato rischio…».
Eppure, come denuncia Monica Ghirotti, tutti i disastri già registrati «sono oggetto di una sorta di amnesia collettiva e diventano tema di dibattito anche politico solo quando irrompono nella cronaca quotidiana». Insomma, ci penseremo domani. E nel frattempo? Portiamo un cero a san Defendente…

da Il Corriere della Sera

"Impeachment, difficile prenderlo sul serio", di Marco Olivetti

Il documento con il quale il Movimento Cinque Stelle ha motivato la richiesta di messa in stato d’accusa del presidente Napolitano imputa al capo dello stato sei comportamenti, che configurerebbero un attentato alla Costituzione.
Il primo consisterebbe nell’adozione di una serie di atti che, spostando il potere normativo dal parlamento al governo, avrebbero mutato la forma di governo da parlamentare in presidenziale. Se ci si chiede, però, di quali atti si tratti, si vede bene che tutti sono riconducibili alla responsabilità del governo: dall’adozione dei decreti legge, alla reiterazione di uno di essi, alle questioni di fiducia e ai maxiemendamenti.
Al presidente, i parlamentari pentastellati imputano evidentemente una mancata vigilanza su questi atti governativi. Ma essi dimenticano che proprio un ruolo “tutorio” più accentuato del capo dello stato a genererebbe l’alterazione che essi denunciano. Se poi, in casi specifici, vi sono state scelte discutibili del presidente, si tratterà, semmai, di singole violazioni della Costituzione, per le quali, secondo l’articolo 90 della Carta, egli non è responsabile.
La seconda accusa consiste nell’aver autorizzato la presentazione del disegno di legge governativo che prevedeva una procedura di revisione costituzionale in deroga all’articolo 138. Ma a parte il fatto che tale deroga passava era disposta applicando l’articolo 138, la tesi dell’illegittimità di una deroga all’articolo 138 è assai opinabile, se non del tutto errata e l’inventore di essa è del resto un altro autorevole presidente, Oscar Luigi Scalfaro (vedi le leggi costituzionali n. 1/1993 e 1/1997). Inoltre il potere presidenziale di autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi, inclusi quelli di legge costituzionale, ha natura per lo più formale. Anche qui, ammesso che vi sia un responsabile, esso è solo il governo, non il capo dello stato (articoli 89 e 94 della Costituzione).
La terza accusa consiste nel mancato esercizio del potere presidenziale di rinvio di leggi poi dichiarate incostituzionali: non solo si tratta di un’accusa che potrebbe essere rivolta a tutti i predecessori di Napolitano, ma qui, paradossalmente, i Cinquestelle hanno in testa una concezione del veto presidenziale simile più a quella diffusa nei regimi presidenziali che a quella tipica dei governi parlamentari (dove tale potere, ove esista, è esercitato assai di rado).
Addirittura risibile è la tesi per cui il presidente avrebbe violato la Costituzione accettando la rielezione: che il presidente fosse rieleggibile, in punto di diritto, non era dubitabile seriamente. Quasi tutti i predecessori di Napolitano (da Einaudi a Gronchi, da Pertini a Scalfaro e Ciampi) hanno accarezzato l’idea della rielezione, che non si è concretizzata solo per circostanze politiche concrete. Che poi la rielezione del presidente sia o meno opportuna è altro discorso, che non ha nulla a che fare con la violazione di norme costituzionali.
Lo stesso dicasi per l’esercizio del potere di grazia: qui semmai si può contestare la presidenzializzazione di tale potere operata dalla sentenza 200/2006 della Corte costituzionale, ma non certo la spettanza al presidente di tale potere. Ovviamente le scelte concrete del capo dello stato sono opinabili, ma si tratta di censure di opportunità, non di legittimità.
Infine, sulla questione del comportamento del presidente Napolitano nel processo stato-mafia non vale neppure la pena di soffermarsi, tanti sono gli svarioni, fra cui l’accusa di aver promosso un conflitto di attribuzione nel quale… la Corte costituzionale ha poi dato ragione al presidente.
è noto che i contorni esatti della fattispecie dell’«attentato alla Costituzione» sono assai incerti ed ambigui. Ma se si cercasse un caso da manuale per dimostrare cosa l’attentato alla Costituzione non sia, si potrebbe prendere ad esempio proprio il documento dei parlamentari a Cinquestelle.
Tale documento, volendolo prendere sul serio solo per un attimo, tradisce una doppia confusione. La prima è quella fra responsabilità politica classica – quella del governo verso il parlamento – e la responsabilità penale del presidente di cui all’articolo 90 della Costituzione.
La seconda ha alla base una visione pangiustizialista che da un lato sacralizza il ruolo della magistratura (rectius: delle procure), come ben si vede nel ragionamento sul processo per la trattativa stato-mafia e dall’altro vede nel presidente un super-potere di garanzia, dotato della bacchetta magica per riparare le ingiustizie. Proprio queste distorsioni sono l’aspetto più interessante del documento: il segno di un nuovo tipo di incultura costituzionale – quasi un’immagine rovesciata di quella berlusconiana – con cui oggi dobbiamo misurarci.

da www.europaquotidiano.it