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"Sulla pelle dell’Italia", di Massimo Adinolfi

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. I duri e i grillini. Solo che il gioco si chiama democrazia parlamentare e troppa durezza rischia di ammaccarlo seriamente. Le cronache di queste giornate raccontano di insulti, risse, occupazioni: del deputato che insulta in maniera greve le colleghe e si becca una sfilza di denunce; di quell’altro che insulta invece il Presidente della Repubblica senza preoccuparsi di sconfinare nel vilipendio.

Raccontano di molti deputati pentastellati che tentano l’assalto a questa o a quell’aula, con l’obiettivo di bloccare i lavori e di oscurare i passi compiuti nel lavoro parlamentare, sull’Imu e sulla legge elettorale, approdata finalmente alla Camera. Poi ci scappa lo spintone, lo scappellotto, la manata: uno chiede scusa, un altro nega l’intenzione, un altro, invece, se la ride.

Ma non è lo scompiglio, creato ad arte in queste ore, a destare preoccupazione. Prima dei grillini, a inizio secolo erano stati i socialisti a praticare l’arte dell’ostruzionismo. Nel dopoguerra sono stati i comunisti, contro la legge truffa e l’adesione alla Nato, e ancora i cronisti si passano fra di loro l’articolo del Corriere della Sera su Giancarlo Pajetta che salta intrepido tra i banchi per lanciarsi con foga nella mischia. Hanno fatto ostruzionismo persino i democristiani, lo hanno condotto alla sublimazione perfetta i radicali.

Tutto già visto, tutto già sentito, si direbbe allora. E invece no. Perché i grillini ci aggiungono, dal canto loro, una profonda sfiducia e un senso di estraneità nei confronti della prassi parlamentare, che va ben oltre una maniera intransigente di fare opposizione. Non è la gravità degli episodi, dunque, in discussione, ma l’interpretazione che della prassi democratica offrono i «cittadini» grillini. Che si vogliono cittadini proprio per quello, perché non si sentono parlamentari, come se ci fosse qualcosa di male nel solo appartenere al Parlamento. Ha dichiarato quel Luigi Di Maio, grillino, che, forse incidentalmente, è anche vice Presidente della Camera: «Se si sopprimono i diritti dell’opposizione, il conflitto si sposta oltre il regolamento e forse oltre il Parlamento». La frase può certamente essere derubricata tra le dichiarazioni a effetto che cadono in un clima surriscaldato, se non fosse che oltre il Parlamento il Movimento si trova già da sempre, per definizione, anzi per statuto: nei pressi cioè di quella consultazione diretta virtuale, inventata sulla Rete a beneficio dei followers del blog di Grillo (non certo dell’universalità dei cittadini), che pretende di essere la vera, unica e sola democrazia. Per questo, non è vero affatto che in un Parlamento ormai esangue, incapace di legiferare e mortificato dalla continua decretazione d’urgenza, la pratica squisitamente parlamentare dell’ostruzionismo ridà finalmente fiato alle Camere e paradossalmente ripristina la centralità che spetta loro, secondo Costituzione. È vero invece il contrario: appena qualcosa comincia a muoversi tra i banchi del Parlamento – un decreto, una legge, una riforma – i deputati grillini si agitano e si scalmanano perché tutto invece rimanga immobile, bloccato, inutile, così da confermare il loro giudizio sull’irreformabilità della politica e, en passant, sull’impraticabilità della mediazione parlamentare. Si oppongono alla singola misura parlamentare, e si sentono investiti di una missione che non possono al contempo realizzare in nessun Parlamento.

Dopodiché quel che fanno lo fanno anche in maniera alquanto confusa e improvvisata. Basta leggere la richiesta di messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica, un atto che definire sconclusionato è fargli una gentilezza, ma che serve ad alzare il livello dello scontro, a cancellare presso l’opinione pubblica ogni barlume di senso istituzionale e, non dimentichiamolo, a lanciarsi nella campagna elettorale.

Perché bisogna dir meglio: sarà anche confusa e improvvisata la richiesta, ma non lo è affatto la determinazione con cui Beppe Grillo scende in campagna elettorale, in vista delle Europee. In quello non c’è nulla di improvvisato. Lì il gioco si fa veramente duro, e Beppe Grillo ha iniziato a giocarlo.

L’Unità 31.01.14

"La strategia del caos", di Claudio Tito

Tanto peggio, tanto meglio. È ormai evidente che il vero obiettivo del Movimento 5Stelle non è altro che questo. Far sprofondare il sistema istituzionale e il Paese stesso nella confusione assoluta. Il proliferare del “grillismo” è direttamente proporzionale all’incapacità della politica di fornire risposte ai cittadini- elettori. Grillo e il cofondatore pentastellato, Casaleggio, hanno bisogno del caos, della paralisi per dimostrare la loro ragione di esistere.
Ma il paradosso, adesso, è proprio questo. La loro essenza si nutre esclusivamente della inattività. Hanno anzi bisogno di provocarla. Anche a costo di essere la causa stessa — e non l’esito — dell’inerzia. È come un organismo che aumenta la sua forza in modo parassitario con gli insuccessi altrui. L’escalation di questi giorni, del resto, non trova altre spiegazioni. La violenza dei toni, l’aggressività dimostrata ieri e mercoledì alla Camera, l’impeachment del capo dello Stato, tutto trova origine esclusivamente in questa esigenza primaria. Il nucleo dell’azione studiata dalla coppia Grillo-Casaleggio è orientato a provocare una sorta di shutdown
della politica. Una specie di arresto cardiaco del sistema in cui è impossibile assumere decisioni o formulare risposte. E nel quale — come capita negli scritti del “guru” grillino — evocare scenari apocalittici di ogni tipo. Una forma insomma di moderno populismo mirato ad assecondare i malumori dei cittadini e nello stesso ad esaltarli. Descrivere l’Italia perennemente sull’orlo del fallimento, dimostrare l’irrisolutezza del Parlamento e di tutte le istituzioni democratiche diventa lo strumento migliore per fare campagna elettorale.
Quel che è accaduto negli ultimi due giorni a Montecitorio non è grave solo per la intrinseca rissosità ma perché ha evidenziato proprio il tentativo di delegittimare in blocco l’intero impianto istituzionale. Strozzare con quei metodi i lavori parlamentari risponde ad una logica ben poco democratica. Troppo spesso gli esponenti del Movimento 5Stelle mostrano una cultura istituzionale approssimativa. L’assenza di regole di convivenza all’interno di quello che loro non definiscono un partito, si riflette costantemente nell’esposizione pubblica. I processi decisionali sono oscuri e privi di qualsiasi garanzia di imparzialità. Il ricorso alla rete diventa la giustificazione sistematica per scelte la cui base di consenso è imperscrutabile. Alla fine solo in due comandano: Grillo e Casaleggio. Con un aspetto che sta via via crescendo. Nelle parole dei grillini si coglie sempre più una forma di integralismo che impedisce ogni possibilità di dialogo e confronto. È come se costantemente dicessero: “O con me o contro di me”. È nel giusto ed è legittimo solo chi è d’accordo con loro. L’esito è parossistico nel “congelamento parlamentare” di quel 25% di voti che nelle aule di Camera e Senato sono stati sostanzialmente sterilizzati nella protesta.
Il punto è sempre lo stesso: i vertici pentastellati sanno bene che il prossimo sarà per il loro Movimento l’anno fatidico. Una tornata amministrativa in primavera, poi le elezioni europee e infine — molto probabilmente — il voto nazionale nei primi mesi del 2015. Devono fare campagna elettorale subito tentando di dimostrare agli italiani che la politica — tutta la politica — è collassata e che quindi serve un nuovo ordine. Un buon risultato nelle urne del 25 maggio può diventare il grimaldello per far saltare ad esempio il percorso riformatore appena imboccato.
Anzi, proprio il pacchetto di modifiche alla legge elettorale alla Costituzione che è in via di definizione in questi giorni si configura come il bersaglio da colpire il più rapidamente possibile. Se il sistema infatti mostra la possibilità di autoriformarsi, rischia allora di incrinarsi quel castello di populismo e demagogia apocalittica edificato dall’ex comico. Del resto esiste un’onda analoga che attraversa quasi tutti i paesi occidentali. Basti pensare al Tea party americano, al Fronte nazionale francese o allo Uk Independence Party inglese. Tutti sintomo di una contestazione cieca. Nessuna di queste formazioni, però, ha raggiunto i livelli di consenso protestario come in Italia. Ma tutti, in modo particolare il Tea party, hanno mostrato la capacità di influenzare le decisioni pur non essendo maggioranza e nonostante il ricorso ad argomentazioni massimaliste e concretamente inapplicabili.
In questo quadro rientra anche la richiesta di “impeachment” nei confronti del presidente della Repubblica. La fragilità e la contraddittorietà delle accuse mosse contro Napolitano rispondono solo ad una esigenza: la propaganda. Resta il tentativo, appunto, di delegittimare le Istituzioni. Provare a mettere in un unico calderone le inefficienze — da eliminare — e le garanzie democratiche, da tutelare. Tutti sanno che la procedura per mettere in stato d’accusa il capo dello Stato non avrà alcun esito. In primo luogo perché l’invocato tradimento della Costituzione non si è mai configurato. Eppure i grillini hanno bisogno di presentarsi alle prossime elezioni con il massimo di carica distruttiva. Sanno che hanno poco tempo per richiamare nell’immaginario collettivo la possibilità dello shut down della politica. Per loro, perdere il prossimo treno, equivale probabilmente a perdere tutto.

La Repubblica 31.01.14

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“Sessant’anni di zuffe parlamentari e ostruzionismo”, di FILIPPO CECCARELLI

Sono diversi, e in che cosa, i tumulti grillini da quelli della pur ricca tradizione parlamentare italiana?
La risposta è necessariamente ambigua: sì e no. Sono più estesi e diffusi, ad esempio; un tempo tutto avveniva più o meno in aula, con appendici nel Transatlantico, al giorno d’oggi gli spazi di contesa – come li definiscono i sociologi – si moltiplicano nelle commissioni e specialmente dinanzi alle telecamere. L’obiettivo di fondo, il nirvana della guerriglia, è plausibilmente la simultaneità, se possibile in diretta streaming e connessione con la piazza antistante.
Di qui la seconda differenza rispetto al passato. Più che intensa, la baraonda a cinque stelle è e deve essere visibile. O meglio, in un tempo dedicato all’immagine ha tutta l’aria di essere stata allestita secondo una sensibilità eminentemente televisiva. Nella Prima Repubblica nessuno si sarebbe mai sognato di inalberare cartelli, striscioni, bandiere, tanto meno di indossare bavagli e suonare il fischietto.
Va da sé che la pulsione coreografica, per così dire, non riguarda solo i deputati del M5S. In pieno bailamme, per dire, gli onorevoli di Sel gli hanno risposto dai loro banchi intonando «Bella ciao». Non è nemmeno la prima volta che a sinistra reagiscono in questo modo, ma sarebbe comunque molto complicato spiegare a un osservatore straniero non si dice qui l’efficacia, ma anche soltanto il senso di quella canzone, in quel momento, e rivolta a quegli altri deputati e deputatesse.
A meno di non ritenere, sulla base di altri analoghi episodi, che l’esibizione «spettacolare», molto tra virgolette, e gli aspetti scenici e sonori abbiano ormai assoluta preminenza sullo scontro fisico. A questo proposito, checché se ne dica, i tumulti di questi giorni paiono o forse sono molto meno violenti di quelli vissuti da tre o quattro generazioni di giornalisti parlamentari quando ancora in tribuna non c’erano le telecamere, tantomeno la moviola a disposizione del collegio dei Questori.
Si può anche azzardare che i guerrieri d’aula, ma un po’ tutti i parlamentari, avessero ai tempi assai meno
paura di farsi male. Forse l’attuale prudenza è un effetto positivo della fine delle ideologie. Forse è l’incerta leggerezza delle culture politiche a spingere in direzione della caciara piuttosto che liberare la più fredda e brutale aggressività. Ma nelle «risse che furo» esistevano veri e propri specialisti. Il fratello di Pajetta, Giuliano, era detto «il Giaguaro» per la contundente agilità con cui balzava da uno scranno all’altro, ma anche il gruppo dc disponeva di robusti e rinomati Coldiretti per nulla affatto disposti a lasciarsi intimidire.
Anche i radicali, che negli anni 70 e 80 erano pochissimi e anche non violenti, mostravano un certo animo e un’indubbia, a volte persino eroica attitudine a far saltare i nervi, specie ai comunisti, ma anche ai missini. Oggi è un brulichio di anonimi personaggetti. Prima erano calci e pugni, ora si tratta di pacche e manate più o meno involontarie, spintarelle, sputi, al massimo morsi.
Vero è che per risalire alle pietre miliari della violenza parlamentare tocca tornare molto indietro. L’ostruzionismo delle sinistre sul Patto Atlantico (1949) e quello al Senato sulla legge truffa. In quest’ultimo caso, la domenica delle Palme del 1953, nel corso di una seduta di cui non fu mai approvato il verbale, la scazzottata durò la bellezza di 35 minuti. Il presidente dell’assemblea, il povero Meuccio Ruini, peraltro subentrato dopo le dimissioni dello spaventatissimo Paratore, fu centrato da un pesante calamaio in testa e prima di cedere ebbe il tempo di esclamare: «Viva l’Italia!». Ma la furia fu tale che vennero brandite le sedie degli stenografi, sradicate e poi lanciate le tavolette dei banchi, così come le aste dei microfoni usate a mo’ di lance.
Ora, non è per addentrarsi su terreni tecnicamente impervi, ma l’impressione è che l’altro giorno, magari per l’effetto-sorpresa, non abbia funzionato troppo bene o che occorresse rafforzare il muro dei giganteschi commessi, di solito impeccabili. Forse lo sfondamento è avvenuto con eccessiva facilità. Forse i questori di un tempo avevano una maggiore tenuta psicologica.
E dinanzi a casi del genere, per quel poco che importa, ci si sente inesorabilmente vecchi, ma il punto vero è che forse il Parlamento è davvero molto cambiato, nel senso che ha perso peso, serietà, gravità, indipendenza, in una parola cultura istituzionale. E non c’entrerà nulla, ché anzi su questi problemi è bene che si torni a legiferare in maniera intelligente, ma neanche a farlo apposta proprio nel giorno della zuffa, passeggiando nel cortile che un tempo ospitava l’aula Comotto, proprio là dove nel 2006 l’onorevole no global Caruso aveva piantato cannabis, un deputato di derivazione leoncavallina si è rollato e fumato una canna.
Tutto è successo così in fretta, anche nei tafferugli. Dall’epopea western alla commedia, fino ai cartoni animati. Oppure, se si preferisce, il tifo dello stadio si è insediato nelle istituzioni rappresentative. In ogni caso la «super-cazzola» evocata dal democratico Di Lello, le monete di cioccolata, i pompini, il perdono del commesso morsicato, l’incongruo «boia chi molla» accompagnano e alimentano il parapiglia. Dalla politica all’isteria il passo evidentemente era breve, ma solo nel caos ci si rende conto di averlo purtroppo compiuto.

La Repubblica 31.01.14

"Noi, insultate a Montecitorio", di Michela Marzano

Doveva essere una sera come tante. Una seduta notturna in Commissione Giustizia per lavorare al decreto sui diritti dei detenuti e il sovraffollamento carcerario. Due volumi pieni di emendamenti ostruzionistici presentati dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, cui però ormai si è fatta l’abitudine. E invece è andato tutto per traverso. Gli emendamenti, la seduta, i voti, il dibattito. Perché invece di discutere, si è finito con il litigare. Invece di votare, si è occupata l’aula della commissione. Invece di licenziare il provvedimento, si sono licenziati l’educazione e il rispetto.
Le cose hanno cominciato a mettersi male fin dall’inizio. Quando la Presidente Ferranti ha aperto la seduta e i deputati del M5S hanno cominciato ad accalcarsi davanti la porta. A differenza di quanto accade di solito, anche chi non fa parte della commissione pretende di assistere ai lavori, e non accetta che per ragioni di sicurezza non sia possibile entrare in un’aula già stracolma. Mentre la Presidente cerca una soluzione, il malcontento aumenta. C’è chi sbuffa esasperato dalla giornata interminabile. C’è chi provoca. C’è chi rincara la dose. E pian piano è solo una grandissima confusione. Tutti parlano. Ci si accusa reciprocamente di intolleranza e di violenza. Nessuno ascolta. «Noi rappresentiamo i cittadini », urla un collega del M5S. «E noi chi rappresentiamo invece, nessuno? E i nostri elettori?», risponde uno del Pd. «E la violenza contro la collega Lupo?». «E gli insulti contro la Boldrini?». Ma è solo l’inizio. Prima dell’arrivo di altri grillini, prima del «voi del Pd siete il male», prima dei «fascisti» gridati che volano da una parte e dall’altra della sala, prima dei commessi che cominciano a temere per l’incolumità generale. È a questo punto che la Presidente, nonostante le proteste della Lega e del M5S, decide di annullare la seduta e di riconvocarla per l’indomani mattina.
Massimo De Rosa è uno tra gli ultimi ad andarsene. A «me non fa né caldo né freddo essere chiamato fascista» dice sbattendo la porta. Poi ci ripensa. Ma quando sta per entrare di nuovo con in mano il casco della moto, un commesso lo blocca. «Voi del Pd siete tutti collusi», urla allora. Poi, rivolto a noi donne, aggiunge con scherno: «E voi siete qui solo perché siete brave a fare i pompini». De Rosa è paonazzo, ma sembra finalmente contento. Io smetto per qualche secondo di respirare. Poi mi volto e vedo occhi sgranati e sguardi vuoti. Siamo tutte senza parole.
Con gli insulti, è sempre così. Lasciano di stucco, almeno in un primo momento. È per questo che i filosofi del linguaggio ne parlano come di una forma di hate speech, discorso dell’odio. Quando si insulta una persona, non si cerca né di dialogare, né di manifestare il proprio disaccordo. Quando la si insulta, si cerca solo di farla tacere. Che cosa si può mai rispondere quando qualcuno ci insulta d’altronde? Che non si è d’accordo? Che chi ci insulta sta sbagliando? Che non è affatto vero che le donne del Pd sono «brave solo a fare pompini»?
Chi insulta lo sa. Ed esulta dell’umiliazione che provoca, proprio come uno schiaffo in pieno viso che continua a far male anche dopo molto tempo. Allora sì, l’altra sera anche io sono rimasta ammutolita. Silenziosa e impotente di fronte agli insulti di De Rosa, nonostante questa storia dell’hate
speech la insegni da anni ai miei studenti per spiegare come nel momento in cui si insulta un interlocutore non è più una questione di diversità di idee o di opinioni, ma sempre e solo un gesto di violenza. Quando ci si trova di fronte alla violenza, tutto è più complicato. Molto più complicato delle teorie. Ecco perché, con le altre colleghe, ci abbiamo messo un po’ prima di reagire, prima di fare comunicati e dichiarazioni, prima di andare al commissariato e sporgere querela.
Ora però è fatta. E anche se De Rosa non si è nemmeno degnato di chiedere scusa, noi ci siamo riappropriate della nostra parola. Anche se sui social network c’è chi rimette in discussione quanto accaduto (“avete registrato?” “qualcuno è testimone?” “non starete mica inventando tutto, vero?”) e c’è persino chi osa rincarare la dose — spiegando che è proprio così, e che è evidente che De Rosa dice ciò che pensano tutti — , noi abbiamo rivendicato il rispetto della nostra dignità. Basta con la violenza nei confronti delle donne. Basta con gli insulti. Ma basta con gli schiaffi. Perché se De Rosa ha mostrato che il “nuovo” può anche essere terribilmente “vecchio”, il questore Dambruoso, con lo schiaffo alla deputata del M5S Lupo cui va tutta la mia solidarietà, ha mostrato che per molti, oggi, è veramente difficile meritare quell’“onorevole” di cui si dovrebbe invece cercare di essere fieri.

La Repubblica 31.01.14

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La testimonianza di Michela Marzano, una delle 7 deputate Pd bersaglio del deputato M5S Massimo De Rosa

«Hate speech», discorso dell’odio. È così che in inglese si parla degli insulti. Quegli «atti linguistici» particolari che non servono solo a «dire», ma anche a «fare» qualcosa. Ossia ad offendere, a ferire, a far male. Perché quando si insulta una persona, lo scopo non è affatto quello di manifestare il proprio disaccordo e dialogare con l’interlocutore, ma piuttosto quello di togliergli le parole di bocca e farlo tacere.

Sono anni che lo insegno ai miei studenti a Parigi. Sono anni che mi sforzo di spiegare, come diceva il grande Albert Camus, che è solo quando si utilizzano le parole in modo corretto che si riesce poi a diminuire la quantità di disordine e di dolore che c’è nel mondo. Ecco perché la lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni passa anche attraverso l’attenzione che si pone al linguaggio. Ecco perché gli insulti legati al razzismo, all’omofobia o al maschilismo contribuiscono solo a peggiorare le condizioni di chi, «diverso», non corrisponde agli stereotipi.

Quello che non avrei mai immaginato, però, è il sentimento di desolazione che avrei io stessa provato di fronte questi insulti. Come è accaduto ieri sera alla Camera, durante la riunione serale della Commissione Giustizia. Dopo una giornata di ostruzionismo e dibattiti molto duri in Aula, conclusasi con l’assalto alla Presidenza da parte dei colleghi del M5S, si dovevano votare gli emendamenti al decreto legge sulle carceri. Invece di votare, però, il clima in Commissione ha cominciato subito a degenerare. Accuse reciproche di ostacoli al lavoro democratico. Invettive. Urla. Fino agli insulti.

«Voi donne del PD siete qui perché siete brave solo a fare i pompini», urla Massimo Felice De Rosa prima di essere allontanato dai commessi. Prima di altre urla. Perché poi è sempre così che finisce quando ci si insulta. A meno di non restare bloccati nel mutismo, come mi è accaduto. Impotente. Terribilmente impotente.

Le parole sono pietre, diceva già Carlo Levi. Ed è come unapietra che mi è arrivata addosso questa frase, lasciandomi senza parole. Prima di realizzare che tutto quello per cui mi sono battuta da sempre mi si stava sbriciolando in mano. Prima di riprendermi pian piano e decidere di sporgere denuncia con le altre colleghe del PD. Prima di capire che il solo modo di reagire per denunciare queste pratiche sessiste è riappropriarsi della parola e manifestare la propria soggettività, nonostante il tentativo altrui di farci tacere.

«Noi rappresentiamo i cittadini, voi siete il male assoluto». Era così che era iniziato tutto. Da chi rivendica sempre pacifismo e volontà di cambiare le cose democraticamente. Quanta democrazia e pacifismo c’è dietro la violenza degli insulti?

da Vanity Fair 31.01.14

"Fiat se ne va, ci lascia la cassa integrazione", di Giuseppe Vespo

Torino, 11 luglio 1899 29 gennaio 2014. Dopo 115 anni il marchio Fiat va in pensione. «Inizia un nuovo capitolo della nostra storia», dice John Elkann. Che non verrà più scritta sotto la Mole. Fca Fiat Chrysler Automobiles sarà una società di diritto olandese con sede fiscale in Gran Bretagna, quotata in Borsa a New York e a Milano. La rivoluzione sarà completa entro la fine dell’anno, mentre a maggio verrà presentato un piano strategico di lungo termine alla comunità finanziaria.
È quanto ha deciso ieri il cda di Fiat Spa, l’ultimo del gruppo così come si conosceva fino a oggi. L’organizzazione resterà la stessa, dice l’azienda, divisa in «quattro regioni operative. Tutte le attività che confluiranno in Fca proseguiranno la propria missione, compresi naturalmente gli impianti produttivi in Italia e nel resto del mondo, e non ci sarà nessun impatto sui livelli occupazionali».
Possono dunque stare tranquilli sindacati e operai, tra i quali i circa tremila cassintegrati (su cinquemila) di Mirafiori e i lavoratori di Cassino, che aspettano nuovi modelli da produrre? «Abbiamo lavorato caparbiamente e senza sosta a questo progetto per trasformare le differenze in punti di forza e per abbattere gli steccati nazionalistici e culturali», scrive Marchionne nel comunicato redatto al termine del cda.
«OTTIMI RISULTATI»
Quindi il manager si è confrontato con la comunità finanziaria per l’illustrazione dei conti del gruppo, che sono sotto le attese e che neanche quest’anno permetteranno agli azionisti di incassare dividendi. L’utile della gestione ordinaria, nel 2013, è sceso a oltre 3,39 miliardi, rispetto ad attese per circa 3,6 miliardi; l’utile netto è salito a 1,95 miliardi (da 896 milioni nel 2012). Mentre il debito è di 6,6 miliardi, «piuttosto elevato», ammette lo stesso Marchionne, che si ripromette di «rafforzare la base di capitale» appena terminato il trasferimento in Olanda.
TONFO
Numeri che hanno fatto scivolare il titolo a Piazza Affari, tanto che per un po’ Fiat è rimasta sospesa, prima di chiudere la sessione in calo del 4,11 per cento. Marchionne si ritiene comunque soddisfatto: «Abbiamo avuto i primi segnali incoraggianti della nostra strategia premium con ottimi risultati nel quarto trimestre 2013, speriamo di mantenere gli stessi margini nel 2014».
Poi annuncia gli investimenti, che ammonteranno a otto miliardi di euro, mezzo milione in più dell’anno passato. L’obiettivo è scalare la top ten dei produttori di auto, dall’attuale settimo posto, vendendo già da quest’anno 4,5 4,6 milioni di automobili, di cui un milione tra Europa, Africa e Medio Oriente, circa 2,4 tra Canada, Messico e Stati Uniti dove il gruppo realizza il 54 per cento dei suoi ricavi un milione in America Latina e duecento mila nell’Asia Pacifico.
Attenzione, però: «Il 2014 è ancora un anno di transizione», i miglioramenti veri si vedranno solo dal 2015, che sarà anche il penultimo anno della gestione del manager alla guida del gruppo italo americano. Ancora tre anni, dunque, poi il timone passerà di mano, verosimilmente all’interno della cerchia dei suoi collaboratori. «Mi sono circondato di persone molto valide e credo che da questo gruppo emergerà il mio successore. Non sarebbe corretto, vista la forza di questi manager, affidare il compito a qualcuno di esterno».
GLOBALITÀ
Parole pronunciate poco prima dell’incontro previsto con i sindacati metalmeccanici, ai quali in serata sono stati illustrati conti e prospettive, che hanno occupato il dibattito della giornata al pari dell’accordo sulla legge elettorale. Da Bruxelles è intervenuto pure il premier Enrico Letta, con il quale Marchionne si è visto martedì. Dal presidente del Consiglio, sono arrivate rassicurazioni sul fatto che non conta poi così tanto la sede legale del nuovo gruppo «una questione assolutamente secondaria» «contano i posti di lavoro, il numero di auto vendute, la competitività e la globalità». Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, segretario Cisl, che si dice «tranquillo, perché gli investimenti vanno avanti e siamo lontani dalle difficoltà del passato».
La questione delle tasse all’estero viene ripresa in un passaggio del comunicato emesso dal gruppo automobilistico: «Questa scelta non avrà effetti sull’imposizione fiscale cui continueranno ad essere soggette le società del gruppo nei vari Paesi in cui svolgeranno le loro attività». La decisione è presa. A poco più di un secolo dalla nascita, Fiat cambia pelle, lascia la sua città natale per Olanda e Gran Bretagna. Entro ottobre la quotazione a New York, poi quella secondaria a Piazza Affari.

L’Unità 30.0.14

"ANVUR: ecco i «criteri che porteranno a una diminuzione molto netta» dei dottorati di ricerca", da www.roars.it

l 17 gennaio scorso, l’ANVUR ha pubblicato la versione preliminare dei criteri per l’accreditamento dei dottorati di ricerca. Fino al 10 febbraio gli atenei potranno inviare osservazioni, commenti e suggerimenti che l’ANVUR “esaminerà con attenzione” prima di elaborare la versione definitiva che sarà pubblicata entro il 15 febbraio 2014.

In questo articolo, spieghiamo e analizziamo alcuni dei criteri, indicatori e soglie adottati per l’accreditamento, evidenziando le forti criticità che essi comportano e proponendo alcuni correttivi.

1. Criteri. indicatori e soglie

Fra le attività intraprese da Anvur in questi anni c’è anche quella dell’accreditamento dei dottorati di ricerca, con l’ottica ben espressa da Sergio Benedetto nell’articolo su Repubblica, di una drastica riduzione del numero dei corsi. I corsi di dottorato in Italia erano 1.531 per il 28°. Ciclo e sono poco più di 900 per il 29°. ANVUR ha partecipato a diversi incontri nelle Università italiane per presentare la procedura di accreditamento dei dottorati (criteri, indicatori e soglie).

Il 17 gennaio, con un paio di settimane di ritardo sulla tabella di marcia è stato pubblicato il documento approvato dal Consiglio direttivo dell’Anvur il 18 dicembre 2013, “L’accreditamento dei corsi di dottorato”.

Obiettivi (condivisibili) dell’accreditamento sono quelli di garantire ai dottorandi un ambiente di ricerca aperto al confronto e alla collaborazione internazionale, strutture di ricerca adeguate, fondi per la permanenza in strutture di eccellenza all’estero e la mobilità per la partecipazione a conferenze e convegni, un collegio docenti in grado di garantire una guida di eccellenza agli studenti. Tutto ciò con una serie di caveat:

Non rientra tra gli obiettivi dell’accreditamento la riduzione “per sé” del numero dei corsi, a condizione che siano verificate le condizioni precedenti

Non è detto che gli atenei debbano offrire corsi di dottorato in tutte le aree collegate a corsi di primo e secondo livello

Gli studenti che aspirano a frequentare un corso di dottorato dovranno prevedere la mobilità, scegliendo gli atenei con le migliori caratteristiche nel settore prescelto

Per consentire scelte informate, l’ANVUR studierà modalità di pubblicizzazione degli indicatori principali di accreditamento dei corsi di dottorato nelle diverse aree disciplinari [un altro ranking? Ndr]

(La Scheda Unica Annuale della Ricerca Dipartimentale (SUA-RD) e l’accreditamento e la valutazione dei dottorati, Venezia 17 dicembre 2013)

Con queste premesse risulta dunque chiaro che la definizione degli indicatori che verranno pubblicizzati da ANVUR (e non solamente il soddisfacimento o meno dei requisiti) saranno cruciali per la sopravvivenza di alcuni corsi di dottorato. E quindi l’analisi degli indicatori, soprattutto in una fase in cui ancora sono possibili modifiche e commenti, appare molto urgente e opportuna.

Secondo il DM 45 (8/2/2013) le istituzioni chiedono l’accreditamento al Ministero fornendo tutte le informazioni previste, il MIUR trasmette la richiesta all’Anvur entro 20 giorni dalla ricezione, ANVUR entro 60 giorni formula un parere in merito all’accreditamento e il MIUR lo trasmette agli atenei. Il dottorato accreditato sarà sottoposto ad una verifica periodica della sussistenza dei requisiti e ad una valutazione annuale ai fini della ripartizione annuale dei finanziamenti ministeriali.

Per l’anno 2013/2014, essendo entrato in vigore il DM a maggio 2013 ANVUR ha indicato quanto segue nelle sue linee guida per l’avvio dei corsi di dottorato del 29° ciclo:

In particolare, si ritiene che i corsi che saranno attivati nell’a.a. 2013/14 (XXIX ciclo) possano essere valutati dai Nuclei di valutazione degli atenei. Il parere positivo dei Nuclei con riferimento al rispetto dei criteri di cui all’articolo 4 del DM 45 rappresenterebbe condizione necessaria e sufficiente per l’attivazione dei corsi di dottorato, anche se gli stessi non potranno definirsi “accreditati” ai sensi del DM 45/13. A tal fine si propone che i Nuclei si attengano alle linee guida indicate di seguito.

I dati dei dottorati di ricerca (oltre 900) sono stati trasmessi al MIUR dai nuclei e per la definizione degli indicatori da utilizzare per l’accreditamento Anvur ha selezionato un campione di almeno un dottorato per ogni Ateneo (in alcuni casi anche due), creando un campione di 100 dottorati che rappresenta tutte le tipologie di dottorato esistenti: trasformato, industriale, plurisede, con molti curricula.

I criteri per l’accreditamento sono contenuti nell’art. 4 del DM 45 e poi esposti in maniera esplicita nel punto 3 del documento “Accreditamento dei corsi di dottorato” approvato dal Consiglio Direttivo dell’ANVUR il 18 dicembre 2013. Ne riportiamo qui una breve sintesi rimandando per il dettaglio al documento ANVUR e ai riferimenti al DM.

2. Alcune note su criteri e indicatori

Criterio A1

5.1.2 L’indicatore
Per la verifica dei requisiti di cui al comma a) della sezione 5.1.1 si propone di utilizzare gli indicatori R e X della VQR, calcolati escludendo i soggetti valutati totalmente o parzialmente inattivi, nei SSD indicati nella scheda di proposta del dottorato. Nel caso di dottorati composti da più SSD si utilizzeranno gli indicatori relativi al SSD di riferimento, se questo conta per almeno il 50% del dottorato, altrimenti si verificherà la condizione in tutti i SSD fino a coprire il 50% del dottorato.
Per la verifica dei requisiti di cui al comma b) della sezione 5.1.1 verrà valutata la produzione scientifica negli ultimi 5 anni dei componenti del collegio afferenti all’istituzione estera, oltre alla posizione dell’istituzione stessa nei principali ranking internazionali e nazionali, ove esistenti, e, se possibile, nelle discipline interessate dal corso di dottorato.
Per la verifica dei requisiti di cui al comma c) della sezione 5.1.1 si valuterà la presenza di una attività di ricerca e sviluppo da parte dell’impresa, documentata dalla partecipazione a progetti di ricerca nazionali e internazionali e dall’eventuale presenza di una sezione aziendale (quale ad esempio un centro di ricerca) specificamente dedita a tali attività.

5.1.3 La soglia
Nel caso dei requisiti di cui al comma a) della sezione 5.1.1, si propone che il criterio sia considerato superato positivamente se entrambi gli indicatori (R e X) del soggetto proponente sono superiori a 0,8 nel SSD di riferimento o in tutti quelli da considerare secondo quanto indicato nella sezione 5.1.2. Il criterio non si considera superato se nel SSD di riferimento o in tutti quelli da considerare secondo quanto indicato nella sezione 5.1.2 entrambi gli indicatori sono inferiori o uguali a 0,8. Negli altri casi la decisione sull’accreditamento sarà preceduta da un attento esame del valore degli indicatori in tutti i SSD.

Quali sono i punti critici? Vediamone alcuni.

Come si assegnano le percentuali agli SSD? Nella scelta degli SSD di riferimento (che devono sommare a più del 50%) si è liberi di scegliere un qualsiasi sottoinsieme la cui somma supera il 50% o devo dare la precedenza a quelli con percentuali maggiori?
Nel caso di dottorati in consorzio o convenzione, come viene verificato il criterio? Una volta individuati i SSD di riferimento, la soglia deve essere soddisfatta da tutti i soggetti partecipanti o solo dal proponente o da uno a scelta dei proponenti? Oppure, si deve costruire un “soggetto virtuale” mettendo insieme le risorse umane dei soggetti partecipanti ed effettuare i calcoli su questo soggetto?
Istituzioni estere: la posizione dell’università nei rankings internazionali è un criterio discutibile (quali rankings, con quale scientificità?). Piuttosto, se esiste un accreditamento dei dottorati in quella nazione, basterebbe vedere se l’istituzione estera è abilitata a rilasciare titoli di PhD. Solo come soluzione di ripiego, facilmente verificabile, si potrebbe controllare se l’istituzione estera compare in una lista predefinita di rankings internazionali. Al mondo ci sono tra le 10.000 e 20.000 università a seconda dei criteri di classificazione. Chi rientra nelle “top 500″ di un qualche ranking internazionale (sebbene i criteri siano tutt’altro che scientifici) dovrebbe in teoria collocarsi nel top 2,5-5% mondiale.
Usare indicatori di SSD rende impossibile sapere in anticipo gli scores per tutti gli SSD poco numerosi in un dato ateneo. È una circostanza comune soprattutto nelle aree umanistiche, ma non solo.
È impossibile conoscere in anticipo il valore preciso degli indicatori, anche perché vanno tutti ricalcolati senza contare inattivi e parzialmente inattivi di cui mancano i dati disaggregati. In particolare, è assurdo tenere nel conteggio i parzialmente attivi (1 prodotto VQR mancante su 3) e graziare invece i soggetti a cui mancano 2 o addirittura 3 prodottti (inattivi e parzialmente inattivi). Meglio un criterio (blando) basato su indicatori di area. Blando perché i voti VQR sono inattendibili nonostante la normalizzazione per SSD (come mostrato nel recente articolo “VQR da buttare? Persino ANVUR cestina i voti usati per l’assegnazione FFO 2013“) e perché viene comunque valutato anche il collegio dei docenti.
Criterio A2

5.2.1 Il riferimento normativo
Le tematiche del corso di dottorato si riferiscono ad ambiti disciplinari ampi, organici e chiaramente definiti. Le titolature e gli eventuali curricula dei corsi di dottorato sono proposti dai soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, e valutati dall’ANVUR in sede di accreditamento dei corsi.
5.2.2 La verifica del requisito
L’ANVUR ritiene che tale definizione sia coerente con un ambito scientifico (e relativa titolatura) del corso di dottorato caratterizzati da tematiche e metodologie di ricerca affini, tipicamente contenute per ampiezza non oltre un singolo macrosettore concorsuale.
La presenza di un numero elevato (tipicamente superiore a 3) di curricula deve essere inoltre accompagnata da una composizione di collegio che garantisca una sufficiente massa critica per ognuno dei curricula.
I corsi di dottorato che si rifanno ad ambiti di ricerca tematici che rispondono a problemi complessi, caratterizzati da una forte multidisciplinarietà, dovranno trovare un’evidenza nella produzione scientifica dei membri del collegio, tale da garantire la presenza di tutte le competenze necessarie e da mostrare una collaborazione in atto.

Per il criterio A2, le principali criticità riguardano l’interpretazione da dare al testo

A cosa si riferisce il limite di ampiezza che non dovrebbe eccedere “un singolo macrosettore concorsuale”? Se si riferisse al corso di dottorato, molti dei dottorati esistenti sarebbero destinati a scindersi in dottorati maggiormente focalizzati. Allo stesso tempo, per molti atenei i macrosettori non raggiungono la massa critica necessaria, per esempio in termini di docenti, per varare un dottorato. Una seconda lettura induce a pensare che ad essere “tipicamente contenute” in un singolo macrosettore siano ciascuna delle tematiche di ricerca affini (da intendersi come sinonimi di “curricula“?)
Come va interpretata la “sufficiente massa critica” in relazione ai curricula? Più di un docente per curriculum? Ne bastano due?
La multidisciplinarietà è contemplata, ma guardata con sospetto: non basta che ci siano le competenze multidisciplinari ma bisogna essere in presenza di una “collaborazione in atto”. Sembra di intuire il timore che l’istituzione di dottorati multidisciplinari funga da espediente per scampare alla “diminuzione molto netta” del numero di dottorati. Meglio scoraggiare la multidisciplinarietà che correre il rischio che qualche dottorato sfugga alla retata.
Criterio A3

Il criterio A3 disciplina la tipologia e il numero di componenti del collegio per le varie tipologie di dottorato. In particolare, specifica, nel caso di docenti e ricercatori universitari, l’appartenenza “ai macrosettori coerenti con gli obiettivi formativi del corso”.
La verifica dei requisiti numerici previsti per le varie tipologie di dottorato è fatta in automatico, ove possibile, sulla base del modulo di proposta del corso di dottorato. Per i componenti del collegio di cui sia impossibile accertare in automatico la tipologia varrà l’autocertificazione del soggetto proponente.
La verifica dell’appartenenza dei componenti del collegio ai macrosettori coerenti con l’obiettivo formativo del corso è fatta sulla base del grado di copertura dei SSD del corso da parte dei componenti del collegio. Il collegio deve garantire in linea di massima un grado di copertura pari ad almeno l’80% dei SSD.

Anche in questo caso, è necessaria un’accurata interpretazione.

Una ragionevole interpretazione richiede che, un volta dichiarati gli SSD del corso, almeno l’80% di essi sia rappresentato nel collegio. Per fare un esempio, se gli SSD del corso sono cinque sarà necessario che i membri ne rappresentino almeno quattro.
Criterio A4

5.4.2 Gli indicatori […]
Per verificare che sia soddisfatto il criterio A4, sulla base della sperimentazione effettuata sui dottorati all’uopo prescelti, si sottopone alla comunità scientifica la proposta di utilizzare i seguenti indicatori:

Gli indicatori R e X della VQR calcolati sul collegio nella sua composizione completa; per la normalizzazione degli indicatori si utilizza il valore medio degli indicatori calcolato sul SSD a livello nazionale. Si sottolinea che, come nel caso dei Dipartimenti e degli Atenei, l’uso dei risultati della VQR sarà limitato alla valutazione dell’aggregato (collegio dei docenti) e mai dei singoli componenti, i cui valori convergeranno appunto nella valutazione dell’insieme.
Un indicatore discreto, denominato I, ottenuto mediando sui componenti del collegio il seguente indicatore A in grado di tener conto della produzione scientifica complessiva dal 2003 al 2012:
A = 0, 0,4, 0,8, 1,2 se il relativo componente del collegio, professore ordinario, associato e ricercatore, supera 0, 1, 2 o 3 mediane, calcolate nella categoria di appartenenza del componente del collegio, degli indicatori di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2 dell’allegato A, e alle lettere a) e b) del comma 3 dell’Allegato B del Decreto Ministeriale n. 76 del 7 giugno 2012

L’indicatore I dell’attività scientifica del coordinatore del corso
Un indicatore quantitativo di attività scientifica negli ultimi 5 anni (2009-2013).
Nel caso in cui gli indicatori VQR e l’indicatore I non possano essere calcolati per una parte dei membri del collegio, si verificherà il grado di copertura degli indicatori. Se esso è inferiore al 50%, la verifica si esegue principalmente esaminando la qualità della produzione scientifica negli ultimi 5 anni.

5.4.3 Le soglie
Gli indicatori VQR del collegio effettivo devono essere entrambi maggiori di 1, e la loro somma deve essere maggiore di 2,2 (condizione 1).
L’indicatore I deve essere maggiore di 0,6 (condizione 2).
Il coordinatore del collegio dovrà avere un valore di I non inferiore a 0,8 (condizione 3).
Il quarto indicatore richiede che tutti i componenti del collegio effettivo abbiano almeno due pubblicazioni scientifiche nelle categorie previste dalla VQR e coerenti con uno dei SSD di riferimento del collegio negli ultimi 5 anni (condizione 4).
Si propone che il corso di dottorato non venga accreditato quando almeno tre delle condizioni precedenti non sono verificate. Nel caso in cui una o due delle condizioni precedenti non siano verificate, si propone di esaminare nel dettaglio la proposta in tutti i suoi aspetti, eventualmente chiedendo ulteriori informazioni all’ateneo proponente. In particolare, si propone di valutare in maniera approfondita la produzione scientifica nel quinquennio dei componenti del collegio.

La valutazione bibliometrica dei componenti del collegio solleva questioni delicate.

In barba a tutte le dichiarazioni, anche da parte di ANVUR, sull’inviolabilità dei dati VQR individuali, i coordinatori vengono spinti a tentare di violare la privacy, essendo questo l’unico modo per stimare in anticipo il superamento delle soglie.
Un problema non secondario è il calcolo degli indicatori per i settori non bibliometrici. Chi non si è candidato per l’Abilitazione scientifica nazionale non ha esperienza in proposito. Anche chi è stato commissario, dovrebbe rifare i calcoli perché qui stiamo parlando delle mediane per i candidati che sono diverse da quelle per i commissari. Una guida passo-passo per svolgere tutti i calcoli necessari è contenuta nel seguente articolo: Abilitazioni e mediane ANVUR: dipaniamo il “caos strisciante”.
Il meccanismo di normalizzazione per settore è stato già stroncato dal gruppo di lavoro della CRUI incaricato di studiare gli indicatori:
Quindi nei SSD con valori medi più elevati e larghezze minori: escursione di R strutturalmente minore rispetto ai SSD con valori medi bassi e larghezze maggiori.

In effetti il peso assegnato a SSD con voti medi nazionali bassi può risultare eccessivo. Se un membro del collegio ha un voto pari a 0,8 in un SSD la cui media nazionale è 0,1, il membro finisce per contare 8 punti e tiene in piedi il collegio da solo.

Stiamo facendo valutazioni individuali per le quali c’è consenso universale (vedi qui e qui) sull’inutilizzabilità di criteri bibliometrici automatici. Non esistono bacchette magiche per valutare la qualità scientifica dei singoli con formule automatiche (I “dieci comandamenti” della bibliometria individuale).
La VQR contemplava e rendeva possibili “prestiti”, ovvero la cessione dei propri prodotti (talvolta proprio i migliori) per massimizzare il punteggio dei propri coautori, il tutto finalizzato ad una migliore valutazione della strutture e/o del dipartimento. Non essendo pensabile di procedere ad una nuova girandola di “prestiti”, è presumibile che ciascun membro del collegio sarà valutato sulla base dei tre prodotti da lui presentati alla VQR. Alcuni dottorati chiuderanno perché qualcuno dei membri del collegio era stato troppo generoso confidando che l’ANVUR non avrebbe violato i patti? Su che basi sarà possibile svolgere la VQR se ogni valutato sospetterà che non tenersi stretti i 3 lavori migliori lo danneggerà in futuro?
Meglio sarebbe limitarsi a verificare che i membri siano scientificamente attivi (3 prodotti VQR su 3 richiesti + ulteriore condizione di produttività su ultimi 5 anni).
Sarebbero più solidi dati come il numero totale di monografie e/o articoli prodotte dal collegio negli ultimi 5 anni (aree non bibliometriche) e un numero minimo di articoli internazionali (aree bibliometriche). Meglio soglie blande e differenziate per aree (per es. i matematici scrivono meno dei biologi).
A fronte dell’obiezione che criteri più blandi renderebbero accreditabili una frazione di corsi di dottorato non sufficientemente qualificati, si possono opporre i costi e la farraginosità imposti all’intero sistema universitario. Una realtà per sua natura votata alla flessibilità e all’innovazione, come il dottorato di ricerca, deve essere messa nelle condizioni di operare, affidando buona parte del compito di controllo alla valutazione ex-post, per esempio sulla produzione scientifica e gli sbocchi professionali di chi ha conseguito il dottorato.
Criterio A9

5.9.1 Gli indicatori […]

Il numero medio di pubblicazioni per dottorando e poi neodottore nel sessennio. Particolare attenzione verrà prestata:
Alle pubblicazioni a congressi internazionali con peer review;
alle pubblicazioni su riviste ISI e Scopus nel caso delle aree bibliometriche;
alle pubblicazioni su riviste di fascia A e alle monografie nel caso nelle aree non bibliometriche.
5.9.2 Le Soglie
La valutazione della qualità e impatto delle pubblicazioni (indicatori secondo e terzo) si utilizza ai soli fini della valutazione del corso di dottorato. Ai fini dell’accreditamento, si propone che il numero medio di pubblicazioni come qualificate in 5.9.1 per dottorando (e poi neodottore) del corso sia maggiore o uguale a 1 nel sessennio. In attesa della messa in opera dell’anagrafe nazionale dei dottorati prevista dal DM, tale requisito quantitativo costituirà una informazione utile ai fini dell’accreditamento, ma non verrà utilizzata come soglia di sbarramento.

La creazione di una anagrafe nazionale dei dottorati per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche appare infine una inutile (e persino dannosa) duplicazione di Anpreps, in quanto i dottori di ricerca sono personale potenzialmente molto mobile, e il rischio di attribuzione di una stessa pubblicazione sia all’università sede del dottorato che all’università in cui si è, successivamente incardinati, può portare a duplicazioni difficilmente riscontrabili. Meglio sarebbe includere fin da subito tutte le pubblicazioni dei dottori di ricerca nell’anagrafe nazionale dei professori e ricercatori.

3. Conclusioni

Le valutazioni della VQR, definite in maniera retrospettiva per l’arco temporale 2004-2010, su prodotti selezionati in ciascun ateneo con modalità differenti (centralizzata vs. decentrata) con l’obiettivo di massimizzare il risultato delle strutture (intese come Atenei in primis e poi come Dipartimenti), vengono in questo modo applicate a corsi di dottorato il cui ciclo di vita è di tre anni, a cui si deve deve assicurare ora, e non 10 anni fa, una qualità alta dei membri del collegio e dell’intero dottorato. Inoltre, i criteri che dovrebbero servire da guida per gli atenei, per l’instaurarsi di buone pratiche, non essendo riproducibili localmente non servono ad attivare meccanismi virtuosi, ma finiscono per essere solo punitivi. Più in generale:

I dati VQR (e noi ne conosciamo la qualità) diventano lo strumento per l’accreditamento. All’ANVUR avranno fatto una simulazione sui dottorati esistenti? Prevedono già quanti ne verranno chiusi? Se sì è loro dovere rendere pubbliche le previsioni. Se no, non sanno quello che fanno e sarebbe auspicabile che il ministero intervenisse subito per capire cosa sta per succedere al sistema dottorale italiano;
La qualità della didattica erogata e dell’organizzazione del dottorato non è minimamente considerata. Paradossalmente un dottorato in scienze sperimentali che tenga i dottori di ricerca per tre anni ad affettare cellule o dar da mangiare a cavie, va benissimo se solo i ricercatori senior fanno co-firmare i loro contributi ai dottorandi;
Ad ANVUR non sembra interessare per niente che mestiere faranno i dottori di ricerca una volta conseguito il titolo. Il modello di riferimento sono dottorati con sbocchi accademici. L’art 11 del DM è del tutto vanificato.
Manca ogni riferimento all’esistenza di sistemi “locali” di assicurazione della qualità. Non viene richiesta rispetto al passato l’opinione dei dottorandi in nessuna fase. Di fatto tutto il sistema di autovalutazione alla base della Quality Assurance non si applica in nessun modo al sistema dottorale (d’altra parte non se ne vede l’uso neanche nel sistema AVA).
La verifica della disponibilità di risorse finanziarie è demandata completamente ai NDV, che sembrano svolgere una funzione sussidiaria rispetto ad ANVUR coprendo informazioni che ANVUR ritiene di non dover raccogliere direttamente;
in linea di massima si ha la sensazione che il disegno sia dettato non tanto dall’obiettivo di perseguire il miglioramento del sistema dottorale, ma di permettere ad ANVUR con le risorse disponibili di svolgere una qualche attività di accreditamento che consiste essenzialmente nel verificare soglie il cui calcolo non è costoso per l’agenzia. Nessun interesse per il sistema di qualità dei dottorati, con buona pace per il processo di Bologna. Di fatto si sta riproponendo il modello burocratico-ministeriale dei requisiti “minimi”, solo che questa volta è ANVUR a dettare le regole del gioco.
Infine, qualche osservazione conclusiva: da anni l’offerta formativa post-laurea si va comprimendo nel nostro Paese. Da un certo punto di vista, tutto il sistema di formazione terziaria e della ricerca è afflitto da due tendenze: riduzione e concentrazione. Fenomeni auspicati da chi, per lungo tempo, ha sostenuto – non supportato da dati acconci, o tout-court senza alcun dato alla mano – che il sistema italiano sarebbe ipertrofico.

Riduzione e concentrazione sono le parole chiave per intendere appieno gli effetti delle nuove regole proposte da ANVUR circa gli accreditamenti. Infatti, è lecito supporre che proprio questi saranno gli effetti indiretti dei nuovi criteri. Ora, è certo vero che in taluni casi e per alcune specifiche discipline (in particolare quelle che necessitano di laboratori e attrezzature), il raggiungimento di una sufficiente massa critica è obiettivo funzionale ad una maggiore efficienza, sia nella formazione che nella produzione scientifica. D’altra parte, vi sono numerosissime discipline, non solo ascrivibili alla macro-area delle scienze umane e sociali, per le quali il raggiungimento di tali soglie dimensionali non è necessario, e anzi rischia di tradursi in zibaldoni eterogenei. Eppure, le regole proposte da ANVUR finiranno per colpire anche queste discipline, che dovranno affrontare sforzi crescenti per poter continuare a riprodurre se stesse. Senza un dottorato, non è possibile crescere allievi e far ricerca di gruppo. Senza dottorato, una disciplina muore. E come si sa, una volta estinte, è molto difficile resuscitare in un paese le competenze perdute.

Ancora, è probabile che le regole elaborate da ANVUR si riveleranno più gravose per gli atenei di minori dimensioni: una volta che questi avranno perso la possibilità di offrire formazione dottorale, si sarà creata nei fatti la distinzione, tanto auspicata da alcuni commentatori, fra Atenei di serie A e Atenei di serie B. Con i secondi destinati a essere colonie o parcheggi dei primi.

La lettura del documento di ANVUR sull’accreditamento dei dottorati può lasciare confusi per la complessità e la rigidità del sistema valutativo che si intende costruire. Ma in realtà, per quanto esso sia rilevante, non è questo il punto principale; infatti va osservato come, ancora una volta, le scelte tecniche dell’Agenzia abbiano ricadute pratiche di forte impatto sul panorama del sistema. Insomma, ancora una volta, la tecnica si fa politica orientando e plasmando il panorama della formazione e della ricerca italiane. Sotto l’apparenza di scelte tecniche, si operano scelte che hanno effetti politici, che tuttavia vengono assunte al di fuori dei luoghi deputati alla definizione delle policies e nel silenzio di coloro che del ruolo di policy maker sono effettivamente titolari.

Una ultima notazione. E’ stato da poco licenziato un documento della commissione di studio ministeriale sul dottorato. Tale documento contiene critiche di principio al DM 45. Le riflessioni della commissione sono in netto contrasto con le linee di accreditamento decise dall’Agenzia Nazionale. ANVUR sta di fatto decidendo la politica del MIUR. Senza, forse, che il Ministro e la sua commissione ne siano informati, se non a cose fatte.

www.roars.it

"L'ipoteca dell'estremismo", di Claudio Sardo

La tagliola finora non era mai stata usata in Parlamento. I grillini hanno deciso di farla scattare, spingendo il loro ostruzionismo fino al limite estremo: se Laura Boldrini non vi avesse fatto ricorso, gli italiani sarebbe stati costretti a pagare anche la seconda rata dell’Imu, dopo aver già pagato il conto del pasticcio voluto da Berlusconi e troppo supinamente accettato dal governo.

La «tagliola» è una norma estrema del regolamento della Camera, introdotta nel ’97 dopo la famosa sentenza della Consulta che vietò la reiterazione dei decreti-legge, divenuta una scandalosa consuetudine incostituzionale. L’effetto della tagliola è lo stop all’ostruzionismo parlamentare e la messa in votazione del decreto, un attimo prima che scada il termine e ne decadano tutti gli effetti giuridici.

Le opposizioni, ovviamente, hanno il diritto di usare ogni strumento legale a loro disposizione per contrastare i provvedimenti che non condividono, ma non hanno il diritto di impedire alla maggioranza (e al Parlamento) di pronunciarsi su un decreto. Finora, anche nelle battaglie politiche più aspre, non si era mai arrivati al punto di costringere il presi- dente della Camera ad applicare una norma che contrasta con lo spirito del parlamentarismo. Ma l’estremismo grillino voleva raggiungere proprio questo risultato. E voleva mettere in scena quella rabbiosa e plateale protesta nei banchi di Montecitorio, che aveva lo scopo di delegittimare il Parlamento, di avvelenare il clima, di sovrastare con le grida le altre questioni all’ordine del giorno.

Tutto si può dire tranne che il Movimento 5 stelle sia stato vittima della tagliola. I grillini hanno cercato l’obiettivo per rafforzare, anche simbolicamente, la loro opposizione di sistema. L’efficacia che cerca- no non è quella di emendare, di migliorare le condizioni dei cittadini che li hanno votati, ma quella di produrre l’esito il più possibile negativo, in modo da far risaltare l’antagonismo radicale. Piuttosto che correggere un testo, è meglio che questo esca nella versione peggiore. Qualche tempo fa, il M5s spinse l’ostruzionismo contro un altro decreto-legge fino a mettere a repentaglio i fondi per la ricostruzione dopo il terremoto in Emilia: per fortuna, anche in quell’occasione i grillini furono sconfitti.

Va detto, a onore del vero, che non tutti gli argo- menti usati dai deputati di Grillo contro il decreto sono da disprezzare: lasciano dubbi le modalità con le quali – attraverso una rivalutazione delle quote delle banche – si è realizzata una maggiore autonomia di Bankitalia dal Tesoro, e dunque dallo Stato. Tuttavia, la fondatezza di alcuni argomenti non giustifica l’oltranzismo e la violenza verbale, anzi rende ancora più colpevole il comportamento adottato. È inaccettabile che la denuncia faccia premio su qualunque tentativo di mediazione o di correzione. Una forza politica fa opposizione e marca la propria diversità per costringere la controparte ad una posizione più avanzata, per ottenere qualche risultato anche parziale. Questo è il confronto parlamentare che incide sul Paese. Ieri invece lo scopo della conte- stazione era la sua teatralità, il fare una cosa che non si era mai fatta: così la «tagliola» è diventata un po’ come la risalita sul tetto di Montecitorio. Il nichilismo eretto a filosofia politica e il Vaffa gridato nel Palazzo per rappresentare così un’opposizione sempre più «di sistema».

Grillo e Casaleggio stanno lanciando la campagna elettorale per le europee: hanno bisogno di allargare le distanze. Avevano scommesso su nuove elezioni politiche nel 2014, ma potrebbero aver perso la scommessa. Così hanno programmato un’escalation della loro protesta. Gli insulti al Capo dello Stato non sono frutto del caso o del delirio di un singolo deputato: sono anch’essi programmati. Il rifiuto di partecipare in alcun modo alla riforma elettorale è l’altra scelta strategica che prepara l’offensiva anti-europea. Prepariamoci ad un Grillo che farà impallidire Le Pen, e che tenterà di soffiare alla Lega il primato anche della violenza verbale.

Sono le scelte politiche del Movimento 5 stelle. Che condizioneranno la vita del Parlamento e il confronto politico nel Paese. Se i grillini decidessero di partecipare al lavoro sulle riforme elettorali e costituzionali, potrebbero anche portare a casa dei risultati. Ma l’autonomia del politico per Grillo si fonda sul tanto peggio per l’Italia. Tra l’altro, le riforme dovranno toccare anche i regolamenti parlamentari. Bisogna prevedere tempi certi per le votazioni, non solo dei decreti, ma anche dei disegni di legge che il governo considera essenziali e (pro-quota) di quelli che le opposizioni intendono sottoporre al giudizio dell’aula. Non si tratta di un modo per strangolare il dibattito: fare buone leggi richiede tempo, e da noi il tempo serve anche per cambiare il modo con cui si scrivono le leggi. Troppe norme sovrapposte, pochi testi unici e poca semplificazione. Ma per cambiare il costume legislativo serve certezza sui tempi di decisione. Confronto, contrapposizione, mediazione, poi alla fine decisione. Altrimenti la democrazia muore. Purtroppo, c’è chi vuole l’impotenza della politica per trarne vantaggio.

L’Unità 30.01.14

"I nuovi contadini under 35 tra scelta di vita e impresa", di Camilla Gaiaschi

Un po’ per vocazione e un po’ per necessità, il ritorno dei giovani in agricoltura ai tempi della crisi è come un Giano bifronte. I numeri non sono da capogiro: secondo i dati elaborati da Inea (l’Istituto nazionale di economia agraria), tra il 2000 e il 2010 i proprietari di aziende agricole con meno di 40 anni sono scesi del 40,8 per cento, più della media (37,4) e più di chi ha già compiuto 65 anni (-38,3 per cento).
Solo negli ultimi anni si sono registrati alcuni importanti segnali di ripresa, con gli under 34 stabili al 20 per cento sul totale degli occupati e un piccolo aumento al Sud dove quelli tra 18 e 35 anni sono cresciuti del 5,8 per cento (dati Inea). Secondo i dati di InfoCamere, inoltre, tra il primo e il secondo semestre 2012 le imprese agricole condotte da giovani con meno di 35 anni sono cresciute in tutte le regioni italiane.
Ma al di là di questi timidi segnali di ripresa, che cosa c’è dunque di vero nel tanto chiacchierato ritorno dei giovani all’agricoltura? «Innanzitutto le ragioni — spiega Roberto Henke, ricercatore di Inea —: in tempi di crisi l’agricoltura fa da cuscinetto e bilancia la mancanza di opportunità migliori, soprattutto al Sud, dall’altra parte però cresce la fetta di quei giovani che sceglie quest’attività in maniera consapevole e con ottica imprenditoriale».
Anche grazie a un immaginario collettivo che è cambiato: da settore arretrato e poco attraente, oggi l’agricoltura è vista come una scelta di rottura e una filosofia di vita. Non solo: «Oggi l’agricoltore è un imprenditore a tutti gli effetti che rischia il capitale e assume dipendenti, quindi con caratteristiche appetibili anche per i giovani», prosegue Henke.
Ma chi è questo giovane agricoltore? «Spesso è colui che fa innovazione, non solo sul prodotto, come è successo ad esempio con il biologico, ma anche sui servizi offerti non necessariamente legati alla produzione agricola». Ovvero: accoglienza ed enogastronomia, servizi educativi come le fattorie didattiche e servizi terapeutici, costruiti spesso in accordo con Asl e comunità di recupero, dal lavoro agricolo alla ippoterapia.
«Certo sono fenomeni di nicchia ma molto significativi e in crescita, che forniscono lavoro a competenze diverse da quelle agricole», precisa Henke. Rispetto a nonni e padri, il giovane agricoltore ha investito di più nella formazione universitaria: se solo il 6 per cento dei proprietari tra i 60 e i 69 anni di età può vantare di avere una laurea, la percentuale cresce al 10,6 per cento per la fascia di età compresa tra i 30 e i 39 e al 14% per quella compresa dai 25 ai 29 anni. La maggior parte di loro tuttavia non ha un titolo di studio coerente con l’attività agricola, mentre dall’altra parte prosegue il boom delle iscrizioni alle facoltà di scienze agrarie, forestali e alimentari: +45 per cento dal 2008 ad oggi secondo Coldiretti.
Insomma, il ritorno dei giovani all’agricoltura c’è, anche se è ancora troppo presto per poter parlare di una vera e propria inversione di tendenza, con il problema del ricambio che non accenna a ridursi: su mille agricoltori, il rapporto uscite-entrate resta di 375 a 77 (dati Inea).
Colpa dei costi della terra troppo elevati, in Europa ma ancora più in Italia, che di fatto rendono l’accesso al mestiere praticamente impossibile a chi non dispone già di un terreno, e di una bassa redditività (-4,4 per cento nel 2012 secondo i dati dell’Annuario dell’agricoltura italiana dell’Inea). Le misure di sviluppo rurale hanno smosso qualcosa: dal 2000 al 2013 sono 68 mila i giovani agricoltori italiani che hanno beneficiato degli stanziamenti comunitari previsti dalla Pac, la politica agraria comune, per un totale di 1,5 miliardi di euro. Piccoli passi verso un futuro più verde.

Il corriere della sera 30.01.14