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"La paranoia dei plutocrati", di Paul Krugman

La crescente ineguaglianza ha costi economici evidenti: salari stagnanti malgrado produttività in aumento, debito che cresce e ci rende più esposti alla crisi finanziaria. Essa comporta però anche notevoli costi in termini sociali e umani: per esempio, è dimostrato che una grande ineguaglianza conduce a un peggioramento della sanità e a una mortalità più alta.
Ma c’è dell’altro. Si è scoperto che l’ineguaglianza estrema crea una categoria di persone distaccate in maniera inquietante dalla realtà, e al tempo stesso conferisce loro grande potere.
L’esempio per il quale in questo periodo molti sono in subbuglio è quello dell’investitore miliardario Tom Perkins, socio fondatore di Kleiner Perkins Caufield & Byers, una società di investimento in capitali di rischio. In una lettera che ha indirizzato al direttore del
Wall Street Journal, Perkins biasima le critiche ufficiali mosse nei confronti “dell’uno per cento” — i più abbienti della popolazione — , e le paragona alle aggressioni naziste contro gli ebrei, lasciando intendere che saremmo in dirittura d’arrivo per un’altra Notte dei Cristalli.
Si potrebbe affermare che si tratta soltanto di un altro pazzo tra tanti, e potremmo chiederci anche perché il Wall Street Journal pubblichi contenuti di questo genere. In realtà, Perkins non è un caso anomalo. Non è nemmeno il primo titano della finanza a mettere sullo stesso piano dei nazisti i sostenitori dell’imposizione fiscale progressiva. Già nel 2010 Stephen Schwarzman, presidente e direttore esecutivo del Blackstone Group, aveva dichiarato che le proposte volte a eliminare le scappatoie fiscali per i manager di hedge fund e private equity andavano equiparate «all’invasione da parte di Hitler della Polonia nel 1939».
Ci sono anche numerosi ricchi e potenti che sono riusciti a tener fuori Hitler dalle proprie considerazioni e nondimeno hanno ed esprimono con veemenza opinioni politiche ed economiche nelle quali paranoia e megalomania si mescolano in egual misura. So che quanto dico può sembrare esagerato, ma ascoltate tutti i discorsi e leggete gli articoli di opinione di chi si schiera con Wall Street e accusa il presidente Barack Obama — che non ha fatto nient’altro che dire cose scontate e ovvie, cioè che alcuni banchieri hanno agito male — di demonizzare i più abbienti e di accanirsi contro di loro. E guardate anche quanti di coloro che lanciano queste accuse hanno la pretesa, ridicola ed egocentrica, di affermare che proprio i loro sentimenti feriti (e non altre cose, come l’indebitamento delle famiglie e una precipitosa austerità fiscale) sono il principale fattore che frena l’economia.
Giusto per essere chiari: i più abbienti, e quelli di Wall Street in particolar modo, in effetti sotto Obama stanno peggio di quanto starebbero se nel 2012 avesse vinto Mitt Romney. Tra la parziale riduzione degli sgravi fiscali varati a suo tempo da Bush e l’aumento delle tasse che sovvenziona in parte la riforma sanitaria, le aliquote fiscali dell’uno per cento della popolazione sono tornate più o meno ai livelli pre-Reagan. Per di più, nel corso del 2012 i riformatori del sistema finanziario si sono aggiudicati alcune vittorie strabilianti, e questa è una cattiva notizia per i faccendieri la cui ricchezza proviene in buona parte dallo sfruttamento di una regolamentazione inefficace. In pratica, dunque, si può davvero sostenere che l’uno per cento della popolazione ha perso alcune importanti battaglie politiche.
Ogni gruppo, tuttavia, si trova prima o poi a dover far fronte alle critiche e nelle battaglie politiche finisce sul versante dei perdenti. Questa è la democrazia. La vera domanda da porsi è che cosa accadrà dopo. La gente normale affronta tutto ciò senza battere ciglio e, pur essendo arrabbiata o scontenta dai contrattempi della politica, non va sbraitando di essere perseguitata, non paragona chi la critica ai nazisti, non afferma con insistenza che il mondo ruota attorno ai suoi sentimenti feriti. I ricchi, però, sono diversi da voi e da me.
È vero, in parte sono diversi perché hanno più soldi e il potere che ai soldi sempre si accompagna. Possono circondarsi, e lo fanno fin troppo spesso, di cortigiani che dicono loro quello che vogliono sentirsi dire e che mai e poi mai direbbero loro che sono fatui. Sono abituati a essere trattati con deferenza non soltanto dai sottoposti che assumono, ma anche dai politici che desiderano ardentemente i loro contributi elettorali. Di conseguenza, quando scoprono che con i soldi non si compra tutto né ci si può tutelare da ogni avversità, restano sconvolti. Sospetto anche che gli odierni Padroni dell’Universo a questo punto nutrano perplessità perfino sulla natura del loro successo. Qui non stiamo parlando di capitani d’industria o di persone che fabbricano cose, ma di faccendieri, di persone che comandano a bacchetta e si arricchiscono occultando una parte del loro denaro al fisco. Possono anche vantarsi di creare posti di lavoro, di far girare l’economia, ma creano davvero valore aggiunto? Molti di noi ne dubitano, e così pure, presumo, alcuni dei ricconi stessi, con quella forma di insicurezza che porta a scatenarsi con furia ancora maggiore contro chi muove critiche nei loro confronti.
In ogni caso, queste sono cose che abbiamo già visto. È impossibile leggere sproloqui come quelli di Perkins o di Schwarzman senza che torni in mente il famoso discorso di Franklin D. Roosevelt del 1936 al Madison Square Garden quando, parlando dell’odio di cui era fatto oggetto da parte delle forze del «capitale organizzato», dichiarò: «E io do il benvenuto al loro odio».
Obama, purtroppo, non ha fatto niente di simile a quanto fece Roosevelt per guadagnarsi l’odio di ricchi immeritevoli. Nondimeno, ha fatto molto più di quanto molti progressisti sono disposti a riconoscergli e, come Roosevelt, sia lui sia i progressisti in generale dovrebbero dare il benvenuto a quell’odio, in quanto segno evidente che stanno facendo qualcosa di giusto.
Traduzione di Anna Bissanti © 2014 New York Times News Service

La Repubblica 30.01.14

"Dove va la democrazia?", di Manuela Ghizzoni

Mi ero ripromessa di non scrivere a caldo su quanto accaduto ieri perché – forse a causa della mia professione – credo che ci voglia la sufficiente distanza e serenità per commentare e quindi elaborare giudizi (anche politici). Ma la recrudescenza odierna degli eventi (come ad esempio aver impedito lo svolgimento della conferenza stampa indetta dal capogruppo Pd, Roberto Speranza, e l’occupazione delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali) mi sprona a vincere la ritrosia iniziale e a dire che:
1. credo che il merito non c’entri, perché se davvero il contendere fosse la ricapitalizzazione della Banca d’Italia, ci si sarebbe aspettati lo stesso imponente ostruzionismo durante l’approvazione del decreto al Senato. Così non é stato, poiché l’aula del Senato ha licenziato il provvedimento tra l’8 e 9 gennaio, senza particolare clamore. Come mai? Non si erano accorti di quello che votavano? Non posso pensare che i senatori pentastellati abbiano trascurato la lettura del testo del decreto, ma allora perché la ricapitalizzazione della Banca d’Italia é diventata, solo alla Camera, la madre di tutte le battaglie? Perché a mio avviso questa vicenda ha invece a che vedere con la difficile legge elettorale che sta per approdare in aula. Non a caso, ieri sera, dopo l’ammucchiata FdI e M5S, i pentastellati hanno impedito lo svolgimento della seduta della commissione Affari Costituzionali, che doveva discutere gli emendamenti alla legge elettorale. Quindi, perché non sveliamo il velo di ipocrisia che sta coprendo questa vicenda dicendo che i 5S NON vogliono alcuna (ripeto, alcuna) riforma elettorale?
2. Si è passato un confine: tornare indietro sarà difficile. Mai avevo visto scene come quella di ieri sera. Si è trattato di un assalto organizzato ai banchi del governo e della presidenza. Le immagini parlano chiaro. Dichiararsi gandhiani, come tentano di fare oggi, non significa esserlo: se così fosse, si sarebbero “spalmati pacificamente” sui loro seggi, ma così non è stato. Ripeto, le immagini parlano chiaro. Il M5S dice che i deputati hanno reagito alla “violenza” della presidente Boldrini (ricordo che 4 commessi sono dovuti ricorrere alle cure dell’infermeria, gandhianamente parlando). Io all’ipocrisia e allo stravolgimento della realtà non ci sto. Perché la scelta della Boldrini – cioè quella di mettere in votazione il decreto per consentirne la conversione, dopo 3 giorni di interventi a senso unico – è stata provocata da un ostruzionismo tardivo (come ho dimostrato sopra) e cieco. Mai le opposizione si erano spinte, nella propria azione di contrasto, a costringere il presidente della camera a porre la cosiddetta “tagliola”. Ecco perchè la definisco una opposizione cieca. Ci si è andati vicini, ma non si è superato mai quel confine per non creare un precedente (come ha giustamente osservato Pierluigi Castagnetti) e salvaguardare le regole del confronto parlamentare e delle stesse regole democratiche.
3. Ecco, credo che il punto sia questo: avere o meno consapevolezza di cosa significa agire in un sistema di regole democratiche. E temo che questa consapevolezza non sia patrimonio diffuso. Una conferma? Il vicepresidente della Camera Di Maio, M5S, ieri sera dichiarava “ora conflitto nelle piazze… Non torneremo in Aula pacificamente… Vedrete che succederà…” A parlare, ripeto, è il vicepresidente della Camera. Sono parole consone al ruolo istituzionale che Di Maio ricopre a nome di tutti? A me pare di no.
4. Mentre concludo questo post, l’on. Toninelli interviene in aula per contestare il processo verbale e dice: “lei presidente ha fatto un bliz, imponendo la “tagliola”. L’ha voluto il Pd (??) e il Pd si accorgerà delle conseguenze, quando sarà usata contro di lui quando sarà all’opposizione…”. Toninelli aggiunge poi, con ferrea logica consequenziale, che il M5S non parteciperà alla discussione sulla legge elettorale! Ecco svelata l’ipocrisia: l’ostruzionismo di questi giorni è scattato sulla Banca d’Italia, mentre attiene alle legge elettorale e alle regole del confronto parlamentare (e al loro scardinamento).

Per saperne di più nel merito della questione ricapitalizzazione della Banca d’Italia, clicca qui e cerca l’intervento di Causi a p. 148 (alla finee del file)

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FAQ su riforma assetto proprietario Banca d’Italia

Chi possiede Banca d’Italia?

La Banca d’Italia non è mai stata statale, ma proprietà degli istituti bancari e assicurativi. Storicamente, la Banca nasce da un processo di federazione delle Banche pre-unitarie, con un modello analogo a quello della Federal Reserve americana. La legge del 1936, pur fatta durante il fascismo, ha scelto di non assoggettare la Banca d’Italia al Governo, ma di lasciarla a debita distanza dalle ingerenze della politica. La riforma approvata dal Parlamento mantiene quella scelta.

Qual è oggi la compagine azionaria?

Con le privatizzazioni bancarie degli anni ’90 e il successivo processo di concentrazione bancaria si è realizzato un processo di concentrazione anche delle azioni di Banca d’Italia. Oggi più del 50 per cento è in mano a Intesa San Paolo e Unicredit.

C’è quindi il pericolo che i controllati (le banche) controllino il controllore (la Banca d’Italia esercita la vigilanza sui mercati del credito e delle assicurazioni)?

No, perché la Banca d’Italia è e resta un Istituto di diritto pubblico e i soci proprietari delle azioni non hanno alcun potere sulla governance dell’istituto e sulla gestione delle attività istituzionali della Banca. Tuttavia l’attuale assetto proprietario non è soddisfacente, e lascia a molti la possibilità di pensare che i grandi gruppi bancari possano esercitare qualche influenza sulle decisioni della Banca centrale, che deve invece restare indipendente.

Cosa succede con la riforma?

Nessuno potrà possedere più del 3 per cento delle azioni di Banca d’Italia. Gli azionisti che oggi ne possiedono di più dovranno vendere. Potranno comprare, oltre a banche e assicurazioni, anche le Fondazioni ex bancarie e i fondi pensione, con la limitazione che deve trattarsi di società aventi sede legale in Italia.

Perché si è scelto il modello “proprietà diffusa” invece di statalizzare la Banca d’Italia?

Qui ci sono opinioni diverse, trasversali agli schieramenti politici. Tremonti, nel 2005, aveva scritto una norma per la statalizzazione, oggi sostenuta dai 5 stelle e da SEL, ma anche da Forza Italia e da alcuni esponenti del PD. Naturalmente, se fosse lo Stato a comprare le azioni oggi in mano alle banche, ci vorrebbe una copertura finanziaria di svariati miliardi, da togliere ad altre voci di spesa pubblica o da ottenere con un aumento delle tasse. Chi è contrario alla statalizzazione, comunque, usa anche un argomento storico-politico: meglio avere una Banca d’Italia in posizione di servizio istituzionale rispetto allo Stato piuttosto che in posizione di comando gerarchico da parte del Governo pro tempore.

A quanto ammonta, prima della riforma, il capitale della Banca d’Italia?

A 156 mila euro, la cifra stabilita nel 1936 e mai aggiornata.

Che diritti hanno, prima della riforma, gli azionisti che possiedono quel capitale?

Lo statuto del ’36 prevedeva la distribuzione di utili agli azionisti nella misura massima del 4 per cento delle riserve della Banca. Si tratta di una regola molto favorevole agli azionisti, e infatti quel valore massimo non è mai stato raggiunto. Le riserve di Banca d’Italia ammontano a circa 15 miliardi, il 4 per cento varrebbe 600 milioni, mentre l’ultimo dividendo distribuito è di 70 milioni. Come rendimento sul capitale investito, però, non c’è male: 70 milioni di dividendo su 156 mila euro equivale a un tasso di rendimento superiore al quattromila per cento! Il punto è, ovviamente, che bisogna rivalutare il capitale originario stabilito nel 1936 e separare il calcolo dei dividendi dalle riserve – poiché in queste ultime sono compresi anche i frutti delle attività pubbliche e istituzionali di Banca d’Italia, i quali non possono essere distribuiti ai soci ma invece accumulati nelle riserve della Banca e retrocessi in parte allo Stato (l’ultimo dividendo attribuito allo Stato, sul bilancio 2012, è stato di un miliardo e mezzo).

Come procedere alla rivalutazione?

Finora è mancato un criterio omogeneo. Alcune banche azioniste, nei loro conti patrimoniali, non lo hanno rivalutato, altre lo hanno fatto, ma usando criteri diversi. In qualche caso, per effetto della norma statutaria che lega i dividendi alle riserve nella misura massima del 4 per cento, la rivalutazione è stata abbondante e si potrebbe da parte dell’azionista – teoricamente – accampare pretese legali sugli utili non distribuiti negli ultimi decenni. Merito della riforma è di stabilire un criterio oggettivo e uniforme per effettuare la rivalutazione.

Qual è la regola per la rivalutazione?

La nuova regola è che agli azionisti verrà riconosciuto un rendimento non superiore al 6 per cento del capitale investito (non più, quindi, delle riserve). Il valore del capitale viene portato a 7,5 miliardi. Quindi, il massimo dei dividendi attribuibili in futuro è di 450 milioni, una cifra inferiore al massimo oggi raggiungibile. Anche se, in tutti e due i casi, si tratta di valori puramente teorici, perché lo Statuto continua a conferire alla Banca, come in passato, piena discrezionalità nella decisione sugli utili da distribuire. Dato che la Banca d’Italia è un investimento assolutamente privo di rischio, è altamente probabile che il tasso di rendimento accettabile dal mercato sia molto inferiore al 6 per cento.

Qual è il beneficio “di sistema” di questa operazione?

Finora le azioni di Banca d’Italia non potevano far parte del capitale di vigilanza dei soggetti che le possedevano, appunto perché non stavano sul mercato e non c’era un criterio univoco di valutazione. Grazie alla riforma, potranno essere inserite nel capitale di vigilanza.

E allora? C’entrano forse Basilea 3 e i nuovi criteri prudenziali dell’Unione bancaria?

Sì. Le banche sono limitate, nel credito che possono erogare, dalla quantità del loro patrimonio. I requisiti di patrimonializzazione richiesti alle banche sono molto aumentati dopo la crisi del 2008-2009. Si è ritenuto che una delle cause della crisi risieda nel fatto che le banche siano state poco attente a valutare i loro impegni. Tutti gli organismi internazionali, e per ultima l’Unione Europea, hanno introdotto metodi più stringenti di valutazione dei rischi e requisiti patrimoniali più elevati. E questo è, insieme alla crisi dell’economia reale, una delle cause del credit crunch, e cioè della restrizione del credito bancario di cui soffrono, in Italia, soprattutto le imprese piccole e medie.

Quindi i 7,5 miliardi derivanti dalla rivalutazione rafforzano il patrimonio del sistema bancario?

Sì. E si ottiene questo risultato senza spendere neanche un euro del bilancio pubblico. I proprietari delle azioni rivalutate le venderanno sul mercato per scendere al 3 per cento: i soldi che andranno alle banche verranno dal mercato, non dallo Stato. In Germania invece, finora, lo Stato ha dovuto sborsare ben 64 miliardi di euro di spesa pubblica per ricapitalizzare le banche tedesche – molte delle quali hanno avuto rilevanti difficoltà, soprattutto nel comparto delle banche regionali. Il Regno Unito ne ha spesi 82, la Francia 25, la Spagna 64. L’Italia solo 6, destinati peraltro a emissioni obbligazionarie che verranno restituite all’erario e non a contributi a fondo perduto.

Ma questa operazione è permessa dalle regole europee?

In effetti si tratta di un’operazione un po’ border line: si ottiene un beneficio di sistema rivalutando carta che oggi non sta sul mercato (le azioni della Banca centrale). Per questo motivo la Bundesbank ha storto il naso e sono uscite in Germania opinioni contrarie – della serie “la creatività italiana ne combina un’altra delle sue”. La Banca centrale europea, però, ha dato il via libera all’operazione, anche se ha lamentato i tempi troppo stretti intercorsi fra la richiesta del suo parere da parte del Governo italiano e la successiva emanazione del decreto. Insomma, si tratta di un caso in cui l’Italia è riuscita a ottenere dall’Europa un’interpretazione delle regole a lei favorevole. Certo, il parere della BCE è molto deciso nel prescrivere che le riserve andranno ricostituite con adeguati accantonamenti negli anni futuri e che la Banca d’Italia deve mantenere una piena autonomia di finanziamento.

Perché le riserve della Banca d’Italia sono così alte?

Innanzitutto, sia chiaro che l’operazione in corso non concerne le riserve in oro (100 miliardi), né quelle speciali (circa 8 miliardi) ma solo quelle ordinarie e straordinarie (circa 15 miliardi). In effetti, l’ammontare complessivo delle riserve della Banca d’Italia è il terzo al mondo, dopo Stati Uniti e Germania e il secondo in Europa. Storicamente, derivano da un atteggiamento prudenziale dell’Italia – esistente da sempre, ben prima che fossero fissate le regole dell’Unione Economica e Monetaria. In passato, la motivazione era di avere sufficienti munizioni per difendere il cambio della lira. Dopo la crescita del debito pubblico italiano durante gli anni ’80 del passato secolo, le riserve sono diventate l’ultimo baluardo di garanzia sulla sostenibilità del debito.

Le riserve della Banca d’Italia potrebbero essere usate per altri scopi, ad esempio per finanziare investimenti pubblici o altre forme di spesa pubblica?

No, assolutamente no. Non si tratta di un “tesoretto” a cui liberamente attingere, ma appunto di un attivo che garantisce l’intero paese all’interno dell’Unione Economica e Monetaria. In passato, anche Romano Prodi tentò di strappare un margine di flessibilità per smobilizzare una quota delle riserve e utilizzarla per politiche di sviluppo, ma non riuscì a ottenere l’assenso delle autorità europee. Oggi, dopo la crisi finanziaria e con l’Italia soggetta alla crisi del suo debito pubblico, è impensabile anche solo ipotizzarlo. In realtà, le riserve non vengono spese neppure con l’operazione effettuata dal decreto 133, perché esse cambiano semplicemente collocazione all’interno dello stato patrimoniale della Banca d’Italia, spostando 7,5 miliardi da riserve a capitale sociale. Abbiamo però ottenuto il massimo possibile nelle condizioni date: utilizzarle come volano per il rafforzamento del patrimonio del sistema finanziario (bancario e assicurativo) italiano, con effetti indirettamente positivi sulla crescita tramite riduzione delle restrizioni sul credito.

Perché la riforma di Banca d’Italia è stata legata all’IMU?

Perché la copertura finanziaria per l’abolizione della rata IMU prima casa di dicembre è stata messa a carico del settore creditizio, finanziario e assicurativo, nonché della stessa Banca d’Italia, con l’aumento degli acconti IRES e IRAP e con un’addizionale straordinaria alle aliquote IRES, per un totale di 2,163 miliardi nel 2013 e 1,5 nel 2014. Mentre, da un lato, si chiede questo sforzo al settore, dall’altro gli si concede il beneficio indirettamente derivante dalla rivalutazione delle azioni della Banca centrale. Peraltro, dalla rivalutazione emergerà un introito fiscale aggiuntivo di circa un miliardo per il bilancio dello Stato. Questo introito, però, non è stato ancora quantificato né inserito nei quadri di finanza pubblica.

E’ vero che l’imposizione sulle plusvalenze derivanti dalla rivalutazione è agevolata?

Solo in parte. Si è stabilita un’imposta del 12 per cento. Per alcuni soggetti questa imposta è meno favorevole – potendosi tali soggetti avvalere della partecipation exemption (pex), che costerebbe molto meno (circa il 2 per cento). Per altri soggetti, che non potrebbero avvalersi della “pex”, invece il 12 per cento è meno di quanto si dovrebbe pagare con il regime ordinario IRES. Nel complesso, tuttavia, il gettito che deriverà dal 12 per cento è superiore a quello che sarebbe emerso mantenendo per ciascun soggetto la legislazione ordinaria vigente.

Insomma: ma allora va tutto bene in questo decreto 133?

No, il Partito Democratico ha criticato numerosi aspetti del decreto, sia nel metodo sia nel merito. Per quanto riguarda il metodo, una riforma così importante avrebbe dovuto essere fatta per legge e non per decreto. Bisogna capire però l’origine di questo errore da parte del Governo: l’origine sta nell’affannosa ricerca delle coperture finanziarie per l’abrogazione dell’IMU prima casa, una misura che ci è costata ben 4,5 miliardi nel 2013, senza distinguere fra chi avrebbe potuto tranquillamente continuare a pagare l’IMU sull’abitazione di residenza e chi invece aveva il diritto ad essere esentato – in base al valore della sua abitazione ovvero del suo reddito. Altri punti critici, di merito, riguardano la fase transitoria.

Cosa succede nella fase transitoria?

Per tre anni gli attuali proprietari delle azioni potranno venderle alla stessa Banca d’Italia. Nulla da eccepire sulla possibilità che la Banca d’Italia eserciti un’accorta regia nella riallocazione delle sue stesse azioni. Ma così la Banca si prende qualche rischio – se dovesse, ad esempio, acquistare a un prezzo superiore a quello di vendita. Il rischio è di tipo patrimoniale per la banca, ma anche di tipo politico per il paese, poiché se la Banca dovesse acquistare i suoi titoli dagli attuali proprietari a un prezzo “troppo alto”, si potrebbe configurare un aiuto di Stato vietato dalle regole europee. I paletti contenuti nella legge, nel parere della BCE e in alcuni ordini del giorno accolti dal Governo in aula dovrebbero ridurre questi rischi.

"Scuola. La battaglia dei sessi", di Maria Novella De Luca

Sono i figli e le figlie della famiglia che muta, cambia, implode, si rigenera, si perde e si ritrova. Nei libri di testo nessuno li nomina, e invece nella scuola sono ormai più della metà. Bambini con, bambini senza. Multi-genere, multi-culturale, multi-tutto. C’è Francesca che vive con la madre e la nonna, il padre un tempo c’era, poi chissà. C’è Alioscia, adottato, ha gli occhi azzurri e non riesce a dimenticare il suo “internat” russo. C’è Giovanni che abita soltanto con il papà, e in classe ha una compagna con due madri, ma anche Mirko, albanese, e Yongdong, cinese. Poi i bambini della casa-famiglia che magari ai genitori sono stati tolti, e sognano
forse di trovare un nuovo approdo.

Così ad ogni festa della mamma o del papà qualcuno si sente escluso. Ad ogni rappresentazione di albero genealogico qualcuno è costretto a ricordare il buio delle proprie origini. Perché la famiglia è cambiata, ma i programmi ministeriali no.
E allora maestre coraggiose e prof di frontiera provano a bruciare i tempi. Saltano ricorrenze e riscrivono favole, mutano parole, immagini, rovesciano stereotipi. Cercano parole nuove. Ricorda Silvia Lulli, maestra di scuola primaria
a Ferrara: «Nella mia classe avevo la figlia di una coppia lesbica e diversi bambini senza padre, è stato naturale evitare la ricorrenza della festa del papà, chi si ama si festeggia ogni giorno, ho spiegato ai miei alunni. Oggi le classi sono dei laboratori sociali, ci sono le famiglie tradizionali e quelle gay, ci sono i figli dei separati, gli adottati, credo che ogni insegnante abbia il diritto di modulare i programmi per non escludere nessuno». Eppure non è così facile. A Roma, la scorsa primavera, alla materna “Ugo Bartolomei” la proposta di due maestre di non festeggiare il 19 marzo per rispettare una loro alunna con una famiglia tutta al femminile è stata bocciata da altri genitori e insegnanti accusate di razzismo al contrario.
Come due mondi che non si parlano. Basta guardare i libri di testo e i programmi: nei testi la società è bianca, etero, coniugata e non divorziata, i bimbi hanno le foto della nascita e il braccialetto della culla.
Ma in Italia un figlio su quattro nasce invece fuori dal matrimonio, il 50% delle separazioni riguarda coppie con bambini piccoli, ogni anno quattromila ragazzini adottati entrano nel nostro paese e affollano le scuole elementari. Una ormai vecchia statistica ha calcolato che sarebbero oltre centomila i bambini che crescono con una coppia o un genitore omosessuale, mentre le famiglie arcobaleno sono sempre di più. E i bebè dell’eterologa. Se c’è un tema delicato per l’infanzia del terzo millennio è proprio quello delle origini.
Carla è una mamma adottiva, oggi felice e serena. Ma all’inizio, dice, l’istituzione è stata per lei e per suo figlio fredda e respingente. «Ricordo ancora la faccia buia di Alioscia quel pomeriggio, all’uscita da scuola. Gli occhi spenti, come nei giorni dell’istituto. E il rifiuto, la mattina dopo, di alzarsi. Poi il racconto: la maestra ci ha detto di portare a scuola qualche foto di noi da neonati, il braccialetto dell’ospedale, un bavaglino. Dobbiamo fare l’albero genealogico. Ma io da piccolo qui non c’ero, tu non c’eri, io non ero nella tua pancia…». Quando un educatore sbaglia tutto. «Sono passati due anni, ma il dolore di Alioscia non posso dimenticarlo», aggiunge Carla.
Assunta Merlo insegna a Trento in una scuola primaria che guarda le montagne. Metodo ispirato agli asili di Reggio Emilia, ma anche all’esperienza Montessori. «Sarà perché nella nostra regione i bambini adottati sono moltissimi, ma qui si viene formati all’accoglienza di ogni diversità. Da tempo abbiamo abbandonato il tema dell’albero genealogico, piuttosto chiediamo ad ogni allievo di raccontarci una storia di sé, collocandola oggi, ieri, purché provi a rispettare l’idea del tempo e dello spazio». Linee verticali, orizzontali, la famiglia è spesso un cespuglio dalle mille ramificazioni. E volte le esperienze più forti possono arrivare dai luoghi più appartati e difficili. Valeria è una maestra elementare di un piccolo paese in provincia di Avellino, Santo Stefano del Sole, ed è stata l’insegnante della figlia della fondatrice delle Famiglie Arcobaleno, Giuseppina La Delfa e della sua compagna (anzi moglie) Raphaelle Hoedts.
«Una bambina meravigliosa e forte — dice Valeria — sicura dei suoi affetti, che mi ha resa migliore come insegnante e come persona. All’inizio non è stato facile, un paesino del Sud, il mito della famiglia patriarcale, la mia inesperienza di fronte ad una situazione così nuova. Mi hanno aiutato le sue due mamme: con il confronto, con testi da leggere, con questa grande apertura verso gli altri, per cui la loro famiglia è stata totalmente accettata dal contesto sociale ». Così a Santo Stefano del Sole, la festa del papà nella classe della maestra Valeria, «è diventata un cerchio più grande, un biglietto da mandare a una persona cara, anche un nonno, uno zio, un amico». Un modo per cambiare senza sconvolgere. E alla “Maisonette” di Roma, scuola privata trilingue, il maestro Giovanni Castagno spiega come proprio la presenza di due bimbi figli di padri gay, «ci ha portato a cambiare le ricorrenze ed istituire la festa di tutte le famiglie».
Esperienza all’avanguardia di tutto questo è l’asilo “Celio Azzurro”, nato sempre a Roma come scuola multiculturale, oggi un vero e proprio osservatorio microsociale dell’infanzia in divenire e ambitissima scuola dell’infanzia. «Qui da noi il problema non esiste», dice il direttore Massimo Guidotti, «perché dalle feste commerciali ci teniamo ben lontani». «Le nostre mille anime sono oggi la normalità, noi partiamo non dalle differenze ma da ciò che unisce, puoi essere immigrato o figlio di coppia gay, di mamma single, di una famiglia mista o tradizionale italiana ricca e benestante. Ogni bambino racconta un’esperienza, ciò che conta sono gli stati d’animo, le emozioni, qui si mangiano piatti di tutto il mondo, ci sono origini di ogni tipo. E questo universo è fortemente educativo, rende aperti, sociali, rispettosi. Bambini sereni insomma».

La Repubblica 30.01.14

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“Il governo francese lancia il programma sperimentale per insegnare la parità in classe I genitori fanno disertare le aule ai figli e i conservatori guidano la rivolta”, di Anais Ginori

Una classe di prima elementare semideserta, centinaia di bambini che improvvisamente spariscono, non vengono a scuola. «Mamma mi ha detto che volevate travestirci in femminucce », racconta poi alla maestra uno dei bambini assenti. È successo lunedì scorso nell’istituto Binet a Meaux, nella banlieue parigina, e così anche in altre città del paese, a Strasburgo, Clermont Ferrand, Metz, Nancy. La “giornata senza scuola” è andata in scena in almeno cento istituti francesi, elementari e asili, con un passaparola allarmista tra genitori, un fenomeno mai verificato prima.

Una protesta nuova e inquietante contro il programma didattico annunciato dal governo socialista per insegnare ai più piccoli l’eguaglianza tra i sessi. Sotto accusa il nuovo “Abc della parità” lanciato in via sperimentale in alcune regioni ma che è già diventato il pretesto per una “guerra dei sessi” dichiarata dai movimenti più conservatori e reazionari, con una confusione tra parità e alcune teorie dei gender studies
venuti dall’America.
“Donna non si nasce, si diventa” aveva scritto Simone de Beauvoir, ricordando la componente culturale dell’identità sessuale. La storica intellettuale femminista francese non voleva certo abolire le differenze né poteva immaginare che mezzo secolo dopo si sarebbe scatenata una battaglia ideologica sulle elaborazioni più estreme intorno al genere, come la teoria queer dell’americana Judith Butler. L’appello a boicottare le scuole ha incominciato a circolare prima sul
web ed è stato preso sul serio da molti genitori. Alla vigilia del primo “sciopero” molte mamme hanno ricevuto sms o volantini con slogan tipo: “Vogliono trasformare tuo figlio in una femmina”. Lanciato da ambienti vicini all’estrema destra, l’appello “Un giorno al mese senza scuola” propone un calendario di assenze programmate in diverse regioni fino al 10 febbraio. Secondo il ministero dell’Istruzione, per la prima giornata di mobilitazione, lunedì scorso, il 30 per cento dei bambini non è andato in classe. Oggi è previsto un nuovo “sciopero” in altre città.
«Non insegniamo la teoria del genere, ma solo l’educazione alla parità e all’uguaglianza che fanno parte dei principi della République» ribatte Vincent Peillon. «È in atto una manipolazione grave ed estremista » ha aggiunto il ministro dell’Istruzione che ha chiesto a tutti i presidi di convocare i genitori che aderiscono alla protesta. «Non si può derogare alla scuola dell’obbligo in nome di false e presunte obiezioni politiche » spiega Peillon, ricordando che ci sono sanzioni previste dalla legge per chi non manda i figli alle elementari. L’iniziatrice del movimento si chiama Farida Belghoul, ex militante delle battaglie antirazziste degli anni Ottanta e ora vicina a gruppi nazionalisti, omofobi e antisemiti, legati anche al controverso comico Dieudonné. È stata Belghoul a indire la prima azione dei genitori nella scuola di Meaux, poi seguita da altre mamme in tutta la Francia. La militante è convinta che l’ Abc della parità, il nuovo programma didattico promosso in 600 istituti dalla ministra per i Diritti delle Donne, Najat Vallaud- Belkacem, sia un progetto «malefico», perché intende «travestire i maschi come femminucce » e «dare voce alle lobby gay». L’ideatrice della protesta è riuscita a convincere alcune famiglie musulmane del fatto che i loro bambini sarebbero stati davvero vestiti da femmine. I cattolici integralisti del movimento lefebvriano Civitas hanno anche diffuso sui social network messaggi allarmistici su un’educazione sessuale precoce, con spiegazioni sulla masturbazione già nella scuola dell’infanzia e associazioni omosessuali o trasgender invitate nelle scuole per spiegare che «non si nasce uomo o donna, ma che il sesso si sceglie da grandi». Sui manifesti comparsi intorno ad alcune scuole c’era scritto: “Domani sarai una donna, figlio mio”.
In realtà, l’Abc della parità è solo un progetto didattico rivolto agli insegnanti per “decostruire” sin dalla più tenera età cliché e stereotipi sessisti. Un invito a evitare pregiudizi come: “I maschi sono più coraggiosi, migliori in matematica”; “La danza è un’attività per femmine ». C’è anche un sito online per aprire un dibattito con insegnanti e genitori. Tutti uguali? «Rispettiamo le differenze sessuali» ha detto Vallaud-Belkacem, accusata dai più tradizionalisti di voler importare dagli Stati Uniti i gender studies nel sistema scolastico nazionale. Finora i controversi studi di genere hanno fatto capolino in alcuni manuali ma solo al liceo, come tendenza intellettuale da studiare. Già il precedente ministro dell’Istruzione del governo di destra, Luc Ferry, aveva chiesto di discutere questo filone accademico sulla costruzione dell’identità sessuale.
Nel programma delle scuole elementari francesi non c’è però nulla di tutto questo. «Vogliamo che bambine e bambini sappiano che non c’è un destino o una vita predeterminata a seconda del sesso» racconta la ministra per i Diritti delle Donne. Il nuovo programma raccomanda ad esempio di variare giochi e colori, non solo rosa e bambole per le bambine, e azzurro e soldatini per i bambini. Bisogna lavorare, spiega il governo, sul loro immaginario, evitando di mostrare nelle favole principesse infelici sempre in cerca di un principe. Si tratta anche di modificare l’idea che ci sia un futuro professionale a seconda se si nasce con cromosoma X o Y. A giugno ci sarà un primo bilancio della sperimentazione. Se sarà positivo, allora il “corso di parità” verrà esteso a tutte le scuole dell’infanzia. Ma c’è un dettaglio che preoccupa il governo: il 90 per cento dei maestri d’asilo e la maggioranza degli insegnanti nelle scuole elementari sono donne. Anche in questo occorrerà fare progressi di parità.

La Repubblica 30.01.14

"E per la prima volta si saprà chi ha vinto", di Sebastiano Messina

Non è detto che sia l’ultimo aggiustamento, ma l’accordo raggiunto in extremis da Renzi e Berlusconi introduce alcune novità non piccole nel progetto di riforma elettorale. Viene abbassata la soglia di sbarramento per i piccoli partiti. Viene alzata la quota che un partito (o una coalizione) deve raggiungere per ottenere il premio di maggioranza al primo turno. Viene introdotto un meccanismo di salvaguardia scritto su misura per la Lega Nord. E viene permesso a un politico di candidarsi in più collegi, in modo da aumentare le sue speranze di essere eletto. L’impianto complessivo però rimane sostanzialmente lo stesso, e per la prima volta garantisce che dalle urne esca un vincitore, e che quel vincitore abbia poi i numeri per governare. Come si voterà? Il territorio
nazionale verrà diviso in collegi plurinominali medio-piccoli, nei quali ciascun partito presenterà liste corte di tre o quattro candidati. Poi si farà il totale nazionale e verranno distribuiti i seggi con il metodo proporzionale, escludendo quei partiti che non avranno raggiunto la soglia di sbarramento del 4,5% (se coalizzati) o dell’8% (se non coalizzati). Una parte dei seggi, 79, ovvero il 15%, verrà però riservata al partito o alla coalizione vincente, a patto che superi la quota del 37%. Nel caso in cui nessun partito o coalizione la raggiungesse, dopo due settimane i primi due partiti si affronteranno in un turno di ballottaggio nazionale, e chi vincerà si aggiudicherà il premio di maggioranza che lo porterà al 52%. Tra le novità, anche il tempo limite di 45 giorni dato al governo per ridisegnare i collegi elettorali, in modo da garantire tempi certi per l’entrata in vigore del nuovo sistema elettorale.

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Il bonus scatta oltre il 37% incostituzionalità più lontana

La trattativa più difficile ha riguardato la quota per il premio di maggioranza. Nella prima bozza era stata fissata al 35 per cento, adesso viene portata al 37 per cento, mentre il premio viene abbassato dal 17 al 15 per cento: il vincitore potrà disporre alla Camera di una maggioranza che andrà da un minimo di 327 a un massimo 346 seggi (su 630). In questo modo si è voluto andare incontro alle indicazioni della Corte costituzionale, che a dicembre ha bocciato il precedente premio (senza soglia minima) perché “manifestamente irragionevole”. Ma sono stati anche accontentati i partiti minori, che così sperano di risultare determinanti per il raggiungimento al primo turno del 37 per cento, percentuale che è stata ampiamente superata dai vincitori del 1994 (42,8), del 1996 (43,4), del 2001 (49,5), del 2006 (49,8) e del 2008 (46,8) ma non nel 2013, quando il successo del M5S (25,5) ha inchiodato sia il centro-destra che il centro-sinistra sotto il 30 per cento. Non è detto però che l’innalzamento dal 35 al 37 per cento giochi a loro favore: allontanandosi la possibilità di una vittoria al primo turno, i partiti maggiori potrebbero puntare direttamente al ballottaggio, senza trattare con i minori. 37% È la soglia raggiunta la quale scatterà il premio di maggioranza del 15% Altrimenti, ballottaggio.

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Lo sbarramento 4.5%

Ncd esulta, Monti e Sel tremano e il Carroccio può restare fuori. L’abbassamento della soglia di sbarramento dal 5 al 4,5 per cento accontenta (parzialmente) le richieste dei partiti minori – da Alfano a Vendola, passando per Casini e Monti – che vedono così aumentare le speranze di non essere esclusi dal prossimo Parlamento. Sulla carta, chi deve temere meno lo sbarramento è il Nuovo Centrodestra, che gli ultimi sondaggi stimano intorno al 6 per cento, mentre Scelta Civica, Udc, Fratelli d’Italia, Lega e Sel oscillano tra i 3 e il 2 per cento e dunque puntavano ad abbassare la soglia al 3 per cento. La nuova legge scoraggia chi non fa parte di una coalizione, fissando in questo caso una soglia altissima (8 per cento) e disincentiva le coalizioni finte, che non saranno valide ai fini dello sbarramento se non raggiungeranno almeno il 12 per cento. Per la Lega Nord, invece, è stata studiata una norma su misura che permetterà l’accesso al Parlamento ai partiti che supereranno il 9 per cento in almeno tre regioni (ma l’anno scorso il Carroccio superò questa soglia solo in Lombardia e nel Veneto, fermandosi al 4,8 in Piemonte). Non è detto, insomma, che la «clausola salva-Lega» salvi effettivamente la Lega, almeno con queste cifre.
È l’asticella che bisogna superare per entrare in Parlamento se si fa parte di un coalizione

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Mano tesa ai piccoli partiti leader presenti in più collegi

Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini e gli altri leader dei partiti minori possono tirare un sospiro di sollievo: nella bozza faticosamente approvata ieri alla fine della trattativa-bis tra Renzi e Berlusconi è stata eliminata la norma che impediva a un candidato di presentarsi in più di un collegio. La nuova bozza prevede che ci si possa candidare anche in tre collegi, nella stessa regione. Il problema, per Alfano e gli altri, nasceva dal fatto che il passaggio dalle maxi-liste regionali alle liste corte di collegio aumenterà
l’incertezza nell’assegnazione dei seggi per le forze politiche meno numerose – sempre che riescano a superare la soglia di sbarramento – perché
una volta stabilito quanti seggi toccheranno ai partiti, risulteranno eletti i candidati nei collegi dove ognuno di loro ha ottenuto i migliori risultati. E per un piccolo partito, che ottenga 15 o 20 eletti, sarà assai difficile prevedere in quali dei 130-140 collegi in cui sarà diviso il territorio nazionale scatteranno i suoi seggi. Con la possibilità di candidarsi in più collegi, i leader otterranno un doppio risultato: potranno usare di più il loro nome per attrarre voti e aumenteranno le proprie possibilità di risultare eletti.
Una candidato potrà presentarsi fino a tre collegi nella stessa regione.

La Repubblica 30.01.14

Stefano Rodotà promuove con riserva l'Italicum: "Soglia al 37% va nella giusta direzione", di Martina Cecchi De Rossi

Un passo avanti, e molti ancora da compiere, perché a voler seguire le indicazioni della Consulta sulla legge elettorale“la stabilità non deve sacrificare la rappresentanza”. E poi, le preferenze: troppo poco risolvere con le primarie perché “Forza Italia resta un partito personale”. Soprattutto, una bacchettata a Matteo Renzi sull’appello dei giuristi contro l’Italicum: l’aumento della soglia per il premio di maggioranza “va in quella direzione” e poi “bisogna abituarsi al confronto”. Stefano Rodotà, giurista e politico di lungo corso, difende quell’appello, pubblicato domenica sul Manifesto e siglato da altri 27 giuristi tra cui Lorenza Carlassare e chiarisce: nessun aut aut in Parlamento, “altrimenti che ci sta a fare?”.

La soglia del 37 con un premio del 15 metterebbe la legge al riparo dai rischi di incostituzionalità?

“C’è ovvia cautela, leggiamo i testi, una risposta è legata all’intreccio tra questa soglia e le altre, quelle che riguardano l’ingresso dei partiti minori, ma certamente questo è un primo passo nella direzione giusta. E a questo proposito..”

Cosa?

“Devo dire che le risposte infastidite arrivate da Renzi a chi aveva fatto delle obiezioni richiamando la sentenza della Corte Costituzionale erano un po’ fuori luogo, perché poi si imboccata esattamente la strada che era stata suggerita, ovvero alzare la soglia e diminuire il premio, che non dovrebbe mai superare il 55 per cento. Insomma non mi pare che le critiche meritassero di essere liquidate, anche perché sono state fatte esplicitamente dai Presidenti di Camera e Senato e dallo stesso Presidente della Repubblica. Peraltro, nel nostro appello si invitava a vegliare non sul merito della riforma, ma sulla sua compatibilità con la sentenza della Corte costituzionale, e se come sembra Napolitano è intervenuto ha fatto proprio questo tipo di indicazione.

Insomma ho l’impressione che Renzi non avesse letto la sentenza e neanche l’appello, liquidato come se venisse da chi non vuole nessuna riforma o solo il proporzionale: invece si diceva solo che se si fa una legge in conflitto con quello che ha detto la Consulta si rischia di riaprire la questione in maniera ancora più drammatica perché ci sarebbe una legge appena approvata e subito contestata.

Peraltro le critiche non venivano solo da chi ha firmato l’appello: basti pensare a Michele Ainis sul Corriere della Sera, a quelle rivolte ripetutamente da Luciano Violante. La verità è che non c’è più l’abitudine a confrontarsi con punti di vista diversi, ma ricordo che il Parlamento non può essere messo di fronte a un prendere o lasciare, deve veder rispettare il suo potere di valutazione autonoma. Altrimenti che ci sta a fare?”

Sul premio quindi un primo passo, ma resta il nodo delle soglie di sbarramento…

“Penso che rischiare di escludere i partiti che in coalizione hanno contribuito in maniera determinante a far vincere una coalizione sarebbe un problema: resterebbe aperta la questione messa in evidenza dalla Corte, cioè che la stabilità deve essere un obiettivo in quanto non sacrifichi la rappresentanza”.

Le due soglie, per i partiti in coalizione e per chi si presenta solo, dovrebbero essere più vicine?

“Esattamente. Anche perché – e non è una critica tanto in punto di costituzionalità, ma politica – così si salverebbe la Lega ma si impedirebbe a nuove formazioni di essere rappresentate. Mentre siamo in un momento in cui la dinamica politica italiana è molto ricca. Si blinderebbe il sistema intorno all’esistente”.

Andiamo avanti. Sulle preferenze il Pd cede, puntando sulle primarie.

“Questo è un altro punto su cui ritengo che la risposta delle liste bloccate piccole non è in se adeguata”.

Però si prevederebbero le primarie per legge…

“Ci si rifà al modello toscano, dove sono previste per legge ma facoltative. Un passo avanti, così non diventano una burletta ma resta il fatto che i partiti che decidono di non fare le primarie tornano alla logica dei deputati designati”.

Berlusconi non si riterrà vincolato a farle?

“Certamente no. È chiaro, è un sistema che potrebbe incentivare comportamenti virtuosi ma Forza Italia rimane un partito personale: allo stato attuale delle cose, non mi pare che sollecitazioni dal basso a favore delle primarie abbiano grandi possibilità di essere ascoltate”.

Ma lei quanto scommette sull’accordo, reggerà?

“Le scommesse in questa materia sono difficili, mi pare ci sia molta determinazione nei due protagonisti: Renzi ha legato molto la sua incidenza nella politica italiana alla legge elettorale e Berlusconi ha puntato molto su questo per la sua legittimazione. C’è un prezzo che viene pagato a Berlusconi e può darsi che in questa fase i comportamenti tenuti in passato di far saltare il tavolo, questa volta non si ripetano”.

Ma una nuova legge avvicinerebbe al voto? Letta è in pericolo secondo lei?

“Letta ha detto se c’è la legge elettorale è più tranquillo, nel senso che le fibrillazioni Pd dovrebbero attenuarsi. Ma io non sono così convinto: c’è un pressing forte sul Governo da parte di Renzi, e sinceramente non lo trovo ingiustificato. Basti vedere la vicenda Imu e da ultimo il decreto su Imu e Bankitalia, su cui c’è anche un dubbio dal punto di vista costituzionale, perché si accorpano due questioni molto diverse. Insomma, è un altro dei tanti passi falsi del Governo. E poi il pressing continuerà, anche perché Renzi ha messo sul tavolo molte questioni, il lavoro, i diritti civili, importanti: basta vedere il caso Electrolux, e il fatto che siamo passati dall’essere all’avanguardia negli anni ’70 ad essere ultimi ora. Insomma Renzi potrebbe dire che con la legge elettorale ha messo in sicurezza il sistema, senza il rischio di andare a votare con una legge che non piace ma questo è tema a doppio taglio: di fronte alle lentezze e alle incertezze del Governo, se su quei temi sarà determinato come lo è stato sulla legge elettorale, questo creerà senza dubbio problemi al Governo”.

da Huffington Post 29.01.14

Senza corruzione riparte il futuro. Le parole di Luigi Ciotti dopo la vittoria in Senato

Ciao Manuela Ghizzoni,
il Senato ha dato il via libera al DDL contro il voto di scambio politico-mafioso, anche grazie agli oltre 377.000 cittadini che hanno firmato la petizione della campagna Riparte il futuro. Ecco il commento di Luigi Ciotti:

L’approvazione del Senato della modifica del 416ter – norma che colpisce lo scambio elettorale politico-mafioso – è una bella notizia.
L’auspicio, ora, è che la Camera dei Deputati trasformi definitivamente questa proposta in una legge dello Stato rispondendo concretamente alla sollecitazione di oltre 377 mila cittadini che hanno firmato la petizione della campagna Riparte il futuro promossa da Libera e Gruppo Abele.

La lotta alla corruzione è infatti una priorità non solo etica ma economica: non meno delle mafie, la corruzione è furto di bene comune, furto di diritti e di speranze, di opportunità e di lavoro. Ed è soprattutto un impegno che deve coinvolgerci tutti, toccare le coscienze laiche e quelle religiose, stimolare una comune ricerca di giustizia e di verità.
«La corruzione odora di putrefazione» ci ha ricordato Papa Francesco, sottolineando l’insidia di un crimine che trova sempre «il modo di salvare le apparenze».

È estremamente importante che la norma definisca il reato non più solo attraverso il criterio, ormai insufficiente, dello scambio in denaro, ma chiamando in causa le “altre utilità” e “promesse” (informazioni sensibili, raccomandazioni, prestazioni sessuali, protezioni dai controlli e così via) attraverso cui si può sviluppare un rapporto corruttivo.

Si tratta però solo di un primo passo, di un doveroso atto politico di trasparenza e bonifica delle istituzioni democratiche.
Reati diffusi al punto da diventare costume, chiedono non solo leggi all’altezza ma l’impegno di tutti noi a volerle e sostenerle attraverso le scelte e i comportamenti quotidiani. La legalità non può fare mai a meno della corresponsabilità.

E corresponsabilità, a questo punto, è arrivare non solo alla definitiva approvazione del 416ter ma, prima possibile, a una più generale legge sulla corruzione dotata di quelle misure (confisca dei beni ai corrotti; pene adeguate per “reati civetta” come il falso in bilancio, l’autoriciclaggio, l’evasione fiscale; trasparenza del sistema sanitario) necessarie per rendere il nostro Paese una comunità dove l’interesse economico coincida finalmente con l’interesse sociale, con la dignità e la libertà di tutti.

Luigi Ciotti

"Il divario tra poveri e ricchi è la nuova sfida. Guerra alle diseguaglianze" di Maurizio Franzini

Obama ha pronunciato ieri il suo sesto (o quinto, contando solo quelli ufficiali) discorso sullo Stato dell’Unione. Per alcuni si tratta di un evento rituale, ma quest’anno il discorso potrebbe marcare una svolta politica e non soltanto per gli Stati Uniti.
Poche settimane fa Obama ha definito la disuguaglianza economica la «questione decisiva del nostro tempo» e gli ulteriori dati di cui siamo venuti a conoscenza nel frattempo rafforzano questa valutazione, non soltanto per gli Stati Uniti. Non sorprende, quindi, che, secondo le anticipazioni della Casa Bianca, la disuguaglianza sia diventato uno dei temi centrali del discorso e, soprattutto, che Obama abbia deciso di non limitarsi a denunciare il fenomeno e di proporre alcune concrete misure. La più concreta di queste misure sarebbe l’innalzamento del salario orario minimo da 7,25 a 10,10 dollari e il suo adeguamento automatico con l’inflazione. Di elevare il salario minimo si è discusso e si discute anche in Europa. Si può ricordare, ad esempio, la decisione presa in Germania per iniziativa dei socialdemocratici e la discussione che si sta svolgendo anche in Gran Bretagna. La grande maggioranza degli economisti valuta positivamente questa misura, soprattutto da quando alcuni studi hanno mostrato che i temuti effetti negativi sull’occupazione non si sono verificati nei casi di fissazione del salario minimo a un livello «ragionevole». Per questo anche l’Economist di recente si è espresso in modo favorevole.
Elevare il salario orario minimo significa contrastare il fenomeno dei working poor che anche negli Stati Uniti è diffuso: in particolare, più di un lavoratore part-time su quattro si troverebbe al di sotto della soglia della povertà. Inoltre, la domanda di consumo potrebbe crescere con effetti positivi sulla produzione e sull’occupazione.
Questa misura opera sulla parte bassa della distribuzione; essa non tocca i redditi più elevati, che sono anche quelli cresciuti di più negli ultimi anni, e per questo la proposta di Obama potrebbe apparire timida. In effetti così è, ma per esprimersi compiutamente su questo, non può essere elusa la questione della realizzabilità politica delle misure di contrasto alla disuguaglianza.
E a questo riguardo c’è una importantissima qualificazione da fare. La misura, secondo quello che finora sappiamo, non riguarderà tutti i lavoratori e quindi di essa non potranno beneficiare i circa 20 milioni di lavoratori americani che vengono retribuiti meno di 10 dollari l’ora. Al contrario, Obama la proporrà soltanto per i lavoratori di imprese titolari di appalti del governo federale. La ragione è molto semplice: il Congresso a maggioranza repubblicana si è già espresso contro e Obama, non volendo rinunciarvi, usa i suoi poteri di Presidente per applicare la misura soltanto a coloro che producono beni e servizi per l’Amministrazione. Il conflitto è, dunque, evidente e le prime reazioni dei Repubblicani, che parlano di abuso di poteri e violazione della Costituzione, preludono a un suo aggravamento. La «modestia» della proposta di Obama va giudicata alla luce delle resistenze che lo schieramento politico conservatore oppone all’adozione di misure di riduzione della disuguaglianza, anche soltanto quelle che operano sulla parte bassa della distribuzione, senza sfiorare i redditi più alti. Dalla parte di Obama sembra però esserci la stragrande maggioranza degli americani: oltre i tre quarti sarebbero favorevoli all’innalzamento dei salari minimi, secondo diversi recenti sondaggi. Siamo di fronte a una buona esemplificazione dell’affermazione secondo cui la disuguaglianza è un problema politico che ha anche importanti risvolti per il funzionamento della democrazia.
Per questo merita particolare attenzione il sesto discorso di Obama sullo Stato dell’Unione e ancora di più la meritano gli sviluppi che ci saranno. Essi ci diranno se quel discorso avrà contribuito, come in alcuni altri casi della storia, a marcare un significativo cambiamento, non soltanto nella percezione di quanto grave sia il problema delle disuguaglianze, ma anche nell’effettiva possibilità di farvi fronte con equilibrio e senso di giustizia. E non solo negli Stati Uniti.

L’Unità 29.01.14