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"Diseguaglianze il vero male", di Nicola Cacace

Dopo Davos che ha riscoperto il disvalore economico delle diseguaglianze, dopo i Nobel Stiglitz e Krugman, dopo il Fondo monetario internazionale è la volta di Bankitalia a ricordarci con lo «Studio sulla ricchezza delle famiglie», che l’Italia è al vertice delle classifiche mondiali per ineguale distribuzione della ricchezza.

La Banca d’Italia ci dice che il nostro è un Paese ricco, anzi che gli italiani sono un popolo ricco con quasi 9mila miliardi di ricchezza, più di 6 volte il Pil, ma che questa ricchezza è altamente concentrata, essendo il 47% nelle mani di poco più di 2 milioni di famiglie su 24 milioni, mentre la metà del popolo, 12 milioni di famiglie ha meno del 10% della ricchezza totale e vive con redditi inferiori a 2mila euro al mese.

Non sono dati nuovi, sono dati ignorati dai politici, che peggiorano dopo anni di crisi dura, con redditi personali calati di 7 punti solo negli ultimi tre anni, dati che non ve- do alla ribalta del dibattito politico, Jobs act incluso. Le diseguaglianze, da anni attaccate dai progressisti come fattore di ingiustizia sociale e di lesa democrazia, nella società della conoscenza sono state riscoperte in una nuova veste, quella di ostacolo primario allo sviluppo. Mentre l’eguaglianza, intesa non come obiettivo finale di appiattimento di redditi e ricchezze indipendentemente da impegno e meriti individuali, ma come interesse anche economico di un Paese di mettere tutti i suoi figli in condizioni di partenza non palesemente diseguali – in pratica l’art.3 della nostra Costituzione «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana… » – viene ad assumere un nuovo valore, quella di fattore di sviluppo.

È questo il fatto nuovo messo in luce da tutti i dati delle ultime crisi e degli ultimi successi. I Paesi che hanno aumentato le diseguaglianze di redditi e ricchezze, sono quelli che più sentono i morsi della crisi da sovrapproduzione o sottoconsumo, mentre i Paesi a bassa diseguaglianza (con il coefficiente Gini inferiore a 0,3) sono quelli più in salute: Germania, Austria, Olanda, Francia e Paesi nordici in testa.

La filosofia thatcheriana e reganiana del thrikle down, lascia che i ricchi si arricchiscano sempre più, da essi qualcosa calerà anche sui poveri, si è chiaramente trasformata in quella del thrikle up, solo se le grandi masse sono messe in grado di partecipare al banchetto del sapere e della produzione tutto il Paese ne beneficerà.

L’altro grave problema ignorato o mal gestito dagli italiani è quello, connesso alle diseguaglianze, della denatalità. Che produce danni e fatti solo apparentemente contradittori, come quello della emigrazione di nostri giovani, fortemente aumentata proprio da quando sono iniziati gli effetti della denatalità. Dal 1975 le nascite si sono dimezzate da un milione a 500mila e venti anni dopo il buco demografico ha pesato sul mercato del lavoro in modo tale da attrarre 400mila immigrati l’anno.

Il paradosso è proprio questo, i danni congiunti della bassa innovazione del sistema Paese e della denatalità. Un Paese che per ogni due sessantenni che escono dal mercato del lavoro ha solo un ventenne che vi entra (per nascite dimezzate) non riesce neanche a dar lavoro ai… suoi pochi giovani, perché non innova e non fa riforme, per cui i migliori, diplomati e laureati soprattutto del Sud, sono costretti ad emigrare per carenza di lavori di qualità. Con 45 anni di età media, l’Italia è oggi il Paese più vecchio del mondo ma che invecchia male – non come la Germania che fa le riforme -, perché non fa le riforme necessarie per dividere più equamente redditi e ricchezze. Nell’ultimo decennio sono stati necessari 4 milioni di stranieri per la sopravvivenza delle nostre attività vitali, dall’agricoltura ai servizi alla persona, e siamo giunti in pochi anni a una quota di immigrati, il 10%, che altri Paesi avevano raggiunto in decenni.

Per tutti questi motivi l’Italia ha urgente bisogno di politiche di innovazione e di riforme per modernizzare il Paese, per combattere le diseguaglianze e quindi la denatalità e dare un futuro ai giovani, l’unica nostra speranza di un avvenire migliore.

L’UNità 28.01.14

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«Non basta la crescita, più equità nella redistribuzione» di Bianca Di Giovanni

«I dati che ci fornisce Bankitalia ci dicono una cosa chiara: la crisi non colpisce tutti allo stesso modo. Questo vuol dire che non bastano politiche in favore del- la produzione, cioè per far ripartire la crescita. Serve anche la redistribuzione dei redditi». Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al Welfare, punta il dito su una questione più politica che economica. Di fronte alla recessione, bisogna fare delle scelte «di parte» ovvero in favore di coloro che subiscono più perdite.

Chi sono i più colpiti in Italia?

«Sappiamo anche dai dati Istat che la povertà si concentra nelle famiglie con minori. Ecco perché la società ha il do- vere di prendersi cura di queste famiglie: un minore è incolpevole di quello che gli accade, e se passa i primi anni in condizioni di indigenza avrà tutta la vita segnata».

Da quello che emerge, sembra che le politiche sociali abbiano effetti molto ridotti.
«Lo spaccato che emerge è senza dubbio allarmante, per la crescita delle famiglie in stato di povertà e la concentrazione della ricchezza in una fascia ristretta della popolazione. Per questa ragione abbiamo avviato una misura di contrasto alla povertà assoluta, che finora non c’era in Italia».

Quanto è stato stanziato?

«Premetto che attuare una misura di questo tipo richiederebbe una grande quantità di risorse, che evidentemente non abbiamo. Così si è deciso di attuare la misura per tappe successive. Il Sia (sostegno all’inclusione attiva) poi, non prevede solo un aiuto materiale, ma ha anche l’obiettivo di rimettere le persone su un cammino positivo, con corsi di formazione per chi vuole rientrare nel mercato del lavoro, o con l’attenzione all’obbligo scolastico per i bambini».

Sì, ma lo stanziamento?

«Come ho detto, la misura si compone per passi successivi. È già partita la prima tranche di aiuti, pari a 50 milioni, destinata alle famiglie con minori e con adulti in difficoltà lavorative (disoccupati o precari) che risiedono nelle 12 città con più di 250mila abitanti. Dall’estate-autunno di quest’anno la stessa misura si estenderà a tutto il territorio delle 8 Regioni meridionali, con uno stanziamento di 167 milioni nel biennio. Abbiamo già fatto molti incontri con le Regioni, che dovranno varare i bandi. Poi ci sono i 250 milioni destinati alla social card tradizionale, che in prospettiva dovrà essere trasformata nel Sia. Per questo un centinaio di milioni saranno utilizzati per estendere il Sia anche alle Regioni del centro- nord a fine anno. A questo centinaio di milioni si aggiungeranno i 40 milioni già stanziati per ciascun anno di qui al 2016. In questo modo negli ultimi mesi del 2014 avremo per la prima volta nel nostro Paese una misura omogenea di contrasto alla povertà su tutto il territorio nazionale, e avremo anche completato il fabbisogno per tutto il 2015. Certo, si tratta ancora di una sperimentazione, nel senso che non è una misura stabile. In più è un sostegno mirato a una tipologia specifica di famiglie. Comunque è il primo passo per allargare poi i servizi offerti».

In che modo lo Stato si garantisce contro gli abusi di chi utilizza i servizi a cui non avrebbe diritto, lasciando magari scoperti quelli che hanno più bisogno? «Questo rischio è stata la ragione per cui per molti anni l’Italia non è andata avanti per lunghi anni. Ricordo che la misura di sostegno all’inclusione attiva si avvale del nuovo Isee (indicatore del- la situazione economica equivalente, ndr), che è molto più in grado di prevenire le false dichiarazioni».

Purtroppo i casi sono molti.

«Infatti. Spesso anche sui redditi non coincidono i dati Isee con quelli dell’Agenzia delle entrate».
In che modo si evitano gli abusi? «Prima di tutto perché i dati che già sono in possesso dell’amministrazione non vengono più richiesti ai cittadini, ma forniti dagli stessi uffici. Poi c’è anche l’indicazione del patrimonio immobiliare e mobiliare. Ma a parte i dati economici, c’è da aggiungere che questa misura prevede la presa in carico delle famiglie da parte del servizio sociale. Le persone vengono seguite individualmente e aiutate a trovare un percorso di inclusione, e non possono re- stare per sempre all’interno del servizio d’assistenza. Infine, nell’Isee esistono anche altri indicatori per controllare la veridicità della dichiarazione, come ad esempio la presenza di beni di lusso».

L’Unità 28.01.14

“La Musica come un giardino va coltivata da piccola”, di Pippo Frisone

Alla commemorazione di Abbado, il sen. Renzo Piano, nel suo primo intervento in Aula, ha lanciato una proposta: ” Claudio ed io, ha detto il senatore a vita, amico personale del compianto Maestro, abbiamo avuto sempre una convinzione comune: l’arte, la musica, la cultura di tutti i giorni, fatta di curiosità, passione, interesse personale che accendono negli occhi quella luce particolare che Abbado certamente aveva, rappresentano la bellezza. E la bellezza è ciò che salverà il mondo.

Una persona alla volta ma lo salverà. E allora ho una proposta che voglio fare a questa assemblea nel nome di Abbado : far insegnare la musica in tutte le scuole italiane, come fanno in tutti i paesi civili. La musica è come un giardino ; va coltivata da piccola ”

Dalla scuola dell’infanzia alle superiori. Sappiamo, invece, quello che è successo da noi. La scuola “riformata” della Gelmini ha cancellato dalla secondaria superiore l’insegnamento dell’educazione musicale .

Delegata sempre più ad esperti esterni nella primaria, stereotipata con l’uso del flauto dolce nella media, alle superiori la Musica è stata relegata in pochi licei Musicali, uno o due per provincia a fare testimonianza .

Licei Musicali, condannati anche per il prossimo anno a non crescere : ” le prime classi non possono superare quelle funzionanti nel corrente anno scolastico ” recita seccamente la circolare del Miur sulle iscrizioni del 2014.

Milano ha la Scala e un Conservatorio prestigioso, 52 scuole medie a indirizzo musicale e oltre 3mila alunni frequentanti eppure solo 50 di questi potranno accedere ogni anno alle prime classi del liceo musicale!! Un insopportabile spreco !. Ma non bastano più i proclami e le promesse ; alle parole bisogna far seguire i fatti . Il presidente del gruppo parlamentare del PD on.Speranza nell’appoggiare la proposta Abbado-Piano fa proprio l’impegno di estendere l’insegnamento della musica in tutte le scuole pubbliche. La sen. Emilia De Biasi ha un disegno di legge nel cassetto che va in quella stessa direzione .

Ebbene, lo tiri fuori e lo faccia mettere all’odg. Non è più tempo di belle parole cui non fanno seguito i fatti. Non bastano più proclami e promesse .

L’Italia deve guardare di più all’Europa magari alla vicina Germania ” dove ogni famiglia suona Bach con il flauto dolce e il pianoforte o addirittura il clavicembalo, cantando e leggendo gli spartiti.” (Morricone – Il Messaggero/2012)

“La Musica è come un giardino e va coltivata da piccola”.

Questa semplice e straordinaria verità, se messa in pratica, basterebbe da sola a salvare la musica e a riscattare la scuola pubblica del nostro Paese.

ItaliaOggi 28.01.14

"L'uovo di Mastrapasqua", di Massimo Gramellini

Ma è mai possibile, si lamentano da alcuni giorni i miei cari, che il dottor Mastrapasqua riesca a fare il presidente dell’Inps, il vicepresidente esecutivo di Equitalia, Equitalia nord, Equitalia centro ed Equitalia sud, il direttore dell’ospedale israelitico e della casa di riposo ebraica, il dirigente di Italia Previdente, Eur spa, Eur Tel, Eur congressi Roma, Coni servizi spa, Autostrade per l’Italia, Fandango, Telecom Italia Media, il consigliere d’amministrazione di Quadrifoglio, Telenergia, Loquendo, Aquadrome, il presidente onorario di Mediterranean Nautilus Italy, Adr Engineering, Consel, Groma, Emsa Servizi, Telecontact Center, dell’immobiliare Idea Fimit Sgr e di chissà cos’altro ancora – insomma, che in un’epoca di disoccupazione diffusa il dottor Mastrapasqua sia in grado di gestire da solo venticinque incarichi, venticinque uffici, venticinque ficus da bagnare almeno venticinque volte l’anno, venticinque posti macchina e forse venticinque macchine, ma di sicuro venticinque chiavi d’ingresso e quindi un portachiavi immenso, un bigliettone da visita a venticinque strati e decine di riunioni, cene di rappresentanza, ricevute gonfiabili, conflitti di interesse, incontri e telefonate per litigare, mettersi d’accordo e combinare affari con le altre ventiquattro parti di se stesso – mentre tu ogni volta che in casa c’è qualche lavoretto da fare dici sempre che non hai tempo e che sei stanco morto?

La Stampa 28.01.14

"Sempre più poveri uno su sei vive con meno di 640 euro", di Elena Polidori

L’indagine biennale della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane nel 2012 contiene almeno tre notizie preoccupanti. La prima dice che i ricchi sono sempre più ricchi e che il 10% possiede il 46,6% del patrimonio totale. La seconda notizia è un allarme povert à: la metà delle famiglie vive con circa 2.000 euro al mese. La terza: c’è un «sorpasso» del reddito degli anziani su quello dei giovani, sceso negli ultimi vent’anni di 15 punti.
L’indagine, che è parte di un più ampio progetto Ue, è svolta su un campione di 8 mila famiglie, cioè circa 22 mila individui, intervistati durante i primi sei mesi del 2013, quando la congiuntura era davvero brutta. I suoi autori precisano quindi che risente del «clima» che si respirava in quel periodo. E tuttavia, i dati di fondo confermano che la crisi picchia e ha picchiato duro. In sintesi: tra il 2010 e il 2012 il reddito familiare medio in termini nominali è diminuito del 7,3%, mentre la ricchezza media del 6,9%. La «soglia di povertà» è calcolata in 7.678 euro annui, cioè meno di 640 al mese, in calo rispetto agli 8.260 nel 2010: una condizione che riguarda il 16% dei nuclei familiari, il 2% in più di due anni fa. La quota di individui realmente poveri è pari al 14,1% del totale, con punte del 24,7% nel sud e del 30% tra gli stranieri. La «povertà è reale » e creare lavoro per i giovani viene prima del dibattito pur necessario sulla riforma dello Stato, ammonisce il Cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei. «Aumentano le disuguaglianze», nella lettura del vicedirettore della Banca d’Italia, Fabio Panetta.
Ci sono tanti numeri, in questa ricerca e tanti grafici. Ma anche dei giudizi espressi dagli intervistati sul diffondersi di difficoltà e problemi. Così, il 35,8% delle famiglie ritiene che le proprie entrate non bastino ad arrivare alla fine del mese. Il dato, in crescita rispetto al 29,9% di due anni fa e al 24,3% del 2004, si accompagna al calo di quelle famiglie che giudicano le proprie entrate sufficienti a coprire le spese (dal 39% del 2010 e al 32,3 del 2012).
Tra gli indicatori ce n’è uno
denominato «reddito equivalente », una misura pro-capite che tiene conto della dimensione e della struttura demografica della famiglia. Ebbene tra il 2010 e il 2012 il reddito equivalente si è ridotto per tutte le classi di età, tranne per coloro con più di 64 anni. Tra il 1991 e il 2012 la posizione relativa (in termini di reddito equivalente) migliora per le classi di et à più elevate, cala per i giovani. E ancora, sempre tra i numeri: per la prima volta in trent’anni diminuisce la quota delle famiglie con una abitazione di proprietà (meno 1,2%). E’ un segnale, niente di pi ù, ma appunto va in controtendenza. Detto questo, l’abitazione di residenza risulta di proprietà per
il 67,2% delle famiglie: una percentuale più alta rispetto a Germania e Francia ma inferiore alla Spagna.
Più nel dettaglio: il reddito familiare si compone per il 40% di reddito da lavoro dipendente, per poco più di un quarto di reddito da trasferimenti (pensione, cassa integrazione), per l’11% da lavoro autonomo e per il restante 22% di reddito da capitale (affitti, rendite finanziarie). O anche: malgrado la crisi, le famiglie continuano ad essere poco indebitate. Nel 2012, infatti, solo il 26,1% aveva un debito (era al 27,7% nel 2010). L’ammontare medio però sale a 52 mila euro (da 43 mila). Il 12,3% delle famiglie si è indebitata per acquistare una casa o per la sua ristrutturazione (11,4% nel 2010) per una media di 75mila euro.
Commentando i dati il ministro Saccomanni invita a «vedere positivo». «L’uscita dalla crisi vuol dire che c’è ripresa dell’attività economica e che si esce dalla recessione: l’economia ha cominciato a crescere nel quarto trimestre
e crescerà quest’anno».

La Repubblica 28.01.14

"Tutte le storie appartengono a tutti perché nessuna vada perduta…", di Manuela Ghizzoni

Qualche ora fa si è conclusa, nell’aula di Montecitorio, la celebrazione della Giornata della Memoria. Forse anche per la complicità dei troppi seggi vuoti nei settori che stanno di fronte a quelli del PD (un vuoto che trasmette inevitabilmente un senso di trascuratezza e disattenzione), ma gli interventi mi sono parsi di maniera. Non potrei dire “sbagliati” (e non a caso uso questo termine), ma di certo non convincenti, come sono le parole pronunciate per dovere. Eppure di cose ce ne sarebbero da dire!
Nel dibattito pubblico si sta imponendo, ad esempio, la riflessione sul rischio che la retorica si impossessi della Giornata della Memoria, sterilizzandone gli obiettivi isititutivi; allo stesso tempo, è discussione attuale la preoccupazione per il “travisamento” del senso della Giornata: Elena Loewenthal, da ultima, ci impone di riflettere sul fatto che la GdM non può essere un risarcimento alla vittime della Shoah – peraltro impossibile e impensabile poichè la Shoah NON è risalcibile – ma lo spunto per praticare un esercizio critico profondo, per comprendere come e perchè l’Europa da culla del diritto sia diventata sede in Terra dell’inferno. Primo Levi diceva che “… alla fine del fascismo, è il lager…”: parole pronunciate con la preoccupazione che la mancata conoscenza e comprensione dei fenomeni possa permettere all’Europa (ricordate quanto accaduto, di recente, dopo la dissoluzione della Yugoslavia?) di tornare a partorire l’annientamento di massa per questioni razziali, politiche, religiose. Un insegnamento che è ancora vivo e attuale.
E poi c’è un tema che dobbiamo affrontare, imposto dalla biologia umana: come fare memoria dopo la scomparsa dei testimoni? E’ un tema difficile, ma non più differibile.
Jorge Semprun, nel suo “Il grande viaggio” se lo domandava con passo poetico (che cito a memoria…): come si può raccontare “il calore di una carezza sulla spalla, l’asprezza del limone, la morbidezza della lana…”? Già, è possibile raccontare questa esperienza? Ma, soprattutto, si può affidare una esperienza a chi non l’ha vissuta affinchè si faccia a sua volta testimone?
Prova a dare una risposta Monika Held, autrice tedesca che ci regala un’opera preziosa, che restituisce con straordinaria umanità e capacità narrativa l’esperienza della sopravvivenza al campo di sterminio. Al protagonista, Heiner Rosseck, in occasione della testimonianza resa al processo Auschwitz fa affermare che tra “l’immaginazione dei giudici e la mia esterienza non ci sono punti di contatto” (anche qui cito a memoria, pertanto chiedo venia per eventuali errori). Un giudizio inappellabile. Che rende(rebbe) la nostra riflessione sulla testimonianza dopo la scomparsa dei testimoni impossibile da svolgere.
Ma è sempre la Held, che prova a dare una risposta, positiva. Eccola: “Quella sera Lena fece una scoperta che la irritò. Le storie che raccontavano gli amici di Heiner iniziavano a sfrangiarsi, erano sul punto di staccarsi dalle persone a cui appartenevano, si mescolavano e si completavano a vicenda. Un giorno zia Zofia avrebbe fatto parte della storia di Stan, che nemmeno conosceva Zofia, ma sarebbe stato convinto di essere stato presente quando l’avevano fustigata. Un giorno Heiner avrebbe raccontato del bunker della fame come se ci fosse stato lui e Leszek dell’albero parlante come se sul ramo scricchiolante ci si fosse seduto lui a urlare al cielo il suo numero e non Mietek. Era un furto? Oppure tutte le storie appartenevano a tutti perché nessuna andasse perduta?”

"La memoria non aspetta", di Emanuele Fiano

Nessuna memoria, di nessun dolore, di nessun crimine contro l’umanità, di nessuno sterminio può attendere il proprio oblio. Nessuna memoria può essere consegnata alla storia e basta, come monumento di pietra che resiste alle intemperie e guarda indifferente agli eventi che scorrono.

La memoria della Shoah, che oggi celebriamo nel giorno dell’apertura del cancello di Auschwitz, parla alla nostra vita di oggi, deve essere guida per le nostre azioni di oggi, non solo esercizio di ricordo, ma sforzo continuo di rendere viva quella memoria.
Se un monumento va eretto nelle nostre coscienze per onorareoggi la memoria della Shoah, questo sia il monumento contro l’indifferenza.

Noi che abbiamo scolpite nelle nostre memorie le immagini invecchiate degli ebrei europei condotti in lunghe file verso i forni crematori dei Lager nazisti, noi che osserviamo increduli gli scheletri umani dei sopravvissuti alle camere a gas che hanno attraversato la nostra cultura, noi che la sera accarezziamo il viso antico di un padre che ha resistito, noi che conosciamo il dolore dello sterminio dei Sinti e dei Rom, dei testimoni di Geova, degli omosessuali, dei disabili, noi che conosciamo la sorte di chi in Europa lottò contro il fascismo e il nazismo, di chi si ribellò e di chi morì per difendere per noi un futuro di democrazia, noi oggi sappiamo che per noi questa memoria sarà per sempre.

Ci ribelleremo ogni volta che discriminazione o intolleranza o razzismo cercheranno di trovare posto nella storia.
Permettere che l’indifferenza vinca la battaglia contro la memoria sarebbe la nostra sconfitta.

www.partitodemocratico.it

"Né studio né lavoro", di Carlo Buttaroni

Giovani e giovanissimi che non lavorano, non studiano, non si formano. In Italia sono 3,8 milioni. Un esercito di cui fanno parte 400mila laureati e 1,8milioni di diplomati. Il titolo di studio è un «pezzo di carta» che non gli ha aperto le porte del mercato del lavoro, né quelle della vita. Non che non avessero progetti, tutt’altro. Ma i sogni sono materia fragile quando ci si sente dire «lei è troppo qualificato per questo lavoro». Gli era stato detto che lo studio li avrebbe resi competitivi. Una promessa che è stata mantenuta sì, ma solo fuori dai nostri confini.

In Italia, infatti, gli occupati con diploma o laurea, tra il 2004 e il 2013, sono diminuiti del 20%. E, nel frattempo, i neet con analoga scolarizzazione sono aumentati del 65%. I migliori, e quelli che possono, emigrano verso altri Paesi. Esportiamo talenti. O cervelli, come si dice oggi. Il 28% dei nostri laureati lascia l’Italia appena conclusi gli studi, più del doppio di dieci anni fa, quando i laureati emigranti erano il 12% del totale.

Nel 2004, i giovani che avevano un lavoro erano 7,7milioni, oggi sono 5,3 milioni. In pratica, un posto di lavoro su tre non c’è più. E con il lavoro è sparita qualsiasi prospettiva di autonomia. Il numero di giovani che non lavorano e non studiano continua a crescere, insieme a quello di quanti continuano a vivere con i geni- tori: +37%. Altro che «bamboccioni». Sono «giovani senza»: senza un lavoro, senza speranza, senza autonomia, senza prospettive, senza fiducia. Specchio di un Paese dove gli ascensori sociali non funzionano più e dove il grande invaso del ceto medio ha rotto gli argini riversandosi verso la fascia di povertà.

PEGGIO SOLO BULGARIA E GRECIA

In Europa siamo terzi per quota di neet. Ci pre- cedono solo Bulgaria e Grecia. Va meglio di noi anche la Spagna, che tra le economie avanzate è la meno generosa con i giovani, ma evidentemente offre qualche prospettiva in più rispetto al nostro Paese. Neet è un nome che la dice lunga sulla biografia dei giovani, visto che non definisce un’identità positiva ma ciò che non si fa (non lavorano e non studiano) e ciò che non si è (né giovani, né adulti).

A contribuire alla «generazione senza» sono state anche le trasformazioni profonde che hanno riguardato il mondo del lavoro, dove sono aumentate le opzioni lavorative ma diminuite le probabilità di trovare un’occupazione adeguata alla propria formazione e stabile nel tempo. In pochi anni è cresciuto il numero dei luoghi dove si lavora e sono calate le sincronie legate ai giorni e agli orari di attività. La lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, ma le prospettive di carriera legate alle com- petenze si sono fatte più difficili. I rapporti di lavoro sono diventati meno durevoli (data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato) meno uniformi (poiché l’ambito dei contratti si è fatto più circoscritto) e condizionati da uno sterminato sistema di riferimenti e parametri. Il punto di ricaduta è stato un crescente stato d’indeterminatezza e precarietà che si è riflesso anche nei progetti di vita individuali diventati più instabili e discontinui. Per i «giovani senza» conta solo il presente, intorno al quale si dispone un’esistenza frammentata, dove il passato e il futuro non sono conseguenza uno dell’altro,
ma elementi sconnessi e scoordinati, che offrono una socialità imperfetta e provvisoria. Alla fine, la vita stessa è vissuta come una serie di momenti paralleli che non costituiscono un progetto. Perché progettare significa selezionare nel presente ciò che è coerente con le proprie esperienze pregresse, con le attese e gli obiettivi futuri.

Per i giovani il futuro non è più una frontiera, un territorio da conquistare, com’è stato per le generazioni precedenti, ma un orizzonte opaco e incerto come le loro vite. Prevale la paura che ogni obiettivo possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente, mentre sembra crescere una nuova forma di malattia sociale: la rassegnazione. Nemmeno i progetti di vita individuali, quando ci sono, appaiono sufficienti a restituire significato al senso d’indeterminatezza che avvolge i destini dei giovani.

Da un lato sono indotti ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall’altro sono smarriti e vivono un’incertezza che appare co- me una rinuncia ai propri sogni.

Uno smarrimento che si esprime anche nel progressivo allontanamento dai valori istituzionali, dalle radici di memorie comuni, dai patrimoni condivisi della convivenza civile. Un distacco che si colora d’insofferenza – quando non addirittura di ostilità – in un crescendo di contenuti e toni, quanto più si accompagna a disconoscimenti e incomprensioni da parte delle famiglie e delle istituzioni. Giovani rassegnati, per i quali persino le discontinuità che segnavano le tappe di passaggio delle generazioni precedenti sembrano ormai mancare nel loro personale palinsesto: la fine del percorso d’istruzione e formazione, l’entrata nel mercato del lavoro, l’indipendenza abitativa dalla famiglia d’origine, la costituzione di una relazione stabile di coppia, l’esperienza della genitorialità.

Ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro padri, dai quali continuano a dipende- re. Una generazione senza rappresentanza e senza voce, sulla quale sono state spese parole come vuoti a perdere e dove nessuno ha investito realmente qualcosa. E così i giovani inciampano fra i detriti di sogni infranti

troppo precocemente, ras- segnati a un deficit di speranza che li porta – per usare le parole di Sartre – a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è.
Se i giovani stanno male, non è per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un sentimento inquieto li invade, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettarli in un’impotenza assoluta e in uno stato di costante incertezza, sfiducia rassegnazione.
Pensavamo che fosse la generazione che aveva tutto, salvo scoprire che quel «tutto» mancava della cosa più importante: la possibilità di guardare la vita che avanza chiamandola per nome.

L’Unità 27.01.14