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"Due scuole su cinque cadono a pezzi", di Flavia Amabile

Cinque miliardi. Matteo Renzi, segretario del Pd, lancia il suo affondo su uno dei più gravi e urgenti problemi da risolvere: la sicurezza delle scuole frequentate ogni giorno da otto milioni di studenti. Intervistato dal Tg3 chiede «cinque miliardi di investimenti per ristrutturare gli edifici». Ma non solo. Precisa che «l’Europa deve accettare» che l’investimento resti «fuori del patto di stabilità».

È la stessa strada percorsa dal governo Letta che a fine dicembre aveva annunciato di aver recuperato oltre 6 miliardi di fondi europei non spesi che correvano il rischio di perdersi. La novità è la destinazione. Renzi chiede che cinque miliardi vadano per intero alla ristrutturazione delle scuole. Senza dividere le somme in mille capitoli diversi, un po’ al turismo, un po’ al lavoro e così via come è sempre accaduto finora. L’incapacità di affrontare sul serio l’emergenza è tale che da quasi venti anni il Miur lavora alla mappatura completa degli interventi urgenti da fare nelle scuole, un’altra tela di Penelope infinita a cui mancano ancora troppi dati mentre quelli che sono stati inviati con il tempo finiscono per essere superati, e quindi inutili.

Il Miur ha pubblicato soltanto una volta una parte dei dati a sua disposizione, nell’autunno del 2012 quando ministro era Francesco Profumo. Le cifre raccontano quello che vivono ogni giorno gli studenti sulla loro pelle. Il 4% degli edifici è stato costruito prima del 1900. E la maggior parte, il 44% delle scuole, in un periodo che va dal 1961 al 1980. Solo il 17,7% degli edifici è in possesso del certificato di prevenzione incendi. Il 33% non possiede un impianto idrico antincendio; un edificio su due non ha una scala interna di sicurezza; quattro su dieci non hanno la dichiarazione di conformità dell’impianto elettrico. Ancora più serio è l’allarme sismico, quasi 4 edifici su 10 sono in zone ad alto rischio.

Se i dati del ministero si fermano qui, altre associazioni tentano ogni anno di restituire una fotografia ancora più dettagliata dello «scuolicidio», la distruzione lenta e costante degli istituti con indagini a campione. Secondo il rapporto 2013 di CittadinanzAttiva in una scuola su sette ci sono lesioni strutturali evidenti, presenti in gran parte sulla facciata esterna dell’edificio, il 20% delle aule presenta distacchi di intonaco: muffe, infiltrazioni e umidità sono stati rilevati in quasi un terzo dei bagni (31%) e in un’aula e palestra su quattro. Il 39% delle scuole presenta uno stato di manutenzione del tutto inadeguato molto in aumento rispetto al 2012 quando erano il 21%. Più della metà delle scuole non possiede il certificato di agibilità statica, oltre 6 su 10 non hanno quello di agibilità igienico sanitaria, altrettante non hanno quello di prevenzione incendi. Solo un quarto delle scuole è in regola con tutte le certificazioni. Temperature ed aerazione non sono adeguate nella gran parte delle aule, visto che il 51% di esse è senza tapparelle o persiane e il 28% ha le finestre rotte. Il 10% delle sedie e dei banchi è rotto e in oltre un terzo dei casi (39%) gli arredi non sono a norma, adeguati ad esempio all’altezza degli alunni.

Legambiente ha analizzato anche le disparità tra le diverse parti d’Italia. Dal rapporto Ecosistema Scuola 2013 emerge che se Trento, Prato e Piacenza sono i primi tre capoluoghi di provincia per qualità dell’edilizia scolastica, bisogna invece arrivare alla 23esima posizione per trovare il primo capoluogo di provincia del Sud che è l’Aquila, seguito da Lecce alla 27esima posizione.

La Stampa 27.01.14

"L’ottimismo a Davos l’incertezza nel mondo", di Francesco Guerrera

A Davos, quest’anno, l’élite mondiale non è scivolata. Le Alpi svizzere sono state innevate come da cartolina, la temperatura è rimasta ostinatamente polare e i marciapiedi si sono ghiacciati come sempre. Ma ministri, banchieri e capitani d’industria hanno levitato su una nuvoletta di ottimismo. Non che i risultati del rito annuale del World Economic Forum siano stati diversi dal passato: tanti incontri, molte parole e qualche promessa ma tutto sommato poco di fatto. Nonostante ciò, i potenti rintanati in questo paesino ormai troppo piccolo erano di buon umore.

«E cosa temi?» mi ha detto un banchiere tedesco mentre sorseggiavamo un liquore verde non ben identificato a uno dei tanti ricevimenti. Per lui, il bicchiere era mezzo pieno. «I grandi pericoli si sono dissipati. Da qui in poi, la situazione migliorerà», ha proclamato. Banchieri tedeschi e ottimismo non sono compagni di viaggio abituali, quindi gli ho chiesto di spiegarsi. Con logica teutonica ha elencato le tre grandi paure degli ultimi anni che ora stanno battendo la ritirata: la disintegrazione dell’euro; un rallentamento dell’economia cinese; e un’esplosione medio-orientale con ripercussioni internazionali.

Sulla scomparsa della prima non ci sono dubbi. Basta guardare alla vera star del Wef. Non Bono, Matt Damon o la Sheryl Sandberg di Facebook ma Mario Draghi e la politica monetaria che ha salvato la moneta unica.

«Sei fiero di essere italiano come Super-Mario?», mi ha chiesto un investitore americano che di solito si specializza in battute sull’ incapacità economica dei nostri compatrioti. Mi ha pure suggerito il titolo per un articolo: «Draghi sconfigge il dragone della crisi».

Con la zona-euro sotto i riflettori, la Cina è rimasta dietro le quinte. Pochi delegati, com’è tradizione per un governo che non ama il forum, ma molte certezze. Il consenso di Davos è che i nuovi leader di Pechino riusciranno a far crescere l’economia di più del 7% quest’ anno – una velocità di crociera accettabile sia per i cittadini cinesi che per il resto del mondo.

E il Medio Oriente? E’ strano pensare che i politici e gli esperti riuniti a Davos possano avere speranze per una regione che ospita la Siria, l’Iran e Israele. A Davos, la tensione tra gli ultimi due Paesi è stata palpabile. Ci è voluta tutta l’efficienza svizzera per non far incontrare, o scontrare, la delegazione iraniana guidata dal presidente Hassan Rouhani e politici israeliani tra cui Shimon Peres e «Bibi» Netanyahu.

Ma anche su questo punto, l’opinione dei leader del Wef era che nessuno ha intenzione di trasformare conflitti regionali in guerre mondiali. Fin qui, tutto bene. Anzi benissimo. Giovedì – dopo due giorni passati ad ascoltare le opinioni positive che riecheggiavano nelle caverne del centro congressi – ho pensato: magari ci possiamo rilassare, goderci le montagne che tanto piacevano a Thomas Mann e tornare a casa ristorati e speranzosi.

Ma prima di mettere via il taccuino e andare a sciare con Matt Damon o farmi un Irish coffee con Bono, sono uscito dalla zona blindata del centro congressi per incontrarmi con dei signori del denaro. Volevo capire se anche loro – investitori e banchieri che scommettono miliardi di dollari sul futuro – fossero saliti a bordo della nuvoletta rosea di Davos.

Ed è qui che la storia si complica. «Non confondere il sollievo con la fine dei problemi», ha ammonito il capo di un’azienda d’investimenti americana a colazione. Tra cucchiaioni di muesli, mi ha convinto che l’economia europea è ancora a rischio di recessione anche se la moneta unica è intatta. A suo avviso, tre ingredienti rendono la situazione precaria: i tassi di disoccupazione in Spagna, Italia e Portogallo sono altissimi, soprattutto tra i giovani; investimenti, mutui e prestiti a imprese rimangono a livelli anemici; e i consumatori non sembrano volere, o potere, spendere.

A guardar bene, anche la situazione geopolitica non è granché. Magari il Medio Oriente non esplode ma l’Asia sta dando nuovi grattacapi. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha scioccato il Wef quando ha detto che le relazioni tra Tokyo e Pechino ricordano la tensione tra la Germania e la Gran Bretagna alla vigilia della prima guerra mondiale. E anche se un conflitto tra Cina e Giappone è impensabile, le schermaglie tra i due Paesi destabilizzano una regione che ha tante altre ferite aperte dalla Corea del Nord a Taiwan.

Persino i mercati non sono più una strada a senso unico. Dopo essere cresciute di più del 30% l’anno scorso, le azioni americane hanno iniziato il 2014 come la mia Inter: facendo fatica a vincere. E proprio mentre i grilli parlanti del Wef lodavano la stabilità del mondo finanziario, i mercati emergenti sono crollati, spinti da una nuova crisi monetaria ed economica nella recidiva Argentina.

La nebbia che mi ha accompagnato nella mia discesa dalle Alpi sabato è un’ottima metafora per il momento attuale. Potremmo essere all’inizio di un periodo di crisi o all’inizio della sua fine, ma la visibilità è limitata. Viste le condizioni è prudente uscire dal mucchio e scendere dalla nuvoletta di Davos. Anche se c’è il rischio di scivolare.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 27.01.14

"Il Boiardo multiplo", di Massimo Riva

Fa bene Letta a chiedere la «massima chiarezza» sul caso Mastrapasqua soggiungendo nel «rispetto dei cittadini ». Infatti, al di là degli aspetti penali la vicenda richiama l’attenzione degli italiani su un’inconcepibile degenerazione organizzativa dei pubblici uffici.
Basti dire che un incarico così importante e delicato quale la presidenza dell’Inps — il gigante della previdenza sociale — dovrebbe essere ragionevolmente ricoperto da una persona che vi si possa dedicare in via esclusiva. Sta, viceversa, venendo alla luce che l’indagato Antonio Mastrapasqua oltre alla poltrona di vertice dell’istituto previdenziale ne occupa, a vario titolo, almeno un’altra ventina in enti di diritto sia pubblico sia privato.
Una simile situazione lascia esterrefatti. Ma non tanto per quanto riguarda l’evidente bramosia di potere (e connesse prebende) della singola persona. Ciò che allarma ben di più è che la struttura amministrativa dello Stato sia oggi siffatta da aver tollerato la costruzione passo a passo di un tale cumulo di incarichi senza che nessuno abbia alzato almeno un sopracciglio. Non chi ha governato nel frattempo e pure non perde occasione per squadernare promesse di moralizzazione della vita pubblica. E neppure chi dal versante dei sindacati
aveva e avrebbe titolo e poteri da esercitare in tema di gestione dell’Inps.
Come dire che, nel caso specifico, casta politica e società civile si sono trovate d’amore e d’accordo nel non voler vedere ciò che, ai rispettivi livelli di conoscenza, non poteva non essere visto.
Viene perciò da porsi un interrogativo increscioso ma inevitabile: quanti altri casi Mastrapasqua si nascondono, al riparo di occhi conniventi, negli uffici pubblici e quindi nei capitoli di spesa del bilancio dello Stato? Quesito che porta a porne altri e anche peggiori. Il potere politico sa esercitare il doveroso controllo sulle strutture della pubblica amministrazione? Ovvero nei pubblici uffici si è ormai consolidata una corporazione di alti burocrati che, sulle orme dei boiardi delle aziende di Stato, è in grado di perseguire propri e autonomi interessi in barba perfino ai mutamenti delle stagioni politico-parlamentari? Sono dubbi pesanti perché attengono all’identità stessa della funzione statale e fanno temere che, attraverso scivolamenti progressivi nel corso degli anni, il supposto primato della politica sia diventato un fragile simulacro dietro il quale operano in realtà persone e consorterie del tutto prive di investitura elettorale ma ben corazzate da occulte pattuizioni di potere.
Bene, allora, che Enrico Letta chieda la massima chiarezza sul caso Mastrapasqua. Ma perché questa richiesta suoni credibile per il paese occorre che la verità sollecitata dal presidente del Consiglio si spinga ben più in là del vertice Inps. C’ è una “spending review” da fare che vada oltre l’esame puntuale dei singoli capitoli di spesa o i risparmi da realizzare unificando i costi d’acquisto delle siringhe del servizio sanitario. Si tratta di compiere una revisione radicale delle strutture stesse in cui è articolata la pubblica amministrazione perché è qui che si annidano le fonti spesso occulte di ingovernabilità del bilancio.
Se così avverrà, anche della vicenda Inps potrà dirsi
oportet ut scandala eveniant. Altrimenti anche le parole del presidente del Consiglio resterebbero chiacchiere al vento.

La Repubblica 27.01.14

"Donazioni, timido ritorno alla fiducia", da Il Sole 24 Ore

Si dice che la fiducia aiuta ad avere pazienza e, a giudicare dalla generosità mostrata dagli italiani nelle donazioni di fine anno, almeno un fondo di verità c’è senz’altro. Le elargizioni al non profit nel recente periodo natalizio sono, infatti, lo specchio di un Paese ancora in difficoltà che, però, non rinuncia alla speranza e, anzi, la coltiva aiutando le organizzazioni che conosce meglio. Questa, almeno, la chiave di lettura che emerge dall’indagine annuale realizzata per Il Sole 24 Ore dalla società IPR Marketing (www.iprmarketing.it). L’istituto di ricerche per il quinto anno consecutivo ha interpellato un panel di mille cittadini rappresentativo della popolazione italiana, disaggregato per area geografica di residenza, fascia d’età e sesso.
Lo studio evidenzia, in primo luogo, un incremento della quota di donatori sul totale della popolazione: si è passati dal 35% dell’anno scorso all’attuale 38 per cento. Si torna così al livello del 2011, ancora lontano dal 49% delle festività 2009, anticamera delle difficoltà, ma decisamente meglio del 33% fatto segnare a gennaio del 2012, punto più acuto della crisi. Il Nord mantiene una propensione a sostenere le “buone cause” maggiore rispetto al resto d’Italia, così come le donne si confermano più sensibili degli uomini (41% contro 35%) e gli over 55 risultano più generosi delle altre fasce d’età.
Nell’insieme, l’universo fotografato si mostra molto fedele alle scelte del passato (nell’86% dei casi le organizzazioni beneficiate non sono cambiate) e lievemente meno pessimista, soprattutto nei cluster dei giovani e delle persone mature.
Una conferma di queste indicazioni giunge anche dalle risposte relative agli importi medi erogati: i “campioni” della generosità (oltre i 200 euro), che l’anno scorso erano a malapena il 3% del totale, ora sono l’8 per cento. È pur vero che perdono quattro punti percentuali la fascia tra i 100 e i 200 euro e altri tre punti quella tra 51 e 100 euro, ma la sensazione complessiva è quella di uno spostamento al rialzo: anche nella fattispecie delle piccole elargizioni, infatti, scendono le donazioni sotto i 20 euro e salgono in misura analoga, anzi superiore, quelle tra i 20 e i 50 euro.
«La cultura del dono sta crescendo – commenta Edo Patriarca, presidente dell’Istituto italiano della donazione -. Su questo tema, che per molti anni è rimasto marginale, si assiste ora a una riflessione molto seria, tanto che al Senato è appena stato presentato un disegno di legge per istituire il 1° ottobre di ogni anno la Giornata nazionale del dono, appuntamento che fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile istituzionalizzare».
«Non è che la crisi morda di meno – osserva Patriarca -, ma l’abitudine a dare qualcosa, magari anche poco, a chi ne ha bisogno ed è meritevole rappresenta comunque un dato di tendenza acquisito nel nostro Paese. L’aspetto più negativo è però che la politica è ancora sorda a questa realtà, perché ogniqualvolta si tenta di introdurre una qualche forma di agevolazione per il non profit scatta un blocco a priori, come se la donazione fosse un’azione meramente privata, e non un gesto di interesse pubblico, volto a promuovere il bene comune».
Gli italiani, d’altra parte, non fanno troppi calcoli quando si tratta di donare: alla richiesta di specificare se la deducibilità o detraibilità fiscale abbia incoraggiato la decisione, solo il 14% del campione IPR Marketing ha risposto positivamente, mentre per l’82% l’aspetto tributario è ininfluente. Conta molto, invece, la trasparenza: per il 42% dei donatori la rendicontazione fornita dagli enti è adeguata, mentre per un quarto non lo è e per un altro quarto non è rilevante. La quota dei benefattori soddisfatti fa registrare un vero exploit rispetto all’anno scorso (più 16 punti percentuali), a riprova del fatto che le organizzazioni hanno investito risorse ed energie per informare meglio i sostenitori, riuscendo così a raccoglierne l’apprezzamento.
La fidelizzazione si conferma tratto saliente nel meccanismo delle donazioni (si veda più in dettaglio l’articolo qui sotto): la conoscenza diretta è, infatti, decisiva nel 59% dei casi e il passaparola vale un ulteriore 16% (il 19% tra le donne).
Merita, infine, una riflessione il dato sulle preferenze settoriali: quest’anno la rotazione premia l’aiuto all’infanzia e le adozioni a distanza (37% delle erogazioni) a scapito della ricerca scientifica, che dal primo posto della passata edizione scende al quarto, superata anche dalle cause umanitarie (34%) e da quelle sanitarie-assistenziali (33%). Resta il fatto che queste quattro tipologie di attività fanno la parte del leone, lasciando solo briciole alla cultura, all’ambiente, allo sport e tempo libero.
«La nostra impressione è che i donatori stiano privilegiando le organizzazioni ben riconoscibili sul territorio e preferiscano in questa fase aiutare progetti di prossimità – commenta Luciano Zanin, presidente di Assif, l’associazione nazionale dei professionisti delle raccolte fondi -. Ciò che più conta, comunque, è che il donatore si va dimostrando sempre più informato, preparato e attento alla qualità dell’organizzazione che si candida per ottenere il suo sostegno».

Il Sole 24 Ore 27.01.13

Risarcimenti, Errani; "Riconosceremo tutti i danni. Compilate le schede", da gazzettadimodena.it

La Regione ha attivato la procedura per la ricognizione dei fabbisogni finanziari per far fronte ai danni causati dal maltempo del 17-19 gennaio e consentire il ripristino di edifici pubblici, abitazioni private, infrastrutture, opere di sistemazione idraulica. Le schede sono di tre tipologie: Scheda A) per la ricognizione del fabbisogno per il ripristino del patrimonio pubblico; scheda B) per ricognizione del fabbisogno per il ripristino del patrimonio edilizio privato, beni mobili e mobili registrati; scheda C) per la ricognizione dei danni subiti dalle attività economiche e produttive. Per scaricarle clicca QUI
VIABILITA’ TUTTE LE NOVITA’. LA PANARIA ORA E’ APERTA Con la riapertura della strada provinciale 2 Panaria bassa nel tratto tra Bomporto e Navicello e del ponte di Navicello vecchio viene ripristinato, il collegamento tra Modena e l’area nord della provincia. Resta per ora chiuso il ponte di Bomporto lungo la strada provinciale 1 tra Bomporto e Ravarino, al fine di mantenere la strada il più libera possibile dal traffico per agevolare le operazioni di sgombero e trasporto dei materiali derivanti dalle pulizie di abitazioni e attività a Bomporto e Bastiglia.
APERTO CANALETTO DA BASTIGLIA A VIA MUNAROLA Riaperto al traffico – esclusi i mezzi pesanti superiori ai 35 quintali – il tratto della strada statale 12 Canaletto tra Bastiglia e via Munarola, ripristinando in questo modo il collegamento tra Bastiglia e il capoluogo passando per Albareto. La strada sarà percorribile nei due sensi di marcia ma solo da autovetture, furgoni e dai mezzi di soccorso. Circolazione vietata per i mezzi pesanti. I controlli saranno effettuati dalla Polizia municipale di Modena, da quella dell’Unione Comuni del Sorbara, dalla Polizia provinciale e da volontari della Protezione civile.

CHIUSO CANALETTO TRA MODENA E SAN MARTINO Sempre chiuso chiuso il tratto della statale 12 tra Modena e San Matteo per consentire i lavori sull’argine del Secchia. Chiuso anche il ponte dell’Uccellino a Modena a causa delle operazioni di cantiere.

A BASTIGLIA RIAPRONO LE SCUOLE. Da questa mattina riprende l’attività scolastica nel comune di Bastiglia. La scuola primaria (elementare) Mazzini nella propria sede di via Stazione 7 con orario regolare. La scuola dell’infanzia statale Andersen, utilizzando temporaneamente parte delle strutture della propria sede in via Tintori 28 e secondo gli orari abituali. Per quanto riguarda il nido comunale, un servizio di accoglienza sarà temporaneamente predisposto presso la sala ricreativa, situata al primo piano del Circolo Arci, presso il Centro sportivo di Bastiglia, via Don Minzoni 1, con orario dalle ore 7,30 alle 18. Il trasporto scolastico per le scuole dell’infanzia e primaria non è per il momento riattivato. Gli studenti della scuola secondaria di primo grado (media) riprenderanno le proprie attività, come sempre, nell’istituto di Bomporto. Il pullman di linea partirà da piazza della Repubblica di Bastiglia alle 7,40. La direzione della scuola dell’infanzia paritaria S.Maria Assunta sta contattando i genitori per le comunicazioni relative ai propri servizi. Per ogni informazione le famiglie possono rivolgersi al Comune di Bastiglia, tel. 059-800.911. I lavori di pulizia, dopo il deflusso delle acque, sono stati eseguiti dall’Esercito con l’obiettivo di consentire la riapertura in tempi brevi. LE ALLERTE DELLA PROTEZIONE CIVILE. Un dispaccio della protezione civile prevede il “mantenimento della fase di preallarme” idraulico a Bastiglia, Bomporto, Modena e Camposanto. “Mantenimento della fase di attenzione” a Finale Emilia, Cavezzo, San Prospero, Carpi e Soliera. Cessazione dell’allarme a Novi di Modena, Concordia sulla Secchia, San Possidonio, Nonantola, Ravarino, Castelfranco Emilia.

FANGHI LIQUIDI RECUPERATI Sono complessivamente 86 le tonnellate di fanghi liquidi e 439 le tonnellate di rifiuti solidi, provenienti da Bastiglia e Bomporto, smaltiti negli impianti del gruppo Hera dal 23 gennaio ad oggi (dato aggiornato alle 18 di domenica 26 gennaio), per un totale di 525 tonnellate. A questi si aggiungono altre 100 tonnellate di rifiuti depositati nei due centri di stoccaggio provvisorio allestiti nei due Comuni. Verrà completata entro la serata di domenica 26 gennaio la sostituzione dei contatori allagati nell’abitato di Bomporto, dove è già stata riattivata ovunque dai tecnici Enel la fornitura di energia elettrica. Sostituzione dei contatori completate anche a Bastiglia, dove permangono tuttavia alcune aree dove non è stato ancora possibile riattivare l’elettricità a causa della presenza di cabine tuttora allagate in via Chiesa Valle, in via don Minzoni e via Chiaviche. Gli sfollati dalle aree allagate assisti dalla Protezione civile in albergo e nei centri di accoglienza nella giornata di domenica 26 gennaio sono scesi a meno di 300. Complessivamente dall’inizio dell’emergenza i Centri comunali e quelli di accoglienza, con il coordinamento del Centro unificato della Protezione civile di Marzaglia, hanno gestito l’assistenza a oltre 1500 persone.
STATO DI EMERGENZA E RISARCIMENTI DANNI: L’IMPEGNO DI GABRIELLI Il governo “ha riconosciuto la particolarità di questa alluvione, importante di per sé ma che acquista rilevanza diversa avendo interessato in modo quasi chirurgico un territorio in precedenza colpito dal terremoto”. E, quindi, “ci sarà, da parte delle istituzioni, un atteggiamento più attento”, e “già la procedura adottata dal Consiglio dei ministri con i primi provvedimenti è particolarissima”. Lo ha detto il prefetto Franco Gabrielli, capo del Dipartimento nazionale di Protezione civile, durante l’incontro con il tavolo di coordinamento al Centro unificato provinciale di protezione civile di Marzaglia, al termine di un sopralluogo in elicottero nell’area colpita. “Credo che i cittadini possano ragionevolmente sperare che ci sarà un percorso quanto più agevolato possibile per il ristoro dei danni. L’attuale sistema della richiesta dello stato di emergenza – ha aggiunto Gabrielli – prevede una prima fase in cui vengono riconosciute le spese legate all’emergenza e una seconda per il riconoscimenti dei danni a cittadini e imprese. Posso dire che in questo caso la situazione è un po’ diversa”.
VENERDI’ PRIMO RAPPORTO AL GOVERNO PER LO STATO DI EMERGENZA Un primo rapporto sui danni sarà esaminato dal governo la prossima settimana per la dichiarazione dello stato di emergenza, “e le condizioni perché venga riconosciuto ci sono tutte”. Nell’invitare a limitare le polemiche “in questo difficile momento”, Gabrielli ha sottolineato che “le istituzioni, sull’emergenza terremoto e adesso su questa, stanno lavorando attivamente. La popolazione colpita da questa nuova emergenza non sarà lasciata sola” Gabrielli, quindi, presente il ministro per l’Integrazione, la modenese Cécile Kyenge, ha incontrato i rappresentanti delle associazioni di volontariato locali e nazionali impegnate nell’emergenza, ringraziandoli “per la generosità e la professionalità”. Ha ricordato, inoltre, che sono ancora in corso le ricerche del disperso Giuseppe Oberdan Salvioli “che ha perso la vita per tutti noi, mentre aiutava nei soccorsi”.

da gazzettadimodena.it

"Il difficile senso della memoria sulla Shoah",di Lizzie Doron

Per ricordare abbiamo avuto bisogno di una legge. Il giorno della memoria in Israele è stato sancito dal parlamento nel 1959 dopo una battaglia pubblica condotta dai sopravvissuti. “In questo giorno,” recita la legge “si rispetteranno in tutti i luoghi del paese due minuti di silenzio, si terranno iniziative e cerimonie, le bandiere saranno a mezz’asta, i locali di svago chiusi, i programmi della radio saranno dedicati all’argomento”. Il giorno della memoria internazionale è stato decretato dall’Onu nel 2005 con una risoluzione che richiama al ricordo della Shoah in modo che altri genocidi non possano più essere perpetrati in futuro. Come tutte le leggi, anche queste devono essere applicate. Ma come?

Nei primi anni dello Stato d’Israele il problema non si poneva, dal momento che la Shoah era rimossa dalla coscienza collettiva del paese che amava piuttosto farsi suggestionare dalla potenza di Tzahal, il nostro “Esercito per la difesa di Israele” che forse era anche un “Esercito per la terapia di gruppo di Israele”. I sopravvissuti, la loro debolezza, il loro essersi arresi e fatti deportare nei campi “come pecore al macello”, questo era d’intralcio per un paese appena nato, che voleva essere forte, che avrebbe dovuto combattere e che desiderava far sorgere un nuovo ebreo indipendente dalle polveri della diaspora. I soldati invece erano belli, giovani e pieni di vita e ardore per il futuro.

Ricordo bene come li ammirassi da bambina, una bambina che viveva in un quartiere di sopravvissuti e che da lì sognava di fuggire per raggiungere qualche kibbutz. Un quartiere dove la memoria era relegata ai sussurri notturni delle donne nei cortili, alla follia di Djusia, la nostra vicina, che raccontava solo al suo cane di come si fosse costretta a sorridere mentre uccidevano sua madre, pensando, povera bambina, che così non si sarebbero accorti che era ebrea; o ai silenzi di mia madre che ad ogni domanda rispondeva: “Io penso ai morti, te pensa ai vivi”. E queste parole rimangono fino ad oggi in me come una domanda su come gestire la memoria.

In seguito al processo Eichmann, all’esposizione pubblica e dirompente della Catastrofe, il ricordo della Shoah ha iniziato un nuovo percorso inarrestabile, ramificatosi in molte direzioni, gonfiandosi sempre di più, portando le sofferenze e le immagini dei sopravvissuti al centro dell’immaginazione collettiva, fino a conquistarsi un posto fondante nell’identità degli israeliani.

Il giorno della memoria è diventato il simbolo e l’apice di questo processo fatto di cerimonie pubbliche, programmi educativi, comitive ad Auschwitz, discorsi, programmi radio e TV, canti e poesie, libri e film, un coinvolgimento generale che a tratti farebbe pensare a una vera e propria industria della memoria – nella quale si possono trovare cose positive e costruttive ed altre banali e retoriche.

Anche se sono abituata a cercare sempre il lato buono delle cose, non posso che constatare come questa mutazione della memoria abbia completamente seppellito quelle testimonianze intime, genuine, dolenti, anche sarcastiche che ho vissuto da bambina nel mio quartiere, ed è pungente la sensazione che nient’altro potrà mai eguagliare la testimonianza di quelle persone che portavano avanti la propria memoria nella solitudine delle proprie case, nell’ombra dei cortili. Per questo insisto forse a parlare solo di loro nei miei libri.

Ma questo significa forse che dovremmo dire: “Aboliamo il giorno della memoria!” o “Sono contro il giorno della memoria!”. Non credo. Per diversi motivi.

Il primo sono i giovani, gli studenti che si affacciano al mondo e alle riflessioni sul mondo. Penso che essi meritino di poter affrontare lo studio della Shoah, come punto di partenza per prendere coscienza di temi decisivi come la presenza del male nel mondo, i diritti umani, la libertà di pensiero. Essi sono vergini rispetto alle tematiche della memoria, ogni generazione è anche una nuova possibilità di rimodellare e migliorare il nostro modo di fare memoria.

Questo ci porta a un secondo motivo, più filosofico. Penso che il senso della vita di un essere umano sia quello di migliorarsi, di studiare, di sfidare se stesso, di progredire; dunque cancellare una questione difficile – come il fare memoria appunto – non può essere una soluzione, ma è solo una mancanza di responsabilità e una rinuncia al senso della nostra esistenza.

Un terzo motivo è il valore che voglio comunque dare alla collettività. Il giorno della memoria mette in gioco moltissime persone, anzi, cittadini; essi sono tutti coinvolti in un progetto comune il cui significato di fondo è nobile e può essere costruttivo. So per esperienza che moltissime di queste persone sono mosse da sentimenti puri e un limpido desiderio di confrontarsi. Credo che non dovremmo frustrare questo sforzo collettivo, nonostante i rischi di banalizzazione e sacralizzazione della memoria.

Tuttavia si pone la domanda: come rendere costruttivo, sensato, attuale il giorno della memoria? Non ho una risposta a questo, ma solo alcuni pensieri.

Il primo è lo studio. Al ricordo, alla cerimonia, alla commozione deve essere sempre fatto precedere uno studio, poiché non c’è niente di più vacuo e transitorio di una celebrazione emotiva priva di una profonda conoscenza e comprensione della Storia. Nessuno sviluppo della memoria è possibile senza conoscenza.

Credo poi che oggi si debba trovare il coraggio e la saggezza per accostare al ricordo della Shoah lo studio e la presa di coscienza di eventi contemporanei che toccano il tema dei diritti dell’uomo, delle privazioni, della povertà, ogni tema che veda l’umanità soccombere in qualsiasi luogo del mondo. Ricordare i morti, ma pensare anche ai vivi.

E’ forse è per questo che continuo a scomporre tutto l’apparato costruito intorno alla memoria che mi separa dalle parole, gli sguardi, i gesti di quei sopravvissuti che ho conosciuto da bambina – per poter ritornare a mia madre e chiederle: “Mamma, come si fa a pensare ai vivi?”.

Scrivendo, mi viene in mente che parecchi anni fa un editor mi disse: “Lizzie, peccato che con le tue capacità scrivi solo di Shoah, la Shoah non vende, dovresti scrivere una storia d’amore”.

Se lo dovessi rincontrare oggi, gli direi: “Avevi torto, la Shoah vende…”. Ma questo non significa che non vorrei tanto poter scrivere una storia d’amore.

Lizzie Doron è nata a Tel Aviv nel 1953. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati dalla Casa Editrice Giuntina: ‘Perché non sei venuta prima della guerra?’, ‘C’era una volta una famiglia’, ‘Giornate tranquille’, ‘Salta, corri, canta’. Ad aprile uscirà il nuovo romanzo ‘L’inizio di qualcosa di bello’. In questi giorni è in Italia per tenere delle conferenze sulla Memoria.

www.repubblica.it

Il «salario minimo» fa bene al lavoro, di Fabrizio Galimberti

Bisognerebbe pagare a chi lavora almeno un salario minimo? Ci dovrebbe essere una cifra – che so, 5 euro all’ora – al di sotto della quale sarebbe illegale pagare un lavoratore? Suppongo che voi, pensando al vostro futuro di lavoratori, non avreste dubbi a dire di sì: non vogliamo essere sfruttati, ci dovrebbero dare almeno x euro… Ed è giusto che lo Stato, in una situazione in cui il potere negoziale dei datori di lavoro è superiore a quello dei lavoratori (vista la crisi che c’è in giro), si preoccupi di piantare un paletto per stabilire un livello di compenso al di sotto del quale non è giusto andare.
Sì, ma… Gli economisti, come il Grillo parlante, hanno l’abitudine di fare obiezioni anche a cose che sembrano giuste. E la prima obiezione che farebbero è questa: se si introduce un salario minimo si perdono posti di lavoro. Perché si perdono? Basta tornare alla legge della domanda e dell’offerta. Supponiamo che voi abbiate una bancarella al mercato e vogliate vender patate. Se mettete un cartellino di un euro al chilo, sapete che ne venderete, mettiamo, 100 chili. E se scrivete sul cartellino 2 euro, quante ne venderete? Certamente di meno. Ci saranno meno compratori invogliati da quel prezzo.
La stessa cosa succede se volete “vendere”, invece di patate, un’ora del vostro lavoro. Se dite: lavoro per 5 euro all’ora, potrete trovar da lavorare per un certo numero di ore. Ma se dite: voglio almeno 10 euro all’ora, trovate meno domanda delle vostre ore di lavoro. Coloro che sono avversi a un minimo salariale, insomma, dicono: se lo introducete, ci saranno meno ore lavorate e si perderanno posti di lavoro.
É giusta questa obiezione del “Grillo parlante”? Andiamo intanto a vedere quel che succede nella realtà. In quanti Paesi lo Stato ha stabilito un salario minimo? In molti, come vedere dal grafico: nell’Unione europea, su 28 Paesi ben 21 hanno introdotto un salario minimo, sfidando le obiezioni del Grillo parlante (in Italia ci sono minimi salariali per molte categorie di lavoratori, ma non c’è un minimo nazionale valido per tutti). E anche fuori dell’Europa e dell’America ci sono molti Paesi con questa norma.
Certamente, si tratta di una norma che interferisce col libero mercato. Non esiste un prezzo minimo per le patate o il taglio dei capelli o il biglietto del cinema. Perché, allora, esiste questa norma per il lavoro? Non basta dire che il lavoro non è un bene qualsiasi. Bisogna argomentare un po’ di più.
In effetti, il lavoro è qualcosa di più rispetto agli altri beni. E i governi devono rispondere ai desideri dei cittadini, specie quando l’economia è debole e le diseguaglianze – le distanze fra ricchi e poveri – si allargano. Ma, anche se il lavoro è, come certamente è, qualcosa di più rispetto agli altri beni, l’obiezione resta. Si favoriscono veramente i lavoratori se per effetto dell’aumento del salario minimo si perdono posti di lavoro? La teoria economica dice che si perdono, ma gli economisti hanno troppo spesso l’abitudine di ragionare su modelli e ignorare la realtà.
Una vecchia battuta dice di un economista che ha perduto le chiavi della macchina e, nella notte, le cerca alla luce di un lampione. Passa un poliziotto che lo vede andare avanti e indietro intorno al lampione e gli chiede che cosa fa; l’economista gli spiega che cerca le chiavi della macchina. Il poliziotto dice: «ma dov’era quando è uscito dall’auto?». E l’economista risponde: «ero là», additando l’auto parcheggiata dieci metri più avanti. «Ma allora perché non le cerca là?», dice il poliziotto. «Perché qui c’è più luce», è la replica.
Allora molti economisti hanno cercato di far meglio, di non fermarsi alla teoria e fare un po’ di ricerche sul campo. Visto che molti Paesi hanno introdotto da molti anni e a più riprese modificato il salario minimo, perché non andare a vedere quel che è successo? É possibile, analizzando i dati con tante più o meno sofisticate tecniche statistiche, dirimere la questione: l’adozione del salario minimo ha danneggiato o no l’occupazione?
La risposta è in genere favorevole all’introduzione di un livello minimo di salario. Questa adozione ha avuto effetti sfavorevoli solo modesti, in molti casi non ha danneggiato affatto l’occupazione e in altri casi l’ha addirittura favorita. A questo punto gli economisti hanno dovuto riprendere in mano la cassetta degli attrezzi per affinare la teoria in modo che possa adattarsi meglio ai comportamenti riscontrati sul campo.
Un primo adattamento è questo. Mettiamo che in un mercato libero il salario che si verrebbe a creare spontaneamente, per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, sia di 6 euro l’ora. Ma nella realtà – sempre una realtà lasciata a se stessa – si riscontrano salari di 5 dollari l’ora. Perché? Perché ci sono degli “attriti” nel mercato del lavoro. Se un lavoratore vuole lasciare un posto che rende poco e cercarne un altro, ci sono costi legati a questa ricerca: deve darsi da fare, chiedere a destra e a sinistra… Allora, data l’esistenza di questi costi, rimane dov’è e al datore di lavoro rimane il vantaggio di pagare 5 per un’ora di lavoro che, in un mercato privo di “attriti”, costerebbe 6. Ecco che in quel caso lo Stato sarebbe giustificato a introdurre un salario minimo di 6.
Ci possono poi essere altre ragioni: per esempio, con un salario minimo più alto ci sono maggiori costi per l’impresa ma anche più vantaggi. Se il lavoratore è più contento, ci sarà meno andirivieni nella forza lavoro: dover frequentemente assumere e formare lavoratori è un costo e una noia per l’impresa. Insomma, il salario minimo, purché fissato a livelli adeguati – come la minestra di “Riccioli d’oro”, nè troppo freddo nè troppo caldo, nè troppo alto nè troppo basso – può far più bene che male.

Il Sole 24 Ore 26.01.14