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"Il gran menu della camorra e gli occhi chiusi dello Stato", di Roberto Saviano

Immaginate di essere turisti a Roma, di andare in un bel ristorante, magari da ‘Zio Ciro’, vicino piazza Navona. Un ristorante che ha una buona presentazione sul web e una buona reputazione culinaria. E poi immaginate nel pomeriggio di entrare in una gelateria, magari proprio da ‘Ciucculà’, vicino al Pantheon. E infine, di andare a riposare prendendo in affitto una camera a Piazza di Spagna, nel cuore più prestigioso della capitale. Immaginate di andare proprio lì, al numero 33, e di usufruire dei servizi dalla società ‘Spagna Suite’ (poi ceduta). Ecco, in ogni vostro singolo passaggio, avreste avuto a che fare con capitali di camorra.
Non ve ne sareste accorti, perché le persone che avrete incontrato in tutte queste attività sono lavoratori perbene, e loro stessi (in molti casi) non immaginano chi siano i loro superiori.
Oppure il vostro percorso avrebbe potuto essere diverso. Potreste aver scelto una pizzeria, sempre della catena Zio Ciro, ma questa volta a Sant’Apollinare, magari proprio dopo aver visitato la chiesa. Oppure una vecchia osteria, «L’Osteria della vite» o il ristorante «Il pizzicotto» in via Gioacchino Belli. E dopo, un caffè al bar «Sweet» di piazza della Cancelleria. Anche questo secondo itinerario vi avrebbe portato, involontariamente, a entrare nell’economia del sistema camorra.
Ma l’elenco è sterminato e sterminate sono le combinazioni
che testimoniano quanto la camorra sia entrata a far parte della nostra vita quotidiana, una vita fatta di gesti usuali (mangiare una pizza, bere un caffè, prendere in affitto una stanza) ai quali non prestiamo più attenzione. Gesti che consideri sicuri, che credi non potrebbero metterti in connessione con i più potenti poteri criminali. Locali in via Giulio Cesare, in via Fabio Massimo, in via Mameli, e poi in via Rasella, in via delle Quattro Fontane, in via della Pace, in via di Propaganda, in via del Boschetto. Pizzerie, bar, ristoranti, camere in affitto, e poi società sportive. È l’impero dei clan a Roma. O meglio, è la parte dell’impero dei clan che ora conosciamo. Ed è solo una piccola
parte.
E Roma non è un punto d’arrivo: i recenti sequestri hanno interessato anche Viareggio — dove i clan avevano messo le mani su uno dei luoghi più noti della città, l’ex bar-pasticceria «Fappani » — e poi a Pisa, su «L’arciere » e «l’Antico Vicoletto». E poi ancora sul ristorante «Salustri» di San Giuliano Terme e «L’imbarcadero » di Marina di Pisa. E poi nelle Marche, a Gabicce Mare, il caffè «Vittoria». Tutti questi sono locali considerati dalle Dda di Roma e di Napoli, coordinate dalla Dna, «lavanderie» della camorra, frutto del riciclaggio. Ricchezza che proviene dalla cocaina,
dall’hashish, dalle estorsioni, dalla contraffazione di capi d’abbigliamento griffati.
Non è semplice riciclaggio. Non è semplice lavanderia. Questo è un vero e proprio sistema che assiste l’economia legale. Il riciclaggio classico, quello che conosciamo, usa le attività commerciali più disparate, spesso sofferenti, per pulire danaro. Qui, invece, si tratta di marchi, di vero e proprio franchising. «Zio Ciro» e «Sugo», per esempio, secondo la Dna vengono assistiti dal capitale criminale. Laddove ci sono vuoti dovuti alla crisi o a insuccessi imprenditoriali, arrivano i capitali sporchi a sostenere le attività. È una nuova forma di investimento mafioso, una declinazione specifica del riciclaggio. È come se una società potesse godere di un livello «pulito», che si relaziona alla clientela e al mercato seguendo le leggi dello Stato in cui opera, e di un livello «ombra», che arriva in soccorso del primo quando bisogna rilanciare un prodotto, quando bisogna espandersi sul mercato o battere la concorrenza.
Quindi non solo più ripulitura, fatture false, scontrini fittizi. No. Investimenti veri e propri che rendono i clan le stampelle delle economie sofferenti, delle economie piegate dalla crisi. A questo nuovo tipo di riciclaggio non si è ancora pronti. L’Europa non è pronta. Sono moltissime le catene di ristorazione e di distribuzione che d’improvviso aprono filiali in decine di paesi nel mondo. Aprono senza che sia razionalmente possibile giustificare tali exploit, tanto è difficile cogliere e tracciare i loro movimenti sul mercato. E non ci sono leggi e regole che permettono di scoprire l’origine del danaro di questi grandi gruppi. Le loro società si perdono tra Andorra e Lussemburgo, tra Lichtenstein e le Cayman, ma anche a Londra e Berlino. I paesi dove aprono società le organizzazioni e versano i loro capitali sono sempre di più nel nord Europa. Scoprirle è divenuto quasi impossibile.
In questo caso specifico gli inquirenti sono riusciti a scoprire la borghesia criminale camorrista. Il ruolo del clan Contini, la base a Napoli, a San Carlo all’Arena un’organizzazione potente guidata dal boss Eduardo Contini “o’ romano”, ossessionato dall’eleganza ma anche da una gestione diplomatica degli affari. Interessato a un narcotraffico che non inficiasse troppo il territorio (nota la sua opposizione al kobret e la sua volontà di spostare tutta la vendita di droghe su Roma e nel Lazio) sopravvissuto a tutte le faide di camorra, era entrato nella dirigenza del cartello di Secondigliano per via matrimoniale. Le sorelle Aieta sposarono tre camorristi che divennero poi dirigenti dei cartelli dell’area Nord. Maria sposò Contini, Rita sposò Patrizio Bosti e Anna sposò Francesco Mallardo. Tre capi storici. Tre uomini di camorra interessati a Roma.
La famiglia che su Roma diventa interfaccia dei clan sono i Righi. Proprio monitorando le attività dei fratelli Righi — Salvatore, Luigi e Antonio, veri e propri sovrani della ristorazione — gli inquirenti sono riusciti nella difficilissima individuazione dei percorsi di riciclaggio. I fratelli Righi — secondo le accuse delle Procure Antimafia di Roma e Napoli — diventerebbero riferimento dei capitali del clan Contini, ma anche del clan Mazzarella e Amato-Pagano. Non avrebbero agito garantendo l’esclusiva a un unico «committente”. I clan davano il danaro, e loro sapevano come farlo fruttare. E bene.
Quando i Righi rivogliono dal broker Luca Sprovieri i soldi liquidi che questi aveva ricevuto per investire nella finanza in Svizzera (e del quale, secondo gli stessi Righi, si era impossessato), si rivolgono a Oreste Fido. Un camorrista che — secondo le accuse — gli risolve tutti i problemi di questo genere. In cambio, i Righi assumono suo nipote in un ristorante, prendono parte a sue società. Grazie a questa alleanza con gli imprenditori principi di Roma, Fido vuole fare concorrenza al potere degli Scissionisti. I Righi garantiscono con le banche, gli fanno avere fideiussioni per consentirgli di ottenere finanziamenti volti ad avviare alcune attività commerciali nel settore delle calzature (dove a fianco a prodotti veri ci sono prodotti falsi, così da poter vendere scarpe note a prezzi bassissimi) e nel settore delle polizze assicurative Rc-auto. I Righi — esponendosi moltissimo — si legano ad un camorrista per avere vantaggi sul ritorno crediti e entrature dirette nei clan. Il loro errore è stato aver mischiato i livelli.
I cartelli criminali lo sanno. Chi crea danaro deve sporcarsi con la droga e fare morti. Vivere in latitanza e in carcere. Ma poi c’è il livello economico, ossia gli investitori che non c’entrano né con il sangue né con il narcotraffico. E poi c’è il livello politico, che più è lontano dal segmento militare più avrà garanzie. Ad ogni livello il suo compito. Ecco la difficoltà di ricostruire la filiera. Negli anni passati non era così. La vicinanza e promiscuità tra mafioso e commerciante erano assai più contorte.
Comunque, quando il broker Sprovieri deve spiegare a Luigi
Severgnini chi sono i Righi, consigliandogli di non mettersi in affari con loro, ecco cosa dice: «SPROVIERI Luca: io spero. …. spero anche che mi dia i documenti perché lui ha promesso di darmi….. di restituirmi i documenti…..
SEVERGNINI Luigi: no ascolta…. Luca ti posso dire una cosa….. non fanno i ladri di lavoro SPROVIERI Luca: no, fanno peggio SEVERGNINI Luigi: no, non fanno neanche peggio SPROVIERI Luca: si fanno peggio SEVERGNINI Luigi: è il finale, hai capito? È proprio il finale, cioè è il finale, di tutto! questo non me lo ha detto….. come si chiama…..
SPROVIERI Luca: no, no, fanno anche peggio SEVERGNINI Luigi: Antonio Righi SPROVIERI Luca: fanno anche peggio, fanno anche peggio SEVERGNINI Luigi: questo non lo so, però mi han detto senti Luigi, questi non è che fanno i mariuoli, questi che sono qua a Napoli, questi sono il finale, raccolgono tutto ciò che fanno gli altri…… eh! Luca per favore……. «.
Non “mariuoli”, ma sono “il finale”. Ecco una nuova categoria che assumerà nel tempo un vero e proprio ruolo scientifico nell’analisi del riciclaggio. “Il finale”. I Righi sono il finale.
Immaginate cosa può accadere, immaginate cosa di fatto accade nell’Italia della crisi. Si presentano broker, commercia-listi, avvocati, offrono di diventare partner, offrono di diventare soci, portano soldi, enormi liquidità che significano sicurezza. E lentamente entrano, si insinuano, fino a impadronirsi di intere società. Le utilizzano per riciclare, ma poi sono abili ed economicamente forti e quindi sono anche buoni investimenti che nel tempo produrranno degli utili.
Così come è avvenuto in Veneto e in Lombardia, e come hanno dimostrato le inchieste Aspide e Crimine, sfruttano la disperazione di chi vede fallire il lavoro di una vita. Di chi immagina sul lastrico decine e decine di famiglie, quelle dei dipendenti che, se l’azienda fallisce, non avranno più di che vivere. Non è un’imposizione militare o un saccheggio estorsivo. Le porte le aprono — anzi, le spalancano — gli imprenditori che sperano di poter migliorare la loro condizione. Questo meccanismo è divenuto prassi.
La cosa più allarmante è che le nuove generazioni non negano l’esistenza della camorra, della ‘ndrangheta, di Cosa Nostra. Non dicono più, fatti salvi alcuni casi rari e patetici, che è tutta un’invenzione dei giornali o della televisione. La nuova omertà è rispondere, a chi dice che la nostra quotidianità è ormai nelle mani dei clan: «E allora? Sappiamo che esistono, lo sanno tutti». La nuova omertà è considerare fisiologica l’esistenza del potere criminale, percepirla come elemento scontato. Ecco, questa è la nuova omertà.
E persino la linea delle nuove generazioni di affiliati si accorda al sentire comune: «Se vuoi fare business, devi necessariamente non seguire le regole». Regole che sono percepite come ingiuste, inique, una rete dalle cui maglie si prova costantemente a sfuggire: non si può essere ricchi e potenti senza fare scorrettezze, questo è quanto si vuole costantemente suggerire. Questo è il veleno che, a piccole gocce, è stato versato nelle orecchie degli italiani. E certo non ci si augura di essere miserabili e sconfitti. Questo l’adagio che si ascolta sempre più spesso. La confusione di considerare tutti corrotti e tutti ugualmente schifosi, genera una sorta di territorio franco per le attività criminali.
L’analisi del potere criminale è opera certosina e attenta: quel che risulta evidente è che loro stessi vogliono essere confusi con quei «tutti» corrotti e schifosi, che nel peggiore dei casi, sono meno corrotti, criminali e schifosi di loro. La nuova omertà è il «si sa», è il «tutto è stato detto, scritto, indagato». È la banalizzazione di questa che è la nostra tragedia. Una tragedia che ci sta uccidendo giorno dopo giorno e di cui non ci rendiamo più conto. Di cui non ci accorgiamo più.
Prima regola, dunque, è non considerare fisiologico tutto questo. E la politica del contrasto alle mafie, sul piano economico, non sta facendo nulla. Nulla di nulla. E poco, pochissimo, sta facendo rispetto all’emergenza economica vera e propria. La politica deve intervenire e non fare più una generica assistenza. Non può permettersi più di attaccare solo «moralmente » le organizzazioni e di esprimere solidarietà a chi è a rischio. Tutto questo è corretto, ma non è sufficiente. Nel dibattito politico è scomparso il contrasto all’economia criminale.
Adesso questi locali che fine faranno? Tempo fa parlammo con don Luigi Ciotti del progetto di sottoporre all’opinione pubblica la scelta di far vendere le aziende controllate dalla criminalità organizzata e sottoposte a sequestro. Le aziende non devono morire quando vengono commissariate. Devono tornare alla legalità. Lo Stato deve essere più forte, deve essere attento, deve monitorare affinché non le ricomprino le stesse organizzazioni criminali. I beni immobili devono essere dati alle associazioni, come in effetti avviene. Ma le aziende, i negozi, devono ritornare nel mercato e nella legalità. Non solo. Bisogna comprendere che in questo momento, sia in Italia che in Europa, la politica sta facendo troppo poco per evitare l’infiltrazione dei capitali criminali nell’economia reale. Per ogni imprenditore in crisi c’è un cartello pronto a rilevare la sua azienda. Per ogni evasore c’è un broker pronto a dargli possibilità di rivestimento di quel danaro. Per ogni azienda legale che assume regolarmente c’è una concorrente che vince utilizzando capitale narcotrafficante. E in tutto questo le banche (basta vedere i conti correnti dei Righi per averne conferma) sono spesso silenziose conniventi.
O la legalità diventa conveniente o assisteremo sempre più spesso al dramma di tanti imprenditori che, per continuare ad essere “sani”, finiranno sconfitti. Questo è il macro-tema del momento. Chiediamo a questo governo e alle opposizioni di affrontarlo immediatamente. Non c’è più tempo. Non bastano più solidarietà e antimafia morale. Fatti, regole, leggi: c’è bisogno di mettere mano a tutto questo. Subito. O sarà tardi. Troppo tardi.

La Repubblica 24.01.14

"La legge Fornero e i prof bloccati nel limbo" di Mila Spicola

Forse sono io che non capisco. E, se non capisco, qualcuno mi spieghi le ragioni. Da un lato ci sono giovani laureati che vogliono diventare insegnanti, che hanno seguito tutto il percorso richiesto loro dallo Stato per diventarlo. Percorso che negli ultimi 30 anni è variato quasi ogni anno: devi fare un concorso, no, ti devi iscrivere alle Sissis e abilitarti così, no, puoi insegnare come supplente, però per avere la cattedra devi fare un concorso, e torni alla casella di partenza, no, ti facciamo fare un tirocinio formativo abilitante, no, però, se hai il vecchio diploma magistrale ti facciamo fare un altro percorso, che si chiama pas, no, se hai anche il titolo del sostegno, hai un altro canale, ma tu sei prima, seconda o terza fascia? Scusi? In che senso? E questo è il versante «come divento insegnante oggi» che ha condotto, in questa follia amministrativa priva di ogni logica di semplificazione ma che continua ancora adesso, mentre scrivo, a complicarsi, ha condotto insomma a ingigantire ogni anno il grande pentolone del precariato scolastico. Un precariato molto particolare perché composto di docenti a tutti gli effetti con una caratteristica: sono bravi, sono molto bravi, perché negli anni, di propria o altrui sponte, hanno continuato a formarsi per aumentare i titoli. Altre lauree, dottorati, specializzazioni. E anni di servizio. Dall’altro lato ci sono i docenti prossimi alla pensione. Alcuni di loro, quasi o già sessantenni, c’erano quasi. Avevano chiesto e ottenuto il permesso di ritirarsi e mi ricordo della mia adorata Marisa, una collega d’Italiano che per me è stata un’altra di quei maestri che cambiano la vita, che era già con un piede fuori, con le lacrime ogni giorno. Sarebbe rimasta però «Mila, mia madre ormai non la reggono nemmeno le badanti, io rimarrei, ma la vedi Clelia (una collega precaria bravissima)? Che ci faccio ancora io a 60 anni e con 35 anni di servizio a inseguire Macaluso nei corridoi quando lo incrocio fuori dalla classe, mentre giovani come Clelia non possono nemmeno farsi una famiglia e aspettano che io me ne vada?». Così parlava Marisa due anni fa. Cosa è accaduto in questi due anni? È accaduto che Marisa sta ancora in classe e Clelia è ancora a spasso. Marisa è distrutta per le notti insonni che le fa passare la madre e l’ansia del non capire quando andrà in pensione e Clelia è ancora precaria ma in un’altra scuola, in un paesino sulle Madonie e tutti i giorni si fa 90 chilometri all’andata e 90 al ritorno. Per quanto tempo sarà così brava come lo era due anni fa e lo è ancora? La legge Fornero, oltre al guaio esodati, ha prodotto un altro guaio, i docenti quasi in pensione della cosiddetta Quota96, coloro che stavano andando in pensione due anni fa e per un errore di valutazione amministrativa sono rimasti ingabbiati nel limbo «non so se ci devo andare o meno». Non sono tanti, sono meno di quattromila persone. Che diventano ottomila se pensiamo alle quattromila Clelie pronte a prendere il loro posto. Siamo il Paese con la classe docente più vecchia del mondo. Non d’Europa, del mondo. Roba da brividi nella schiena. E siamo il Paese con la più alta disoccupazione giovanile. Docenti di 62 anni si ritrovano a inseguire bambini di 4 anni nelle scuole materne e a confrontarsi con mamme piccole quanto le loro nipoti. Insegnanti d’italiano dei licei, al di là della buona volontà e capacità immutata si ritrovano a non capire nemmeno quello che dicono i loro allievi quindicenni e a leggere elaborati che descrivono passioni, problemi e tensioni vissute però in un luogo e in un tempo completamente diverso. Poco male qualcuno mi dirà, i divari generazionali ci son sempre stati. Mentre docenti bravissimi, straformati e aggiornati stanno a casa mentre ci affanniamo a scrivere i jobs act. E aggiungo se ti ritrovi un docente stanco, che non ce la fa più e non ce la vuole fare, perché a sessantanni è costretto in classe, i quattromila quota96 e le quattromila Clelie, dobbiamo moltiplicarle ciascuna per 30 alunni scontenti di perdere Clelia e afflitti di fronte a una prof che non li guarda più negli occhi, e la vedi già vecchia e cadente raccontar del suo vero incidente. E intanto viene fuori che il livello di burn out (l’insegnamento è un lavoro altamente usurante e sarebbe il caso di finirla con la retorica del privilegiato che persino qualche onorevole un po’ superficiale ogni tanto riprende) dei docenti italiani è tra i massimi al mondo e non ci facciam mancare manco questo come podio. Io dico, risolvere il problema tutto adesso non si può, ma intanto, a questi quattromila permettiamo di andarsene in pensione visto che gli spettava? Qualcuno penserà che l’emergenza siano quei pensionati da far andare via e qualcun altro che sia Clelia e tutti i precari come lei. Cambiamo prospettiva. Cominciamo a pensare che l’emergenza vera nella scuola siano gli alunni di Clelia, bravissima, che non voglio perderla e di Macaluso che scappa sempre mentre Marisa, bravissima anche lei ma ormai stanca, ha smesso di inseguirlo? La scuola in cima al Paese. Io direi: i nostri alunni, i nostri figli in cima al Paese. Un docente stanco e sfatto, se dopo i sessantanni non ce la fa più, e magari è in pieno burn out, cosa volete che insegni? Ripeto, forse sono io che non capisco, ma non lo capiscono nemmeno i 9 milioni di studenti italiani le loro famiglie.

L’Unità 23.01.14

Alluvione, i deputati Pd chiedono gli ammortizzatori sociali

I deputati modenesi del Pd hanno presentato un’interrogazione al ministro Giovannini. Ieri i deputati modenesi del Pd avevano chiesto al ministro Saccomanni la proroga delle scadenze fiscali, contributive e assicurative per le famiglie e le imprese delle zone alluvionate. Oggi gli stessi deputati Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti hanno presentato un’interrogazione al ministro del Lavoro Giovannini perché vengano assicurati gli ammortizzatori sociali necessari per la tutela dei redditi dei lavoratori, dipendenti e autonomi, delle aziende colpite dall’alluvione.

Sono circa 5mila gli addetti, lavoratori dipendenti e autonomi, che hanno dovuto fermarsi a causa dei danni provocati alle aziende alluvionate: in tempi rapidi, devono essere predisposti gli ammortizzatori sociali necessari alla tutela del loro reddito. E’ quanto chiedono al ministro del Lavoro Giovannini i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti con un’interrogazione depositata nel pomeriggio di oggi. “Per molti imprenditori, professionisti, esercenti persiste e persisterà nei prossimi giorni l’impossibilità materiale di raggiungere la propria impresa – spiegano i deputati Pd nel testo dell’interrogazione – Sarà comunque impossibile, per diverso tempo, ripristinare la piena funzionalità degli impianti e la ripresa della produzione. Nell’attesa di poter stimare i danni, risulta ora dirimente tutelare l’occupazione e la produzione, già pesantemente compromessi dal sisma 2012”. E’ per questo che i deputati modenesi del Pd chiedono al ministro “quali iniziative intenda assumere al fine di assicurare tempestivamente un sostegno alla tenuta occupazionale dei centri alluvionati” e “di assicurare in tempi rapidi e certi – di concerto con la Regione Emilia Romagna e la Provincia di Modena – gli ammortizzatori sociali necessari al fine di tutelare i lavoratori, dipendenti e autonomi, delle aziende colpite dall’alluvione”. “Come ci ha duramente insegnato il terremoto, il lavoro è una priorità già durante la gestione dell’emergenza – dichiara il deputato Davide Baruffi, componente della Commissione Lavoro della Camera – Salvaguardare produzione e occupazione attraverso ammortizzatori per tutti i lavoratori è quindi un imperativo categorico e urgente: incalzeremo il Governo perché nessun imprenditore e lavoratore sia lasciato solo in questa difficile fase. Abbiamo anche il dovere di spiegare al resto del Paese – continua Baruffi – nonostante la disattenzione dei media nazionali, che l’alluvione qui è stata più devastante che altrove. Non solo perché ha colpito un territorio già terremotato, ma perché diverse famiglie e molte delle imprese ora alluvionate si erano spostate in questi centri proprio 20 mesi fa a seguito del sisma, per trovare una autonoma collocazione o per riprendere la produzione. Se ammortizzatori sociali e indennizzi non saranno adeguati e tempestivi molte di queste imprese non ce la faranno”.

"L’emergenza non è ancora finita la Bassa rischia altri allagamenti", di Andrea Marini

Le acque faticano a defluire nei canali, prolungato lo stato di allerta si temono nuovi allagamenti Errani a Roma chiede aiuti fiscali. I sindaci: «Grazie a tutti, ma si lavori per la sicurezza del territorio». L’acqua arretra a Bastiglia e la gente inizia ad entrare nelle case. In calo i livelli anche a Bomporto, mentre ai confini della Bassa, tra Camposanto, San Felice e Finale si fatica a far defluire il “mare” che ha invaso ettari ed ettari di campagne nei canali che oramai non ce la fanno più ad accogliere acqua. Ed è proprio la piena che avanza nella Bassa a costituire la principale preoccupazione del Centro di Coordinamento degli interventi di emergenza. Tanto che la Protezione Civile ha deciso di prolungare il periodo di allerta fino alla mezzanotte di giovedì, perchè nella pianura «è possibile il verificarsi di ulteriori episodi di allagamento diffuso». Una piena, quella del fiume Secchia, «come se ne vedono ogni 50 anni: alla fine sono stati evacuati dal comprensorio della Bonifica Emilia Centrale, tra Reggio, Modena e Mantova, quasi 20 milioni di metri cubi d’acqua» spiegano i statistici, una piena tanto epr avere un’idea in grado di «far salire di circa 60 millimetri il Lago di Garda o a riempire oltre venti volte il Mapei Stadium» di Reggio Emilia, secondo le stime riferite dal Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale. Ma gli effetti sono drammatici, per capirlo basta guardae gli occhi gonfi di lacrime o “allucinati” per le notti insonni passate a rimuginare su come fare a ripartire dopo un evento che in poche ore ti ha portato via il tuo mondo, le tue cose, la tua azienda. Non a caso gli effetti sono stati paragonati al tristemente famoso uragano Sandy negli Stati Uniti. Per Confagricoltura, l’esondazione potrebbe avere fatto danni all’agricoltura “superiori al sisma” del maggio di due anni fa. Per non parlare delle conseguenze sulle ditte, i negozi, le fabbriche. Ci sono aziende che prima di mesi non potranno pensare di rimettersi in cammino. Quanto alla popolazione sono circa mille gli sfollati assistiti dalla Protezione civile in hotel e centri di accoglienza della Protezione civile a Modena, Mirandola, Medolla, Limidi, San Felice sul Panaro e Carpi. In tutto questo quadro a latitare, ancora una volta, è il governo nazionale. Complici i silenzi dei media nazionali, che hanno già fatto scomparire dai titoli non solo delle prime pagine, ma anche della cronaca interna il dramma vissuto dalla Bassa modenese. Una situazione che sta facendo crescere la rabbia nella popolazione e anche nelle autorità locali. Non a caso ieri il presidente della Regione, Vasco Errani, a Roma ha chiesto «la sospensione per almeno sei mesi di ogni adempimento fiscale e tributario» e ha seguito passo passo l’iter della richiesta di stato di emergenza, ma a Modena ciò che interessa sono i risarcimenti reali, effettivi che non si sa se arriveranno e in che proporzioni. Forse potrebbero arrivare come indennizzo per eventuali responsabilità se emergernno dalla cattiva manutenzione degli argini. Non a caso anche qui il dibattito è molto caldo. Il procuratore Zincani pare aver compreso l’importanza della cosa e assicura che vuole conoscere a fondo cosa è accaduto attraverso i documenti ufficiali. Ma veniamo alle buone notizie che coincidono con il ritirarsi delle acque nei comuni che per primi hanno subito l’invasione. A Bastiglia si sono viste le prime persone rientrare nelle case e iniziare al conta di danni e la ripulitura con l’aiuto dei volontari. E qui sono entrate in azione le idrovore. Lo stesso a Bomporto. Grande lavoro per l’Aipo che ieri sera ha incassato una lettera pubblica di ringraziamenti da parte di otto sindaci dei comuni colpiti per «la risposta immediata sia di Aipo che di Protezione Civile alla rottura improvvisa dell’argine. E spronano a lavorare per tornare alla normalità e per la sicurezza del territorio». Sono soddisfatti per il nuovo gruppo tecnico scientifico che indagherà le ragioni del cedimento dell’argine e verificherà anche quelli di Panaro e Naviglio, e annunciano per stamane «controlli puntuali aggiuntivi», per individuare eventuali cavità o tane di animali: Aipo e volontari della Protezione civile, accompagnati da imprese specializzate, «interverranno immediatamente dove necessario». «E’ ancora il momento – aggiungono – di fare fronte comune, cittadini e istituzioni, per affrontare una nuova tragedia, resa ancora più grave dalla ricerca di Giuseppe Salvioli».

Pagina 3 – Cronaca

Il governo snobba la Bassa ma il New York Times no

Dopo quattro giorni di totale emergenza nessuno ha speso parole di supporto Bonaccini: «Verrà il ministro Orlando». Critiche anche al presidente Napolitano

di Francesco Dondi Vuoi mettere a confronto la suggestiva immagine di un treno in bilico su una scogliera ligure, che bloccherà l’arrivo di migliaia di fans al festival di Sanremo, oppure la capacità drammaturgica degli allagamenti in Campania, con un’alluvione che ha colpito gli stessi luoghi dilaniati dal terremoto, allagato 75 chilometri quadrati di territorio, sommerso due paesi, messo a repentaglio 5mila posti di lavoro, devastato l’agricoltura di qualità? No, in teoria non dovrebbero esserci paragoni. In teoria, appunto. Perché di quell’alluvione che il Modenese sta vivendo nessuno ne parla o, ancora peggio, nessuno ne sembrerebbe essere a conoscenza se non fosse che l’ha raccontata pure il New York Times, al contrario di tanti media nazionali. Ricordate la venuta del glaciale premier Mario Monti pochi giorni dopo il sisma? Tutti a scandalizzarsi per la passerella, eppure arrivò un attimo dopo un provvedimento quadro su cui basare, bene o male, la ricostruzione. Bene, cinque giorni dopo l’alluvione – che, si badi bene, non è un allagamento – causata da una fessurazione (si chiama così adesso una voragine dovuta al crollo di un argine?) larga quasi 50 metri, il silenzio più assordante arriva da Roma. «Chiederemo lo stato di calamità naturale», si è affrettato a dire Errani, ben sapendo che un provvedimento spot non risolve la questione. Serve una norma primaria, che sospenda i pagamenti (mutui e bollette) e le tasse (in primis mini-Imu e Tares) e metta nelle condizioni cittadini e imprese di anticipare – perché, lo sappiamo, toccherà a loro sborsare i soldi – le spese per rialzarsi. Il segretario regionale del Pd e braccio destro di Renzi, Stefano Bonaccini, ha annunciato la volontà di portare nella Bassa il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando e il sottosegretario all’Agricoltura, Maurizio Martina. Quando verranno? Ancora non si sa. Ad accendere i riflettori sull’alluvione ci hanno provato i parlamentari Stefano Vaccari, Manuela Ghizzoni e Vittorio Ferraresi, con tre accorati interventi in Aula, ma è solo una goccia in un mare di acqua, fango e detriti. Interpellanze e mozioni sono state depositate dai parlamentari Pd, Carlo Giovanardi (Ncd) sulle nutrie, Michele Dell’Orco (M5s) su gasdotto e alta velocità, Giorgia Meloni (F.lli d’Italia) e Giovanni Paglia (Sel) eppure qualcosa manca ancora: il governo. Nessuna nota ufficiale, neppure un’algida parola di solidarietà, niente di niente. Il ridondante detto “gli emiliani sanno rimboccarsi le maniche e ce la faranno a rialzarsi da soli” evidentemente ha fatto scuola ed è stato talmente tanto abusato durante il terremoto, che alla fine ci hanno creduto davvero tutti. E nel calderone delle critiche ci finisce anche il presidente Napolitano, lo stesso che nel discorso di fine 2012 non fece neppure un cenno al terremoto, accusato dall’Idv regionale di essere venuto a Bologna per rendere omaggio al maestro Abbado, senza però pensare ad una “visita nelle zone colpite, per far sentire la vicinanza della massima istituzione nazionale alle persone e per mostrare al Paese intero il dramma che stanno vivendo”.

La Gazzetta di Modena 23.01.14

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«Avremo più danni che dopo il terremoto»
Bergamaschi di Confagricoltura: «Tante denunce documentate ma non hanno mai ascoltato»
«In agricoltura più danni dall’alluvione che dal sisma, siamo stanchi di fare denunce a vuoto», denuncia Eugenia Bergamaschi, presidente di Confagricoltura Modena.
Ogni giorno che passa l’alluvione scivola sempre più tra le tragedie annunciate. «Ci sono anche documenti del gennaio 2012, di una riunione a Soliera con gli agricoltori in cui si denunciava lo stato del Secchia – spiega la Bergamaschi – e non è il solo. Tutti quelli che abitano lungo il Secchia hanno, chi per iscritto, chi a voce, denunciato in che stato versava il fiume e l’Aipo ha sempre dato risposte laconiche». Il risultato è stato uno soltanto: l’incuria. “Garantisco che se io agricoltore vado sull’argine a fare della manutenzione di mia volontà mi multano. Abito vicino al Secchia da tre generazioni e ogni piena l’ho sempre vissuta con angoscia perché sapevo com’era la gestione del Secchia, insufficiente. E ora tutte le mie preoccupazioni sono realtà». Questa la denuncia della Bergamaschi, presidente provinciale di Confagricoltura ma anche vittima dell’alluvione: allevatrice di San Matteo, la sua azienda è stata una delle prime ad essere invasa. «Scordiamoci il terremoto, questo è peggio – continua – tra agricolo e non agricolo si stimano 10mila ettari allagati. Scordiamoci il frumento e anche i terreni, una volta liberi dall’acqua, saranno difficili da lavorare. Non voglio colpevoli, ma occorre assumersi delle responsabilità. Nel tempo le denunce sono state fatte, non sono mai state ascoltate e questo è il risultato. Ci sono denunce non solo di agricoltori, ma anche di cittadini, addirittura di sindaci. Mi piacerebbe che da questo errore imparassimo qualcosa, e che da qui riflettessimo e iniziassimo un cambiamento vero. La manutenzione non è una scelta politica, ma è una scelta morale ed etica. È un diritto vivere tranquilli»

La Gazzetta di Modena 23.01.14

"Quei ricercatori che non meritiamo", di Pietro Greco

I ricercatori italiani fanno sempre di più, con sempre meno. O, se volete, continuano a celebrare con fichi sempre più secchi nozze di sempre maggiore successo. Tre recentissimi rapporti internazionali ci danno la misura di questa condizione paradossale in cui ormai verso la scienza italiana. Il primo è il rapporto sulla «Consolidator Grant 2013 Call» con cui l’European Research Council (Erc) ha finanziato 312 progetti di ricerca scientifica, europei e non, sulla base unicamente del merito. La dotazione della Call era notevole: 575 milioni di euro. Il finanziamento per singolo progetto presentato da un ricercatore era piuttosto alto: in media 1,84 milioni di euro con un picco massimo di 2,75 milioni di euro. La competizione è stata al massimo livello. Questi i risultati. La Germania ha visto premiati 48 suoi ricercatori. Subito dopo, l’Italia: con 46 ricercatori. Seguono, nettamente distaccate, la Francia (33), la Gran Bretagna (31) e l’Olanda (27). Poi ancora il Belgio e Israele (17) e la Spagna (16). Per avere un’indicazione di quanto sia straordinaria la performance dei ricercatori italiani basta ricordare che l’Italia ha ottenuto praticamente lo stesso numero di successi della Germania, sebbene spenda in ricerca meno di un quarto della Germania (17 miliardi di euro contro i 71 della Germania). E ha ottenuto il 39% di successi in più della Francia, sebbene la Francia investa in ricerca una cifra (40 miliardi nel 2013) che è quasi due volte e mezza quella italiana. Lo stesso vale per la Gran Bretagna: con un investimento in R&S doppio rispetto a quello italiano, ha visto finanziati un terzo in meno di progetti di suoi ricercatori rispetto a quelli degli italiani. Pochi giorni prima il rapporto International Comparative Performance of the UK Research Base – 2013, elaborato dagli esperti della Elsevier per conto del Department of Business, Innovation and Skills (Bis) del governo della Gran Bretagna registrava l’avvenuto sorpasso dei ricercatori italiani su quelli americani in termini non solo di produttività, ma in termini di qualità. La performance può essere racchiusa in poche cifre: nell’anno 2012 con l’1,1% dei ricercatori del mondo, con l’1,5% della spesa totale mondiale (che, secondo la rivista R&D Magazine ha superato i 1.150 miliardi di euro; l’Italia ha prodotto il 3,8% degli articoli scientifici del pianeta che hanno ottenuto il 6% delle citazioni. Le citazioni sono considerate, appunto, un indice di qualità. E, dunque, la qualità media degli articoli scientifici di autori italiani è cresciuta costantemente negli ultimi anni e ora è 6 volte superiore alla media mondiale. I nostri ricercatori hanno fatto meglio degli americani. E sono stati superato solo dagli inglesi e dagli svizzeri. Possiamo riassumere queste due notizie con un piccolo slogan: i ricercatori italiani sono pochi, ma buoni. Lavorano molto e hanno stoffa. Ma qui iniziano le dolenti note. Lo stesso rapporto dell’Erc sui suoi Consolidator Grant riporta che dei 46 assegni staccati per i ricercatori italiani, solo 20 saranno spesi in Italia: 26 ricercatori (il 57% dei vincitori) lo andranno a spendere all’estero. Perché all’estero trovano un ambiente migliore. In nessun altro Paese la diaspora è stata così alta. I tedeschi che spenderanno all’estero il loro grant sono 15 (il 31%); i francesi 2 (il 6%); gli inglesi 4 (il 13%). Inoltre la capacità di attrarre ricercatori dall’estero è sfacciatamente contraria al nostro Paese: 10 stranieri andranno a spendere il loro grant in Germania e altrettanti in Francia; addirittura 34 stranieri andranno in Gran Bretagna. Cosicché la classifica dei Paesi dove verranno spesi i soldi dell’Erc è completamente ribaltata: 62 progetti saranno realizzati nel Regno Unito; 43 in Germania; 42 in Francia e solo 20 in Italia. Il succo è chiaro: i ricercatori italiani sono bravi – più bravi di quasi tutti gli altri – ma l’Italia non è un Paese adatto per fare scienza. D’altra parte per avere buone idee non occorrono soldi. Ma per creare un ambiente adatto alla scienza, occorrono investimenti. E gli investimenti italiani in ricerca scientifica stanno crollando. Secondo la rivista americana R&D Magazine, che ogni anno redige un rapporto sugli investimenti mondiali in ricerca, l’Italia è decima al mondo per produzione di ricchezza (Pil), ma solo quattordicesima per investimenti assoluti in ricerca scientifica. Eravamo dodicesimi nel 2012. Lo scorso anno ci hanno superato anche Australia e Taiwan. I due Paesi hanno un Pil pari alla metà di quello italiano, ma investono di più in ricerca. Non solo in termini relativi, ma assoluti. Questo, dunque, è il paradosso della scienza italiana. Da un lato aumenta la produttività e la qualità della ricerca, dall’altro diminuiscono i finanziamenti. In pratica l’Italia sta disperdendo la risorsa che conta di più nell’era della conoscenza. L’unica, forse, che sarebbe in grado di tirarla fuori dal percorso di declino in cui si è incamminata da due o tre decenni. Se solo ce ne accorgessimo anche noi, oltre che gli esperti stranieri.

L’Unità 23.01.14

"Senato un'anomalia tutta italiana", di Andrea Manzella

Da tempo si dice che così non si può andare avanti. Perché di parlamenti con due Camere ce ne sono parecchi nell’Unione europea: 13 su 28 (in tutti i paesi più grandi: da Germania e Francia a Romania e Polonia): ma il bicameralismo degli altri 12 non è come il nostro. Solo da noi sia una che l’altra Camera hanno uguale potere di fare e disfare i governi (in Germania, Francia, Spagna, Regno Unito ecc. i governi possono nascere e cadere esclusivamente in uno soltanto dei rami del Parlamento).
Per giunta, solo da noi vi è una differenza abissale di età tra chi può votare alla Camera (18 anni) e chi lo può al Senato (25 anni). Sette anni di differenza possono provocare una naturale asimmetria di risultati fra una Camera e l’altra.
Ma non basta. Solo da noi è differente persino il calcolo dei voti tra le due Camere. L’astensionismo significa voto contrario al Senato mentre alla Camera, più comprensibilmente, l’astensione non influisce sul risultato. In questo modo, anche in presenza di una identica situazione politica di votanti e astenuti, un governo, promosso alla Camera, può cadere al Senato (la Corte costituzionale con la più pilatesca delle sue sentenze, nel 1984, ha detto che andava bene così, dato che tutt’e due le interpretazioni erano possibili, legittimando l’assurdo).
Ancora: solo da noi non vi è un qualche principio di ordine nella procedura legislativa. Non vi è infatti traccia di “commissioni di conciliazione” per mettere d’accordo sullo stesso testo le due Camere che hanno votato diversamente (come avviene al Parlamento europeo, nel confronto con il Consiglio, e in Belgio, in Francia, Germania, in Spagna e – fuori dall’Unione europea – in Svezia, Russia, Stati Uniti). E non vi è nessuna clausola di supremazia per fare prevalere alla fine, se non vi è conciliazione, la volontà della Camera che ha la più marcata legittimazione elettorale diretta (come avviene nei Paesi appena citati).
Vi è poi la questione dell’organizzazione interna. Personale di eccellenza unica, uscito da severe selezioni: ma spesso impiegato in servizi doppioni tra le due Camere. Fu un avvenimento quando il 12 febbraio 2007 furono «unificate» le grandi biblioteche di Camera e Senato. Ma era dal 24 aprile 1800 che la Library of Congress aveva indicato – anche per in bicameralismo forte e prestigioso come quello americano – che la messa in comune di tutti gli apparati di supporto legati alle funzioni di studio e documentazione dei parlamentari, non avrebbe ferito l’autonomia costituzionale di alcuna Camera.
Ma forse le vere ragioni di queste disfunzioni sono nel difetto che il Senato si porta dietro dalla nascita. In Costituzione sta scritto che deve essere «eletto a base regionale ». Che significa? Che le sue circoscrizioni elettorali devono rispecchiare la ripartizione in regioni? Certo. Ma non basta questo riferimento geografico. Leggendo gli atti della Costituente, si capisce che il Senato avrebbe soprattutto dovuto rappresentare, nella cornice regionale, la “complessiva struttura sociale”, le “forze vive” della Nazione, le tensioni vitali e culturali della intricata società italiana. Per tutti, Costantino Mortati accettò questa formula della Costituzione solo come indicazione di un contenitore. Ma, dentro di questo, il Senato avrebbe dovuto esprimere il contro-potere delle “piccole comunità di vita” di fronte alla forza invasiva, altrimenti rappresentata, dalla “volontà generale”.
Secondo l’intelligenza delle origini, il Senato doveva essere perciò, allo stesso tempo, “garanzia” contro l’onnipotenza dell’altra Camera e “integrazione vitale” della sua rappresentanza politica. Con una delle sue fughe in avanti, la nostra Costituzione si distaccava così da quei “senati” europei costruiti per esprimere gli interessi degli enti locali (con le elezioni indirette in Austria, in Francia, in Irlanda, in Spagna, in Olanda, in Slovenia e, addirittura, con la investitura “senatoriale”, nel Bundesrat, dei governi stessi dei Laender tedeschi).
Ma ora sembra che proprio a questi modelli tenda la radicale riforma che si farà qui da noi. Così i nostri governi e consigli regionali, che sono ora purtroppo al punto più basso della loro credibilità politica e funzionale, costituiranno – direttamente e indirettamente – l’altro ramo del Parlamento. È certo nel giusto chi pensa che senza cambiamenti, non si possa più andare avanti così. E anche una severa riflessione si impone per mettere un freno alto alla proliferazione senza soste del nostro personale politico. Se si pensa che in Germania il loro Bundesrat è solo di 69 membri, mentre solo 100 ne ha il Senato degli Stati Uniti… Ma forse a certi risultati di economia istituzionale si può ugualmente giungere bilanciandoli con altri interessi costituzionali. Siamo sicuri che un Senato espressione di mandarinati regionali sarebbe capace di dar voce ai problematici mondi vitali e culturali dell’Italia profonda? Nel 1913 gli Stati Uniti fecero un cammino inverso. Le degenerazioni delle elezioni di secondo grado dei senatori da parte delle assemblee legislative degli Stati membri, provocarono il XVII emendamento della Costituzione. I due senatori per Stato vennero allora eletti direttamente: con immediato vantaggio per gli Stati dell’Unione e per il Senato degli Stati Uniti.
Insomma, è vero che non si può andare avanti così. Ma prima di sostituire il Senato con un non-Senato bisogna stare attenti ad aggiustare le cose storte senza perdere di vista l’equilibrio del sistema tutto intero.

LA Repubblica 23.01.14

"Salviamo gli archivi. Usiamo le ex caserme per custodire la memoria", di Benedetta Tobagi

Grande emozione suscitò il recupero e successivo restauro delle lettere autografe di Aldo Moro dalla prigionia: avrebbero subito un deterioramento irreversibile se fossero rimaste nel ventre dell’archivio del tribunale di Roma ad aspettare il termine di quarant’anni previsto per il versamento all’archivio centrale di Stato. E meno di una settimana fa hanno rischiato di finire nel rogo delle procedure di scarto periodico alcuni delicati documenti riservati contenuti negli incartamenti del processo del 1967 contro Scalfari e Jannuzzi, quando fecero esplodere sull’Espresso lo scandalo Sifar e il caso del “piano Solo” del generale De Lorenzo, il primo di una lunga serie di sussulti golpisti: secondo il protocollo standard, infatti, solo la Corte d’Assise conserva i fascicoli interi. Ma l’eccezionale complessità delle pagine criminali della storia dell’Italia repubblicana esige che alle carte in cui lacrime e sangue di quella storia sono racchiuse sia riservata un’attenzione particolare: non si può continuare a confidare solo nella coscienziosità e buona volontà di singoli archivisti o cancellieri illuminati.
Si ripropone ancora una volta, insomma, l’annoso problema degli archivi italiani, parte organica di un patrimonio storico-artistico più che mai bisognoso di tutele, a dispetto della crisi. Come chiarisce Michele Di Sivo, che per l’Archivio di Roma cura il versamento delle carte dei processi per terrorismo ed eversione celebrati a partire dalla fine degli anni Sessanta, i problemi di spazio, inventariazione, conservazione (l’obiettivo a tendere è una completa digitalizzazione dei fascicoli, come s’è fatto già fatto con i processi di Milano e Catanzaro per la strage di piazza Fontana) si saldano alle gravi criticità della gestione ordinaria dell’immenso patrimonio archivistico della storia d’Italia. Si parla di oltre duemila chilometri di carte: due volte la lunghezza della Penisola. Le sedi degli archivi di Stato non hanno più spazio, perché la mole dei documenti, nel Novecento, è cresciuta di pari passo con l’espandersi della burocrazia statale; l’esigenza emersa, non solo a Roma, di un versamento anticipato delle carte dei tribunali per salvaguardarle dal deperimento non fa che rendere più urgente il problema. Gli antichi palazzi in cui dimorano spesso non sono più adeguati a garantire condizioni ottimali di conservazione. E comincia a porsi un problema serio di personale: l’età media degli archivisti ormai è elevata (la media è circa 58 anni), mancano le risorse per assumerne di giovani e trasmettere loro le conoscenze sul campo, oltre che per dotarsi di competenze adeguate ad affrontare le nuove sfide poste dall’archiviazione nell’era digitale.
La crisi morde e le risorse, è noto, scarseggiano. Che fare, dunque, per uscire da un perenne stato d’emergenza e scongiurare danni irrimediabili? Serve una politica culturale coraggiosa. Serve una strategia di tutela dei beni culturali — beni comuni, ricordiamolo — che, accanto al taglio dei costi, si preoccupi del costo dei tagli, ed elabori piani per garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la valorizzazione degli archivi. Una proposta concreta è stata portata ieri al tavolo del ministro Bray da alcuni rappresentanti della “Rete degli archivi per non dimenticare”, che comprende sessanta soggetti, tra archivi di Stato e centri di documentazioni privati (capofila quello creato dall’ex senatore Flamigni), artefici di una prima mappatura dei fondi documentali rilevanti per la ricostruzione della storia dei terrorismi e della criminalità organizzata. Ad oggi, quasi 19 milioni di euro, pari ai 4/5 del budget risicato della Direzione archivi, servono a pagare gli affitti delle sedi storiche. Un costo che potrebbe essere abbattuto trasferendo gli archivi in sedi demaniali. Le ex caserme militari, per esempio: come denunciava ieri su queste pagine Salvatore Settis, in larga parte dismessi, abbandonati al degrado oppure oggetto di discussi e discutibili piani di alienazione. Gli ampi spazi di questi edifici, opportunamente attrezzati, potrebbero garantire alle carte in cui è iscritta la nostra storia collettiva una casa adeguata. Nel corso della discussione per la legge di stabilità, il deputato Pd Paolo Bolognesi (già presidente dell’associazione vittime della strage di Bologna), ha presentato un ordine del giorno, approvato dal governo, per assegnare parte delle risorse destinate agli investimenti in favore dei beni culturali proprio alla riqualificazione delle ex caserme dismesse, oggetto di accordo interistituzionale per il loro utilizzo come nuove sedi degli archivi di Stato, in primis quelli che già “scoppiano”. Uno spiraglio, insomma, è aperto. Certo, servono risorse per la ristrutturazione, il trasloco: soldi da spendere mentre ancora ci sono gli affitti da pagare. Tuttavia si tratterebbe di un investimento circoscritto e limitato nel tempo. In cambio, oltre ad assicurarsi una sede pienamente adeguata, senza più canone di locazione si liberano nel tempo ingenti risorse da destinare ad altri scopi. Tra cui, l’investimento sul personale, sulla tutela e valorizzazione delle carte. L’archivio di Roma potrebbe essere l’esperienza pilota. Oggi spende un milione d’affitto l’anno per la sede succursale di via Galla Placidia. Una sede alternativa è già stata individuata, l’ex caserma del Trullo. Bisogna quantificare i costi e avviare il processo. Ci vuole un impulso politico chiaro, per passare alla fase operativa.
Il ministro Bray auspica la creazione di una sorta di commissione scientifica per un’ampia mappatura delle fonti, non solo giudiziarie, rilevanti per lo studio della storia repubblicana. Pare altrettanto auspicabile che si crei anche un tavolo attorno a cui possano confrontarsi i ministeri e le amministrazioni interessate: accanto al Mibact, Difesa, Giustizia e Infrastrutture, come sottolinea Rossana Rummo, a capo della Direzione generale per gli archivi. In casi come questi, l’inerzia è esiziale. Si può fare molto, anche con poche risorse, con l’intelligenza e una forte volontà. Invece di disperdere denaro tamponando le emergenze, aprire una strada. Avviare un processo, magari lento e graduale, ma capace gettare le basi per uno sviluppo sostenibile e una vera valorizzazione degli archivi.

La Repubblica 23.01.14