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"L’ultima chance anche per Letta", di Marcello Sorgi

Il caos che ieri ha accompagnato la presentazione del testo della riforma elettorale non deve necessariamente impressionare. Era prevedibile e in qualche modo logico che una legge nata da un accordo che avrebbe dovuto cancellare, e solo successivamente s’è risolto a ridimensionare, i partiti minori, generasse una reazione così forte degli stessi.
Il fronte del No che ha accolto con una levata di scudi l’inizio dell’iter parlamentare della riforma si presenta pertanto variegato, ma anche accomunato dallo spirito di sopravvivenza. Questo, e solo questo, ha potuto riunire Monti e Casini, ormai separati da tempo, con Bossi e Vendola, due leader che a malapena si salutano quando si incontrano alla Camera. Che poi l’inedita alleanza possa attirare nelle sue file, come qualcuno si spinge a dire nei corridoi di Montecitorio, anche D’Alema e la minoranza dalemian-bersanian-cuperliana del Pd e il Nuovo centrodestra di Alfano, è tutto da vedere. Sarebbe una sorpresa non di poco conto, per una ragione molto semplice: mentre infatti il primo gruppo di oppositori appartiene alla schiera di quelli che sono stati colti di sorpresa dall’accordo tra Renzi e Berlusconi, il secondo fa parte di diritto dei partiti che hanno partecipato alla trattativa e siglato l’accordo.

Per tutti era fin troppo chiaro che l’intesa siglata tra il leader del maggior partito di governo e quello del maggior partito d’opposizione aveva come primo obiettivo sbloccare il percorso riformatore dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum; e come secondo, dare al governo una prospettiva meno incerta di quella attuale e un orizzonte di almeno un anno per poter lavorare in tranquillità. La prima e la seconda parte dell’accordo sono state esplicite, pubbliche e trasparenti fin dal primo momento. Berlusconi non aveva ancora girato l’angolo della sede del Pd al Nazareno, sabato scorso, che Renzi le illustrava soddisfatto in una conferenza stampa.

Se quelle a cui si è assistito ieri per l’intera giornata non fossero ragionevoli difficoltà da affrontare e risolvere, senza stravolgere l’impianto della riforma, e dovessero invece rivelarsi come fuoco di sbarramento o come inizio di una manovra ostruzionistica, simili a quelle a cui si assistette al Senato nell’ultima parte della precedente legislatura e nella prima parte di questa, le conseguenze diventerebbero gravi. Perché, è evidente, se vacilla o s’impantana la prima parte dell’accordo, cade immediatamente anche la seconda, come Renzi ha ripetuto dal primo momento. E l’obiettivo del premier Letta di chiudere rapidamente la trattativa sul patto di governo e andare al più presto a illustrarlo in Europa andrebbe necessariamente incontro a forti difficoltà.

L’idea che il Parlamento non possa introdurre alcuna modifica a un testo blindato, ovviamente, è irreale. Ma lo è altrettanto l’ipotesi di smontare pezzo per pezzo il nuovo sistema elettorale a colpi di emendamenti votati da maggioranze parlamentari occasionali e trasversali, che finirebbero per snaturarne l’impianto. Il quale impianto, lo hanno detto espressamente i due maggiori contraenti dell’accordo, punta a ricostruire il bipolarismo messo in crisi dagli ultimi risultati elettorali e dall’irruzione in Parlamento del Movimento 5 Stelle. In nome di quest’obiettivo ognuno ha ottenuto e ha dovuto rinunciare a qualcosa: Berlusconi ha accettato il doppio turno, che non gli era mai piaciuto, e ha avuto l’innalzamento della soglia di sbarramento al 5 per cento. Renzi ha messo da parte le preferenze, ma ha portato a casa il sì, non solo alla riforma elettorale, ma anche a quelle istituzionali. Alfano ha incassato la cancellazione del sistema spagnolo, che tendeva a ridurre il quadro a due soli partiti, e insieme a Letta ha ricevuto assicurazioni sulle prospettive del governo.

Dubbi, riserve, mugugni sono emersi un po’ da tutte le parti, e principalmente nel Pd, come s’è visto a conclusione della direzione terminata con le dimissioni del presidente Gianni Cuperlo. Ma da qui a rimettere in discussione la riforma, ce ne corre. Ci sono tutti gli elementi per chiarire, approfondire, limare, senza cercare di capovolgerlo, un testo di legge che non riguarda solo la materia elettorale, ma anche un’occasione, forse l’ultima, di uscire dall’inerzia di una transizione infinita a cui l’Italia è condannata da vent’anni.

La Stampa 23.01.14

"Per non dimenticare i giorni dell’orrore", di Patrick Fogli

Anticipiamo un capitolo del libro di Patrick Fogli «Dovrei essere fumo». La storia di Emile, giovane ebreo nato a Parigi, e quella di Alberto ex agente dei servizi segreti, si incrociano del tutto casualmente.
Sono nato il 25 luglio del 1921, mi chiamo Emile Riemann e sono ebreo. Ebrei mio padre e mia madre, ebrei i loro genitori e così indietro per chissà quante generazioni. Sono nato a Parigi e sono francese, mia madre era italiana e i genitori dei miei nonni erano emigrati molti anni prima dalla Galizia, una regione a metà fra Polonia e Russia, finita nell’impero austroungarico e poi di nuovo alla Polonia. Oggi, per quanto ne so, una metà dovrebbe essere Ucraina.
Tutto questo per dire che la mia nazionalità è un accidente della storia, come in fondo, anche la mia vita. Italiano e francese sono le mie lingue madre, non le uniche che conosco, e tutto il mescolarsi di vocaboli diversi che ha attraversato la mia giovinezza mi ha consentito, in qualche modo, di poter sopravvivere. Nulla si crea, tutto si trasforma, ne sono la prova vivente.
Abitavo con i miei genitori, avevamo una bella casa e abbastanza soldi per garantirci una vita tranquilla. Mio padre gestiva l’impresa di famiglia, una fabbrica di scarpe ereditata da suo nonno e piuttosto conosciuta a quei tempi, mia madre si occupava di me e di mio fratello François, più piccolo di dieci anni. Non ricordo con esattezza quando cominciammo ad avere paura e, se ci ripenso, mi viene ancora più difficile ricordarlo. Sotto forme diverse, la paura è stata una compagna fedele di tutta la mia vita, ma se devo mettere un punto di inizio alla storia che ti sto raccontando, allora è la fine del 1939.
Avevo diciassette anni e studiavo in un collegio di Parigi, lo stesso che aveva ospitato mio padre e suo padre prima di lui. Tre pomeriggi alla settimana il signor Rivière veniva a casa nostra per darmi lezione di tedesco e inglese. Due lingue che odiavo, con la feroce costanza con cui a quell’età si può odiare tutto ciò che ti distrae dalle cose che vuoi fare davvero.
Un pomeriggio il mio precettore mancò all’appuntamento.
Mia madre spiegò che non sarebbe più venuto, aveva dei problemi di famiglia e avrebbero cercato un sostituto. Capii che mi aveva mentito quando se ne andò anche Claudette, la governante che lavorava da noi da prima che nascessi. Mancavano pochi giorni alla fine dell’anno e festeggiare era solo un modo semplice per immaginare che il mondo camminasse ancora sulla stessa strada.
La guerra era cominciata a settembre, ancora non era chiaro che piega avrebbe preso. O almeno non era chiaro per me. Hitler aveva conquistato la Polonia in poco tempo, l’Austria era già stata annessa da un anno e così la Cecoslovacchia. Noi eravamo rimasti a guardare, la Francia, il più grande esercito del mondo, e non riuscivo a spiegarmi il motivo. Pensavo comunque che la nostra forza militare ci tenesse al sicuro, lontani dai nazisti e da tutto quello che si raccontava stesse accadendo agli ebrei nei territori annessi. Sapevamo pochissimo con certezza e potrà sembrare strano oggi, ma allora non c’erano che giornali e radio.
Proprio ora che scrivo, dalla televisione che ho lasciato accesa, sento qualcuno blaterare di censura, un termine che mi fa sorridere, se penso allo stato d’animo di allora. In Germania l’unica voce ammessa era il Partito Nazionalsocialista, le informazioni che arrivavano erano di terza o quarta mano e assumevano spesso, per molti di noi, il tono della leggenda.
Pochi giorni dopo la partenza di Claudette, mio padre mi disse che stava cercando di vendere l’azienda. Con il ricavato saremmo andati in America, al di là dell’oceano, dove la guerra non avrebbe mai potuto raggiungerci. Siamo una famiglia abituata a cambiare nazione, lingue, luogo in cui vivere, mi disse, sapremo ricominciare in un posto nuovo. Dovevamo risparmiare più denaro possibile, il viaggio era lungo e costoso e il ricavato della vendita avrebbe dovuto garantire la nostra esistenza futura. Mi chiese di parlare del progetto con Sara, se lo volevo e lo voleva lei, avrebbe potuto venire con noi insieme a sua madre.
«Dille che non si preoccupi per i soldi» aggiunse e non fece che aumentare la mia confusione. Sara era la mia ragazza. Un fidanzamento annunciato in casa da almeno un anno. La amavo, non c’è altro da dire e forse ti sembrerà strano o crudele, con quello che è accaduto, ma non ho mai smesso.
Viveva con sua madre, suo padre era morto un anno prima, di una brutta polmonite. Non se la passavano male, ma non avrebbero mai potuto affrontare le spese del trasferimento e mio padre lo sapeva.
Prima di parlare con lei, però, chiesi a mia madre le spiegazioni che non potevo chiedere al babbo, anche fornite. Immagino che il mio sguardo rivelasse alla perfezione lo stato d’animo, mia madre mi venne incontro chiedendomi se mi sentivo male.
«Ho parlato con papà» dissi soltanto e lei mi invitò a sedermi sul divano.
«Tuo padre pensa che arriveranno tempi molto tristi» disse. «La guerra potrebbe arrivare fino a noi. E sarebbe una disgrazia insuperabile.»
Non capivo, cercai di spiegarle che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a battere il nostro esercito, ma lei mi interruppe.
«Sai quello che si dice in giro su quello che accade in Germania, non è vero? Sono voci, notizie confuse, ma tuo padre non vuole correre il rischio che siano vere. Quando finirà la guerra, ritorneremo a Parigi, se lo vorremo ancora. Tutti insieme. Io, tuo padre, tuo fratello, tu, Sara e i vostri figli, se ne avrete avuti.»
Ero disorientato, stranito, non sapevo cosa pensare.
Uscii di casa veloce come un gatto e andai da Sara. Le dissi del progetto di mio padre, di quello che mi aveva detto, parlai con sua madre, cercai di non offendere il suo orgoglio, di fare in modo che la nostra offerta non sembrasse carità, ma un aiuto a tempo determinato che ci avrebbe restituito col tempo, quando avrebbe potuto. Alla fine accettò, aveva appena vissuto un’altra guerra, erano rimaste sole.

L’Unità 23.01.14

"Avrei preferenza di no", di Massimo Gramellini

Vent’anni fa, la parola «preferenza» era impronunciabile tra persone perbene: sapeva di cosche, cordate e clientele. Veniva agitato come babau un certo Vito che a Napoli ne aveva raccolte oltre centomila. Craxi le amava, dunque rappresentavano il male assoluto. Il referendum Segni le rase al suolo, lasciandone una sola, orfanella senza speranza, presto immolata sull’altare dei collegi maggioritari, dove spesso i partiti catapultavano chi pareva loro: ho visto con i miei occhi il romano Adornato deambulare stranito tra le maioliche umbre e il siculo inappetente Ayala catechizzare all’ora di pranzo sui temi della legalità una platea di stremati camionisti romagnoli in astinenza da tagliatella. Poi arrivò il porcello, con le sue lunghe liste bloccate, rispetto a cui i microelenchi previsti dal nuovo porcellino sono pressoché uno splendore. E d’improvviso la preferenza cambiò segno. Non più trappola per allocchi e sentina di ogni vizio, ma avamposto dei veri democratici contro le oligarchie dei partiti.

Rimango legato ai pregiudizi di gioventù. Come direbbe il Bartleby di Hermann Melville nella traduzione di Celati: «Avrei preferenza di no». La fioritura di preferenze mi richiama alla mente il preferitissimo Fiorito. Perciò preferirei di gran lunga che anche nella scelta degli onorevoli candidati si introducessero per legge le primarie. E, già che ci siamo, che non venissero allestite di nascosto alla vigilia di Capodanno, come capitava quando al timone del Pd c’erano gli offesi di oggi, furbetti di ieri.

La Stampa 22.01.14

"Il nichilismo di Grillo che opprime i Cinquestelle", di Claudio Sardo

Siamo a un passaggio cruciale della legislatura, forse all’inizio di un nuovo ciclo politico. E la sola preoccupazione di Beppe Grillo è evitare che i parlamentari Cinquestelle tocchino la palla, che incidano magari indirettamente sulla riforma elettorale e su quelle istituzionali. Come al solito si barrica dietro la violenza verbale, alterna proposte (si voti con il Porcellum, anzi no con il Mattarellum, anzi no con il proporzionale) al solo scopo di evitare che siano efficaci, rifiuta a priori di partecipare a qualunque negoziato sperando che tutto precipiti, che il sistema collassi, che l’Italia sprofondi più di quanto faccia già.

Stavolta però si avverte un disagio tra i suoi sostenitori, Marco Travaglio compreso. Deputati e senatori del Movimento cominciano a soffrire l’oppressione del nichilismo. C’è un conflitto esistenziale tra i giovani parlamentari e la coppia Grillo-Casaleggio. La ragione politica di questi ultimi è prosperare nello sfascio, mentre i parlamentari vorrebbero cambiare qualcosa, entrare in partita per modificare l’inerzia degli eventi: sono, in gran parte, espressione di quella fetta di elettorato che ha votato Grillo sperando che potesse agire per un cambiamento e non solo provocare una demolizione. Ovviamente, il M5S ha ottenuto un successo clamoroso alle elezioni del 2013 perché è riuscita a rappresentare istanze tra loro diverse e a comporle in una protesta radicale. Il rifiuto totale e il rancore sorretto da una sfiducia irriducibile compongono anch’esse la complessa miscela del consenso grillino. E Grillo fa leva sugli impulsi più distruttivi per giustificare la propria autoesclusione. In un video disponibile nel suo blog, Grillo spiega ai suoi senatori che la cosa più importante è «non farsi riprendere insieme agli altri politici», è evitare che il M5S sia considerato un partito, benché all’opposizione.

Grillo e Casaleggio hanno adottato questa linea dal primo giorno della legislatura. E hanno beneficiato della benevolenza di quegli opinionisti che tutto subordinavano alla sconfitta del Pd. Avrebbero potuto dare un indirizzo diverso alla legislatura. Anche solo per ragioni tattiche avrebbero potuto consentire (e poi condizionare) un governo di minoranza del Pd. Ma hanno chiuso le porte a Bersani. Avrebbero potuto, nel secondo giro di consultazioni, prima delle presidenziali, avanzare una rosa di nomi e mettere alle strette il Pd. Ma si sono ben guardati dal farlo. La linea era ferrea ed è stata imposta pagando anche il prezzo di qualche espulsione: Grillo e Casaleggio volevano che un governo con il partito di Berlusconi perché pensavano così di svuotare il Pd.

La partita del Quirinale è stata giocata con questo cinismo. Hanno lanciato Rodotà, rifiutando però qualunque dialogo, qualunque incontro con il Pd. Volevano spaccare i democratici: a Grillo del presidente della Repubblica non fregava assolutamente nulla. Purtroppo il Pd ci ha messo del suo per affondare nel fango. E i padroni del M5S hanno esultato, pensando così di avere campo libero all’opposizione e dare a questa il carattere di un’opposizione di sistema. Casaleggio scommetteva sulle elezioni a fine 2013 o al massimo nella primavera del 2014 (si sa che è un veggente, avendo già previsto per il 2043 la vittoria di Internet nella guerra mondiale contro gli Stati, e dunque la fine di ogni partito, di ogni corpo sociale, di ogni religione).

Grillo ha fin qui contenuto la frustrazione dei suoi parlamentari, costretti all’Aventino dell’irrilevanza, assicurando la fine imminente della legislatura e la resa definitiva di Pd e Forza Italia. Da quando la segreteria del Pd è stata conquistata da Renzi, ha spostato i riflettori sulle elezioni europee, avviando una campagna di tipo lepenista. Ma ora in Italia si è aperto un confronto su un nuovo sistema politico. Si può sostenere, con buone ragioni, che la vittoria di Renzi sia anche figlia del successo di Grillo e della sconfitta inferta al gruppo dirigente della sinistra. Si può sostenere, come adesso fa Grillo, che gli eccessi tattici di Renzi abbiano riabilitato più del necessario Berlusconi. Ma il merito del cambiamento in atto non si può eludere, e i grillini non hanno scuse per fuggire.

La proposta elettorale ha gravi difetti: Grillo lavorerà per migliorarla o vuole la peggiore legge possibile? È disposto a battersi per alcuni emendamenti o spera di nascondersi e scomparire? A questo domande, che gli pongono pure i fedelissimi, dovrà rispondere. L’impressione è che la stagione stia cambiando anche per lui. Stavolta non gli basterà inneggiare alla distruzione globale per salvare la faccia. E pensare che la pattuglia a Cinquestelle potrebbe persino avere un ruolo per emendare la proposta di compromesso. Alcune modifiche sono una necessità democratica: i cittadini devono poter scegliere i loro deputati, la soglia per accedere al doppio turno è troppo alta, lo sbarramento per chi è coalizzato non può essere inferiore a quello di chi non è coalizzato. Se Grillo terrà i suoi chiusi nel bunker non potrà dire che la brutta legge è colpa degli altri. Renzi gli aveva aperto la porta, e lui l’ha richiusa sdegnosamente. Se in Parlamento finge di fare casino per non fare nulla, quello che poi chiamerà Porcellinum sarà anche figlio suo.

L’Unità 22.01.14

"Meglio liste bloccate che finte preferenze", di Paolo Natale

L’impossibilità di esprimere una preferenza sul candidato come prevede l’Italicum apre un eterno dilemma. Ma l’accusa di “controllo” che grava sulla proposta di Renzi non regge. A giudicare dai dati forniti da Ipsos nella puntata di ieri sera, 21 gennaio, di Ballarò, la stragrande maggioranza degli italiani (quasi il 70 per cento) giudica in modo positivo l’incontro avvenuto tra Renzi e Berlusconi per discutere sulla nuova legge elettorale. E l’unico elettorato critico – almeno per la metà tra loro – appare, come ci si poteva aspettare, quello del Movimento 5 stelle. La stessa riforma del voto viene sostanzialmente giudicata positivamente, con un unico elemento non molto gradito, quello della impossibilità di esprimere una propria preferenza sul candidato da eleggere.

Eterno dilemma, quest’ultimo. Ricordiamo tutti come la preferenza plurima fosse stata cancellata a furor di popolo con il referendum del 1991, per poi venir abolita del tutto al proporzionale con il Mattarellum, con grande soddisfazione generale.

In quegli anni la sensibilità comune era dunque contraria alla facoltà di esprimere il voto anche per un candidato, tanto che l’allora Pds, e poi i Ds, e infine lo stesso Bersani per il Pd non sono mai sembrati mai particolarmente d’accordo con il suo re-inserimento.

Ragioni pro e contro si sono spesso intrecciate tra loro, indipendentemente dalle diverse aree politiche. I contrari sostengono che le preferenze si allaccino al controllo, da parte dei potentati locali, delle scelte degli elettori; oppure che in questo modo si dia la possibilità di ritornare al vecchio “voto di scambio”, spesso presente nelle aree meridionali, tanto che nelle regionali il sud ha un tasso di preferenza intorno all’ottanta per cento, contro il 25 del nord.

I favorevoli ribadiscono che il parlamento non debba essere formato da nominati, controllati costantemente dai vertici del partito, ma che va dato spazio all’elettore di scegliere liberamente chi lo rappresenterà.

Tutte le tesi sono egualmente condivisibili, ovviamente. Esistono pericoli da una parte e dall’altra. Ma in queste ore c’è una parte considerevole dell’opinione pubblica decisamente contraria alle liste bloccate, per le motivazione che dicevo poc’anzi, in relazione al potenziale “controllo” da parte dei vertici dei partiti sui propri futuri eletti. Ma con questa legge funziona davvero così?

Il cosiddetto Italicum proposto da Renzi ipotizza circoscrizioni relativamente piccole, con un numero massimo di candidati da eleggere intorno ai 4-5 per area di voto. Se un partito volesse controllare l’esito delle urne, non avrebbe la minima difficoltà a presentare in ognuna delle circoscrizioni personaggi a lui graditi, permettendo pure che, con il voto di preferenza, i cittadini si sentano liberi di scegliere (ma si tratterebbe comunque di una scelta molto limitata, tra candidati sicuramente vicini al partito).

Se le candidature emergessero invece dalle primarie, il controllo dei vincitori di queste primarie sarebbe al contrario molto più difficoltoso. Se in una certa provincia si presentasse un candidato inviso ai vertici di partito, ma ben visto dalla base elettorale, non avrebbe alcuna difficoltà a vincere e ad entrare tranquillamente in parlamento. E una volta eletto potrebbe facilmente comportarsi in maniera differente, nel caso, da quanto richiesto dalla disciplina di partito.

Dunque, se l’accusa a Renzi fosse proprio questa, quella dell’eventuale “controllo” sugli eletti, sarebbe per lui molto più semplice “sbloccare” le liste, ma a candidati a lui vicini, piuttosto che prevedere liste bloccate con candidati usciti da libere primarie.

E allora: perché tanto chiasso?

da Europa Quotidiano 22.01.14

Alluvione, deputati Pd “Sospendere ogni adempimento fiscale”

I deputati modenesi del Pd hanno presentato un’interrogazione al ministro Saccomanni. Sospendere ogni adempimento fiscale, contributivo, assicurativo e relativo ai mutui nelle aree colpite dall’alluvione: è quanto chiedono i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti in una interrogazione al ministro dell’Economia e delle Finanze presentata nella tarda mattinata di oggi. La necessità di attivare tempestivamente gli ammortizzatori sociali e assicurare l’indennizzo dei danni subiti saranno oggetto di specifiche interrogazioni al ministro del Lavoro e a quello dello Sviluppo economico.

La richiesta è già arrivata sul tavolo del ministro Saccomanni: sospendere ogni adempimento fiscale, contributivo, assicurativo e relativo ai mutui nelle aree colpite dall’alluvione. E’ quanto chiedono i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti in una interrogazione presentata, nella tarda mattinata di oggi, al ministro dell’Economia e delle Finanze. Nel testo i parlamentari ripercorrono le vicende che da domenica 19 gennaio hanno di nuovo gettato nell’incertezza e nella paura Comuni che erano già stati colpiti dal terremoto del 2012. Preso atto, poi, del fatto che, già dai prossimi giorni, incombono diverse scadenze fiscale a cui famiglie e imprese alluvionate non potranno materialmente far fronte, i deputati Pd chiedono un immediato intervento del Ministero: “Nell’attesa di poter stimare un bilancio dei danni alle strutture pubbliche e private, alle abitazioni e alle imprese – si ribadisce nel testo dell’interrogazione – risulta ora dirimente sospendere ogni adempimento di ordine fiscale e burocratico, nonché i mutui, in scadenza”. Naturalmente in accordo con Regione, Provincia e Comuni e almeno fino a quando non sarà ripristinata una condizione di accettabile normalità per famiglie e imprese del territorio. “La priorità, mentre ancora è in corso la gestione dell’emergenza, è dare certezza a cittadini e imprese rispetto ad adempimenti che possono e debbono aspettare, a partire dalle scadenze fiscali e burocratiche. Abbiamo pertanto raccolto il sacrosanto appello di associazioni e sindacati – dicono Baruffi, Galli, Ghizzoni, Patriarca, Pini e Richetti – Faremo altrettanto per quanto concerne la vita di imprese e lavoro: occorre attivare tempestivamente tutti gli ammortizzatori sociali per tutelare occupazione e produzione, nonché assicurare alle aziende produttive, agricole, commerciali e di servizio che i danni a macchinari e impianti, produzioni e scorte saranno equamente indennizzati. Interrogheremo su questo sia il Ministro del Lavoro sia quello dello Sviluppo economico”.

"Se si evitano gli estremismi", di Tommaso Nannicini

Nel commentare un compromesso politico, come quello raggiunto tra Renzi e Berlusconi sulle riforme istituzionali e poi ratificato dalla direzione nazionale del Pd, ci sono due errori da evitare. Il primo è quello di paragonare il risultato a qualche sistema ideale che non ha nessuna possibilità di essere approvato, dati i rapporti di forza in campo. Il secondo è quello di sostenere che non si può criticare il compromesso perché è l’unico ipotizzabile. Per la serie, mangia la minestra o salta dalla finestra. Entrambi gli estremismi sono fuorvianti.

Come valutare, allora, il compromesso raggiunto intorno a un sistema proporzionale con premio di maggioranza a due turni e clausole di sbarramento abbastanza alte (5% per i partiti coalizzati e 8% per quelli che corrono da soli)? In attesa di conoscere la traduzione dell’accordo in legge, si può azzardare una valutazione rispetto a quattro obiettivi: 1) affiancare alla riforma elettorale una semplificazione del quadro istituzionale che ne aumenti l’efficienza; 2) garantire una maggioranza certa; 3) ridurre la frammentazione; 4) migliorare la selezione dei politici.

Anche se esistevano sistemi più collaudati e coerenti per raggiungere questi obiettivi, il compro- messo appare accettabile. È di gran lunga migliore sia del Porcellum sia dello status quo creato dalla sentenza della Corte Costituzionale. Se si supererà il bicameralismo paritario e il Senato elettivo, e se si semplificherà il federalismo regionale archiviando la competenza concorrente su alcune materie, le nostre istituzioni ne guadagneranno in efficienza.

Rispetto all’obiettivo della governabilità, il premio di maggioranza garantirà una maggioranza certa dopo il voto (eventualmente, dopo un secondo turno tra le prime due coalizioni qualora nessuna superi il 35% al primo). Certo, la soglia individuata per far scattare il premio appare bassa, sia rispetto alla sentenza della Corte sia rispetto alla logica di un sistema che prevede il doppio turno. Il 40%, a prima vista, è una scelta più coerente. Ma Renzi e Berlusconi hanno tutto l’interesse a difendere il 35%, perché gli fornisce un’arma in più qualora i piccoli partiti si mostrassero troppo esosi nelle loro richieste per coalizzarsi. Potrebbero sempre dirgli: attenzione, con una soglia così bassa avremmo qualche possibilità di vittoria anche senza di voi.

Rispetto all’obiettivo di ridurre la frammentazione, si è abbandonata l’ipotesi di usare piccoli collegi alla spagnola per ripartire i seggi tra i partiti. Il riparto avverrà a livello nazionale. Questa parte dell’accordo era l’unico modo per tenere in gioco il Nuovo Centro destra e salvaguardare la tenuta del governo. I partiti medio-piccoli tirano un sospiro di sollievo grazie ad Alfano. Gli effetti proporzionali del riparto nazionale, tuttavia, sono attenutati dalle clausole di sbarramento. Se non si tornerà indietro rispetto al 5% e all’8%, la frammentazione sarà ridotta ugualmente, con un numero di partiti rappresentati in Parlamento che credibilmente oscillerà tra 3 a 6. Anche se le forze minori manterranno un qual-he potere d’interdizione per entrare in coalizione.

Il quarto obiettivo, quello di migliorare la selezione dei politici, è il punto meno convincente. Ma qui si può ancora fare meglio, senza mettere in discussione la filosofia del compromesso. Renzi ha insistito molto sulla vicinanza, non solo linguistica, tra collegi uninominali e plurinominali. Ma i 118 collegi di cui si parla per eleggere 630 deputati tanto piccoli non sono: in media, gli elettori si troveranno 5 o 6 nomi in lista, anche di più nei collegi maggiori. E i nominati nelle prime posizioni passeranno indipendentemente dalle scelte degli elettori. Le primarie per legge sono solo un diversivo: l’esperienza della Toscana dimostra che non sono la panacea. Adesso che l’ampiezza dei collegi non è più determinante per ripartire i seggi tra i partiti, si può fare di più. Serve uno scatto di fantasia «geografica» per disegnare almeno 160 collegi plurinominali (con candidati facilmente individuabili sul territorio) e molta trasparenza nel congegnare il meccanismo con cui i candidati vengono eletti all’interno di ogni partito. Lo so: argomenti potenzialmente soporiferi, ma su cui occorre vigilare.

C’è un ultimo elemento politico, infine, da ricordare. Se l’accordo sulle riforme reggerà, i destini del Pd e del governo saranno ancora più intrecciati. Difficile, per il Pd, risultare credibile di fronte agli elettori se il governo non porterà a casa niente nel pros- simo anno. Su questo punto, non ci sono dubbi che Renzi e Berlusconi dovranno fare scommesse di segno opposto.

L’Unità 22.01.14