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"Sì del Senato abolito il reato di clandestinità", da repubblica.it

Il ministro Kyenge: atto di civiltà Carroccio in rivolta: sarà un inferno Votazione senza storia, e nel contempo storica, al Senato: 182 sì, 16 no, 7 astenuti. Così sparisce il reato di immigrazione clandestina. L’aveva voluto Berlusconi, alleato della Lega nel 2008, e con Maroni ministro dell’Interno. Lo spazza via, dopo un travaglio durato giorni e giorni, la maggioranza del governo Letta. «Indice di civiltà e di rispetto della diversità» commenta subito il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge, ma si astiene il dem Luigi Manconi, in segno di «discontinuità» rispetto alle politiche seguite fino a oggi in cui domina comunque l’impostazione della destra. L’associazione Antigone, in prima linea nella difesa dei diritti dei detenuti, sollecita «ad avere più coraggio».
Ma nel Pd parla di «una prima battaglia vinta» Khalid Chouki, il deputato che a Natale si è rinchiuso volontariamente nel Cie di Lampedusa. Il Pd considera questo voto una vittoria. La rivendica il capogruppo al Senato Luigi Zanda e ne parla come «di un’ottima notizia di civiltà per il nostro Paese».
Il relatore Felice Casson plaude al fatto che «si sia posto rimedio allo sconcio giuridico e politico di un reato che sortiva solo il risultato di intasare gli uffici della polizia e delle procure». Solo per una coincidenza, proprio ieri, il ministro degli Esteri Emma Bonino mette in guardia dal rischio che tra «milioni di rifugiati trovino facile nascondiglio tutta una serie di altri signori, le cellule dormienti (del terrorismo, ndr) che sono una questione europea ».
Prima di vedere le irate reazioni della destra, bisogna capire bene che cosa succede per chi entra da clandestino in Italia. Si può citare quanto ha detto in aula Cosimo Ferri, il sottosegretario alla Giustizia, toga di Magistratura indipendente prestata alla politica per i berlusconiani, rimasta in via Arenula nella sua veste di tecnico. «Si è voluto precisare, in maniera chiara ed univoca, che viene abrogato il reato di immigrazione clandestina che viene trasformato in un illecito amministrativo». Che succede in concreto? Sempre Ferri: «Chi entra per la prima volta irregolarmente in Italia non verrà sottoposto a un processo penale e non verrà punito come colpevole di un reato, ma sarà espulso e se dovesse rientrare allora sì commetterebbe un reato».
Ovviamente la destra è furibonda. “Si è imboccata la strada dell’inferno” commentano dalla Lega. L’ex ministro del Carroccio Roberto Calderoli grida allo scandalo, dice che «è un vero e proprio crimine contro l’umanità », l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno parla di «espulsioni divenute impossibili », il forzista Maurizio Gasparri di una cancellazione «che incoraggia i trafficanti». La destra non solo ha votato contro l’abolizione del reato, ma si è astenuta sul provvedimento che delega il governo a riscrivere il sistema delle pene in Italia prevedendo l’obbligo dei domiciliari per reati fino a tre anni, e la scelta del giudice per quelli tra 3 e 5 anni.
Vota a favore solo il presidente della commissione Giustizia, il forzista Nitto Palma, perché nel ddl ci sarebbero «quattro o cinque misure» proposte dal suo gruppo. Un ddl complesso che introduce anche l’istituto della “messa in prova”, niente processo in cambio di lavori di pubblica utilità, come già avviene per i minori. Dice Casson: «Un provvedimento storico, atteso da decenni».

da repubblica.it

"Questa emergenza deve essere percepita nella sua reale gravità", di Manuela Ghizzoni

Traccia dell’intervento di Manuela Ghizzoni in aula di Montecitorio per illustrare la situazione sull’alluvione nella provincia di Modena
Signor presidente,
Intervengo per rappresentare all’assemblea la situazione drammatica vissuta in queste ore dalla bassa modenese a causa dell’inondazione che da domenica ha messo nuovamente in ginocchio alcuni dei comuni già colpiti, solo 20 mesi fa, da un forte sisma.
La rottura dell’argine del Secchia, domenica mattina, ha trasformato la ricca e fertile pianura modenese in un estesissimo lago, con una lughezza di oltre 20 km. Dopo le ripetute e violente scosse, è arriva l’acqua a portare nuova distruzione e morte.
C’è infatti ancora un disperso: Giuseppe Salvioli. Lo slancio nei soccorsi, nella notte di domenica, gli è stato fatale. A lui e alla sua famiglia esprimiamo la nostra vicinanza.
Le conseguenze dell’inondazione sono gravissime: i comuni di Bastiglia e Bomporto sono stati completamente allagati e allagamenti hanno interessato ampie zone dei comuni di Modena, San Prospero, Medolla, Camposanto, con evidenti danni al patrimonio residenziale, alle strutture pubbliche e alle attività produttive, commerciali e di servizio.
Sono diverse migliaia le persone che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni, sono 3000 gli ettari di terreno agricolo inondati e quindi le colture seminative sono andate distrutte, 200 le aziende agricole seriamente danneggiate mentre nei caseifici è stata sospesa la produzione di parmiggiano reggiano. Sono poco meno di 2000 le aziende medie e piccole allagate, con le scorte deteriorate e i macchinari danneggiati.
Sono 2500 gli addetti sospesi dal lavoro ma in realtà la stima più vicina al reale parlano di 5000.
Questa é la situazione, oggi, del modenese, e credo di interpretare un sentimento diffuso tra i nostri concittadini, nell’affermare che a questa nuova devastazione ci pare non sia concessa adeguata informazone. Temiamo che questa nuova emergenza non sia percepita nella sua reale gravità.
Faremo quindi la nostra parte per sostenere la richiesta dello stato di emergenza da parte della Regione Emilia-Romagna, e la accompagneremo con le richieste dello stop delle scadenze fiscali, sia per le famiglie sia per le imprese, dell’adozione di tempestivi ammortizzatori sociali per tutelare i lavoratori e le attività produttive e un adeguato risarcimento per chi ha subito danni. Non possiamo permetterci di perdere un solo posto di lavoro, dopo quelli ceduti per la crisi e per il terremoto.
Aggiungo che quanto accaduto non può essere ascritto alla categoria dell’inevitabile. I fatti modenesi non posso essere affrontati affidandosi al fatalismo. Dobbiamo farlo invece con la politica. Ecco perché chiediamo che la manutenzione del territorio sia posta in cima alle priorità del Governo.
Quanto fatto con la legge di stabilità é un primo passo, ma troppo timido per impostare la necessaria strategia nazionale contro il dissesto idrogeologico e di miglioramento ecologico del territorio. Occorre poi valutare attentamente l’efficacia operativa delle istituzioni deputate ad intervenire nella manutenzione del suolo e dei corsi d’acqua.
Parole, anche in questa Assemblea ne abbiamo pronunciate tante, ora il Paese attende risposte concrete.

www.camera.it

"Caso Stamina una catena di responsabilità", di Mario Calabresi

Quando potremo finalmente guardare alla vicenda Stamina con un po’ di distanza e di freddezza non potremo non chiederci come sia potuto accadere. Come è potuto accadere che un uomo che non aveva alcuna competenza scientifica come Davide Vannoni sia arrivato a far sperimentare un presunto metodo di cura delle più svariate malattie – tutte con la caratteristica di essere considerate praticamente incurabili – in un ospedale pubblico?

Le risposte non potranno essere né semplici né univoche, perché le responsabilità sono molte e diffuse.

Ieri sulle pagine di questo giornale tre professori, tra i più illustri che abbiamo in Italia, hanno duramente polemizzato con la trasmissione televisiva «Le Iene» accusandola di aver fatto del sensazionalismo e di essere stata cassa di risonanza di un inganno. Davide Parenti, ideatore del programma, ha respinto le accuse sottolineando di aver preso a cuore le vicende di un gruppo di famiglie abbandonate a se stesse di fronte alla malattia e senza risposte dallo Stato. Ma soprattutto ha spostato l’oggetto dell’accusa, puntando l’indice su tutte le responsabilità istituzionali che hanno permesso la cosiddetta sperimentazione.

Io penso che Parenti sottovaluti la forza del mezzo che usa e del format che ha inventato: «Le Iene» sono vissute da moltissimi cittadini come un vendicatore di ingiustizie: così nel momento in cui io vedo in tv un bambino gravemente malato e mi si spiega che gli sono state interrotte le cure allora penso immediatamente che tutto ciò sia ingiusto e che chi le ha interrotte sia per lo meno una persona schifosa.

Il problema è interrogarsi sul perché e non lasciarsi prendere dalla rabbia. E questo non significa non avere a cuore i malati, perché il rispetto passa dal coraggio della verità non dal lasciarli in mano ai ciarlatani o ai truffatori. Per questo da settimane a «La Stampa» scaviamo in questa storia cercando di capire come è potuta nascere e crescere senza barriere e freni.

Ma le obiezioni di Parenti mi hanno spinto a rimettere in fila i fatti e a vedere come le responsabilità siano davvero molte e vadano al di là dell’elenco delle persone che sono oggetto dell’inchiesta del procuratore Guariniello. Penso a quelle responsabilità che in questa storia spesso si presentano nella forma di omissioni.

Perché quando una vicenda va così lontano bisogna innanzitutto chiedersi dove siano finiti i meccanismi di controllo che dovrebbero esistere per proteggere i malati e i loro familiari. Primo tra tutti penso al Comitato etico degli Spedali di Brescia, che ha dato il via libera alle infusioni: ma non si sono interrogati sul rapporto rischi-benefici e non è suonato nelle loro teste nessun campanello d’allarme?

Quando poi sia i Nas dei carabinieri che l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) bloccarono la sperimentazione – eravamo a maggio del 2012 – perché il ministero della Sanità e il Parlamento non ebbero il coraggio di andare subito a fondo della questione e di essere conseguenti? Invece la politica mise il suo timbro. Il Senato addirittura, sollecitato dall’attivismo della senatrice Bonfrisco, arrivò a votare all’unanimità un emendamento che prevedeva fosse data la possibilità della sperimentazione a tutti coloro che hanno malattie rare in Italia. Un plebiscito figlio di una deriva emotiva che non è tollerabile da chi ha la responsabilità delle leggi e della tenuta del sistema sanitario. Grazie al cielo l’emendamento venne cancellato da un sussulto di senso di realtà della Camera.

C’è da chiedersi inoltre se l’Istituto superiore di sanità come il Centro nazionale trapianti (chiamato in causa in quanto il metodo Stamina voleva essere presentato come un trapianto che esula quindi dal controllo dell’Aifa) non debbano essere delle sentinelle di ciò che accade nella nostra sanità, con una maggiore indipendenza dalla politica.

Infine c’è il grande punto interrogativo gigantesco relativo ai Tar e ai tribunali del lavoro, decine di giudici che hanno deciso, senza avere competenze specifiche, a chi, in che modo e per quanto tempo l’ospedale di Brescia fosse obbligato a garantire le infusioni.

È su questo terreno, di burocrazie, di teste girate opportunamente dall’altra parte, di viltà e di ignoranza che è potuto proliferare il metodo Stamina. Oggi siamo alle ultime battute dell’inchiesta penale, ma restano danni permanenti alla nostra credibilità, alla tenuta del nostro sistema, alla fiducia reciproca e resta la rabbia di quelle famiglie che pensavano di avere trovato una via di salvezza. Uno Stato forte e credibile è quello che è capace da un lato di cacciare i ciarlatani e di ristabilire la verità, ma che dall’altro si fa carico di quei malati, che a quel punto sono vittime due volte, e nel momento della massima difficoltà gli resta vicino.

La Stampa 21.01.14

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Tre scienziati accusano le Iene: “L’inganno Stamina è anche colpa loro”
Elena Cattaneo, Michele De Luca e Gilberto Corbellini scendono in campo contro la trasmissione di Italia Uno. “Sono degli irresponsabili, hanno fatto dei danni irreparabili”. Tre scienziati accusano le Iene: “L’inganno Stamina è anche colpa loro”
E alla fine arrivò il dito puntato degli scienziati anche contro il programma televisivo che per primo ha dato spazio al metodo Stamina, ora al centro delle indagini dei magistrati di Torino. Elena Cattaneo, Michele De Luca e Gilberto Corbellini scendono in campo contro ‘le Iene’, a cui contestano “gravi colpe” per “avere concorso a costruire, insieme a Vannoni, l”inganno Stamina”, “con una responsabilità morale forse equivalente e con un impatto comunicativo devastante”. Una situazione, spiega la senatrice a vita, con De Luca tra i massimi staminologi mondiali, le cui conseguenze sono a carico di “malati, servizio sanitario nazionale, scienza e medicina italiana seria”.

Parla di “esempio eclatante di irresponsabilità nella pratica della libertà d’informazione” e di “danni irreparabili a persone e alla sanità pubblica” lo storico della scienza Corbellini, secondo cui nel programma televisivo, “interpretando al peggio la filosofia situazionista, che mescola finzione e realtà, sono state asserite circostanze insussistenti per manipolare e spettacolarizzare le sofferenze di malati e parenti”, mentre “i fatti provati che condannavano Stamina sono stati trasfigurati”.

“Sulla vicenda Stamina il Senato ha ora dato avvio ad un’indagine conoscitiva, per comprendere anche il ruolo di alcuni mezzi di informazione nella sua origine ed evoluzione “, ricorda la senatrice Cattaneom, che sottolinea come, “ora che sta franando il palcoscenico su cui si è recitata la tragicommedia dell”inganno Staminà”, il direttore del programma ‘Le Iene’ (Davide Parenti) cerchi “di smarcarsi ripetendo un ritornello già ascoltato: ‘Abbiamo solo raccontato’. E, per eludere ogni responsabilità professionale, butta lì che loro sono ‘un varietà, ma un varietà anomalo”.

La scienziata contesta al programma di aver “prodotto immagini distorte del serio lavoro svolto dai professionisti della prima Commissione incaricata dal Ministro facendo ricorso a piene mani alla loro (solita) scenografica e stucchevole pseudo-ironia”. Cattaneo se la prende poi con “il protagonista, un giornalista-attore – dice riferendosi a Giulio Golia – che ha messo in campo mezzucci comunicativi per ‘insinuare invece di documentare'”.

“Fino a quando in Italia si potrà continuare a giocare sul fatto che in un ‘varietà anomalo’ si possa fare anche pseudo-informazione senza avvisare lo spettatore che si tratta di puro spettacolo?”, si chiede la senatrice, che aggiunge: “Noi pensiamo che l’Italia vera non sia questa. Vorremmo che anche le competenze e il senso di responsabilità che nel nostro Paese non mancano, venissero sempre mostrate e valorizzate. Ovviamente affidandole a quei mezzi di comunicazione capaci di cogliere, consapevolmente e ogni giorno, il significato civile e la responsabilità sociale del loro ruolo”.

Dure critiche anche dallo staminologo De Luca, che contesta a ‘Le Iene’ di aver trasmesso “riprese di bambini gravemente malati, facendo percepire al pubblico che il trattamento Stamina producesse effettivi e ‘visibili’ miglioramenti”. Una tesi, sottolinea, “perseguita con instancabile accanimento”, mettendo in gioco “la reputazione di non poche brave persone, esperti e scienziati ‘macchiatisi del peccato’ di denunciare subito, senza mezzi termini, l’odore di bruciato” e ignorando del tutto, sottolinea lo scienziato, altre questioni riguardanti Davide Vannoni.

da www.repubblica.it

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Caso Stamina, Le Iene “La nostra unica colpa è esserci appassionati a storie di gravi malattie”, di DAVIDE PARENTI
Caro Direttore,
sul caso Stamina, da ieri, da una piccola parte del mondo scientifico italiano, da tre scienziati, è finalmente arrivata un’inconfutabile certezza: è tutta colpa de Le Iene. Da intimidire, processare e condannare, mandare al rogo, e a cui togliere, con buona pace delle regole dello Stato di Diritto, qualsiasi libertà di stampa.

Domanda. Esiste una legge dello Stato che consente di somministrare terapie non sperimentate scientificamente (c.d. volgarmente cure compassionevoli) a chi soffre di spietate malattie e a cui non è offerta dalla medicina alcuna cura sperimentata come si deve? Esiste, ma a leggere i tre scienziati, ed essendosi persi qualche puntata precedente, si potrebbe concludere che è tutta colpa de Le Iene. Esiste un eccellente ospedale pubblico dove le istituzioni pubbliche competenti (la dirigenza dell’ospedale di Brescia, la Regione Lombardia, l’Agenzia del Farmaco, il ministero della Salute) hanno deciso e, sapendolo, non hanno impedito, che entrasse il tanto discusso metodo Stamina, del già pluriindagato Davide Vannoni? Non c’è dubbio è proprio andata così, ma, sorvoliamo, comunque è tutta colpa de Le Iene. Dopo il blocco dei trattamenti avvenuto a maggio 2012 a seguito dell’ispezione dei Nas e dell’Aifa, i giudici del lavoro di diverse città d’Italia hanno deciso di superare tale blocco ordinando all’ospedale di Brescia di somministrare le infusioni con il metodo Stamina. È vero? Sì, è proprio così. Ma non ci distraiamo, è tutta colpa de Le Iene.

Di fronte alle violente accuse della scienziata Elena Cattaneo, qualcuno potrebbe provare ad osservare timidamente che fino a quel momento (e in realtà ancora molto dopo, fino a metà di febbraio 2013, meno di un anno fa) Le Iene non si erano ancora mai occupate di questa pasticciata storia della sanità pubblica, iniziata in un ospedale pubblico a Brescia nel 2011. Ma non importa, non è il caso di essere troppo scientifici: ribadiamo e andiamo avanti, è tutta colpa de Le Iene. In totale circa 600 giudici, tra prima fase (decisa da un giudice) e fase di reclamo (decisa da tre giudici), ordinano di procedere con le infusioni Stamina all’ospedale. È mai possibile? Sì è proprio così. La magistratura giudicante è un organo indipendente dello Stato, ma non importa: sicuramente è colpa de Le Iene. Il Consiglio dei ministri e il ministro della Salute Renato Balduzzi, a marzo 2013 fissano in un decreto il principio etico della continuità terapeutica, per cui chi ha iniziato un trattamento sanitario in un ospedale pubblico, non avendo avuto alcun effetto collaterale, può continuare. È accaduto anche questo? Sì, pazienza: ma non scherziamo, è tutta colpa de Le Iene. Il Parlamento sovrano, essendo 36 le famiglie trattate e altre circa 170 in lista d’attesa, vota una legge che prevede di sperimentare il tanto denigrato metodo Stamina. È successo? Senza dubbio. Ma naturalmente è tutta colpa de Le Iene.

La commissione scientifica nominata dal Ministero boccia il metodo e dice: è pericoloso per la salute dell’uomo. Ma la stessa commissione scientifica poco dopo è bocciata dal Tar del Lazio perché ritenuta non imparziale. È accaduto pure questo? Assolutamente vero, ma anche in questo caso se chiedi a Cattaneo, De Luca e Cordellini magari ti rispondono sempre con l’indice puntato: è colpa de Le Iene.

Al di là di questa ormai incrollabile certezza possiamo dire che chiunque si avvicini con curiosità e compassione alla vicenda delle 36 famiglie trattate in uno dei migliori ospedali pubblici italiani con il metodo Stamina, rimane bruciato. È successo all’insigne scienziato italiano dell’Università di Miami, Camillo Ricordi, e succede a noi, programma di intrattenimento, che ogni tanto prova a ficcare il naso su argomenti cui più titolati di noi è giusto si occupino. Però sinceramente siamo sorpresi nel leggere tante accuse, alcune veramente fantasiose, che poco si addicono ad una senatrice a vita, da cui ci si aspetterebbe maggiore senso istituzionale e toni meno violenti. Soprattutto ci sorprende tanto livore da parte di uno scienziato, Elena Cattaneo, con cui ci siamo confrontati ore e ore al telefono, proponendole sin dalla prima puntata un’intervista in cui potesse spiegare le ragioni per cui secondo lei l’esperienza di Brescia era tutta da buttare.

Purtroppo la senatrice ha più volte rifiutato ripetuti inviti a parlare al nostro pubblico e spiegare le ragioni per cui era sbagliato farsi carico del dolore e delle richieste di aiuto di famiglie già provate da inguaribili malattie, e a cui la medicina oggi non offre alcuna possibilità terapeutica sperimentata. Pur avendo già da qualche mese un ruolo politico, non sappiamo quale ricetta abbia la senatrice Cattaneo, per risolvere un pasticcio che a leggere la sua missiva sembra essere stato creato da Le Iene, piuttosto che da un mix di «bugs» legislativi, istituzioni un po’ distratte o complici e dall’esigenza di dare una risposta alle famiglie colpite da una malattia rara. I tre scienziati omettono di dire che Le Iene sono intervenute quando il pasticcio era bello e fatto e addirittura vogliono che Le Iene siano processate e risarciscano i danni creati ai malati e alla sanità. Ma quali danni? Di quali danni alla sanità pubblica parla di grazia la senatrice a vita? I trattamenti sono erogati in un ospedale pubblico e lo sono solo dopo un ricorso vinto davanti ai giudici del lavoro!

Ora chi scrive non è perfetto e qualsiasi storia raccontata in tv sicuramente potrebbe essere sempre raccontata meglio. Se colpe abbiamo, una è quella di esserci affezionati, appassionati, alle storie di famiglie straordinarie, che si sono sentite abbandonate alle loro spietate e incurabili malattie. Per un bizzarro rincorrersi di fatalità e responsabilità, lo Stato ha creato un pasticcio incredibile: da un lato prima autorizza le famiglie ad essere trattate, dall’altro invece blocca i trattamenti e dall’altro ancora con i giudici poi ordina che invece proseguano. Sempre lo Stato da un lato fa una legge per sperimentare il metodo, dall’altra dice con una commissione scientifica che il metodo non va sperimentato, dall’altra ancora dice che chi ha detto che il metodo non andava sperimentato l’ha fatto in modo illegittimo, «non essendo stata garantita l’obiettività e l’imparzialità del giudizio».

Pensare che si risolva questo pasticcio – e il dramma di circa 200 famiglie che hanno acquisito il diritto del trattamento – facendo partire il linciaggio del capro espiatorio de Le Iene è veramente il colmo! La lettera dei tre scienziati in diverse parti fa una ricostruzione falsa del nostro lavoro e facilmente contestabile. Una per tutte: gli scienziati lasciano intendere che chi ha pagato decine migliaia di euro a Vannoni negli anni 2008-2009 lo abbia fatto dopo aver visto i servizi dedicati dal nostro programma al caso Stamina, peccato che abbiamo iniziato ad occuparci della vicenda meno di un anno fa, nel febbraio 2013, mentre i casi contestati dalla magistratura sono di diversi anni prima. E gli scienziati dicono il falso quando affermano che abbiamo ordito «una trappola» ai danni dello scienziato Paolo Bianco, provocandolo, quando in realtà, basta vedere il video per scoprire che lo scienziato si è lasciato andare ad uno sfogo sopra le righe ripreso pressoché integralmente, dopo che Giulio Golia era andato semplicemente a stringere la mano a lui e a tutti partecipanti ad un incontro organizzato dal Corriere della Sera. Basta rivedere i servizi su www.iene.it. Tante falsità però lasciano allibiti.

Detto ciò non vogliamo sfuggire alla responsabilità che abbiamo verso il nostro pubblico, e quindi diciamo che se uno solo dei nostri spettatori si è convinto che il metodo Stamina funzioni scientificamente – o che secondo noi funzioni – gli chiediamo scusa, perché non è questa la nostra convinzione. E non è quello che volevamo raccontare, né lasciare intendere. Ribadiamo la nostra idea di questa storia: le famiglie che abbiamo seguito nei mesi ci raccontano che i loro figli stanno meglio e lo confermano alcuni medici che li hanno visitati prima, durante e dopo le infusioni. Anche se questa cosa da un punto rigorosamente scientifico non vuol dir nulla, è una cosa che merita un approfondimento e una risposta chiara e credibile. Diamo merito al ministro Lorenzin di aver nominato una nuova commissione il cui presidente prof. Mauro Ferrari, grande scienziato e orgoglio italiano all’estero, come prima cosa ha detto quello che noi ripetiamo da un anno, e che né la commissione bocciata dal Tar, né gli scienziati che oggi ci attaccano, hanno mai chiesto o fatto: «andiamo ad incontrare le famiglie e i medici che hanno visitato i pazienti trattati a Brescia». Ci sembra un ottimo punto di partenza, di uno Stato che non da più l’impressione di volere insabbiare tutto, ma che vuole veramente fare chiarezza partendo da chi dovrebbe essere al centro di tutto: il paziente, il malato, chi soffre.

Ci teniamo a dire «senza se e senza ma», che se Davide Vannoni ha sbagliato deve pagare, come tutti i funzionari pubblici che si accerterà abbiano compiuto illeciti amministrativi o penali. Ma un giusto processo non può risolvere un pasticcio che lo Stato ha creato e lo Stato deve saper sciogliere.
Una soluzione condivisa, che le famiglie dei malati accetteranno se lo Stato, scevro da pregiudizi e da interessi di parte, vorrà cercare di capire come stanno quegli stessi pazienti che lo Stato ha lasciato trattare da Stamina in questi due anni. Non averlo fatto prima, con delle valutazioni ad hoc, con analisi strumentali, con video, prima e dopo le infusioni, nonostante fosse la cosa più sensata da fare (avendo dei trattamenti ordinati dai giudici e quindi comunque in essere) è una colpa grave. Almeno questa, non de Le Iene. Perché si è persa un’occasione forse irripetibile per fare veramente chiarezza. Oggi una risposta seria è dovuta a quelle famiglie. Chiudere la questione, senza verificare le condizioni dei pazienti e vietando di analizzare le cellule di Stamina al prof. Camillo Ricordi a Miami, è una scelta che non capiamo. Dopo una lunga assenza dagli schermi, vi terremo informati su questa vicenda da mercoledì 22 gennaio alle 21.10 su Italia 1.

La Stampa 21.01.14

"Ecco perché può funzionare", di Roberto D'Alimonte

La riforma elettorale non c’è ancora. Ma l’accordo su quale debba essere c’è. La fine di questa storia ci sarà quando il Parlamento avrà varato il testo e il presidente della Repubblica lo avrà promulgato. Sono passaggi delicati e non scontati. Ma quello che comincia oggi in commissione Affari costituzionali della Camera è un processo che ha buone chance di arrivare a una conclusione positiva.
Ha buone chance perché Pd e Fi, ma è il caso di dire Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, condividono lo stesso obiettivo. Entrambi si sono schierati fermamente a favore del bipolarismo e della democrazia della alternanza. Chi temeva che un Berlusconi indebolito volesse puntare a una riforma non maggioritaria sfruttando la decisione della Consulta che ha reintrodotto un sistema proporzionale si deve ricredere.
Con il nuovo sistema elettorale saranno i cittadini a decidere chi debba governare. Le elezioni saranno, come diceva Popper, «il giorno del giudizio» su chi ha governato e su chi si candida a governare. Le coalizioni dovranno formarsi prima del voto, e non dopo. E spetterà agli elettori valutare la qualità e la credibilità delle alleanze proposte dai partiti. In questa prospettiva il nuovo sistema elettorale si colloca nell’alveo dei sistemi che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica.
Fa parte di quel “modello italiano di governo” inaugurato dalla legge sui sindaci nel 1993. La novità sta nel fatto che non è stato imposto da un referendum come la legge Mattarella e non è il frutto di una decisione di maggioranza come la legge Calderoli nel 2005, ma è il risultato dell’iniziativa condivisa di larga parte della classe politica. Come tutti i sistemi elettorali della Seconda Repubblica è un sistema misto, che ricalca in larga misura la terza proposta di Renzi, quella che impropriamente viene indicata come il “sindaco d’Italia” e che in realtà è un doppio turno di lista.
Premio di maggioranza e doppio turno. Questi sono gli elementi centrali del nuovo sistema. La loro combinazione rende il sistema majority assuring, cioè garantisce che le elezioni diano al vincitore – partito singolo o coalizione – la maggioranza assoluta dei seggi. Chi ottiene un voto più degli altri incasserà un premio di maggioranza del 18% se arriverà al 35% dei voti. Se nessuno arriverà a questa soglia le due formazioni più votate si sfideranno in un ballottaggio. Il vincitore avrà diritto alla Camera al 53% dei 617 seggi in palio (327). Nessuno ne potrà avere più del 55% (340) grazie al premio.
Quindi l’esito del voto si collocherà tra questi due valori a meno che una lista non conquisti da sola più del 55% dei seggi. Con la soglia e un premio non più illimitato la Consulta è accontentata. Fino all’ultimo non era previsto che ci fosse un doppio turno. Berlusconi lo ha accettato perché la soglia per far scattare il premio è bassa. Con il 35% il centro-destra ha la possibilità di vincere le elezioni in un turno solo senza quindi dover rischiare una sconfitta al ballottaggio per via della pigrizia dei suoi elettori. È la soglia che differenzia questo modello da quello proposto tempo fa sulle pagine di questo giornale.
Il Senato. Il sistema elettorale è identico a quello della Camera. Finalmente sparisce la lotteria dei 17 premi regionali. Infatti anche in questo ramo del Parlamento il premio sarà nazionale. Era ora. La sentenza della Consulta in questo caso ha aiutato. Questa modifica non annulla il rischio di maggioranze diverse tra le due camere, ma lo riduce sensibilmente.
Con il fatto che i diciottenni non possono votare al Senato il rischio resta. Verrà definitivamente eliminato con la radicale trasformazione del Senato prevista dal pacchetto di riforme di cui il nuovo sistema elettorale è una parte. Alle prossime elezioni si voterà per una camera sola. Salvo sorprese.
Formula elettorale e soglie. A parte i seggi del premio gli altri verranno assegnati con formula proporzionale a livello nazionale. Non a tutti però. Per avere seggi i partiti che scelgono di far parte di una coalizione devono superare la soglia “tedesca” del 5%. Era il 2% nel vecchio sistema. Per chi sta fuori dalle coalizioni la soglia è dell’8%. Ma per poter utilizzare la soglia più bassa del 5% occorre che la coalizione arrivi al 12 %.
In caso contrario è come se la coalizione non esistesse. Questo sistema di soglie serve a scoraggiare tentazioni terzopoliste. Questo è il prezzo che i piccoli partiti devono pagare. Sopravvivono, ma solo se accettano di allearsi prima del voto con i grandi. Per la Lega è prevista una clausola di salvaguardia che le consentirà di sopravvivere nei suoi territori anche nel caso in cui non arrivi al 5 % a livello nazionale.
Liste bloccate. Non ci sono né i collegi uninominali né il voto di preferenza. Restano le liste bloccate ma saranno corte e i nomi dei candidati saranno visibili sulla scheda elettorale. Sulla lista bloccata si è fatta tanta retorica. La realtà è che sono solo uno strumento. Non sono il male assoluto. Se usate bene, i risultati sono positivi. È grazie alle liste bloccate che oggi nel nostro Parlamento siedono più donne che in quello tedesco o francese.
Queste sono le caratteristiche essenziali del sistema elettorale presentato alle Camere. Non è il migliore dei sistemi. È il punto di incontro tra i desideri e la realtà. Chi scrive ha collaborato sul piano tecnico a questa riforma. Avrebbe preferito un sistema con i collegi uninominali maggioritari e il doppio turno. In questo modello c’è il doppio turno ma non ci sono i collegi. Però è un sistema che può funzionare bene.
Ma le regole elettorali – lo abbiano detto tante volte – non sono una bacchetta magica. Le buone regole sono una condizione necessaria del buon governo. Ma non sono una condizione sufficiente. Per il buon governo ci vuol la buona politica. È questa la prossima scommessa.

Il SOle 24 Ore 21.01.14

«Proposta abile, nessun dubbio di incostituzionalità», di Osvaldo Sabato*

Nessun dubbio di costituzionalità. La proposta di legge elettorale presentata ieri dal segretario Matteo Renzi alla direzione del Pd, per il presidente emerito della Corte Costituzionale, Enzo Cheli, è «ben costruita» e secondo lui «a certe condizioni può funzionare bene anche in tema di governabilità». Presidente qual è il suo primo giudizio sull’Italicum di Renzi?
«La considero una proposta abile perché mira, e in gran parte mi pare ci riesca, a conciliare gli interessi delle formazioni maggiori con quelli delle minori, che siano però in grado di arrivare alla soglia di sbarramento, formazioni minori che hanno sicuramente garantita una rappresentanza in Parlamento attraverso l’assegnazione di seggi in sede nazionale».

Anche dentro il Pd però si sollevano dubbi sulla costituzionalità di questa riforma elettorale.
«A me sembra una proposta abile per- ché rispetta in termini adeguati i principi che ha affermato la Corte Costituzio-nale nella sua recente sentenza sul Porcellum, introducendo una soglia di ingresso per avere il premio di maggioranza, come voleva la Corte, prevedendo liste bloccate, ma circoscritte, così come la Corte impone in questi casi». È previsto il doppio turno anti larghe in- tese per garantire la governabilità. Sarà davvero così?

«Anche su questo punto la ritengo abile perché, comunque vadano le elezioni al primo turno, anche nel caso in cui nessuna forza politica sia in grado di raggiungere la soglia del 35 per cento, questa la realtà che si verificherebbe nel caso in cui si ripetesse la situazione delle ultime elezioni, ma anche in que- sta ipotesi c’è però la possibilità di ottenere una maggioranza attraverso il premio che porta il risultato al 53 o al 55 per cento in base ad un secondo turno di ballottaggio fra le due formazioni maggiori. In pratica mi sembra che la proposta combini due modelli, che inizialmente Renzi aveva avanzato, il modello spagnolo sulle circoscrizioni limi- tate e il modello del sindaco d’Italia con il doppio turno di coalizione che serve ad assegnare il premio di maggioranza. Mi sembra che sia un dosaggio molto accorto tenendo conto anche del- le indicazioni della Corte».
Ma questo sistema potrà funzionare? «Bisogna rispettare due condizioni: la prima è che ci sia una soglia di sbarramento seria per lo meno al 5 per cento per tutte le formazioni altrimenti si rischia di scivolare nei difetti del Porcellum, la seconda è che le coalizioni che corrono per il ballottaggio siano le stesse che si sono presentate al primo turno, perché se dovessero variare si ripeterebbero, anche qui il profilo negativo del Porcellum, della grandi ammucchiate di coalizioni che non hanno poi principi comuni per poter governare». Ancora un volta non ci sono le preferenze.

«Non ci sono, ma vengono rispettate le indicazioni della Corte sul principio di conoscibilità con le liste limitate del sistema spagnolo. Però devo dire che questa proposta non ha molto del sistema spagnolo, questo è un sistema nettamente maggioritario, la proposta di Renzi è invece un sistema proporzionale corretto dalla presenza di un premio di maggioranza, che viene comunque assegnato o in primo grado o nel ballottaggio».
Con la soglia di sbarramento al 5 per cento per i partiti di coalizione e quello dell’8 per cento per le forze che si presentano da sole non si corre il rischio di lasciare fuori un partito che ottiene qualche milione di voti?

«Questo rischio indubbiamente esiste, ma questa è una scelta che va fatta. Il vero difetto che ha bloccato l’evoluzione positiva del nostro sistema politico è stata la frammentazione, cioè l’eccesso di proporzionalismo che ha determinato in tante piccole formazioni il potere di veto. Con le riforme degli anni 90, prima il Mattarellum poi il Porcellum, si è cercato di ribaltare questa situazione introducendo un principio maggioritario, ma che a mio giudizio ha funzionato poco perché ha favorito grandi ammucchiate disomogene che hanno poi impedito la nascita di governi stabili. Ora l’obiettivo è ridurre questa frammentazione e una ragionevole soglia di sbarramento mi pare inevitabile a questo fine. In prospettiva l’ideale è il bipolarismo, ma mi sembra ancora molto lontano per la situazione italiana»

*presidente emerito della Consulta

L’Unità 21.01.14

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“Bene, con due Dubbi”, di Michele Ainis

C’è differenza tra un illusionista e un prestigiatore? Sì che c’è: il primo ti fa credere a una realtà che non esiste, il secondo rende invisibile la realtà visibile, quella che avresti sotto gli occhi, se non t’abbagliasse il trucco del prestigiatore. E che cos’è la nuova legge elettorale, un’illusione o un gioco di prestigio? Davvero Renzi ha tirato fuori dal cappello il coniglio che la politica cerca da tre legislature?
Per scoprirlo, non resta che guardare nel cappello. Fin qui ne avevamo osservato soltanto la réclame , con il sospetto che si trattasse di pubblicità ingannevole. Perché aleggiava la promessa d’azzerare i veto players , il potere d’interdizione dei piccoli partiti, ma con l’assenso dei piccoli partiti. Di non ripetere le malefatte del Porcellum , ripetendo tuttavia liste bloccate e premi inventati dal Porcellum . E infine una promessa di governi stabili; anche se per afferrare la Chimera non basta una buona legge elettorale, serve la riforma della Costituzione. Con due Camere gemelle però espresse da elettorati differenti, non ci riuscirebbe neppure mago Zurlì.
E allora interroghiamo il coniglietto su tre parole chiave, cominciando per l’appunto dalla domanda di governabilità. L’avrebbe forse saziata il sistema spagnolo, che non impedisce tuttavia la divisione della torta in tre fettone uguali, replicando il presente per tutti i secoli dei secoli. Ma l’Italicum va meglio, molto meglio. Un doppio turno «eventuale»: se prendi il 35% diventi maggioranza con il premio, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. Bravo il prestigiatore, bene, bis. Sia per essere riuscito a ipnotizzare Berlusconi, che del doppio turno non ne voleva sapere. Sia per la soglia di sbarramento (5%), un antidoto contro la frantumazione della squadra di governo. Sia perché al ballottaggio il premio te lo mettono in tasca gli elettori, non la legge.
Secondo: la rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia.
Terzo: la sovranità. Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati.
C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.

Il Corriere della Sera 21.01.14

Addio a Claudio Abbado il Maestro del coraggio

Claudio Abbado incarnava un paradosso: era un monumento alla musica ma anche l’eterno ragazzo “Claudio”. Gli piaceva farsi chiamare così dai suoi musicisti (spesso giovanissimi), rigettando il titolo pomposo di “Maestro”. Era un simbolo, una leggenda. Ma era anche rigorosamente estraneo allo starsystem. Un re che non voleva stare in trono.Scomparso ieri a ottant’anni dopo una sofferta malattia, è stato uno dei massimi direttori d’orchestra del Novecento e un vessillo d’impegno e anti-divismo, sospinto da un’intensa vita spirituale che non contraddiceva la sua laicità razionalista. La morte lo accompagnava come un pensiero abituale: «Sarebbe impossibile», dichiarò una volta, «dirigere Mahler senza pensarci».
E rammentava il modo in cui morì Dimitri Mitropoulos, il maestro greco che nel 1960, alla Scala, fu fulminato da un infarto mentre provava la Terza Sinfonia mahleriana: «Sapeva che non sarebbe vissuto a lungo e me lo disse: aveva già avuto due attacchi di cuore. Ma preferiva andarsene velocemente piuttosto che smettere di dirigere. Lo capisco ».
La musica era la sua esistenza, il suo alimento e la chiave di comprensione della cultura tutta, come dimostrò nei bellissimi cicli interdisciplinari programmati alla Philharmonie di Berlino. Giunse a considerarla persino un antidoto alla malattia: nell’estate del 2000 fu operato per un cancro allo stomaco, subendo l’asportazione dell’organo, e pochi mesi dopo volle affrontare, magrissimo e vibrante, le maratone beethoveniane di Roma e Vienna (febbraio 2001) sul podio dei Berliner Philharmoniker. Sostenne in seguito che erano stati quei concerti a salvarlo. Nella sua prospettiva purista e totalizzante, la musica era anche coinvolgimento politico e civile, e riversò questa convinzione nel periodo milanese dei concerti nelle fabbriche, dell’apertura della Scala a studenti e a operai, delle proteste con l’amico Pollini contro la guerra in Vietnam e i colonnelli greci. Non solo: vedeva nella musica uno strumento umanitario efficacissimo, come testimoniò il suo sostegno entusiastico al “Sistema” di José Antonio Abreu, diffusore in Venezuela di una rete di scuole musicali per ragazzi salvati dal degrado e dalla criminalità dei barrios. Insomma la musica, nella concezione di Claudio, s’ergeva come norma armonica e criterio del convivere sociale, capacità di dialogare e ascoltarsi, territorio di libertà e rispetto. E anche in tal senso costituiva un modello supremo per i giovani, a cui si dedicò forgiando orchestre quali la European Community Youth Orchestra, la Gustav Mahler Jugendorchester e l’Orchestra Mozart, creata a Bologna nel 2004. Tra le sue “creature” spicca anche l’Orchestra del Festival di Lucerna, plasmata nel 2003 con elementi della Mahler Chamber Orchestra e alcune tra le migliori prime parti delle gloriose formazioni con cui aveva lavorato.
La musica fu il suo elemento fin da piccolo. Il padre Michelangelo era concertista di violino e insegnante al Conservatorio Verdi, mentre la madre, siciliana e scrittrice di racconti per l’infanzia (figlia di Guglielmo Savagnone, docente di papirologia a Palermo), era una donna appassionata e fantasiosa che durante la guerra aveva partecipato alla Resistenza. A dieci anni, dimostrando subito gusti raffinati, Claudio impazziva per Béla Bartòk, tanto da scrivere col gessetto «Viva Bartòk», a lettere cubitali, sul muro della sua casa di Via Fogazzaro a Milano. Era il ’43, e la Gestapo condusse indagini su quel nome misterioso: che Bartòk fosse un partigiano?
Diciottenne, quando suonava col gruppo da camera del padre,
sentito predire un futuro di successo da Toscanini, del quale aveva detestato i metodi violenti («alla Scala era durissimo con gli orchestrali, li chiamava “cani”»). Piuttosto il suo mito era Wilhelm Furtwaengler, assunto come riferimento per il repertorio austrotedesco. E da adulto meritò la guida (dal 1989 al 2002) della compagine eccelsa dei Berliner, proprio la stessa diretta da Furtwaengler. Fertili i suoi legami anche con la London Symphony Orchestra, che diresse dal ’79 all’88, e con l’orchestra della Scala, teatro che governò dal ’68 all’86. Furono tre i contributi più significativi del suo celebrato periodo scaligero: inviti a direttori di massimo prestigio (Kleiber, Mehta, Muti, Maazel, Ozawa, Barenboim, Solti, Karl Bohm), esplorazione del repertorio anche meno frequentato (dai classici del ventesimo secolo alla musica più attuale), slancio verso l’obiettivo di un teatro da ridefinire in modo aperto e anti-élitario.
Oltre a Berlino e a Milano, tra le “sue” città figura Vienna, dove studiò da giovane con Hans Swarowsky e guidò la Staatsoper (dall’86 al ’91). Nell’87 fu nominato Generalmusikdirektor della capitale austriaca, e l’anno dopo fondò l’innovativo festival Wien Modern. Il suo passaggio nella città asburgica equivalse alla riscoperta di Rossini e all’affermazione di proposte “ardue” come
Wozzeck e Pelléas, o come le opere tragiche di Janàcek e il Mozart minore. Quando reintrodusse l’opera di Schubert
Fierrabras, capolavoro ignoto, lo ribattezzarono «Schatzgraeber», lo «scopritore di tesori nascosti».
Timido da bambino, Claudio conservò da adulto, e a dispetto della fama, un’indole introversa e riservata. Ma chi l’ha conosciuto può testimoniare il suo calore umano, la sua “lievità” mozartiana e la sua voglia di scherzare con gli amici, come Roberto Benigni (che prese come voce recitante per un memorabile Pierino e il lupo), Renzo Piano e Roberto Saviano. Alle persone fidate offriva la sua visione candida e illuminata delle cose del mondo, fiorita dalla radice dei suoi ideali “alti”. Tra questi, in tempi recenti, era divenuto centrale il culto ambientalista, su cui aveva dirottato l’impeto politico della sua gioventù milanese.
Parlava poco, e la scarsa loquacità caratterizzava anche le prove con le orchestre, molto tecniche e con spiegazioni verbali ridotte al minimo. Era persuaso che i musicisti dovessero capire le sue intenzioni tramite le mani e lo sguardo, il che, nei concerti dal vivo, si realizzava in modo prodigioso. Sul podio emanava un magnetismo galvanizzante per i musicisti, portati a dargli il meglio. Dotato di una strepitosa memos’era
ria musicale (dirigeva senza partitura), non è mai stato un maestro autoritario: «Poco egocentrico e calmo», lo definì il pianista Alfred Brendel. E quando s’arrabbiava preferiva alle invettive certe occhiate dure e metalliche: «È lo sguardo saraceno», scherzavano gli orchestrali, riferendosi alla discendenza della sua famiglia da un guerriero arabo del dodicesimo secolo, Abbad, costruttore dell’Alcazar di Siviglia.
Capitolo donne: Abbado ne è stato sempre molto amato. Se da giovane era ispirato e fascinoso, da vecchio, volatile e sottile, suscitava desideri protettivi. Pareva delicato, ma aveva una forza e un’ostinazione con cui non pochi
esseri umani, nel lavoro e nel privato, hanno dovuto fare i conti. La sua prima moglie è stata Giovanna Cavazzoni, madre dei due figli più grandi: Daniele, regista di prosa e lirica, e Alessandra, che fu a lungo l’anima organizzativa di Ferrara Musica. Sposò in seguito Gabriella Cantalupi, madre di suo figlio Sébastian, e dopo la separazione convisse per cinque anni tra Berlino e Vienna con la violinista russa Viktoria Mullova. Ebbe da lei l’ultimo figlio, Mikhael, nato nel ’91.
Dopo la malattia aveva rinunciato a viaggi e a case in giro per il mondo, e viveva tra la sua villa di Alghero, affacciata sul mare e ornata da un giardino rigoglioso di
cui andava fierissimo, e un appartamento al centro di Bologna, premiato da un’altana che fronteggiava le due torri. Aveva ridotto molto il numero di esecuzioni, limitandosi a collaborazioni sporadiche con le orchestre del cuore: la Mozart di Bologna soprattutto, e in estate quella del Festival di Lucerna. Ma i suoi ottant’anni, compiuti nel giugno scorso, li aveva festeggiati con un ciclo di concerti sul podio degli adorati Berliner. A fine agosto Napolitano lo aveva nominato “senatore a vita”. Lascia un segno profondo e indelebile nella storia dell’interpretazione musicale.

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L’armonia del mondo

Il milanese Abbado sarebbe rimasto come direttore musicale del più importante teatro del mondo dal 1968 al 1986, circondato da una città che viveva contemporaneamente un grande fermento culturale e una tragedia politico-sociale: risvegliata dal movimento studentesco, ferita dal terrorismo, terrorizzata dalle malavita e dai rapimenti, impegnata col teatro, il Piccolo di Strehler, il Franco Parenti, l’Elfo, sedotta dalla letteratura sudamericana che la Feltrinelli aveva per la prima volta portato in Italia, appassionata di grandi mostre diventate epocali, al tempo del sindaco Tognoli che, dice, «quelli della mia amicizia con Abbado sono stati gli anni più belli della mia vita». E ricorda come i democristiani della maggioranza silenziosa avessero accusato l’odiato musicista “sinistrorso” di costare troppo, accusa sempre ricorrente e sempre fasulla, rivolta a chi si occupa di cultura e che quindi avrebbe il dovere di essere povero. Intanto arrivavano gli anni di piombo, e poi l’età del cachemere, infine la Milano da bere e della moda.
Negli anni 70 la Scala era diventata un pericoloso covo di sinistra, con Abbado, i sovrintendenti Grassi e poi Badini, Strehler, Pollini. C’era infatti questa idea entusiasmante per alcuni e minacciosa per molti, di spalancare la Scala con tutti i suoi velluti e ori, non solo alla ignota musica contemporanea, ma anche agli studenti e peggio ancora agli operai: o di andare addirittura nelle fabbriche a portargli la grande musica, talvolta imponendogli anche il “rosso” ma non facile Luigi Nono. Quando nella stagione scaligera del 1975 fu dato al Teatro Lirico Al gran sole carico d’amore di Nono, con testi di Marx, Lenin, Guevara e un pubblico stravolto, ci fu una grandiosa protesta politica. Ma Abbado continuò imperterrito la sua politica di rinnovamento e gli abbonati tentennarono per i tanti Berg, Stravisnkij, Schönberg, sino a stremarli del tutto, nel 1984, con la prima mondiale di Donnerstag aus Licht di Stockhausen.
Però i giovani richiamati da quell’appassionato pifferaio prendevano il treno anche da lontano e correvano alla Scala, sentendosi parte di un cambiamento culturale e quindi sociale. Lo ricorda Franco Pulcini, direttore editoriale alla Scala, che da ragazzo arrivava in treno da Torino per rifugiarsi nel loggione, alle serate speciali a poco prezzo per i giovani. Il sogno di Abbado era non solo far vivere la musica nuova, ma trascinare i giovani a diventare musicisti: nel ’78 fondò la European Community Youth Orchestra in cui era riuscito a riunire giovani di qua e di là dal muro, sovietici e francesi, italiani e polacchi, poi diventata la Chamber Orchestra of Europe: poi la Gustav Mahler Jugendorchester e infine l’orchestra Mozart, messa insieme andando in Venezuela a capire il lavoro di Abreu con i bambini; per questa sua idea che la cultura sia il solo modo di salvare il mondo.
Chi ha lavorato con lui lo ricorda come un uomo difficile, molto esigente, certe volte arrogante, con una vita privata quanto mai ricca e mutevole e nessun interesse per il denaro. E per esempio se gli conferivano un premio quel denaro lo trasformava in borse di studio. Lo stipendio di senatore a vita andava alla scuola musicale di Fiesole. A Berlino, dove ha vissuto come direttore dei Berliner, se doveva andare altrove lasciava la sua casa e il suo pianoforte a giovani musicisti. Tanto per infastidire ancora di più la borghesia non solo milanese, aveva un buon rapporto con Cuba, perché secondo lui Fidel Castro aveva cercato di cambiare il mondo: era andato a dirigere a l’Avana concerti e inviava laggiù strumenti musicali. Era milanista e velista non dei più provetti. Tutti i suoi amici sapevano della sua passione ecologista che era il suo nuovo impegno politico; e per esempio aveva proposto al sindaco di Ferrara di dare alla città solo taxi elettrici, oppure di chiedere a tutti di usare la bicicletta. Per impedire alle automobili l’accesso alla colline bolognesi aveva immaginato la creazione di una grande ovovia.
Dopo aver vissuto dove lo portavano gli incarichi, a Vienna, a Londra, a Berlino, gli avevano suggerito di stabilirsi a Bologna, dove vive sua figlia Alessandra e un medico nutrizionista che lo poteva seguire nella convalescenza dopo l’operazione allo stomaco: avrebbe accettato solo se avesse potuto abitare nella meraviglia di Piazza Santo Stefano, quella delle sette chiese. Gli hanno trovato la casa, dice il notaio Giorgio Forni, amico intimo del Maestro, «un piccolo abbaino con mobili Ikea, dischi libri e un terrazzino che Abbado, giardiniere appassionato ha trasformato in una giungla stipata di aranci e olivi e fiori: stava pensando in questi ultimi giorni al giusto rampicante per la scaletta che sale all’altana dove lui portava tutti i suoi amici per vedere la meraviglia dei rossi tetti bolognesi». Il suo ultimo progetto visionario, studiato insieme all’amico Renzo Piano e che forse resterà irrealizzato, è un immenso auditorium associato ad una scuola di musica dentro un grandioso vivaio, perché «se ti dedichi alla musica e alla natura insieme, puoi salvare il mondo».

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Barenboim: spingeva l’orchestra a cercare l’anima della musica

La musica attraversa il tempo, sonda emozioni, pesca nella memoria. Tocca la testa, il cuore e l’anima, se per anima s’intende una dimensione spirituale. Questo tendeva a fare il pur laicissimo Abbado, «il mio grande amico Claudio, incontrato sulla miastrada“solo”unasessantina d’anni fa», sostiene con trasporto Daniel Barenboim, che lo conobbe in gioventù e che gli era accanto in occasione del suo glorioso ritorno alla Scala, nel 2012. «Eravamo due ragazzi quando frequentavamo fianco a fianco un corso di direzione d’orchestra a Siena», dice, «e fu lì che nacque un lungo legame musicale e umano, che non si è mai perso».
Può esprimere il senso e il livello di Abbado musicista?
«Se potessimo spiegare razionalmente le Sinfonie di Beethoven non avremmo bisogno di suonarle. In questi capolavori c’è qualcosa in più, un nucleo ineffabile che sfugge alla tecnica e alla descrizione della struttura formale. Che si tratti di Mozart, Beethoven o Boulez, la musica ha sempre un contenuto, un messaggio di profonda umanità. Implica una dichiarazione d’importanza fondamentale sulla sostanza dell’umano. È un commento decisivo sul nostro esistere. Tutto ciò ha a che vedere con una spiritualità che va lontano, e che non può limitarsi soltanto a una professionalità esecutiva di supremo livello. Proprio in quell’andare lontano si rifletteva il percorso straordinario di Claudio, fin dagli inizi del suo viaggio».
Quando vi conosceste?
«Nei primi anni Cinquanta, quando Claudio studiava pianoforte con Friedrich Gulda al Mozarteum di Salisburgo», racconta il direttore d’orchestra e pianista ebreo argentino, raggiunto telefonicamente a Siviglia dove sta provando con la sua West Eastern Divan Orchestra, formazione da lui fondata che unisce musicisti arabi e israeliani in un dialogo musicale inteso come messaggio di pace, armonia e cultura. Nel pensiero del mondo, nel lavoro con i giovani, nella visione “politica” della musica, Barenboim ha sempre coltivato numerose “affinità elettive” con Claudio. «Rammento che da giovanissimo suonava molto bene Liszt», continua il maestro, «e che negli anni Sessanta, al Festival di Edimburgo, io e lui eseguimmo a quattro mani pezzi di Schumann per la tv inglese. Sono ricordi incancellabili, che mi stanno dentro».
Ci parli del modo di Abbado di essere direttore d’orchestra.
«Era un perfezionista che cercava di andare sempre oltre, in sfere non analizzabili né verbalizzabili. È ciò che intendo col termine “spirituale”. Trasmetteva quel “qualcosa” sia dirigendo a Berlino sia sul podio dell’orchestra di Lucerna. Traeva il meglio dai suoi orchestrali, come un magnete. In occasione del suo ultimo compleanno l’ho sentito dirigere a Bologna la Sinfonia Classica di Prokofiev, composizione umoristica e “leggera”. Eppure anche lì riusciva a riversare un’intensa spiritualità ».
Com’era durante le prove?
«Parlava pochissimo. Era avaro di spiegazioni. Ma la sua ricerca era totalmente chiara. Chiedeva all’orchestra di ripetere, ancora e ancora. Era come se ognuno degli orchestrali dovesse trovare una motivazione a quanto stava suonando. Non il cosa e il come della musica, ma il perché».

Articoli da La Repubblica 21.01.14 non firmati dai giornalisti in agitazione

"La Ue alla prova del voto", di Adriano Prosperi

Le elezioni europee sono imminenti ma sembrano remotissime. Da noi si parla solo delle elezioni italiane e della introvabile formula magica per sostituire l’indecente sistema condannato dalla Cassazione. Ma così il cittadino è autorizzato a pensare che quelle europee non servono a niente. È vero o no? Ci sono due risposte alla domanda, quella della cronaca e quella della storia. La cronaca dice che si procede per forza d’inerzia sull’antico binario dell’uso delle poltrone di Bruxelles come semplice risorsa aggiuntiva o luogo di riposo per politici trombati: sui giornali si legge dell’ipotesi di spostare a Bruxelles il ministro Kyenge (ma perché? Per offrirla ad altri insulti? O per nascondere il fallimento delle buone intenzioni?); e si legge soprattutto che all’Europa mira il pluricondannato Berlusconi come quinta girevole per un rientro in Italia. Ma questa pratica è durata anche troppo a lungo. La scadenza quinquennale che dal 1979 ci porta davanti all’appuntamento non potrebbe essere piuttosto l’occasione per dire davvero per quale Europa si deve votare? Chi ricorda la morte di Enrico Berlinguer sul palco dei suoi appassionati comizi del 1984 aspetta ancora che qualcuno risollevi dalla polvere quella bandiera.
È vero che il sentimento diffuso nell’Italia della crisi è di delusione se non addirittura di rifiuto nei confronti dell’Europa. Nessuna traccia è rimasta dell’entusiasmo con cui fu accolto da noi l’atto dell’ingresso dell’Italia nella pattuglia di testa dell’unità europea. Quali e quanti errori e quali responsabilità abbiano contribuito a cancellare il senso esaltante di quella svolta è la domanda da farci se vogliamo capire perché il cammino successivo è stato piuttosto di allontanamento che di avvicinamento all’obiettivo sognato. E c’è urgente bisogno di una analisi dei fondamenti di questo stato d’animo. Chi ha idee e analisi e non corre dietro a umori e rumori di pancia leghisti dovrebbe cogliere l’occasione di queste elezioni per chiedere il voto su di un programma di cambiamento. Si tratta con ogni evidenza di correggere l’identificazione dell’Europa con l’arcigna idea che ne corre nell’opinione tedesca, anche per impedire alla Germania di portare al disastro europeo per la terza volta in un secolo, come ebbe a dire Joschka Fischer.
Non è certo per caso se l’Europa a gestione tedesca è avvertita come una matrigna, una burbera e avara sorvegliante. Si pensi che la notizia dell’inizio col primo gennaio 2014 della libera circolazione di bulgari e rumeni nei paesi dell’Unione è stata commentata così da un canale televisivo vicino alla Spd: «Chi truffa vola via subito!». È uno dei tanti indizi della diffusione in Germania di uno stato d’animo sospettoso e inclemente: si guarda agli italiani — e non solo a loro — come a una specie umana diversa, inaffidabile, spendacciona, incline alla truffa e alla corruzione, capace solo di spendere male i soldi erogati per sospetta connivenza dal banchiere italiano che governa la banca europea. È un indizio di come stia crescendo di nuovo in Germania quel complesso di responsabilità per un mondo intero da mettere in ordine che ha dato già le prove disastrose a tutti note. Però anche là qualcuno ha tentato di lanciare un progetto di ripresa del cammino verso l’Unione europea: lo hanno fatto gli autorevoli firmatari di un documento pubblicato sulla
Zeit del 17 ottobre scorso (Glienicker Gruppe). Vi si leggono precise proposte di riforma del sistema europeo: dalla creazione di uno standard comune per il mercato del lavoro comprensivo di una assicurazione comune contro la disoccupazione a quello del funzionamento del sistema bancario e delle condizioni del credito, dalla creazione di un “esecutivo economico comune”, agile e dotato di mezzi adeguati di intervento nei paesi in crisi, alla formazione di un esercito comune e di una politica estera unitaria. Lo strumento proposto è un nuovo contratto europeo che, partendo dal dato acclarato del fallimento in atto, fissi col consenso di tutti i nuovi patti e le nuove regole mirando alla finale unificazione delle diverse costituzioni
nazionali.
Anche in Italia si sente il bisogno di rimettersi in cammino di nuovo, di rifiutare questa Europa per un’altra e migliore unità europea. E per questo, al di là dei silenzi e delle miserie della cronaca, sarebbe utile rifarsi alla storia: anche perché il nostro continente non ha nessuna ragione naturale o evidenza geografica. La parola di origine greca che lo designa indica una realtà culturale e storica. E fu da queste premesse che nacque nell’800 l’idea dell’Europa dei popoli, una utopia rivoluzionaria che risorse un secolo dopo sulle macerie di un continente due volte distrutto dai demoni dell’altra Europa, quella degli Stati e dei nazionalismi.
Dunque per prepararci alle elezioni converrà rileggere il manifesto di Ventotene per capire come orientarci. Secondo Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi la divisione tra progressisti e reazionari è «tra coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale». Dove si trova oggi questa linea di divisione nel panorama italiano? Chi può onestamente dire e dimostrare di essere collocato dalla parte dei progressisti?
Di fatto, al di là delle belle parole e degli slogan di rito, il vecchio stampo e le vecchie assurdità occupano tutto l’orizzonte della politica nazionale. Eppure la voce dell’Europa la si è avvertita spesso come l’unica capace di strappare il velo di arretratezza civile che ancora avvolge l’Italia. L’episodio più recente è la cancellazione dell’ultimo tenace simbolo di un modello patriarcale del rapporto genitorifigli, l’eredità del cognome paterno: un dettaglio che non ha più alcun significato, ma che pure ci si sforza di lasciar sopravvivere con le forme ambigue e ingannevoli che la legge in gestazione sta dando alla liberazione da quel feticcio. E non parliamo di tante altre questioni che riguardano i diritti civili, dalla questione della cittadinanza a quella delle unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso.

La Repubblica 21.01.14