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"La scuola terremotata ricostruita senza metà delle fondamenta", di Giuseppe Caporale

Abruzzo, fatture gonfiate e opere inutili è costata cinque volte il preventivo. C’è una scuola ricostruita con i fondi del terremoto in Abruzzo che non ha le fondamenta sicure e che è costata cinque volte tanto il prezzo reale: 248 mila euro di false fatturazioni a fronte di una spesa effettiva di appena 49 mila euro. E nonostante questo sperpero, i lavori di “messa in sicurezza” dell’istituto per geometri De Nino-Morandi, a Sulmona, sono tutti da rifare. Incompleti e pericolosi: così li hanno giudicati gli inquirenti. Nelle fondazioni mancano infatti 32 micropali (sugli 80 previsti dal capitolato d’appalto) necessari per la tenuta strutturale della scuola.
C’è anche questo nell’ultimo capitolo della mala-ricostruzione a L’Aquila e dintorni. Stavolta ditte e pubblici funzionari compiacenti hanno sciupato oltre quattro milioni di euro con la scusa dell’adeguamento sismico delle scuole: questo almeno è ciò che sostiene il pool di magistrati (Stefano Gallo, Roberta D’Avolio e David Mancini) della procura dell’Aquila che, per l’affaire degli istituti scolastici da mettere in sicurezza, ha chiesto il rinvio a giudizio per il presidente della Provincia Antonio Del Corvo (Pdl), l’ex direttore generale dell’ente Valter Specchio e una serie di funzionari e imprenditori. L’accusa per tutti è concorso in truffa aggravata ai danni dello Stato.
La truffa riguarda nove scuole: sei di Avezzano (il liceo scientifico Pollione, l’istituto statale d’arte Bellisario, l’istituto statale per l’agricoltura e l’ambiente Serpieri, l’istituto tecnico per geometri Alberti, l’istituto tecnico commerciale Galileo e il liceo classico Torlonia) e tre nella città di Sulmona (il liceo scientifico Fermi, l’istituto statale d’arte Mazzara e l’istituto statale per geometri De Nino-Morandi).
Un caso eclatante è quello riguardante il liceo scientifico Pollione di Avezzano. Una scuola che l’ente Provincia ha deciso in parte di abbattere e ricostruire (i lavori sono da poco terminati) e che secondo la Guardia di finanza dell’Aquila che insieme alla polizia e ai carabinieri del Ros ha portato avanti le indagini – non doveva essere demolita. Dalle indagini è emerso che sarebbe bastato un intervento sul tetto con una spesa di alcune decine di migliaia euro, invece che ricorrere a una ricostruzione ex novo che peserà sulle casse pubbliche per due milioni di euro.
Il terzo filone di indagine sulle scuole riguarda l’ospitalità a peso d’oro: ovvero gli affitti pagati, sempre dalla Provincia, a strutture private per consentire il trasferimento delle scuole durante i lavori di messa in sicurezza. Trasferimenti che le indagini hanno dimostrato essere stati pagati «inutilmente» in quanto i dirigenti scolastici avevano trovato soluzioni a costo zero che sono state scartate e «non prese in considerazione» dall’ente pubblico, che invece ha preferito pagare.
Racconta Angelo Bernardini, dirigente scolastico del liceo Pollione di Avezzano: «Ricordo che in merito alla sistemazione degli studenti durante la messa in sicurezza proposi alla Provincia di far eseguire i lavori differendoli per corpo di fabbrica, in maniera da poter continuare a ospitare tutti gli alunni. In alternativa avevo trovato anche una struttura che ci avrebbe ospitato gratis. Ma si preferì spendere soldi».
Intanto, è arrivato sul tavolo della Corte dei Conti una segnalazione per danno erariale che riguarda le macerie. Sotto accusa l’allora vice-commissario per i beni culturali, Luciano Marchetti che avrebbe consentito a ditte private di smaltire le macerie del terremoto di importanti chiese e monumenti – tra cui il Duomo de L’Aquila – invece di avvalersi gratuitamente dei vigili del fuoco e dell’esercito.
Ricorrendo illegittimamente all’utilizzo di diverse ditte private, per i carabinieri del Noe si è consumato un danno erariale pari a circa 70 mila euro. Un episodio che ha fatto accendere un faro alla procura de L’Aquila sul sistema dello smaltimento e sullo sperpero delle risorse pubbliche con una indagine che è ancora in corso.

La Repubblica 16.01.14

"Il razzismo in Parlamento", di Gad Lerner

Una duplice, speciale vigliaccheria contraddistingue la campagna orchestrata dalla Lega contro Cécile Kyenge.
Vigliaccheria numero uno: prima ancora che la linea politica, viene presa di mira la persona in quanto tale, accusata perfino di «favorire la negritudine ». Così ieri a Montecitorio il deputato Gianluca Buonanno è giunto a tingersi il volto per insinuare che per ottenere vantaggi in Italia bisognerebbe farsi «un po’ più scuri». Vigliaccheria numero due: i leghisti agiscono surrettiziamente, pubblicando l’agenda della Kyenge sul giornale di partito senza neanche avere il coraggio di scrivere a che scopo lo fanno. Dico e non dico, lancio il sasso e ritiro la mano. Vigliacchi, appunto.
Un’ipocrisia evidenziata dal segretario Salvini che sogghigna rifugiandosi dietro al diritto alla libertà d’informazione: che male c’è a divulgare degli appuntamenti pubblici? Mentre Roberto Maroni, che pure sarebbe il presidente di una grande regione europea come la Lombardia, finge di cascare dalle nuvole: «Non capisco perché contestare il ministro Kyenge sia un atto di razzismo». Non capisce, poverino?
Per carità, la Lega non è razzista. Con gli africani è dispostissima a stringere affari. Lo ha rivelato un’inchiesta di Claudio Gatti su “Il Sole 24 Ore”: subito dopo l’accordo italo-libico del 2008 per il respingimento in mare dei migranti, il suo tesoriere Belsito — che guarda caso la Lega aveva inserito nel cda della Fincantieri — si diede da fare per vendere al regime di Gheddafi pattugliatori e corvette sulle cui commesse tentò di lucrare col meccanismo dei retropagamenti. Un po’ a te e un po’ a me. La magistratura sta ancora indagando. Se invece una cittadina italiana nata in Congo viene incaricata dal governo di operare per l’integrazione degli immigrati, allora si grida allo scandalo. La si addita al pubblico ludibrio.
La Lega si protende nel disperato tentativo di recuperare uno spazio elettorale all’estrema destra. Ieri Salvini ha stretto alleanza a Strasburgo con Marine Le Pen, leader ultranazionalista d’oltralpe, e chi se ne importa della coerenza federalista. Le stesse camicie verdi che un mese fa al Lingotto di Torino scandivano in coro “Italia vaffa…” non esitano a scendere in piazza coi Forconi che sventolano il tricolore. E quando si fa la posta alla Kyenge gli va benissimo di ritrovarsi fianco a fianco coi fascisti di Forza Nuova.
Resta da chiedersi quale possa essere l’esito di questa offensiva razzista. L’intenzione è evidentemente quella di far dimenticare l’onta del partito arraffapoltrone, funestato dalle ruberie, marginalizzato a Roma ma tuttora bene inserito in tutte le postazioni di sottogoverno nel Nord. Salvini confida nella memoria corta degli esasperati e degli incattiviti dalla crisi che morde. Intuisce che a destra oggi c’è il vuoto e che l’Italia impoverita rimane territorio aperto per le scorrerie dell’antipolitica.
Si tratta di un’operazione non solo cinica, ma pericolosissima. Il classico caso dell’apprendista stregone. Perché è molto improbabile che l’agitazione delle tematiche xenofobe e antieuropee possa resuscitare un movimento screditato innanzitutto fra la gente che per un quarto di secolo aveva illuso, traendone un potere esercitato maldestramente. Assai più probabile, purtroppo, è che la crisi del forzaleghismo su cui s’innesta una tale velenosa campagna di diseducazione di massa, favorisca l’avvento di una nuova destra estrema in grado di rivendicare la sua verginità politica. Fa paura anche solo evocarla, perché il suo biglietto da visita è una violenza che da verbale, “futurista”, fa in fretta a diventare squadrismo.
L’odio diffuso contro Cécile Kyenge — se non verrà rintuzzato al più presto — piuttosto che beneficiare i suoi propalatori leghisti è più facile che generi fenomeni marginali ma devastanti di militarizzazione. L’exploit greco di Alba Dorata sta lì a dimostrarlo.
Il ritornello che già si sente ripetere perfino dai megafoni televisivi, è un’accusa dal sapore beffardo: l’aver nominato ministro una donna con la pelle nera viene additato come episodio di un non meglio precisato «razzismo all’incontrario». Anche Buonanno, il deputato che si è tinto la faccia a Montecitorio, ha adoperato questa espressione che non significa nulla, «razzismo all’incontrario ». Quasi che la ovvia parità di diritti naturalmente assegnata dalla cittadinanza italiana fosse un privilegio insopportabile, un torto inflitto alla maggioranza dei “bianchi”.
Il razzismo ipocrita della Lega non è dissimile, nelle sue modalità espressive, dall’antisemitismo del comico francese Dieudonné. Fermiamoli finché siamo in tempo.

La Repubblica 16.01.14

Beni culturali, on. Ghizzoni “Approvata la legge sulle professioni”

La Camera ha licenziato il provvedimento di cui è stata relatrice la deputata modenese Pd.
“Non può esserci piena tutela del nostro patrimonio culturale se non si valorizzano le competenze e la dignità degli specialisti che se ne prendono cura. Senza di essi la stessa sopravvivenza del nostro patrimonio storico e artistico è a rischio”: con queste parole la vicepresidente della Commissione Cultura della Camera, la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni saluta l’approvazione pressoché all’unanimità (tre soli astenuti) in Aula a Montecitorio della legge sulle professioni dei beni culturali, provvedimento di cui è stata relatrice. “Il riconoscimento dei profili dei professionisti dei beni culturali è il primo atto, necessario, per orientare nella giusta direzione le future politiche per il patrimonio e per la buona occupazione nel settore dei beni culturali”. Il provvedimento passa ora al Senato.

E’ stata approvata oggi a Montecitorio, con 452 voti favorevoli e tre sole astensioni (di Fratelli d’Italia) la legge sulle professioni dei beni culturali di cui è stata co-presentatrice e relatrice la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera. Frutto di un serrato confronto di idee e di proposte, il provvedimento si pone l’obiettivo di dare riconoscimento a migliaia di professionisti nel campo dei beni culturali che, fino ad oggi, ne erano privi, come archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte. “Non può esserci piena tutela del nostro patrimonio culturale se non si valorizzano le competenze e la dignità degli specialisti che se ne prendono cura – ha commentato l’on. Ghizzoni – Senza di essi la stessa sopravvivenza del nostro patrimonio storico-artistico è a rischio!“. La proposta di legge era già stata presentata da Marianna Madia nella passata legislatura. L’attuale testo è stato messo a punto nel confronto tra tutte le forze politiche e dopo l’audizione dei rappresentanti del settore e delle istituzioni coinvolte, affrontando di volta in volta i dubbi sollevati e giungendo non solo a un testo condiviso, ma a un buon testo. “Da anni i professionisti dei beni culturali aspettavano questo riconoscimento: ecco perché il risultato raggiunto è importante. Siamo consapevoli che molto resta ancora da fare per garantire buona occupazione in questo settore – conclude l’on. Ghizzoni – ma siamo altresì certi che non può esserci piena tutela del nostro patrimonio culturale se non si valorizzano le competenze e la dignità degli specialisti ai quali il Paese ne affida di fatto ogni giorno la tutela e la valorizzazione”. Il provvedimento passa ora al Senato.

"Il deficit dimenticato dei diritti di libertà", di Michele Ainis

D’ accordo, la legge elettorale. D’accordissimo, la riforma della Costituzione. E poi il lavoro, le tasse, la semplificazione burocratica. È questa la nostra corona di spine. Ma c’è un’altra spina che ci ferisce il cranio, un’altra urgenza fin qui rimasta sotto un cono d’ombra, a parte qualche battibecco fra Renzi ed Alfano: la questione dei diritti civili. Eppure il lascito della Seconda Repubblica non è soltanto il debito pubblico, o il debito etico della politica verso il pubblico. Ne abbiamo ricevuto in dono anche un deficit di diritti, di libertà. Non a caso tornano adesso in discussione la legge Bossi-Fini sull’immigrazione o la Fini-Giovanardi sulle droghe. Leggi sopravvissute ai propri artefici, reperti di un’epoca trascorsa.
Tuttavia quell’epoca si riflette ancora nel nostro specchio normativo. Nel divieto di fecondazione eterologa (cioè con un donatore esterno alla coppia), permessa viceversa in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Norvegia. Nonché in varie altre contrade, e infatti il turismo riproduttivo muove 10 mila coppie l’anno. Si riflette nelle ordinanze dei sindaci, che proibiscono di dare l’elemosina o di sedersi in tre su una panchina. Nei castighi di legge se ti metti al volante dopo aver bevuto un amaro (il tasso alcolico consentito è sceso a 0,5%; in compenso semaforo verde agli ottantenni). Nel reato di clandestinità, che abbiamo potuto misurare durante l’ultima tragedia di Lampedusa (ottobre 2013): 363 morti, un centinaio di superstiti giocoforza incriminati. Nel tabù che ammanta le unioni civili per i gay, o più in generale i diritti degli omosessuali, dove i politici papalini sono talvolta più ortodossi del Papa.
Poi, certo, c’è chi fa di meglio. Per dirne una, in Inghilterra una legge del 1988 vieta ai parlamentari di morire in Parlamento. Noi, però, ai divieti insensati sommiamo inadempienze scellerate. Nessuna legge sul diritto d’asilo, nonostante i moniti di Napolitano. Né contro la tortura. Né sul voto amministrativo agli immigrati regolari, lasciando senza rappresentanza il 5,3% della popolazione residente. Né sul divorzio breve (in Francia bastano 3 mesi, qui ci vogliono 3 anni). Né sul testamento biologico, come viceversa accade negli Usa non meno che in Germania.
Verboten , proibito. D’altronde il nostro ordinamento ospita 35 mila reati, un record planetario. E il Senato vorrebbe adesso aggiungervi il reato di negazionismo, punendo con 3 anni di galera chi (odiosamente) confuta la storia. Gli unici progressi avvengono sotto dettatura della Corte di Strasburgo: è il caso del diritto al cognome della madre, è l’altolà rispetto ai 64 mila detenuti stipati nelle carceri italiane. Sicché i diritti civili soffrono, mentre quelli sociali avvizziscono per penuria di risorse. Il fondo per la famiglia è passato da 346 milioni nel 2008 a 31 milioni l’anno scorso. La Sanità dimagrisce di 2 miliardi l’anno. Sempre nel 2008, le Regioni avevano in cassa 656 milioni per le politiche sociali; nel 2012 hanno speso 10 milioni.
Da qui l’esigenza di voltare pagina. Possiamo farlo in nome dei principi liberali, o altrimenti per un principio di solidarietà verso i più deboli. Dovremmo farlo, in ogni caso, per riconciliarci col principio di non contraddizione. Offeso da bisticci logici e pasticci giuridici. Come la legge sulla fecondazione assistita: per tutelare il diritto del nascituro a conoscere entrambi i genitori, gli impedisce di nascere. Come il suicidio: provarci non è un reato, ma lo diventa se ti fai aiutare, se sei inchiodato a un letto come Welby; dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene. O infine come il voto degli italiani all’estero (che non pagano tasse) rispetto al non voto degli immigrati regolari (che le pagano). Dopotutto, la questione dei diritti è una questione di buon senso.

Il Corriere della Sera 15.01.14

"La lezione americana sulla crisi dell’auto", di Barbara Spinelli

Quando le crisi sono devastanti non si può fare a meno dello Stato, perché solo quest’ultimo è in grado di metter fine alla devastazione, solo il pubblico sa scommettere sul futuro senza pretendere l’immediato profitto cercato da cerchie sempre più ristrette di privati. Parlando con Ezio Mauro, nell’intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l’ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo — la fusione tra Fiat e Chrysler — e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato si sbriciolano.
Senza quasi accorgersene, l’amministratore delegato ridipinge anche l’immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell’imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest’illusione, se c’è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; la Fabbrica Italia su cui giurò nell’estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: «La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con la task force
del Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui». L’idea era di far rinascere Fiat «in forma completamente diversa », e solo lo Stato federale Usa poteva fronteggiare — mettendoci la faccia, e i soldi — una crisi depressiva che Marchionne definisce «spaventosa » («I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (…) non so se mi spiego»). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste le vecchie logiche.
L’amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal «sistema digestivo delle banche che si era bloccato».
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del ’29. Il dogma del laissez-faire,
dell’economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s’è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha «creduto» al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché. Dice Marchionne che gli americani, a differenza degli europei e degli italiani, hanno una propensione, «quasi naturale », a incoraggiare i cambiamenti, la voglia di ripartire: ad «aprirsi al mondo e non chiudersi in casa, soprattutto quando intorno c’è tempesta ».
Proprio la sua narrazione tuttavia cela una verità più profonda: questa propensione non è affatto naturale.
Si sveglia quando la forza pubblica programma le mutazioni, dedica loro risorse. Quel che Baudelaire scrive a proposito del bello e della ragione vale anche per l’economia: tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale sono mortifere; tutto quel che è nobile e bello nasce dalla ragione e dal calcolo, dalla filosofia, dalle religioni e dall’artificio. Dal maquillage: da trucchi e belletti. Così avvenne dopo la Grande Depressione, quando Roosevelt lanciò il suo
New Deal, il patto contro la paura e la povertà. Il vecchio continente non fu da meno, e in fondo è ingiusto dire che noi europei, per cultura e storia, «siamo condizionati dal passato, e l’idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa ». Fu cosa nuova pensare, nel mezzo dell’ultima guerra, due cose simultaneamente: l’unità economica e politica
dell’Europa, e lo scudo contro povertà e depressioni che è il Welfare. William Beveridge, che del Welfare fu l’artefice, si batté per ambedue gli obiettivi.
L’Europa non è geneticamente meno innovativa degli Stati Uniti. Se ha perso questa capacità, se come un Politburo s’aggrappa alla linea dell’austerità quasi fosse una linea di partito, se lo Stato italiano è un motore che ingoia le ricette recessive senza muoversi, non vuol dire che ereditariamente siamo inadatti. Significa che non possediamo l’ambizione politica — dunque la corporatura geografica — su cui può contare Obama, che non a caso si richiama più volte a Roosevelt. Non dimentichiamo che l’assistenza sanitaria universale è invenzione europea. Che Obama non sa come imporla a una destra enormemente sospettosa verso lo Stato. Chiudere il passato è difficile per lui come per noi. Anche lì capita che «porti un’idea nuova e trovi subito dieci obiezioni», come Marchionne dice dell’Italia.
Non so cosa pensi Marchionne della crisi nata nel 2007, ma qui importa il suo racconto e il racconto conferma che all’origine del male c’è l’assoggettamento dei poteri pubblici alle forze spontanee del mercato, al «puro uomo naturale». Un assoggettamento che continua a dispetto dei traumi subiti, come se il rimedio all’intossicazione fosse il veleno stesso che l’ha causata.
Questo perché l’economia del laissez-faire resta un’ideologia, proprio come ai tempi in cui John Maynard Keynes ne denunciò le insidie, le menzogne. Il suo saggio del 1926 sulla «Fine del laissez faire» andrebbe riletto ogni giorno dai Politburo europei e nazionali. Il liberismo del lasciar-fare è a suo parere un idolo appannato, un mostro letargico: sopravvive grazie all’inclinazione — perversa, comoda — a semplificare le complessità, a occultare le smentite. È una teoria darwinista, che seleziona il più forte e distrugge tutto quel che sta intorno: società, persone, Stati, democrazia. Chi vince, scrive Keynes, sono solo le giraffe col loro collo lunghissimo, che riescono a mangiare le ultime foglie rimaste in cima all’albero: gli animali col collo corto muoiono di fame. Il mercato lasciato a se stesso è quell’albero. Produce misantropia diffusa e diseguaglianze esiziali.
L’intervista di Marchionne è significativa perché avvalora la triste parabola delle giraffe: la recessione è alle spalle, ci dicono, la cima dell’albero è di nuovo piena di foglie, ma il prezzo è la sopravvivenza del più adatto. Anche la disuguaglianza è spaventosa, e spiega certe convergenze fra ideologi delusi del laissez-faire e i loro contestatori. Non è raro, ad esempio che il liberista Brunetta si dica d’accordo con Landini della Fiom, ancor ieri un eretico.
Non è detto che la svolta sia vicina. Non sappiamo se Marchionne ambisca sul serio a «dare forma e significato alla
società del futuro». Se abbia ricordo del Piano Marshall da lui invocato nel giugno 2013: che creò coesione nazionale e stabilità, ma grazie a immensi investimenti pubblici in Europa. Se il «sogno di cooperazione industriale a livello mondiale» favorirà davvero la reintegrazione («sempre che il mercato non crolli un’altra volta») di tutti i cassaintegrati Fiat.
Quel che resta, leggendo l’intervista, è l’amarezza per l’incapacità europea e italiana di attivarsi come Washington. L’Unione è divenuta una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue profezie e ideologie, scrive l’economista greco Yanis Varoufakis. Logica vorrebbe che fosse lei, per prima, a scommettere sulla «società del futuro ». Dovrebbe metterci la faccia e i soldi, come Obama. Dovrebbe divenire una Federazione. Con la storia che ha potrebbe perfino riuscire meglio di Obama, prigioniero spesso delle destre antistataliste.

La Repubblica 15.01.15

"La scommessa sull’economia", di Stefano Lepri

Tra gli incubi dei tedeschi sull’Europa, una crisi della Francia era il peggiore. Sarebbe stata brusca, con effetto di valanga, e nemmeno la Germania avrebbe avuto le forze per frenarla. Solo il solido legame politico tra i due Paesi, che regalava a Parigi una fiducia salda dei mercati, ha concesso alla sinistra francese questo lungo anno e mezzo di tempo, dopo il ritorno al potere, per chiarirsi le idee su come governare.
Non a caso ieri François Hollande, nell’annunciare (senza riconoscerla nei termini) la svolta liberale del suo socialismo, ha anche puntato tutte le sue carte sull’intesa con Berlino. C’è ora un motivo sostanziale per riavvicinare le due economie principali dell’euro: una maggiore omogeneità di politiche interne, la Germania un po’ spostata a sinistra dalla grande coalizione, la Francia convintasi a lasciare illusioni annose di rilancio fatto in casa.

La novità pesa anche da noi. Non solo a sinistra molti hanno finora sostenuto che avremmo dovuto fare come la Francia, ossia forzare la mano al massimo per allentare le regole di bilancio europee, usare la spesa pubblica per il rilancio. Ora all’Eliseo si sono convinti anche loro che quella ricetta non funziona: conti con l’estero ancora in negativo, ritardo perfino rispetto all’Italia nel farsi largo sui mercati emergenti, produzione in persistenti difficoltà.

Il chiarimento interno che il Partito democratico italiano ha condotto con le primarie, il Partito socialista francese lo ha realizzato nel chiuso dei palazzi, eppure l’esito è simile. Ridurre la spesa pubblica per abbassare le tasse sul lavoro, semplificare le procedure burocratiche, modernizzare il sistema tributario divengono ora gli obiettivi principali dopo che nei primi diciotto mesi la presidenza Hollande aveva compiuto mosse incoerenti tra loro e spesso maldestre.

La Francia condivide con noi molti difetti, meno evidenti grazie a una amministrazione pubblica più efficiente e meno corrotta della nostra. Un carico fiscale più alto di quello italiano viene meglio sopportato grazie alla minore evasione; ma gli arcaismi sono profondi, tipo l’imposta sul reddito senza ritenuta alla fonte e con criteri in parte risalenti a 90 anni fa.

Simile è la difficoltà di concentrare lo sforzo del governo a favore del lavoro e dell’impresa manifatturiera scontentando lobbies potenti, rendite, settori protetti. Davanti sia alla Francia sia all’Italia è il compito arduo di accrescere la competitività senza rinunciare al modello sociale europeo: lo stesso in cui riuscì 10 anni fa in Germania, ma con seri costi di popolarità, il governo rosso-verde di Gerhard Schroeder e Joschka Fischer.

Annunciate solo ora con le spalle al muro di un record di impopolarità, le promesse di Hollande hanno grande portata: realizzarle comporterà dire parecchi no. Ma le piazze è meglio averle contro passando all’azione, trasformando, piuttosto che averle contro perché non si fa nulla, come stava cominciando a succedere anche al di là delle Alpi: perché quando non si fa nulla, guidare la protesta risulta troppo facile ai demagoghi che promettono tutto e il contrario di tutto.

Se l’economia francese avesse tutti i difetti che le attribuiscono i tedeschi, sarebbe andata a fondo da un pezzo; e d’altra parte il modello Germania al momento non funziona nemmeno nei due Paesi più affini, Austria e Olanda, entrambi frenati da difficoltà. Che Parigi si metta in cerca di una nuova strada, attenta insieme all’industria e al lavoro, non può che essere un vantaggio per tutti; anche se per noi alzerà il livello delle sfide.

La Stampa 15.01.14

"L’ossessione dei moderni barbari", di Francesco Merlo

Non credo che la legge consenta il sequestro preventivo di un giornale che commette ogni giorno istigazione al razzismo. E sospetto che ai disperati della Padania questo farebbe piacere. So che sicuramente bisognerà ricordarsi la data di ieri. La pubblicazione sul quotidiano leghista della rubrica razzista “Qui Cécile Kyenge ” segna infatti il superamento di un’altra soglia di civiltà. Il superamento di un altro punto di non ritorno della barbarie italiana, che rimanda più ad atmosfere di dissoluzione antropologica che al putsch fallito della birreria di Monaco.
Con la loro nota furbizia pavida, il leader Matteo Salvini e la direttrice responsabile del giornale Aurora Lussana, capi di una gagliofferia ridotta ormai a minoranza di violenti, dicono che è «solo informazione sull’attività del governo» elencare ogni giorno tutti gli appuntamenti della signora che, sempre ieri, al Senato è stata definita ministra «della negritudine» e accusata di demenza dal capogruppo Massimo Bitonci.
Eh, già: non è mica colpa di Salvini e della direttrice se ormai, dovunque vada, la ministra viene oltraggiata dai razzisti di una Lega sempre più in calo di consensi, un partito corroso dagli scandali e ridotto al nocciolo duro della xenofobia, agli ultras che non riescono a riempire le piazze ma le incendiano: a Torino a sostenere il governatore Roberto Cota e la sue mutande verdi erano meno di mille.
Costretti per la verità a misurarsi con le rumorose organizzazioni della peggiore marginalità di estrema destra, i capetti di questa Lega si compiacciono, con risatine da osteria, nell’esibire l’elenco delle mascalzonate contro la Kyenge, dal lancio di banane all’esposizione di manichini insanguinati, ai cori “fuori dai coglioni”.
E ora accentuano l’allusione intimidatoria dicendo ammiccanti che «gli spostamenti della Kyenge stanno già sul sito del ministero» quasi fosse anche il loro giornale, come quel sito, uno strumento di consultazione e non un laboratorio di militanza. Aggravano insomma il significato persecutorio dell’iniziativa parlando di «un servizio ai lettori della
Padania che sono curiosi e vogliono andare ad ascoltare il ministro». Ci fosse qualche omissione nella rubrica c’è dunque il self service: i lanciatori di banane possono informarsi da soli e preparare alla signora l’accoglienza che merita «un orango», «un’esponente del governo bongo bongo» , «una degna di essere stuprata», «una straniera seguace della poligamia»… Tutto questo pasticcio paranoico è stato bene espresso dal solito Mario Borghezio, che ieri sera si è precipitato alla
Zanzara, il suo fondaco abituale, la trasmissione di grande successo di Radio 24, microfono aperto degli urlatori, che svela l’Italia più dei sondaggi e più dell’Istat: «Buona caccia ai cacciatori padani. È una rubrica dedicata ai cacciatori padani per cercare il leprotto Kyenge… ». A Borghezio l’idea pare «brillante, salviniana e futurista». Ecco: sembrano deliri alcolici con Salvini, Bitonci, Lussana e Borghezio che si muovono in combriccola. È una gang di bulli squinternati, un sostenersi reciprocamente nel buio.
Come si vede, non è solo un ritorno alle origini del movimento, che per più di venti anni è stato importante nel Paese: qui c’è la consapevolezza di avere perso la partita e dunque la necessità di buttare in aria il tavolo. La Lega ha bisogno di provocare la rissa dentro cui legittimare lo scacco. E il razzismo, che si eccita davanti al colore della pelle della Kyenge, è la riserva aurea di chi non ha più nulla, l’ultimo dente del forcone. Perciò fa bene la Kyenge a smontarli ora con l’indifferenza e ora con l’ironia: «La Padania chi?». E non è uno sberleffo ribaldo come il famoso «Fassina chi?» di Renzi, ma è un banale certificato di inesistenza geografica e storica, una stanchezza personale che non è sottovalutazione perché la Kyenge sa che il razzismo rimane una brutta bestia anche quando non è accompagnato da studi genetici, teorie moebiusiane, e neppure delle dotte corbellerie d’antan del professore Miglio sul popolo lombardo.
È vero che non è questo il primo naufragio professionale del giornalismo usato come manganello. Abbiamo infatti visto altri tentativi di mettere in piedi le gogne. Recentemente il blog di Grillo è stato attrezzato come plotone d’esecuzione con il giornalista Travaglio nel ruolo qui interpretato dalla direttrice della Padania, la picchiatrice onesta che istiga e nega, perseguita e fa finta di informare, impagina e sbianchetta: «Non c’è mica scritto andate a picchiare la Kyenge. Noi siamo contro la violenza». Perbacco. Che cos’è questo giornalismo? Di sicuro non è più il mestiere di informare, neppure i lettori di un partito; non c’entrano nulla le notizie, i commenti e le opinioni che, per quanto fegatose ed espresse con linguaggio maleducato o smodato, sono comunque lecite e qualche volta necessarie.
E qui c’è in più il razzismo che da patologia sociale è diventato l’ossessione come unica linea politica. Lo spasmo bilioso che alimentò il mito fondativo della Lega è la sua ultima trincea. Si spiegano così l’invito allo stalking e la proposta, non esplicita ma chiara, della punizione collettiva. In questa istigazione agli atti persecutori aggravati dalla discriminazione razziale c’è ovviamente l’insidia dell’agguato, il presagio dello scontro fisico: «Venga al nord, ministro, la aspettiamo e la accogliamo molto volentieri con delle belle sorprese. D’altra parte lei è un oracolo, tutti i giorni ci dà delle lezioni» ha aggiunto quel diavolo goffo di Borghezio.
In Italia c’è purtroppo una sacca di marciume e c’è un nesso tra le minacce orribili dei No Tav al senatore del Pd Stefano Esposito e al cronista della Stampa Massimo Numa, l’incitamento alla lapidazione degli avversari e dei giornalisti, la voglia di colpire le singole persone, le minacce degli animalisti ai ricercatori scientifici, sino agli insulti a Caterina Simonsen, affetta da una malattia genetica: «Puoi morire anche domani». In questo senso la rubrica razzista di un giornale contro la ministra nera rimanda ai metodi della guerra civile, alimenta un rumore crescente che nel Paese sovrasta l’intelligenza, simula e surroga il temibile passo cadenzato.

La Repubblica 15.01.14