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"Scuola 2013 aumentano i bocciati, anche se di poco. Ma l'allarme è sui tanti che abbandonano", di Salvo Intravaia

Dopo cinque anni in calo, tornano ad aumentare – sia pur di pochissimo – i bocciati delle scuole superiori. Di fatto la notizia che si evince dai dati del Ministero è che dopo cinque anni la tendenza alla costante riduzione degli alunni respinti si è fermata. Un dato non eclatante, certo, ma che contribuisce a quel poco invidiabile record italiano in Europa dei ragazzi fra i 18 e i 24 anni che non completano la scuola superiore, i cosiddetti “early school leavers¨(e oltretutto i quasi 300mila ripetenti incidono per oltre due miliardi di euro sul bilancio della scuola). Un fenomeno – questo della dispersione scolastica – segnalato da tutti con allarme, tanto che lo stesso ministro Maria Chiara Carrozza, ospite da Fabio Fazio alla trasmissione “Che tempo che fa”, dice di “non dormirci la notte”.

Il dato sui bocciati del 2012/2013, che Repubblica.it è in grado di anticipare, proviene dall’Ufficio statistica del ministero dell’Istruzione e riguarda gli studenti dei primi quattro anni delle scuole secondarie di secondo grado. Gli incrementi più consistenti di non promossi riguardano le new entry del primo anno e gli studenti del terzo anno: più 0,6 per cento per i primi e più 0,8 per i secondi. Basta infatti sommare la quota di studenti bocciati tra giugno e settembre e coloro che non sono stati scrutinati a causa delle eccessive assenze per avere il polso della situazione.

Nell’anno scolastico 2012/2013 i respinti dei primi quattro anni di licei, istituti tecnici e professionali restano a quota 11,8 per cento. Aumentano invece i non scrutinati, che passano dall’1,6 all’1,8 per cento. E si ferma il trend positivo, che durava dall’anno 2007/2008 quando i bocciati – allora i non scrutinati per le assenze non esistevano ancora – si attestarono al 16,2 per cento. Da allora il trend delle bocciature è stato sempre in calo: il 15 per cento nel 2009/2010, il 14,5 nel 2010/2011 e il 13,4 per cento nel 2011/2012. Ma l’anno scorso la tendenza si è invertita. Alunni più sfaticati o scuola meno efficiente?

“L’aumento del numero delle bocciature è un dato che da un lato ci mostra quanto il nostro sistema scolastico negli ultimi anni sia sempre più in seria difficoltà e non riesca a fornire a tutti la possibilità di formarsi, dall’altro è anche la misura di un sistema che non si pone come obiettivo quello di portare tutti al successo formativo ma troppo spesso finisce per abbandonare e bocciare chi non riesce”, dice Daniele Lanni portavoce della Rete degli studenti medi. Intanto, viale Trastevere lancia una iniziativa per ridurre le bocciature dovute alle “scelte sbagliate”. Secondo una indagine condotta dal consorzio AlmaLaurea sui diplomati del 2013, infatti, il 44 per cento se potesse tornare indietro cambierebbe indirizzo scolastico o scuola.

“Io scelgo, Io studio” – il portale dell’orientamento al secondo grado e al post-diploma – ha lo scopo di chiarire cosa si studia nei diversi corsi di studio della scuola secondaria di secondo grado e le opportunità di lavoro una volta conseguita la maturità: la cosiddetta spendibilità del titolo di studio nel mercato del lavoro. “I licei – spiega il portale www.istruzione.it/orientamento – offrono un’ampia formazione culturale e un buon metodo di studio, cosa che rende questa tipologia di scuola particolarmente adatta a chi ha intenzione di proseguire gli studi all’università”. “Gli istituti professionali sono scuole che ti formano non solo dal punto di vista teorico ma anche da quello pratico, mettendoti in grado di realizzare quello che hai studiato”, spiega invece il sito a proposito degli istituti professionali.

da repubblica.it

"Se fosse un vero leader", di Michele Di Salvo

Dalle 10 alle 17 gli iscritti certificati hanno espresso il parere vincolante sul voto che il gruppo parlamentare del Senato dovrà esprimere domani 14 gennaio sul “reato di clande- ììstinità”. 15.839 hanno votato per la sua abrogazione, 9.093 per il mantenimento. I votanti sono stati 24.932. Gli aventi diritto erano gli iscritti certificati al 30 giugno 2013, pari a 80.383». Manca la firma «la Casaleggio e associati rende noto». Non si sa se anche approvi, ma tant’è.

È con questo laconico comunicato che dal blog di Beppe Grillo, organo unico più che ufficiale del Movimento 5 Stelle, il popolo pentastellato apprende l’esito di questa consultazione, e tutti noi a nostra volta finalmente sappiamo, in barba all’articolo 67 della Costituzione, come il terzo gruppo in Senato voterà domani.

Con questo comunicato si chiude – forse – una polemica politica e programmatica profonda, proprio con alcuni senatori che avevano sollevato la questione, rivendicato la decisione come comunque coerente con il proprio elettorato (e la propria coscienza), e ne era sorta una violentissima controversia, con un Beppe Grillo che si è lasciato sfuggire anche che «se avessimo detto che avremmo fatto questo ai nostri elettori avremmo preso percentuali da prefisso te-efonico».

I TEMI CARI ALLA GENTE

Sì, un Beppe Grillo sempre molto attento ai temi «cari alla gente», non tutti, solo quelli vendibili in un populismo facile, senza troppe argomentazioni, condito con qualche ci- fra sbagliata e soprattutto senza mai rispondere alle domande scomode e senza mai rendere conto di molte sue affermazioni.

Già, a un Grillo impegnato in questi giorni a definire una linea coerente con i suoi riferimenti europei, da Alba dorata ai No Euro alla parte movimentista del Fronte Nazionale, agli euroscettici inglesi e spagnoli, per un Beppe impegnatissimo a drenare i voti del centro destra tanto da «mandare in India» una sua delegazione perché finalmente si è accorto del caso dei marò, avere anche questa seccatura proprio non deve essere andata giù.

Del resto il suo inseguimento della Lega Nord sui temi dei «clandestini criminali» e «immigrati che ci rubano il lavoro» è uno dei pochi contenuti sui quali, c’è da dirlo, il Beppe nazionale e nazional-popolare non si è mai smentito.

NIENTE DIKTAT

Stavolta però sarebbe stato troppo continuare a far da sé, minacciare espulsioni e ritorsioni e diktat, perché di una qualche base hai pur bisogno se quanto meno alle elezioni europee vuoi presentare la lista della rabbia e dello sfascio. E allora dopo aver già messo a dura prova i suoi, decidendo da solo che «in Sardegna non ci si presenta» (numeri dei sondaggi alla mano sarebbe stata una debacle, ma non lo puoi mica dire e ammettere), una forma di «partecipazione» doveva tirarla fuori dal cilindro del suo blog. Ci ha pensato Casaleggio. Consultazione alla chetichella, poche ore senza alcun preavviso (le precedenti consultazioni erano state annunciate con svariati giorni di anticipo), e vediamo che cosa esce fuori.

Gli è andata male. Stavolta ha perso Beppe Grillo. Certo, sarà colpa dei media contrari (che però per una volta non si sono occupati della vicenda), dei complotti delle note lobby degli immigrati clandestini, o per una volta di una sana e spontanea linea più che politica direi semplicemente «umana»? Certo quelle percentuali di votanti, appena 25mila su 80mila, qualche margine lo offrono. In fondo sarà stato per questo.

In un qualsiasi partito o movimento anche solo tendenzialmente democratico, il «segretario» prenderebbe atto che la sua linea è stata bocciata, convocherebbe una direzione, un’assemblea, qualsiasi cosa di collegiale e rappresentativa della base «umana» del suo movimento, e si dimetterebbe.

IL PROPRIETARIO

Ma come fai nel caso di Grillo? Lui è il proprietario del logo, il presidente di un’associazione a tre con suo nipote e Gianroberto. Privarlo del logo sarebbe un esproprio proletario, o una donazione forzata. E poi a chi?

In attesa di sciogliere un dilemma, che per la verità siamo certi Beppe non si è mai posto, registriamo la fine del laconico comunicato. Più per la sua base leghista e di destra che per noi o per i suoi: Beppe precisa «con l’abrogazione si mantiene comunque il procedimento amministrativo di espulsione che sanziona coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato».

Adesso sì che siamo tutti più tranquilli.

L’Unità 14.0.14

"Si recupera il 2012, ma i salari restano al palo", di Antimo Di Geronimo

Tra un decreto (già varato) e un contratto (ancora da fare) ecco come il servizio del 2013 va in fumoIl recupero dei gradoni entra dalla porta ed esce dalla finestra. Le retribuzioni dei docenti e dei non docenti, infatti, rimarranno comunque ferme agli importi in godimento nel 2013. Anche dopo il ripristino dell’utilità del 2012 ai fini dei gradoni, a cui si è impegnato il governo con la trattativa in via di autororizzazione.
Perché il dpr n. 122/2013, approvato a fine agosto dal consiglio dei ministri, prevede la cancellazione dell’utilità 2013. E quindi gli effetti del ripristino 2012, che avverrà dopo la firma di un contratto ad hoc, saranno posti nel nulla dall’applicazione del decreto. In altre parole, il nuovo contratto restituirà ai lavoratori della scuola un anno di anzianità di servizio (il 2012) eliminando il ritardo di un anno nella progressione di carriera (i cosiddetti gradoni). E il decreto 122, cancellando il 2013, riporterà nuovamente indietro di un anno le lancette dell’orologio.

Il risultato sarà quello di cristallizzare le retribuzioni agli importi del 2013. Per comprendere appieno la questione è necessario fare un salto indietro fino al 2010: l’anno in cui è stato emanato il decreto legge 78 dall’allora governo Berlusconi. Il decreto 78, infatti, è il provvedimento con il quale è stata disposta la cancellazione dell’utilità di 3 anni ai fini della progressione di carriera: il 2010, il 2011 e il 2012. Ciò ha comportato il differimento di 3 anni del termine di compimento dei cosiddetti gradoni. E cioè dei periodi di servizio al compimento dei quali si ha diritto ad un aumento di stipendio (circa 100 euro). Facciamo un esempio. Il contratto prevede incrementi stipendiali legati all’anzianità di servizio al compimento dei seguenti periodi: 8, 15, 21, 28 e 35 anni di servizio. L’entrata in vigore del decreto legge 78/2010 ha comportato uno slittamento in avanti di tre anni di tutti i relativi termini di compimento dei gradoni. Il primo è passato da 8 a 11 anni di servizio, il secondo da 15 a 18, il terzo da 21 a 24, il quarto da 28 a 31 e l’ultimo, da 35 a 38 anni di servizio. A seguito del pressing sindacale, l’allora ministro dell’economia, Giulio Tremonti, diede l’ok a un decreto interministeriale (14 gennaio 2011) che ha consentito il ripristino dell’utilità del 2010. E quindi, il ritardo nella progressione di carriera si è ridotto da 3 a 2 anni, determinando i seguenti termini di compimento dei gradoni: 10, 17, 23, 30 e 37 anni di servizio.

Il 13 marzo 2013, poi, è stato sottoscritto un contratto ad hoc che, utilizzando parte delle risorse destinate allo straordinario (i fondi del cosiddetto miglioramento dell’offerta formativa), ha ripristinato l’utilità del 2011, determinando un’ulteriore diminuzione di un anno del ritardo nella maturazione dei gradoni. Così, per effetto di tale accordo, i termini di compimento dei gradoni sono passati a 9, 16, 22, 29 e 36 anni di servizio. Grazie al contratto del 2013, dunque, circa 80mila lavoratori avevano maturato i gradoni, sebbene in ritardo di un anno: una prima tranche con effetti nella busta paga di maggio 2013 e una seconda tranche con effetti nella busta paga di settembre.

Fermo restando che restava comunque da recuperare ancora il 2012. Per il quale è attualmente in corso una trattativa. Senonchè, il 25 ottobre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il dpr 122/2013, che cancella anche l’utilità del 2013, di fatto, ponendo nel nulla gli effetti del recupero del 2011. E proprio per effetto di questo provvedimento il mineconomia stava per riprendersi i soldi già versati ai lavoratori che avevano maturato il gradone nel 2013.

Poi, però, il governo ha fatto dietrofront. Perché, comunque, quando verrà stipulato il contratto per il ripristino del 2012, il ritardo nella maturazione dei gradoni ritornerà ad essere di un solo anno.

E quindi si ritornerà alla situazione precedente all’entrata in vigore del decreto 122, prima del ripristino del 2012. Insomma, con una mano il governo intende ridare ciò che ha tolto e con l’altra intende riprenderselo.

da ItaliaOggi 14.01.14

"Bisogna ripartire dal «setaccio» della scuola media", di Orsola Riva

Cornuti e mazziati. In un Paese che ha superato la soglia angosciante del 40 per cento di giovani disoccupati, ora «scopriamo» che il problema non è (o non è soltanto) la crisi del mercato del lavoro sempre più asfittico. Il problema è anche che le abilità, con antipatica parola inglese le «skills» di cui dispongono i giovani in cerca di un impiego, non rispondono alle richieste dei potenziali datori di lavoro. In nessun Paese il disallineamento è così forte: da noi quasi un datore di lavoro su due lamenta di non trovare le competenze giuste di cui avrebbe bisogno. Un dato, in realtà, non così sorprendente. Non solo non facciamo pi ù figli, ma i pochi giovani che abbiamo li perdiamo per strada. È l’esercito dei Neet (not in education, employment or training): oltre due milioni di giovani fra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano. Alcuni hanno il diploma, altri neanche quello. L’Italia ha il record di abbandoni scolastici in Europa: il 17,6% di alunni (con punte del 25% nel Mezzogiorno) lascia i banchi di scuola troppo presto. Se si vuole capire come mai da noi i giovani faticano tanto a trovare lavoro bisogna risalire la corrente degli studi e ripartire dalla scuola media. Spiega Stefano Molina, dirigente ricercatore della Fondazione Agnelli: «Da noi la scuola media funziona come un setaccio che divide i ragazzi in tre gruppi: i più bravi al liceo, quelli così e così negli istituti tecnici e i più scarsi nelle scuole professionali. Così si uccide la possibilità di fare degli istituti professionali, di cui pure il Made in Italy avrebbe tanto bisogno, una scuola seria». Ma neanche i laureati se la passano bene. Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, da noi studiare conviene meno che altrove: è per questo che, complice la crisi (e l’innalzamento delle tasse universitarie) molte famiglie non spronano più i figli a iscriversi all’università e solo il 58% dei diplomati si immatricola (dieci anni fa erano il 73%). La «colpa» è in parte delle università che (come mostrato dalla ricerca sui Nuovi Laureati della Fondazione Agnelli) licenziano dei giovani robusti nelle competenze disciplinari ma scarsi in quelle trasversali (capacità di lavorare in gruppo, di consegnare un lavoro nei tempi prestabiliti ecc.) magari anche perché durante il corso di studi non hanno mai fatto stage o comunque stage davvero utili. In parte però anche di un mercato del lavoro che in Italia sembra essere meno favorevole che altrove ai laureati stessi. «Da noi — spiega Andrea Cammelli di Almalaurea — il 37% dei manager ha solo un diploma di scuola media, mentre in Germania i manager laureati sono la stragrande maggioranza. E, come dimostrato da uno studio recente di Bankitalia, un manager laureato assume tre volte più laureati di un manager che non lo è».

Il Corriere della Sera 14.01.14

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“I giovani italiani che ignorano quello che serve per lavorare”, di luigi Offeddu

La prima è una notizia tristemente già vecchia, da archivio: «La disoccupazione giovanile in Italia è raddoppiata dal 2007, toccando il 40% nel 2013». (41,6% oggi, ndr ).
Ma la seconda no, la seconda notizia morde nel vivo: «Tuttavia, questa cifra è solo parzialmente dovuta alla crisi economica: i problemi ribollono molto più nel profondo… Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa è la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati».
Infatti: lo stesso lamento echeggia fra il 45% degli imprenditori greci, il 33% degli spagnoli, il 26% dei tedeschi. Ma da nessuna parte, come da noi. In Italia, dunque, cercansi coloro che hanno gli skill , le attitudini, le capacità, i talenti richiesti da questo o quel settore. Ce n’è tanti. Gli imprenditori non li trovano, loro non sanno come e dove farsi cercare: «Non hanno le informazioni su come prendere decisioni strategiche». Domanda e offerta non si incontrano, e nessuno spread riesce a farle metterle in contatto, a far scattare il semaforo.
Tutto questo dice il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi Ue e presentato ieri a Bruxelles presso il centro di ricerca Bruegel («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione»).
Il dossier spiega anche che «la Ue ha il più alto tasso di disoccupazione ovunque nel mondo, a parte il Medio Oriente e il Nord Africa». Per poi sferzare: «In Italia, Grecia, Portogallo e Regno Unito sempre più studenti stanno scegliendo corsi di studio collegati alla manifattura, alla lavorazione, nonostante il brusco calo nella domanda in questi settori. E in generale, non è una cosa positiva vedere un ampio numero di giovani scommettere il loro futuro su industrie in decadenza… Ci sono abbinamenti sbagliati, educatori e imprenditori non stanno comunicando fra loro».
È precisamente quanto accade nel nostro Paese: «Datori e fornitori di lavoro o di istruzione hanno percezioni molto differenti. Il 72% degli educatori in Italia pensano che i ragazzi abbiano le attitudini di cui avranno bisogno alla fine della scuola; ma solo il 42% degli imprenditori concorda con questo. La percezione di questo divario riflette una mancanza basilare di comunicazione. Solo il 41% dei datori di lavoro dice di comunicare regolarmente con i dirigenti delle scuole, e solo il 21% considera questa comunicazione effettiva».
In apparenza, tutto sarebbe abbastanza semplice: bisogna, dicono i ricercatori McKinsey, «incoraggiare gli educatori a insegnare quello che gli imprenditori richiedono».
Ma l’apparenza sfuma quando, per esempio, si studia la differenza fra il «desiderio» di un imprenditore nei confronti di certe capacità professionali e la competenza reale in quegli stessi skill dei giovani in attesa del posto: in Italia, il «desiderio» o bisogno imprenditoriale di una buona conoscenza dell’inglese fra i propri dipendenti è soddisfatto solo dal 23% degli aspiranti, e quello di una competenza informatica appena dal 18%. Mentre la richiesta di creatività, che in Germania trova solo un 13% di risposte fra i giovani, in Italia arriva al 19%. Ma resta anche un concetto assai vago. In cima a tutti i sogni degli imprenditori resta la «conoscenza pratica», in qualunque settore (risposta del ventenne: ma dove la faccio, l’esperienza, se tu non mi assumi?). Mentre il lavoro più ambito dai nostri giovani è il creatore di siti Web (61% contro il 58% di «sì» dei giovani tedeschi): e però cercansi attitudini supportate da conoscenze, anche qui.
Le conseguenze di tanti squilibri si ripercuotono in ogni settore. Gli stage, i periodi di rodaggio in azienda, un tempo considerati isole di speranza e anello diretto fra la scuola e il lavoro? Il 61% in media dei giovani europei trova un posto di lavoro al termine di uno stage. In Italia, sono meno del 46%. E ancora: Portogallo, Italia e Grecia hanno la più alta percentuale di giovani che riferiscono di non aver potuto frequentare l’università per ragioni economiche; «ed è in questi tre Paesi che la più bassa proporzione di giovani (sotto il 40%) ha completato l’istruzione post-secondaria».
Chissà che cosa avrebbe detto oggi il buon maestro Manzi, quello di «non è mai troppo tardi».

Il Corriere della Sera 14.01.14

Tre molotov per il senatore pd che si batte a favore della Tav “Senza Caselli farai bum bum”, di Meo Ponte

Svegliarsi e trovare tre bottiglie molotov con tanto di innesco davanti alla porta di casa. Portare il cane a spasso ed essere filmati, trovare il proprio indirizzo, il numero di telefono e le foto della moglie sui siti più oltranzisti. Si vive così nella Torino che da anni deve confrontarsi con la protesta No Tav. Dalle passeggiate alle reti si è arrivati nel tempo agli attacchi con bottiglie incendiare al cantiere, alle minacce ai sindaci della Val di Susa favorevoli all’Alta Velocità e agli attacchi alle imprese che lavorano al progetto. Ieri gli ultimi atti di questa nuova offensiva.
È mattina presto quando il senatore Stefano Esposito, da sempre in prima linea nel denunciare le violenze in Val di Susa, sente bussare alla sua porta. «Ha aperto mia moglie — ricorda — Era il mio vicino, mi ha mostrato tre bottiglie molotov sul pianerottolo». Nella cassetta delle lettere c’è un biglietto minaccioso: «Caselli è andato in pensione, Bersani in rianimazione. I tuoi amichetti sono quindi fuori gioco. Chiamparino non tornerà. Ora tocca a te ritirarti oppure fare bum bum, tornatene in prefettura la scorta non ti può proteggere». In più c’è un post scriptum: «Tu e il tuo amichetto Numa eravate proprio belli seduti sulla panchina ai giardinetti».
È la prova che Esposito, che da otto mesi vive sotto scorta, è costantemente pedinato. Come Massimo Numa, giornalista de La Stampa bersaglio da anni della rabbia No Tav a cui nell’ottobre scorso è arrivato un micidiale pacco bomba e che ora ha scoperto di essere stato filmato e seguito a partire dall’estate 2011. Il video arriva in giornata alle redazioni e finisce su Indymedia. Per gli investigatori della Digos è la prova di un progetto per un attentato al giornalista poi improvvisamente tramontato. Esposito è provato dall’ennesima intimidazione. Dice: «Non vivo da solo, ho moglie e tre figli tra cui una bimba di appena tre mesi. Non so se voglio continuare a vivere così». È a lui che, dall’ospedale di Parma, Pier Luigi Bersani manda il suo primo messaggio da quando è ricoverato: un attestato di solidarietà e un abbraccio.
Nel frattempo il tribunale della Libertà conferma le accuse contro Claudio Alberto, Niccolo Lasi, Mattia Zanotti e Chiara Zenobi, quattro No Tav arrestati per aver partecipato ad un assalto al cantiere di Chiomonte dove si è fatto largo uso di bottiglie molotov e soprattutto avalla la tesi dei pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino che si tratta non di semplice violenza ma di atti di terrorismo. I No Tav anticipano la sentenza resa pubblica alle 13. Qualche ora prima dodici bagni del palazzo di giustizia vengono “sabotati”: gli scarichi bloccati con polistirolo e matite, tutto allagato. Alcuni sono vicini agli uffici del pm Rinaudo e dei giudici che si sono occupati delle violenze legate all’Alta Velocità. L’attentato ha una rivendicazione precisa: in ogni bagno allagato è stato lasciato un adesivo con la scritta No Tav e lo slogan: “Terrorista è chi militarizza la valle”. Intanto due pm interrogano un valsusino che con il nome di Oskar Wolf ha minacciato di morte su Facebook i sindaci di Susa e Chiomonte favorevoli alla Tav. Delle Brigate Rosse dice: «Erano un’associazione che si batteva per il bene nel mondo».

La Repubblica 14.01.14

"I prof europei scattano tutti", di Giovanni Scancarello

Salari europei con carriera, ma anche con gli scatti di anzianità. La vicenda degli scatti, prima minacciati e poi garantiti, ha riaccesso il faro sulla struttura retributiva degli insegnanti italiani. I salari dei docenti europei sono costantemente monitorati dalla commissione europea. Va detto subito che, secondo la definizione della commissione, per salario lordo annuo va inteso l’importo dello stipendio pagato in un anno che comprende premi, aumenti e assegni, come quelli per il costo della vita, la tredicesima, le ferie, meno i contributi assistenziali e previdenziali versati dal datore di lavoro.
Tutti i paesi europei, oltre a fissare un salario di base minimo, prevedono una serie di incrementi salariali legati, per lo più, all’anzianità di servizio, agli straordinari e alle responsabilità supplementari.

I paesi, in base all’ultimo rapporto di Eurydice (School Heads’ Salaries and Allowances in Europe), si distinguono in base al numero di fattori che possono incidere sui salari degli insegnanti. La Polonia, per prima, e poiDanimarca, Grecia, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Estonia, Lituania, Ungheria e Slovenia costituiscono il gruppo di paesi che, per la definizione della retribuzione degli insegnanti, tengono conto del maggior numero di fattori. L’Italia è uno dei Paesi caratterizzati dalla maggiore rigidità della progressione retributiva, sostenuta da tempi mediamente più lunghi per i docenti per passare dalla base alla cima della scala retributiva.

Quasi tutti i paesi utilizzano un sistema di scale salariali basate sull’anzianità di servizio, che determinano l’avanzamento di grado retributivo fino a raggiungere il salario massimo. In Italia un docente di scuola media prende 24846 euro a inizio e 37212 euro a fine carriera, in Finlandia sono 34235 e 44526 euro, in Germania 44823 euro e 59451, in Lussemburgo partiamo con 77897 euro e arriviamo a 135408.

Gli incrementi salariali legati all’anzianità di servizio non sono poi uguali in tutti i paesi.Possono aver luogo a intervalli fissi o variabili. In molti paesi, tali intervalli sono annuali, ma possono anche arrivare a sette anni come in Italia. Come avveniva prima del congelamento dei contratti dal 2008. Va ricordato come già nel lontano 1966 l’Unesco raccomandasse di abbreviare gli intervalli di tempo tra gli scatti di carriera, fino a farli diventare addirittura annuali e facendoli rientrare all’interno di un periodo più corto di 10 massimo 15 anni in almeno un terzo dei Paesi, gli insegnanti aspettano di ricevere un incremento tra il 17 e il 40% tra inizio e fine carriera, in un altro terzo l’incremento è tra il 60 e il 90%. I livelli retributivi massimi vedono raddoppiare i livelli iniziali in Irlanda, Cipro, Ungheria, Austria e Romania. Nella maggior parte dei Paesi europei ci vogliono mediamente dai 15 ai 35 anni di servizio per completare la salita. I più lenti in assoluto sono ungheresi, romeni e spagnoli che ci mettono dai 38 ai 40 anni. L’Italia segue con i suoi 34 anni. Danimarca, Estonia, Regno Unito (Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord) richiedono solo 12 anni per arrivare in cima alla scala.

Gli aggiustamenti salariali registrati tra il 2000 e il 2009, sostengono i ricercatori di Eurydice, consentono ai docenti europei di mantenere i livelli retributivi del 2000 o di superarli, ad eccezione di Francia e Grecia. In Italia, insieme alla comunità belga di lingua francese, Danimarca, Spagna, Austria, Portogallo, Slovenia, Finlandia, Svezia, Regno Unito, i docenti hanno ricevuto i salari che hanno mantenuto pressoché inalterato il loro potere d’acquisto rispetto al 2000. Sedici paesi europei hanno ridotto o congelato gli stipendi degli insegnanti in risposta alla crisi economica: Italia in compagnia di Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Slovenia. Nell’approfondimento dal titolo School Heads’ Salaries and Allowances in Europe, 2012/13, è possibile inoltre constatare come tra tutti i Paesi Eurozona gli stipendi degli insegnanti mantengano gli stessi livelli retributivi o li aumentino tra il 2000 e il 2002, l’Italia è l’unico Paese, insieme all’Austria, che li abbassa nel 2002, proprio in corrispondenza con l’introduzione dell’euro.

da ItaliaOggi 14.01.14

"La ferita da sanare", di Massimo Giannini

Ora è scritta nero su bianco, come una delle pagine nere della Storia politica italiana. La “porcata” di Calderoli, ideata dalla follia berlusconiana per impedire la vittoria elettorale dell’Unione di Prodi, ha determinato una profonda «alterazione del circuito democratico » basato sul principio fondamentale dell’uguaglianza del voto. Le motivazioni della Consulta fanno luce così su una delle notti più buie della Repubblica. Per quasi dieci anni la democrazia italiana è stata stravolta, e i diritti dei cittadini-elettori
espropriati.
Insieme a molti altri disastri politici e istituzionali e ad altrettanti guasti economici e morali, questa è dunque la drammatica eredità che una destra populista e “sfascista” regala al Paese. La Corte costituzionale lo dice con assoluta chiarezza, spiegando le censure di illegittimità che riguardano i due vizi fondamentali di quella legge. L’abnorme premio di maggioranza , che in assenza di una ragionevole soglia minima di voti per competere all’assegnazione del premio stesso ha finito per «determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione». Il meccanismo delle liste bloccate, che rimettendo la scelta esclusiva dei candidati ai partiti ha privato «l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti», e ha ferito «la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione».
Il Porcellum è stato un veleno scientificamente inoculato nelle vene della nazione. Ha intossicato il Parlamento, riempiendolo di “nominati” al servizio delle segreterie. Ha innescato una micidiale crisi di rigetto nella società civile, spingendo moltitudini di elettori a cercare l’antidoto nell’anti-politica. Il dramma è che con questo “mostro” concepito dalla resistibile armata del Cavaliere abbiamo gi à votato due volte, eleggendo due Parlamenti. È vero che la Consulta si premura di chiarire ora che il principio di «continuità dello Stato» è comunque assicurato, e che la sua pronuncia non inficia le ultime tornate elettorali né delegittima le Camere appena elette.
Ma questo non è balsamo. Semmai è altro sale sulla ferita. Dal 2005, grazie alla “cura” berlusconiana, l’Italia è una democrazia violata. La legge elettorale, cioè la “regola” fondamentale che disciplina l’esercizio di un diritto inalienabile dei cittadini, ha violato palesemente la Costituzione. Ci sono voluti quasi dieci anni per certificare quello che era già chiaro allora. Meglio tardi che mai. Ma il rammarico resta, insieme all’indignazione.
Le motivazioni della Corte erano importanti non solo per comprendere le ragioni dell’incostituzionalità del Porcellum. Ma anche e soprattutto per capire quali paletti avrebbe fissato, nella prospettiva della riforma elettorale. I giudici hanno adottato una soluzione “aperta”, che di fatto non preclude nessuno dei modelli possibili, né il proporzionale né il maggioritario, variamente corretti e integrati. Purché il premio di maggioranza abbia una soglia minima, e a condizione che l’elettore abbia il diritto di scegliere. Riaffermati questi principi irrinunciabili, le motivazioni della Corte non sbarrano la strada a nessuna delle ipotesi messe in campo da Matteo Renzi. Il modello spagnolo può funzionare (purché le liste prevedano circoscrizioni ridotte e con pochi candidati), cos ì come il Mattarellum corretto (purché si gradui adeguatamente il premio della parte proporzionale) o il doppio turno di lista (ribattezzato impropriamente il “sindaco d’Italia”, e purché sia introdotto il voto di preferenza o il listino “corto”).
Questa exit strategy indicata dalla Consulta è da un lato un’opportunità. Ma dall’altro lato un problema. Chi pensava (o sperava) che la Corte togliesse le castagne dal fuoco alla politica rimane deluso. La palla torna interamente nella metà campo dei partiti. E questo costringe il leader del Pd ad accelerare i tempi, e a rompere gli indugi. Renzi deve portare a casa un risultato entro il 20 gennaio, quando il dibattito approderà in Commissione alla Camera, e poi una settimana dopo in aula. Il leader, da solo, non ha i voti per fare una qualunque riforma. Ha bisogno di alleati. E ferma restando l’indisponibilità di Grillo, ha solo due forni ai quali rivolgersi. Quello di Berlusconi e quello di Alfano. Ma l’uno, per ora, è alternativo all’altro. E l’uno e l’altro sono pericolosi.
Berlusconi può discutere forse solo di modello spagnolo, che è tendenzialmente bipartitico, ma non vuole né il Mattarellum corretto né il doppio turno di lista (gli elettori di destra storicamente non vanno a votare due volte in due settimane). Alfano può discutere del “sindaco d’Italia”, ma non vuole né il Mattarellum corretto (con i collegi uninominali sarebbe costretto a tornare nelle braccia del Cavaliere) né il modello spagnolo (con uno sbarramento al 15% rischierebbe di star fuori dal Parlamento). Renzi ha avuto il merito di forzare il modulo, e di mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, offrendo tre ipotesi di intesa possibile.
Ma ora, nell’indecisione altrui, è costretto a scegliere. Se tratta con Alfano, deve smettere di bastonare quotidianamente il Nuovo Centrodestra, e appiattirsi su un governo Letta dal quale invece si vuole sistematicamente e ostinatamente distinguere. Se tratta con Berlusconi, deve accettare l’idea dell’eventuale «patto col diavolo». Ma sapendo bene cosa l’aspetta. Non solo una probabile crisi di governo (eventualit à cui Alfano sarebbe costretto per la rottura del patto di coalizione). Ma anche una possibile imboscata (“specialità” nella quale il Cavaliere è maestro indiscusso). Berlusconi potrebbe portare il sindaco di Firenze a un passo dall’accordo sul modello spagnolo, per poi far saltare il tavolo all’ultimo minuto, incassando in un colpo solo la caduta del governo delle Strette Intese e le elezioni anticipate con il proporzionale puro (cioè la morte politica di Renzi).
È un rischio concreto e non fantapolitica. Per convincersene, basta chiedere al D’Alema della Bicamerale e al Veltroni del 2008. Una “lezione” che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.

La Repubblica 14.01.14