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L’Aquila, città in ginocchio «Aiuto, stiamo morendo», di Jolanda Buffalini

Punto uno. Il centrosinistra che governa L’Aquila, nella tempesta giudiziaria e mediatica che ha portato alle dimissioni di Massimo Cialente, alza il tiro e mira alla testa del ministro per la Coesione territoriale Carlo Trigilia. Punto secondo, il sindaco dimissionario rende nota una lettera al Capo dello Stato datata 11 dicembre 2012, nella quale si denuncia, come anticipato domenica da l’Unità, come segno dell’abbandono della città terremotata da parte dello Stato, l’allontanamento di Fabrizio Magani dalla direzione regionale dei beni culturali e quello dell’ingegnere Donato Carlera dal provveditorato del lavori pubblici; funzionari molto capaci che erano in due posti chiave per la ricostruzione e il recupero per la città che ha il 60 per cento degli edifici vincolati.

Punto tre. Celso Cioni, direttore della Confcommercio regionale, si è barricato in un bagno della sede della Banca d’Italia, minacciando di darsi fuoco con della benzina per protesta contro il sistema del credito che soffoca i piccoli commercianti. Celso Cioni è stato, in passato, un candidato sindaco del centro sinistra (vinse allora l’esponente di Forza Italia Tempesta). Ma il gesto eclatante di ieri, in una giornata super stressante per i magistrati e per la giunta Cialente, ha trovato solidarietà da Forconi e Forza Nuova, oltre che dal presidente della Provincia Del Corvo.

Tre scenari che raccontano una città boccheggiante, dove il volano della ricostruzione si è di nuovo inceppato, dopo la parentesi di Fabrizio Barca che aveva messo la parola fine al commissariamento e alla fase emergenziale. E, dopo cinque anni, la disoccupazione, le difficoltà delle piccole imprese di commercio che una volta vivevano nel centro storico, i tagli alle istituzioni che a L’Aquila pesano più che altrove, rischiano di riuscire là dove non è riuscita l’on- da sismica, spingendo alla rassegnazione e alla fuga.

Nella conferenza stampa in cui parlano Stefania Pezzopane e Betti Leone, a nome della coalizione di Villa Gioia, l’attacco al ministro Trigilia è durissimo. «Uno sciacallo», lo definisce Stefania Pezzopane, «un incompetente». «Letta gli tolga le deleghe». Pezzopane ribadisce con forza, a nome di tutti, ciò che lei aveva già affermato, ma a titolo personale.

C’è un complotto, contro Cialente è stato usato «il metodo Boffo». E nel complotto contro L’Aquila entra anche «Carlo Trigilia». «Come uno sciacallo», insiste la senatrice Pd, «ha dato una intervista al Messaggero nel giorno in cui è scoppiata la tempesta giudiziaria». E, insiste, ha ribadito le sue posizioni in un’intervista alla Stampa. Oggetto del contendere sono i finanziamenti 2014 per la ricostruzione. Il ministro accusa: «chiedete soldi ma non siete capaci di spendere quelli che avete, il tiraggio dei vostri progetti è di 500 milioni». «Incompetente», reagisce Stefania Pezzopane. «È uno che confonde cassa e competenze», ribadisce Giovanni Lolli. Il comune de L’Aquila ha autorizzato pagamenti che superano il cronoprogramma della ricostruzione, raggiungendo circa un miliardo e 400 milioni.

Brucia, per di più , che Trigilia ha convocato a Roma i piccoli comuni del cratere, il rettore dell’università de L’Aquila, Paola Inverardi, lasciando fuori il sindaco. La richiesta è che sia la presidenza del consiglio, direttamente, ad assumere per il governo il tema della ricostruzione. La paura è che per la città terremotata si prospetti un nuovo commissariamento. È una situazione nella quale è impossibile pensare a un ritorno del sindaco sui suoi passi, a meno che, sostiene Betti Leone, «non arrivi il miliardo e due necessario alla ricostruzione nel 2012». Intanto venerdì ci sarà una manifestazione (alle ore 17, 30) presso la Fontana luminosa in suo sostegno.

La lettera indirizzata a dicembre da Cialente a Napolitano è molto ferma nel denunciare i rischi dell’allontanamento da L’Aquila di Fabrizio Magani. Cialente aggiunge che si stanno già sperimentando i ritardi fisiologici nella ricostruzione del tribunale, dopo che è cambiato l’incarico di provveditore ai lavori pubblici. Ma, sullo spostamento a Pompei di Magani , il sindaco da voce al sospetto: «Qui a L’Aquila siamo convinti che Magani venga rimosso in quanto ostacolo a un disegno della Curia, principale immobiliari sta della città». La Curia ha rotto il silenzio, mantenuto in questi giorni, con un comunicato, nel quale afferma «la stretta collaborazione con il dottor Magani e condivide il desiderio del sindaco Cialente» perché l’alto funzionario continui la sua opera a L’Aquila.

Primi interrogatori, a L’Aquila, per l’inchiesta «do ut des » che ha provocato il secondo terremoto, questa volta, per fortuna, solo politico, con le dimissioni di Massimo Cialente. Nei container do- ve ha sede il tribunale, nell’area industriale di Bazzano, sono stati ascoltati i destinatari degli avvisi di garanzia, fra i quali, il vicesindaco della attuale giunta, Roberto Riga, accusato, per sentito dire, dall’imprenditore veneto della Steda, Daniele Lago, di avere ricevuto, insieme ad una confezione di grappa, tangenti. Giovedì sarà la volta dei quattro agli arresti domiciliari, l’ex assessore della prima giunta Cialente, Vladimiro Placidi, l’ex consigliere di centro destra Pier Luigi Tancredi, la collaboratrice di Tancredi, Daniela Sibilla e il rappresentante di Mercatone Uno in Abruzzo, Pino Macera.

Il primo ad essere ascoltato è stato Mario Di Gregorio, l’ingegnere del comune incaricato di seguire i puntellamenti degli edifici lesionati. C’è un giallo, nella vicenda «do ut des» che lo riguarda. Il pagamento per avanzamento lavori di 1200 milioni, che è all’origi- ne dell’affaire, non porta la sua firma ma quella di un altro dirigente, Fabrizi, il quale, però, non è indagato. Se Di Gregorio non ha firmato, sostiene il suo avvocato, dove è il marcio? Eppure gli investigatori sono sicuri, Fabrizi non c’entra. Invece, in base all’ordinanza, fu Di Gregorio, prima ad affidare alla ditta aquilana Silva Costruzioni il puntellamento di palazzo Carli, sede del rettorato, poi non avendo la Silva le certificazioni adeguate, a suggerire l’Ati con l’impresa veneta, non presente nella White list approntata in collaborazione con le associazioni di categoria.

I puntellamenti si facevano ad affidamento diretto. Questo spiegherebbe come sia stato possibile affidare le opere provvisionali del rettorato a un’impresa che non aveva adeguata forza economica. Ma palazzo Carli è una reggia di dimensioni enormi, sembra in- credibile che non si sia riuscito a prevedere la consistenza di quell’appalto. Inoltre, per la Procura, è sospetta la destinazione di quei 1200 milioni, di cui la Silva Costruzioni si è sentita defraudata, per avere fatto i lavori che non le sono stati pagati e che, invece, sono fini- ti dalla Steda alla banca popolare di Verona, come cessione del credito.

L’Unità 14.01.14

"Un Jobs Act per le donne", di Lucina Di Meco

Negli ultimi mesi di attivismo politico per il Partito Democratico a New York, ho capito tre cose. La prima: l’unico modo per non sbagliare e non essere criticati è non fare nulla, possibilmente non uscendo di casa e sconnettendosi dal computer.
La seconda: la politica è una cosa meravigliosa perché ti permette di avvicinarti ai cuori delle persone, capire i loro sogni, ricaricarsi delle loro energie per tracciare la roadmap di come l’Italia potrebbe diventare non più solo il Paese più bello del mondo, ma anche il più vivibile.

La terza: le donne hanno moltissimo da apportare, ma per farlo devono saper puntare i piedi, sedersi al tavolo delle negoziazioni e pretendere di essere ascoltate, non solo in quanto brave e capaci, ma anche in quanto rappresentanti di interessi, necessità e risorse che non possono essere intesi come di nicchia, perché riguardano metà della popolazione.

Come donna e attivista politica di sinistra credo quindi che il Job Act di Matteo Renzi abbia un ottime potenzialità, perché punta su trasparenza, riduzione della burocrazia e rinnovamento e può far diventare l’Italia il Paese moderno, dinamico e giusto che meritiamo di essere. A una condizione importantissima, pero’: che metà della popolazione (quella metà, oltretutto, con le migliori performance scolastiche e accademiche) inizi ad essere valorizzata.

Esistono quindi delle misure, perfettamente in tono con lo spirito innovatore del Job Act, che sono essenziali per fare davvero ripartire la nostra economia e devono essere incluse nelle politiche del lavoro del Partito Democratico.

1. Welfare: asili nido e congedo di paternità (vedi le nuove leggi tedesca e francese). Secondo uno studio della Fondazione Collegio Carlo Alberto, la provvisione capillare di strutture pubbliche gratuite per l’infanzia porterebbe al 75,5% l’impiego femminile. Non solo: la provvisione di servizi per l’infanzia ha un effetto positivo sulla fertilità (riducendo il costo opportunità dei figli) e migliora le capacità linguistiche dei bambini, soprattutto di quelli provenienti da settori socio-economici disagiati. Come sta facendo la Francia, poi, è importante prevedere un congedo di paternità obbligatorio non simbolico (per lo meno un mese, magari togliendo un po’ di tempo al congedo materno). Secondo il Dipartimento di Politiche Economiche dell’Unione Europea, il paternity leave agisce non solo sull’occupazione femminile post-maternità (aumentando la probabilità che una donna torni al lavoro del 12%), ma anche su quelle pre- maternità (riducendo il fattore rischio rappresentato per un’impresa dall’assunzione di una donna piuttosto che di un uomo) e hanno un dimostrato effetto positivo sulla fertilità e la promozione dell’uguaglianza nella divisione del lavoro domestico all’interno della coppia.

2. Normatività e incentivi alle imprese women-friendly. Per quanto l’investimento pubblico sia assolutamente necessario, è importantissimo incentivare quelle imprese (grandi, ma anche PMI) che investono nelle donne. In Francia, Spagna e Inghilterra si prevede un labeling delle imprese women-friendly, riconosciuto a livello nazionale come strumento di marketing che talvolta può comportare anche agevolazioni fiscali e punti addizionali nelle gare pubbliche. In Svezia, Finlandia e Irlanda il governo promuove un incontro annuale con le parti sociali per fare il punto della situazione sulle pari opportunità e proporre degli obiettivi annuali. Nel campo delle pari opportunità di genere, come in altri, insomma, il futuro è nella condivisione delle responsabilità e dei costi tra settore privato e pubblico. In Italia, esistono varie imprese che stanno lavorando in modo innovativo in questo senso: Microsoft, Cisco, Luxottica e Nestlè sono quelle con programmi migliori per la conciliazione. Alcune delle best practices utilizzate sono: nidi aziendali, possibilità di lavorare in modo flessibile (con performance basata sui risultati, più che sul numero di ore spese in ufficio), attività nelle università e scuole dove si fomenta l’interesse di ragazzi e ragazze nei confronti delle imprese (e nel caso di CISCO, in particolare delle ragazze per il settore informatico), mentorship femminile.

3. Smart-Working. Applicare l’ottima proposta portata avanti da Alessia Mosca e altre su questo tema.

4. Basta discriminazione. Creare un Ombusdman sul modello scandinavo (come proposto dal comitato sui diritti delle donne del parlamento europeo) per le pari opportunità. Nei confronti dell’esecutivo e del legislativo, l’Ombudsman avrebbe capacita di suggerire politiche e realizzare un “gender mainstreaming” delle proposte di legge in parlamento qualora applicabile. Nei confronti dei cittadini, sarebbe garante della flex security per quanto concerne le discriminazioni di genere, monitorando l’applicazione delle politiche esistenti, ricevendo lamentele e fungendo da mediatore per le dispute. Rendere poi illegale la pratica del CV con foto, età e stato civile, che penalizza fortemente le donne in età riproduttiva. CV di questo tipo sarebbero inaccettabili negli Stati Uniti e in molti paesi europei. In Francia, per esempio, alcune imprese chiedono ai candidati che presentino CV anonimi per le prime fasi della selezione dei candidati, al fine di garantire equità.

Questa sarà davvero la volta buona per dare una svolta al Paese solo se la nostra economia smetterà di essere come una bicicletta che cerca di andare avanti, anche in salita, con una gomma (quella a pi ù alto rendimento) sempre sgonfia.

Le donne devono poter salire a bordo e mettersi alla guida e per farlo hanno bisogno di politiche economiche e del lavoro che smettano di discriminarle, direttamente o indirettamente. La politica ha un ruolo essenziale in questo contesto perché, come sostenuto da Daniela Del Boca e altre economiste in Valorizzare Le Donne Conviene: “La causa della stasi, negli ultimi decenni, delle rivoluzioni delle donne italiane è forse dovuta al fatto che la rivoluzione nella politica non è ancora cominciata”.

Chissà che finalmente non sia davvero cominciata, questa rivoluzione.

da Huffington Post 13.01.14

Relazione sulla proposta di legge per il riconoscimento delle professioni dei beni culturali

Signor Presidente, colleghi,
migliaia di professionisti dei beni culturali attendono questo momento da anni. Questi professionisti, che svolgono un lavoro di rilevante interesse pubblico poiché presidiano fattivamente l’articolo 9 della nostra Costituzione, attendono che sia riconosciuto il loro ruolo lavorativo, economico e culturale, attualmente mortificato tanto da condizioni lavorative inaccettabili, in un mercato sregolato e privo di ogni garanzia, quanto da un arretramento delle istituzioni pubbliche rispetto agli investimenti sui beni culturali.
Professionisti, voglio sottolinearlo, ai quali il Paese affida di fatto ogni giorno la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, che è testimonianza unica dell’identità e della bellezza, strumento per la formazione e trasmissione della conoscenza, non solo per il nostro Paese, ma per l’intera umanità.
Sono i professionisti che sabato scorso si sono dati appuntamento in piazza del Pantheon per rivendicare dignità per il loro lavoro e buona occupazione, mettendo al primo punto della piattaforma il “Riconoscimento pubblico dei profili, delle competenze e della dignità dei professionisti dei beni culturali”. Chiedono cioè che nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio sia riconosciuto “il ruolo e la qualificazione” dei professionisti dei beni culturali mediante l’approvazione della proposta di legge 362.
Vale a dire la proposta di legge di cui oggi avviamo la discussione generale: quale migliore risposta da parte della politica se non una sua rapida approvazione?

Il testo che esaminiamo oggi risulta arricchito rispetto a quello originariamente presentato nell’agosto del 2008 e ulteriormente riformulato e ripresentato nell’attuale legislatura, lo scorso marzo: una riformulazione e un arricchimento che testimoniano positivamente del fecondo esame collegiale da parte delle forze politiche, avvenuto in seno al Comitato ristretto, a partire dall’attenta valutazione dei contributi emersi nel corso delle audizioni dei rappresentanti delle associazioni del settore, del Ministero per i BBCC, nonché del Consiglio Superiore dei beni culturali e paesaggistici.
Il confronto serrato di idee e di proposte ha portato all’adozione di un primo nuovo testo nell’agosto scorso: su di esso si è aperta una ulteriore fase di discussione pubblica, che ha nuovamente coinvolto tutti i soggetti interessati dalle disposizioni del testo.
I suggerimenti e le osservazioni di questa ulteriore fase di approfondimento sono stati adeguatamente valutati e recepiti, così da giungere nel dicembre scorso all’adozione di un ulteriore nuovo testo, sottoscritto da tutte le forze politiche.
Credo sia giusto richiamare tutti i passaggi di questo percorso per dar conto della qualità del lavoro svolto: un lavoro condiviso, attento nel soppesare le istanze e le esigenze avanzate dai diversi soggetti coinvolti, senza chiusure ideologiche e posizioni preconcette. Credo di poter dire che si sia lavorato con spirito costruttivo per scrivere norme efficaci, chiare e facilmente applicabili per dare riconoscimento ai professionisti dei beni culturali.
Questo almeno fino al 9 gennaio, data della seduta conclusiva dei lavori di commissione, quando il M5S ha ritenuto di ritirare le proprie firme, pregiudicando, quindi, la richiesta di procedere in sede legislativa per l’approvazione della proposta di legge.
Mi interessa qui rilevare un problema non di merito ma di metodo, dato che le sopraggiunte perplessità nel M5S avrebbero potuto essere proficuamente presentate e discusse in seno alla commissione, così come si è fatto nei mesi scorsi, affrontando di volta in volta i vari dubbi sollevati e giungendo a soluzioni che hanno portato non solo ad un testo condiviso, ma ad un buon testo, solido nel proprio impianto perché sottoposto per mesi all’esercizio della critica.
Mi auguro che le perplessità del M5S possano trovare una risposta nel proseguo di discussione in Aula, per non disperdere l’importante lavoro svolto fin qui insieme.

E vengo all’illustrazione sintetica del contenuto della proposta di legge.
L’articolo 1 inserisce nella parte delle Disposizioni generali del Codice dei beni culturali e del paesaggio un nuovo articolo, il 9-bis.
Esso dispone che gli interventi operativi di tutela, protezione, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali siano affidati, secondo le rispettive competenze, alla responsabilità e all’attuazione di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale.
Alla citata disposizione, per fugare alcune perplessità emerse durante l’esame del provvedimento, si è ritenuto opportuno anticipare un richiamo alla competenza della tutela dei beni culturali disposta dall’articolo 4 del Codice, in adesione al dettato costituzionale, così da esplicitare inequivocabile che gli interventi di tutela svolti dai professionisti privati sottendono, nella loro espressa esecutività, alla funzione dello Stato in materia di tutela del patrimonio culturale.
Analogamente, rispetto al testo originario, sono stati espunti gli interventi di vigilanza ed ispezione tra quelli di competenza dei professionisti, poiché precipui delle funzioni dello Stato e comunque non necessariamente delegata all’operato di professionisti.
L’articolo 1 quindi, dopo aver fatto salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate – quale, ad esempio, quella degli architetti – elenca i professionisti competenti ad eseguire interventi sui beni culturali.
La selezione è avvenuta mediante un attento vaglio, teso ad individuare quei profili che operano in via esclusiva sui beni culturali. Ecco perché, ad esempio, non sono stati inclusi i fotografi o gli economisti della cultura, che prestano la loro opera e le loro competenze per i beni culturali in modo non esclusivo.

Come si evince dall’articolo 1, la proposta in esame interviene nell’ambito delle professioni non organizzate in ordini o collegi, cioè in quella disciplina affrontata in termini generali dalla legge n.4 del 2013.
Questa recente legge ha rappresentato quindi un importante riferimento normativo nell’esame della proposta in oggetto, in particolare per quanto riguarda i contenuti dell’articolo 2, poiché la legge 4 definisce un nuovo orizzonte di sviluppo delle associazioni professionali, anche mediante l’attribuzione loro di una precisa responsabilità sociale.
La legge 4 dispone, tra l’altro, che i professionisti possono costituire associazioni professionali di natura privatistica al fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti.
L’altra normativa alla quale si è fatto costante e specifico riferimento è quella dell’Unione europea, tenuto conto che per la disciplina europea i professionisti sono soggetti alle regole di concorrenza (dettate dall’art. 101 del Trattato sull’Unione europea) e quindi essa è particolarmente attenta ai cosiddetti diritti esclusivi, cioè a tutte le regolamentazioni che riservano alcune attività a una ristretta categoria di professionisti.
Di questa normativa abbiamo quindi tenuto conto nella stesura del nuovo testo, in particolare per quanto riguarda l’articolo 2 che dispone l’emanazione di un decreto, sul quale mi soffermerò a breve, che dovrà essere conforme alla normativa europea.
L’articolo 2, a differenza del testo originario, non costituisce una novella del Codice dei beni culturali e del paesaggio poiché la specificità del contenuto meglio si presta ad un distinto provvedimento.
Il comma 1 dispone l’istituzione presso il Ministero di elenchi nazionali di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali, storici dell’arte, in possesso dei requisiti da individuare ai sensi del comma 2.
Non sono inclusi in questo elenco i restauratori e i collaboratori restauratori di beni culturali, poiché tali figure sono già disciplinate dalle disposizioni dell’articolo 29 e dell’articolo 182 del vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio, come modificato dalla legge n. 7 del 2013.
In base al comma 2, le modalità e i requisiti per l’iscrizione dei professionisti negli elenchi saranno stabiliti con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, da adottare – previo parere delle Commissioni parlamentari – entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, sentito il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, d’intesa con la Conferenza Stato-regioni e con le rispettive associazioni professionali, che collaborano anche alla tenuta degli elenchi stessi.
Aggiungo che, sulla base del parere espresso dalla I Commissione, dal comma 2 è stata eliminata la previsione in base alla quale lo stesso decreto ministeriale doveva inserire tra i requisiti per l’iscrizione negli elenchi il possesso da parte dei professionisti della certificazione di conformità alla norma tecnica UNI, in considerazione del fatto che, in base alla normativa vigente, il professionista è libero di non iscriversi ad un’associazione e che la citata certificazione UNI non è obbligatoria. Si è condivisa tale valutazione e non ho difficoltà ad ammettere che, in realtà, il possesso della certificazione UNI doveva essere un requisito sufficiente per l’iscrizione negli elenchi, e non esclusivo come invece lo ha reso un testo non perfettamente formulato. Ad ogni modo, abbiamo ritenuto di espungere questo periodo, come indicato dalla I Commissione, per non creare “canali” differenziati di accesso agli elenchi e demandare totalmente al decreto l’individuazione dei requisiti per l’iscrizione.

Questo, in sintesi, il testo che sottoponiamo all’esame dell’Aula.
Siamo consapevoli che la sua approvazione non possa rappresentare la soluzione a tutti i problemi che i professionisti dei beni culturali hanno denunciato alla manifestazione di sabato scorso, a partire dagli interventi di carattere paternalistico e assistenzialista troppo spesso avanzati in questo settore.
Molto resta da fare per garantire loro buona occupazione: penso ad esempio ad interventi sulle regole generali del mercato del lavoro, che ora favoriscono il ricorso a forme contrattuali precarizzanti e a misure specifiche nella disciplina degli Appalti Pubblici che tengano conto della specificità degli interventi sui Beni Culturali; penso inoltre ad un massiccio reclutamento di professionalità nei ruoli della pubblica amministrazione e ad un forte investimento in una prospettiva di sviluppo del settore.
Ma siamo altresì certi che non può esserci piena tutela del nostro patrimonio culturale se non si valorizzano le competenze e la dignità degli specialisti che se ne prendono cura. Senza di essi la stessa sopravvivenza del nostro Patrimonio Storico-Artistico è a rischio!
Per questa ragione il riconoscimento dei profili dei professionisti dei beni culturali è il primo atto, necessario, per orientare nella direzione giusta le future politiche per il patrimonio e per la buona occupazione nel settore dei beni culturali.
On Manuela Ghizzoni

www.camera.it

"Noi, la ricerca e gli animali", di Pietro Greco

Organizzato dalla senatrice Elena Cattaneo, domani, si terrà a Palazzo Giustiniani il secondo incontro che il Senato della Repubblica dedica a «Scienza, Innovazione e Salute». Il tema sarà: «Sperimentazione animale e diritto alla conoscenza e alla salute». Se ne discute in tutto il mondo, anche se in Italia la discussione è venata da forme inaccettabili e inquietanti di violenza verbale e non solo. Di recente ne è stata vittima, tra gli altri, Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria portatrice di alcune malattie di origine genetica.

E come lei Silvio Garattini, il direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, più volte minacciato di morte; e, ultimo ma non ultimo un gruppo di ricercatori milanesi di cui sono stati pubblicati gli indirizzi con un’indicazione, appunto, inquietante: «Il boia abita qui».
Il Senato dovrà approvare o emendare una proposta di legge sulla sperimentazione animale, già passata alla Camera, che è considerata più restrittiva di quella vigente in Europa. Si tratta di un argomento molto delicato e non semplice da risolvere, perché entrano in conflitto due dimensioni nobili: il rispetto degli animali non umani e la salute, sia dell’uomo che degli animali non umani.

In nessun laboratorio scientifico al mondo degno di rispetto si pratica la «vivisezione», ovvero il dissezionamento di animali vivi, come avveniva nell’Ottocento. Anzi, provocare dolore gratuito agli animali è considerato in ogni laboratorio una pratica da denunciare e sanzionare. Dunque parlare di «vivisezione» nel caso della ricerca scientifica è del tutto improprio. I ricercatori preferiscono parlare di «sperimentazione animale», ovvero di esperimenti condotti su o con animali non umani nel rispetto delle leggi esistenti sul tratta- mento degli animali. I ricercatori fanno anche no- tare che esiste anche una «sperimentazione umana», che prevede per l’appunto la possibilità di condurre esperimenti su e con uomini nel rispetto delle leggi esistenti. In entrambi i casi il fine è migliorare la condizione umana. Ma fine della «sperimentazione animale» è, talvolta, anche quella di migliorare la condizione degli animali non umani.

Potremmo dire che la «vivisezione» è una prati- ca analoga a quella usata dai medici nazisti sugli uomini. Ed è condannata da tutti. Mentre la «sperimentazione animale» è una pratica analoga a quella realizzata su e con gli uomini in laboratori che rispettano la legge. Una delle differenze – e non è certo una differenza da poco – è che gli uomini che si sottopongono a test danno il loro consenso informato. Gli animali non umani no.

Il secondo aspetto preliminare che ci aiuta a comprendere il fenomeno della sperimentazione animale è quantitativo. Secondo la British Union for the Abolition of Vivisection, un’organizzazione britannica che si batte contro la sperimentazione animale, gli animali non umani impegnati ogni anno in ricerche di laboratorio sono, all’in- circa, 100 milioni (di cui 900mila in Italia). Sono utilizzati soprattutto per ricerche sul comportamento, in studi di genetica, in studi sull’efficacia e la tossicità dei farmaci, in studi che comportano xenotrapianti. Secondo la Royal Society, l’antica accademica scientifica inglese che è invece schierata a favore della sperimentazione anima- le regolamentata, l’85% degli animali non umani impegnati nella ricerca è costituito da roditori: topi e ratti, per lo più. Mentre meno dell’1% sono primati non umani.

LE BESTIE CHE FINISCONO A TAVOLA

Cento milioni è certamente un numero molto alto. Ma non è certo paragonabile al numero di ani- mali allevati (e uccisi) che ogni anno vengono uccisi nel mondo per motivi alimentari. Questi i nu- meri: 18 miliardi i polli (500 milioni in Italia); 2 miliardi gli ovini e i caprini; 1,6 miliardi i bovini; 1 miliardo i suini. Il calcolo a questo punto è facile: gli animali destinati a un laboratorio di ricerca sono in numero almeno 230 volte inferiore agli animali che finiscono a tavola. Sta di fatto che molti vorrebbero che negli stabulari dei ricercatori non ci fosse alcun animale. E che gli animalisti propongono due ordini di giustificazioni per questa loro idea: uno di tipo etico, l’altro di tipo scientifico. L’ordine delle motivazione etiche è a sua volta articolato, dunque faremo riferimento alle due che, non senza un certo arbitrio, consideriamo principali.

Il primo argomento etico è molto semplice e radicale: gli umani non hanno alcun diritto di utilizzare gli animali non umani per i loro fini. Né per cibarsi, né per lavoro e neppure per ricerca. Il secondo argomento etico è più articolato. Si fonda sull’assunto che gli animali, proprio come gli uomini, sono portatori di diritti. Secondo alcuni tutti gli esseri senzienti sono portatori dei medesimi diritti, assoluti e indipendenti dalla specie. Secondo altri, invece, i diritti degli animali non umani non sono uguali per tutti ma sono diversificati. I fattori di diversificazione possono essere diversi. Alcuni chiamano in causa diritti che potremmo definire filogenetici: chi ha una storia evolutiva più condivisa con gli umani è portatore di diritti più simili a quelli degli umani. Altri chiamano in causa i fattori cognitivi: chi ha capacità cognitive superiori ha diritti maggiori. In questa prospettiva i mammiferi hanno più diritti degli insetti: un topo ha più diritti di un moscerino della frutta.

Le tipologie di diritti riconosciti agli animali sono, in sostanza, due: il diritto di vivere libero nel proprio ambiente e il diritto di non subire dolore fisico o psichico a causa dell’uomo. Il dolore è ritenuto un argomento etico decisivo. Gli uomini non hanno il diritto di infliggere sofferenze di alcun tipo agli altri esseri viventi che avvertono il dolore. La dimensione etica sulla sperimentazione animale si esaurirebbe qui se non incrociasse un’altra dimensione etica, quella relativa alla salute degli uomini e anche degli animali non umani. Per cui diventa importante anche la questione strettamente scientifica.

PRO E CONTRO

La ricerca sugli animali è inutile, sostiene per esempio la British Union for the Abolition of Vivisection. Tanto più quando si tratta di sperimenta- re l’efficacia o la tossicità di un farmaco. Per il semplice motivo che gli animali non sono modelli omologhi dell’uomo. Per cui studiare un topo o anche uno scimpanzé ci dà informazioni incomplete e, talvolta, fuorvianti sulla specie sapiens. Inoltre a tutte le ricerche in vivo ci sono delle alternative già praticabili, che non richiedo l’impiego di animali non umani. Le principali sono la ricerca in vitro, sulle cellule umane; la ricerca in silica, con le simulazioni al computer. La gran parte dei ricercatori sostiene una posizione affatto diversa. La Royal Society, per esempio, sostiene che l’umanità ha tratto immensi benefici dalla ricerca scientifica che ha coinvolto animali non umani: «virtualmente tutti i risultati medici raggiunti il secolo scorso – trattamento del diabete, della leucemia e dei trapianti di cuore, scrive in un suo documento – sono stati ottenuti con ricerche che hanno coinvolto in un qualche modo gli animali». Inoltre la gran parte dei ricercatori sostiene che gli studi in vivo con le cellule e gli studi in silica vengono già effettuati. Sono gli stadi preliminari delle ricerche biomediche. Ma non sono affatto sufficienti. È proprio perché non sono sufficienti che sono ancora necessari i modelli ani- mali. Certo, deve essere condotta nel pieno rispetto delle leggi. La legge europea, sostengono i ricercatori italiani, è una buona legge. Perché dunque la legge italiana che dovrà essere discussa in Senato deve essere così restrittiva da riconoscere agli animali diritti superiori a quello che l’uomo riconosce a se stesso? Perché pretendere, per esempio, che persino per un prelievo un animale sia sottoposto ad anestesia se lo stesso trattamento non è previsto neppure per i cuccioli d’uomo, i bambini? Certo, sostengono ancora i ricercatori in gran maggioranza, occorre cercare metodi alternativi alla sperimentazione animale altrettanto efficace. Per cui fa bene l’Unione Europea a finanziare questo tipo di ricerca. Ma allo stato la ricerca che coinvolge animali è sia utile (contribuisce a salvare milioni di vite), sia scientifica- mente necessaria. Persino e forse soprattutto nel- la ricerca di base. Non avremmo mai scoperto i neuroni specchio – sostiene per esempio il neuro- scienziato Giacomo Rizzolatti che parlerà presente martedì in Senato– se non avessimo visto una scimmia nel nostro laboratorio a Parma prende- re una nocciolina imitando un uomo.

Il problema della sperimentazione animale da un punto di vista scientifico è chiaro: non se ne può fare a meno, se si intende perseguire al meglio la ricerca del benessere fisico e psichico degli uomini (e degli stessi animali). Il problema della sperimentazione animale si può risolvere sul pia- no etico – anche se ancora utile, resta inaccettabile – ma occorre assumersi la non lieve responsabilità di rinunciare a migliorare in parte significativa la vita sia degli uomini sia degli stessi animali.

L’Unità 13.01.14

"Senza fiducia nel prossimo", di Carlo Buttaroni

In Italia non cala solo la fiducia nel futuro, va giù (pesantemente) anche quella nel prossimo. Il giudizio negativo, attraverso il test annuale sul «portafoglio smarrito», investe tutte le categorie: le forze dell’ordine, i vicini di casa, gli sconosciuti. È un altro segno della crisi.

Non tutti sentiamo il prossimo allo stesso modo. Alcuni di noi sono più empatici, si lasciano coinvolgere e sono più propensi a fidarsi. Altri sono più distanti, meno sensibili ai sentimenti a altrui e diffidenti nei confronti del prossimo. La fiducia è un sentire che risponde agli stimoli ambientali, all’esperienza e all’educazione di ciascuno. Il «test del portafoglio perso» non è soltanto una sceneggiatura da «candid camera». È un indicatore che riflette atteggiamenti e riflessi sociali profondi. Il grado di fiducia che poniamo nel fatto che qualcuno ci restituisca un oggetto che abbiamo perso, misura il nostro grado di apertura verso il prossimo e la capacità di attendersi buone pratiche sociali.

Nell’ultimo anno, il sentimento di fiducia verso gli altri è diminuito sensibilmente, in particolare quando il prossimo è uno sconosciuto. Al primo posto della scala di fiducia c’è un rappresentante delle forze dell’ordine (81%). La diminuzione rispetto all’anno prece- dente è minima (-0,5%) ma è una fiducia «spersonalizzata», orientata verso un’istituzione più che verso la capacità dell’individuo di rispondere positivamente a una chiamata della propria coscienza. Al secondo posto il vicino di casa (68%, in diminuzione dell’1,7%), con il quale la relazione di reciprocità rende più faci- le l’instaurarsi di pratiche positive. All’ultimo posto troviamo il perfetto sconosciuto, verso il quale la diffidenza è ampiamente prevalente e che assai pochi (11%) ritengono capace di un gesto come quello di restituire il portafoglio al legittimo proprietario.

SPAZIO RISTRETTO

La tendenza a circoscrivere uno spazio sempre più ristretto, dove i legami tra le persone sono alimentati da atteggiamenti positivi men- tre al di fuori di quello spazio prevalgono diffidenza e indifferenza, è un fenomeno che negli ultimi anni è cresciuto notevolmente, parallelamente al crescere del livello di complessità della società. Ad alimentare questo fenomeno c’è la crisi economica che rende il mondo esterno più ostile, disegna traiettorie sociali minacciose e rende precaria l’esistenza degli individui. Se fino a qualche decennio fa la «stabilità sociale» rappresentava l’architrave delle società occidentali, la crisi ha inaugurato il tempo della precarietà e dell’incertezza che rendono il futuro opaco. Un futuro sul quale pochi, anzi pochissimi, oggi se la sentono di investire.

Da qui la valorizzazione del qui e ora a scapito della pianificazione futura, a causa di attese non rosee e di fronte all’impossibilita` di costruire condizioni economiche stabili e rassicuranti, almeno nel medio periodo. È il cosiddetto presentismo, cioè la tendenza a orienta- re le proprie scelte e le azioni in un’ottica temporale che comprende e considera solo il pre- sente, fino al punto di includere in ogni decisione cruciale l’intrinseca possibilità di mutarla al cambiare delle condizioni in cui è stata presa.

Per sua natura, l’uomo attinge all’esperienza e alla saggezza di quanti l’hanno preceduto con la consapevolezza di essere parte di un disegno più ampio, di situarsi in una storia che affonda le sue radici nelle generazioni trascorse e si proietta idealmente nel futuro. Questa vocazione è alla base della cultura politica e si declina nella capacità propriamente umana di fare storia, Una capacità insolubile, però, con la tendenza, sempre più diffusa, a vivere esclusivamente nel presente. Prevale, infatti, un senso
complessivo di precarietà che si sperimenta in situazioni concrete: nelle difficoltà di chi cerca un lavoro o di chi, pur avendolo, non può farvi affidamento nel progettare la propria vita; nel rinchiudersi in una cultura del risparmio emotivo che rende instabili le relazioni, tanto da assistere al progressivo dissolversi dei nuclei fondamentali della società, prima tra tutte la famiglia. La disgregazione dei legami fa sì che la società perda progressivamente consistenza e la risposta pare essere la chiusura in un guscio di egoismo, che ha come estrema conseguenza la fine della persona quale centro di relazione.

Una società fondata sull’individuo atomizzato è una società sterile, che non è in grado di produrre ne ́ restituire qualcosa di significativo. Persino le mobilitazioni civili che si manifestano come portatrici di un alto profilo etico si rivelano talora segnate da pretese individualistiche, dove non sembra più essere la società nel suo complesso l’obiettivo da raggiungere, ma la semplice somma delle aspettative e degli interessi dei singoli.

Ma essere cittadini significa scoprire il valore della partecipazione – che contrasta ogni tentazione di delega – come modo normale di essere, significa vivere la solidarietà come proiezione sul prossimo, specie se in difficoltà. In questo contesto ritorna alla ribalta, ineludibilmente, il tema dell’educazione. Se rinunciare a capire significa accettare il rischio di poter essere travolti supinamente dal cambiamento, ciò comporta, come conseguenza, l’accettazione di non poterlo mai governare.

LA CRISI DELLE ISTITUZIONI

La fiducia è un fondamentale ingrediente del capitale sociale. Se a livello micro è premessa per relazioni positive ed efficienti, a livello macro costituisce il presupposto perché vi siano impegno e rispetto delle regole. È, quindi, garanzia per la riproduzione e la stabilità del sistema economico, politico e sociale. La fiducia nelle istituzioni, intesa come reciproca attesa di rispetto di regole, ruoli, procedure e come riconoscimento della loro legittimità, è una componente necessaria per il mantenimento della democrazia.
Per questo destano allarme i dati rilevati da recenti e numerose indagini che mettono in luce come i cittadini ripongano una fiducia sempre più contenuta proprio in quegli attori e gruppi che più di altri dovrebbero rappresentare e governare le istituzioni.
Il pericolo è che la sfiducia verso il prossimo si traduca ulteriormente in una chiusura privatistica che restringa ulteriormente i confini, ma anche in un’azione interessata limitatamente al piccolo gruppo di riferimento. Il cronicizzarsi di questo atteggiamento not in my backyard rischia di minare le basi della tenuta stessa della democrazia nel momento in cui si riflette nel calo della partecipazione politica e nell’impegno condiviso al raggiungimento del bene comune.

L’Unità 13.01.14

"La Costituzione indifesa", di Claudio Sardo

Anche la Lega in piazza contro una sentenza della magistratura, quella del Tar che ha annullato le elezioni in Piemonte. Berlusconi fa scuola. «Giudici comunisti», gridavano i manifestanti. Non che fossero in tanti, ma guai a sottovalutare il contagio populista. La divisione dei poteri non è rispettata perché neppure viene riconosciuta: così il populismo riduce la politica al primitivo conflitto amico-nemico.

Chi non è con me, è contro di me. Le garanzie, le autonomie, i limiti, insomma tutto ciò che tiene in equilibrio un ordinamento democratico, è tollerato solo finché conviene. Come si può riformare allora il nostro sistema in crisi, se le istituzioni non vengono percepite come una casa comune e l’unico metro di misura è la convenienza per sé? La deriva populista della destra è un prezzo salato per il Paese. E il populismo si diffonde oltre Berlusconi e il suo imitatore Grillo. Quanti altri inveiscono, con toni di delegittimazione, contro la Corte costituzionale o contro il presidente della Repubblica quando non condividono una sentenza o una scelta?

Peraltro, in tutti gli ordinamenti occidentali il peso dei «poteri neutri» e degli istituti di garanzia sta crescendo. Non ci sono solo la Consulta, o la Cassazione, o le Corti d’Appello, o la magistratura amministrativa a emettere sentenze che incidono sulla politica. Ci sono le istituzioni europee. Ci sono le Autority. Ci sono la Corte di Lussemburgo e quella di Strasburgo. Se il mercato e l’Europa riducono da un lato il potere della politica nazionale, dall’altro le stesse autorità di garanzia stanno diventando interdipendenti e più veloci di quanto non riescano a essere le istituzioni titolari della sovranità democratica. Se non altro, è per questo che bisognerebbe mettere mano a un’opera di manutenzione della Costituzione. Per salvarla, per rivitalizzarne i principi, per attuare ciò che non è stato attuato, si dovrebbe aprire un vero e proprio cantiere democratico. Il tema è tornare a tracciare i confini dei poteri, a rilegittimare gli istituti di garanzia, oltre a restituire agli italiani una democrazia decidente. Quando in passato il populismo ha travolto queste distinzioni, è stata aperta la porta a svolte autoritarie. In questa legislatura non c’è il clima per fare le riforme che servirebbero. Ma qualche riforma – non solo la legge elettorale – va fatta, altrimenti il sistema collasserà. C’è da augurarsi che non si trascuri il tema degli equilibri e delle garanzie costituzionali. La democrazia governante non è quella che assicura la vittoria a uno degli attori anche a costo di compromettere i limiti dei poteri: questa è stata semmai la filosofia di leggi mostruose come il Porcellum.

Tutti vogliamo una legge maggioritaria per favorire coalizioni omogenee e governi efficaci in un contesto diventato ormai tripolare. Ma la legge elettorale non può annullare il buon senso, né stravolgere gli istituti di garanzia. Non si può, ad esempio, portare un partito o una coalizione del 35% al 60% dei seggi perché, a Costituzione invariata, cambierebbero la figura stessa del Capo dello Stato (potrebbe eleggerlo una maggioranza di grandi elettori corrispondente a una minoranza politica) e l’equilibrio della Corte costituzionale (con conseguenze sulla sua legittimazione). Uno dei mali di questo ventennio è stato proprio quello di deformare, surrettiziamente, la forma di governo attraverso le leggi elettorali. Ne è venuto fuori il peggio. La rivista Arel ha ripubblicato di recente l’ultima intervista rilasciata da Leopoldo Elia. È un vero e proprio appello a preservare l’equilibrio e i «confini» dell’ordinamento. Ed è un monito a quanti intendono usare il maggioritario, non per favorire la governabilità in un sistema parlamentare, ma per forzare il sistema verso un’impropria elezione diretta dell’esecutivo. L’equilibrio tra i poteri è più importante della stessa scelta tra le forme di governo. Tanto che Elia, da sempre sostenitore del modello parlamentare, arriva a dire che sarebbe preferibile il presidenzialismo americano piuttosto che un sistema ibrido fondato su una legge elettorale ultra-maggioritaria, in grado di travolgere le funzioni di garanzia.

Il rischio democratico è che un maggioritario irrazionale ci conduca a un sistema senza contrappesi, oppure a un presidenzialismo di fatto senza un Parlamento davvero legittimato. Così si alimenterebbe ancor più il populismo. Berlusconi, dopo aver dimostrato con le leggi ad personam quale sia il suo senso dello Stato, sta oggi minacciando un’opposizione anti-sistema e anti-euro. E Grillo, nel suo penoso discorso di fine anno, ha persino proposto di sopprimere la Corte costituzionale. In questo scenario il Pd non può permettersi di sbagliare misura. Non può dire che tutte le leggi elettorali vanno bene purché assicurino a uno dei tre poli la maggioranza assoluta dei seggi. Questa logica somiglia troppo al populismo. Elia suggerì in quella intervista, sempreché si voglia restare all’interno dei principi della nostra Costituzione, di rafforzare il sistema parlamentare con il voto di fiducia a una sola Camera e con la sfiducia costruttiva: sono riforme che valgono molto più di qualunque legge elettorale e che deformano molto meno i profili del Capo dello Stato e dell’Alta Corte. Ci auguriamo che i difensori della Costituzione facciano sentire la loro voce: sarebbe un paradosso che la mobilitazione in difesa dell’art. 138 (minacciato da una piccola modifica che peraltro ne rafforzava le garanzie) ora non abbia alcun seguito mentre un confuso dibattito sulla legge elettorale può alterare, nella sostanza, i fondamentali istituti di garanzia.

L’Unità 13.01.14

"La vera crisi dell’Europa tradita dalle culle", di Federico Fubini

Era forse l’unica grande “riforma strutturale”, per usare un cliché della troika, riuscita all’Italia e all’Europa nell’ultimo decennio. Per lo più, in silenzio. I rapporti della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea o del Fondo monetario in proposito tacciono. I politici non l’hanno neanche vista arrivare. Eppure era una svolta più importante per la prosperità del parametro deficit-Pil o dello stesso dato sulla crescita. Semplicemente, facevamo qualche bambino in più. Il tasso di fertilità, il numero di figli per donna, era cresciuto nell’ultimo decennio un po’ ovunque in Europa. In Italia era passato da 1,2 a 1,4. Ancora insufficiente, ma stavamo pian piano diventando una nazione e un continente meno vecchi di come rischiamo di essere.
Ci provavamo, almeno. Il problema è che Lehman, la Grecia, lo spread e la recessione più profonda della storia dell’Italia unita in tempo di pace, hanno riportato indietro le pagine del calendario. Lo spread ora sarà sì tornato dov’era due anni e mezzo fa, ma la natalità nel frattempo è arretrata di decenni. I nuovi nati in Italia erano 576 mila nel 2008 ma sono scesi di 42 mila unità nel 2012 e, sostiene il demografo Gianpiero Della Zuanna e cinque anni dopo l’inizio della grande crisi, nascono 70 mila bebè in meno. E poiché gli esperti sostengono che la demografia è destino, cioè innesca onde lunghe poi difficili da arrestare o anche solo da deviare, sia l’Italia che l’Europa oggi hanno davanti a sé una trasformazione radicale. È la crisi silenziosa di cui i bollettini per i mercati finanziari non danno conto, ma dovrebbero. Perché ciò che accade riguarda anche loro, e soprattutto ogni cittadino d’Europa: i cicli delle nascite e dell’invecchiamento da oggi al 2045 daranno forma a un mondo nel quale alcune delle potenze economiche di questo inizio secolo riveleranno piedi d’argilla e fra i Paesi avanzati si scatenerà una competizione senza sconti per attrarre i migranti migliori: quelli istruiti, capaci di produrre le tecnologie necessarie a una popolazione occidentale sempre più anziana.
Qualche dato dà la dimensione del cambiamento alle porte. Secondo il McKinsey Global Institute, che lavora su dati Onu, fra il 2010 e il 2025 l’Asia aumenta fino a 4,3 miliardi di persone, crescendo di mezzo miliardo: in soli 15 anni, è un balzo pari circa all’intera popolazione dell’Unione europea. La Nigeria, dove quasi metà degli abitanti oggi sono bambini, tra poco più di trent’anni raggiungerà gli Stati Uniti e diventerà il terzo Paese più popoloso al mondo dopo India e Cina, con quasi 400 milioni di abitanti. In base alle proiezioni dell’Onu, i nigeriani cresceranno a 900 milioni entro fine secolo: tutto in un Paese grande poco più del Texas e indebolito dal collasso delle istituzioni, dal terrorismo islamico di Boko Haram e dall’incapacità di creare occupazione per i quasi tre milioni di adulti che ogni anno entrano in età da lavoro.
Anche in Europa le gerarchie fra Paesi e le strutture sociali al loro interno diventeranno quasi irriconoscibili in poco più di una generazione. L’Italia è solo un esempio di questa metamorfosi. Secondo il Vienna Institute of Demography, senza l’apporto degli stranieri la popolazione nel Paese scenderebbe da 60,5 a 53 milioni entro metà secolo. La Fondazione Leone Moressa di Mestre calcola (su dati Istat) che l’apporto dei migranti in Italia è sempre più essenziale: le nascite di figli di stranieri sono salite di un quarto negli ultimi sei anni (mentre gli italiani calavano), oggi rappresentano più del 15% del totale e in futuro il loro peso non può che salire costantemente. Sono già e diventeranno sempre più indispensabili per la tenuta del debito e del sistema previdenziale italiano, oltre che per garantire energie giovani in un mondo del lavoro che invecchia. Nella semi-paralisi demografica, sviluppi di questo tipo sono destinati a porre ben presto nuove domande su chi avrà diritto al voto e allo status di cittadino italiano.
Anche il rango relativo dei vari Paesi europei è destinato a cambiare per la diversa fertilità delle donne francesi, tedesche, britanniche e italiane. Oggi la Germania è il Paese più popoloso della parte Ovest del continente (circa 82 milioni di abitanti), seguito da un gruppo con Francia (63 milioni), Gran Bretagna (62) e Italia. Tra trent’anni invece, la proiezione Onu a tassi di fertilità costante presenta un quadro stravolto: primi Francia e Regno Unito a circa 72 milioni di abitanti, terza la Germania a 71, quarta e staccata l’Italia a 57. Non che le graduatorie abbiano importanza in sé, però sono una spia del dinamismo economico perché le tendenze demografiche rivelano molto della quota di persone in età da lavoro in ciascun Paese. È qui che alcune delle nazioni più produttive di inizio secolo tradiscono la loro fragilità. Fra i sistemi vulnerabili c’è certo l’Italia, che resta ancora la seconda economia manifatturiera d’Europa e la quinta al mondo (con la Corea). Per una volta però il caso più preoccupante non è a Sud delle Alpi. È in Giappone, dove il collasso della natalità e la chiusura agli immigrati (1% dei residenti) sta producendo una catastrofe silenziosa. Tra il 2010 e il 2025 l’Arcipelago perde appena tre milioni di abitanti — stima McKinsey — ma ogni anno la popolazione in età da lavoro si riduce di oltre 700 mila persone, semplicemente perché il Paese invecchia. È la più grande emorragia di manodopera — gli adulti fra i 15 e i 65 anni — mai vista in tempo di pace. Simili le dinamiche per la Germania, dove ogni anno fra il 2010 e il 2025 si consuma una riduzione di oltre 350 mila persone nella fascia 15-65. E in Italia? L’erosione di abitanti nel pieno delle forze è di 93 mila individui l’anno. Nel frattempo, una natalità oggi più elevata permette alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti di veder crescere i suoi abitanti potenzialmente più produttivi rispettivamente di 50 mila e 700 mila persone l’anno.
È il “dividendo demografico”, nella definizione di Robert Gordon della Northwestern University. Esso è davvero tale e aiuta un Paese a crescere in modo quasi automatico quando la popolazione attiva aumenta. È successo anche all’Italia, passata da 45 a 60 milioni di abitanti nella seconda metà del ‘900. Poi però il dividendo si rovescia e diventa freno allo sviluppo quando la popolazione attiva inizia a calare.
Sono queste tendenze a preannunciare la nuova gara del ventunesimo secolo fra le nazioni dell’Occidente: quella per i talenti stranieri, da conquistare con il fascino delle università e le prospettive di lavoro. Molti Paesi in cui ingegneri, medici, insegnanti, ricercatori, informatici, artigiani o operai specializzati andranno in pensione dovranno (anche) importarli per non impoverirsi. Il rischio, in alternativa, è mandare decine di migliaia di specialisti ai giardinetti ogni anno e attrarre solo manovali o badanti. L’intera società diverrebbe più povera, in reddito e conoscenze. Poco prima di morire, Steve Jobs disse a Barack Obama: «Dovremmo spillare una carta verde al diploma di ogni studente straniero che si laurea in scienza o ingegneria in America». Il presidente Usa annuì, poi non fece nulla. Neanche in Italia il visto di studio di un immigrato con un master al massimo livello dà diritto al lavoro. Massimo Livi Bacci, il più autorevole demografo italiano, pensa che la capacità del Paese di accogliere migranti di qualità sia vitale, ma per questo servono università, imprese e un sistema di regole che premino di chi lavora meglio e di più.
Non che l’Italia abbia esaurito il suo “dividendo demografico” autoctono, al contrario. Gianni Toniolo, economista della Luiss e della Duke University, osserva come la capacità dei settantenni di generare reddito oggi sia molto maggiore rispetto a una generazione fa. “Questa è una buona notizia”, ricorda. Anch’essa però comporterà alcune trasformazioni nella vita di tutti i giorni: gli anziani attivi dei prossimi decenni richiederanno strumenti adatti a loro, ad esempio automazione in casa, in ufficio o in fabbrica per muovere più oggetti con un telecomando e non a forza di braccia. È possibile che i Paesi con i capelli bianchi saranno meno consumisti e finiscano in deflazione cronica dei prezzi come già oggi accade al Giappone. Ma è certo che avranno bisogno di politiche, competenze e prodotti nuovi. Vince, come sempre, chi lo capisce per primo.

La Repubblica 13.01.14

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“Da noi niente aiuti alla famiglia più figli se il welfare funziona”, di Maria Novella De Luca

Eppure la voglia di fare figli ci sarebbe. Basta chiederlo ai giovani. A vent’anni affermano sicuri che avranno una famiglia, a trenta iniziano a rinviare, a trentacinque senza lavoro e senza welfare scatta l’addio al desiderio: si fa un unico figlio o si rinuncia a diventare genitori». Alessandro Rosina, docente di Demografia all’università Cattolica di Milano, ha dedicato saggi e studi al grande tema delle “culle vuote” in Italia, a quel calo progressivo di natalità che oggi sembra aver raggiunto l’apice nel nostro Paese, l’anno zero della fecondità. Un declino che ha radici lontane, già sintetizzato da Rosina nel saggio “Famiglie sole” , ma che oggi con la crisi economica sembra aver congelato la voglia di futuro delle giovani coppie italiane.
Professor Rosina, i dati Istat sono drammatici.
«Se non si rivedono le politiche di sostegno alla famiglia il declino non può che continuare. Perché le difficoltà di oggi si sommano a tutto quello che non è stato fatto ieri, quando già l’allarme demografico era alto: dalla conciliazione ai sostegni ai giovani, dagli asili nido ai part time, dalla flessibilità ai supporti alla maternità».
Però la voglia di famiglia c’è.
«C’è ed è forte, questo è il paradosso. Sono poche le coppie
childfree in Italia, quelle che dichiarano davvero di non volere bambini. Basterebbe cominciare ad investire sul welfare e i figli tornerebbero a nascere». L’intera Europa è attraversata da una forte crisi della natalità. Ma noi siamo agli ultimi posti.
«Le radici di tutto questo risalgono agli anni Settanta, e all’entrata massiccia delle donne nel mondo del lavoro. Mentre in Francia ad esempio per sostenere la demografia si è puntato su asili, scuole, congedi, sgravi fiscali per le famiglie, l’Italia è rimasta immobile».
Con il risultato che in Francia la demografia ha continuato a crescere.
«Infatti. E la stessa Germania che ha vissuto un invecchiamento simile a quello italiano, prima ha puntato fortemente sulla formazione dei propri giovani, poi è diventata una nazione attrattiva per l’immigrazione non solo di basso ma anche di alto livello. E negli ultimi anni ha radicalmente modificato il proprio sistema di ausili alla natalità. E lì dunque i bambini torneranno a nascere».
Da noi invece…
«In Italia dopo il baby boom, quando la società è cambiata, c’è stata una reazione conservatrice. L’entrata nel mercato del lavoro delle donne è stata boicottata in tutti i modi. A cominciare dalla mancata creazione di sostegni per la maternità, che ha messo le coppie, e soprattutto le madri, di fronte alla necessità di scegliere tra i figli e il lavoro ».
Si voleva difendere il modello patriarcale?
«Ci sono più ragioni. La prima è storica: quando è iniziato il calo demografico evocare la natalità voleva dire evocare il fascismo e il “dare figli alla patria”. La morale comune ha poi condannato il lavoro delle donne considerandolo un elemento di instabilità coniugale, e di perdita di autorevolezza del maschio».
Con quale risultato?
«Senza supporti la famiglia si è indebolita, il lavoro femminile non ha avuto l’apporto del welfare e la demografia è crollata. Nel 1965 nascevano un milione di bambini l’anno, oggi soltanto cinquecentomila. Ci stiamo avvicinando al minimo storico di culle vuote del 1995, quando il tasso di fertilità era di 1,2 figli per donna. Oggi siamo fermi all’1,4, ma potremmo scendere di nuovo».
Perché non si è fatto nulla per invertire la tendenza?
«Si è sempre colpevolmente pensato che il modello di famiglia italiana potesse bastare a se stesso, la rete parentale al posto dello Stato. Un comodo modo per non investire risorse».
Così oggi sono sempre di più i giovani che emigrano per riuscire a lavorare, e poi scoprono che all’estero è anche possibile formarsi una famiglia.
«E la perdita per il nostro paese è doppia: se ne vanno i giovani, fuggono i cervelli, e i bambini nascono altrove».
Il grande esodo dei “millennials”.
«Che invece avrebbero una gran voglia di restare qui, di costruire e di cambiare le cose. Emerge da tutti gli studi, da tutte le statistiche. Ma la politica, purtroppo, sembra cieca e sorda a tutto questo».

La Repubblica 13.01.14