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"Il codice di Babilonia", di Giulio Azzolini

“Sono in mesopotamia le vere origini della nostra politica. Parla l’archeologo Giorgio Buccellati, docente a Los Angeles, che per anni ha scavato nella regione. “Lo sviluppo del linguaggio urbano e il politeismo hanno portato il progresso scientifico”
«Nel 1968, entrando nell’Istituto Orientale di Los Angeles dove lavoravo con mia moglie Marilyn, alzai gli occhi e riconobbi una scritta sulla facciata: “Le passioni dell’irrilevanza”. A ripensarci, fu una sorta di monito». Da allora è come se Giorgio Buccellati, archeologo, classe 1937, non abbia mai smesso di “rilevare”. Oggi si divide tra la California e la Val d’Ossola, ma ha attraversato il mondo, scavando in Siria, Turchia, Iraq e Caucaso. Distinguendo l’effimero dal prezioso. Calibrando le epoche sul metro dei millenni. Ricostruendo grammatica e semantica di lingue morte («meglio non chiamarle così», precisa). E sforzandosi di mostrare la rilevante attualità di ciò che un giorno apparteneva a una civiltà «interrotta» (l’aggettivo giusto).
Professore, leggere i primi due volumi del suo Corpus mesopotamico. Il paese delle quattro rive pubblicati negli ultimi mesi da Jaca Book (gli altri due usciranno nel 2015), dà una sensazione di vertigine. Per lei la preistoria non è un passato oscuro e ineffabile, ma la radice viva di questo nostro terzo millennio. È così?
«Sì, lo scopo del progetto è proprio comunicare il valore sostanziale della civiltà mesopotamica per il mondo contemporaneo. Il racconto è basato sulla lettura dei dati con cui ho lavorato per tutta la vita, ma l’universo che questi rivelano è descritto in vista di interessi perenni, dunque anche presenti. Alle origini della politica dà la prospettiva cronologica alla serie. Il pensiero nell’argilla e Le forme della fantasia saranno dedicati rispettivamente alla letteratura e all’arte. E«Quando in alto i cieli… », benché sia uscito per primo, è il libro idealmente conclusivo».
Lei confronta la spiritualità politeistica della Mesopotamia con la religiosità monoteistica della Bibbia. Qual è la differenza tra le due?
«Il contrasto principale riguarda l’atteggiamento nei confronti dell’assoluto. Il monoteismo biblico rinuncia a frammentarlo e così a spiegarlo; il politeismo mesopotamico, invece, lo fa a pezzi per poterlo analizzare e controllare. Sono strutture culturali parallele e irriducibili, ma è la spiritualità mesopotamica ad aver fatto da matrice storica per il secolarismo e il progressismo scientifico. Non bisogna prendersi troppo gioco del politeismo, perché i riti e le mitologie celano una razionalità variegata e rigorosa,che sotto diversi aspetti permane».
Nella civiltà mesopotamica avrebbero luogo anche le «grandi trasformazioni » all’origine della politica occidentale. Vorrebbe indicarle?
«Il motore iniziale, che ancor oggi è acceso, non scaturisce tanto dalla rivoluzione urbana, hurrita prima e sumera poi. La prima grande trasformazione è l’introduzione nel tardo paleolitico del linguaggio articolato e sintattico. Il secondo fattore decisivo è la funzionalizzazione. La società nasce quando il rapporto tra gli uomini passa dal personale al funzionale: esiste una certa casella funzionale, la quale vincola chiunque vi sia inserito ad agire in un modo preciso e perciò prevedibile ».
Qui entra in scena il potere. Perché individua nella «direzionalità» la sua natura più propria?
«Il termine leadership ormai è usurato, tanto da confondersi con l’idea di comando. Invece il potere, non solo quello antico, è sì violenza, ideologia, amministrazione, ma anche e soprattutto capacità di creare consenso su una linea precisa, che stabilisca il senso di un gruppo. Non a caso nell’etimologia di “governo” risuona il termine “timone”. Per non parlare della metafora del re pastore, che risale al terzo millennio a.C.».
Stando all’indice, Alle origini della politica sembra un manuale di relazioni internazionali: si parla di egemonie e stati, di sovranità e territorialità.
«Non bisogna fossilizzarsi sul nominalismo. Ai mesopotamici non erano aliene le parole, ma il modo formale, tipicamente moderno, di analizzarle. Ad esempio, non avevano le parole “verbo” o “aggettivo”, ma utilizzavano verbi e aggettivi. Come non c’era una grammatica della lingua mancava una teoria della politica, eppure parlavano e chiaramente conquistavano».
Il libro contiene persino una chiave di lettura del postmoderno. Accenna alla post-istoria, insiste sull’idea di controllo e, soprattutto, sull’analogia tra globalizzazione e impero. Perché?
«L’impero si sviluppa pienamente con gli assiri, ma il suo concetto è quasi viscerale. L’impero non è uno Stato grande, è una compagine di elementi eterogenei ideologicamente unificati. La logica imperiale tende a includere l’intera ecumene e non tollera nulla al di fuori di sé. In questo somiglia molto alla globalizzazione odierna».
Il suo sembra un approccio archeologico al mondo, non tanto al sapere, come quello che tentava Michel Foucault. Che cos’è per lei l’archeologia?
«L’archeologia non è una teoria, tantomeno una filosofia della storia. Ciò che l’archeologo, e nessun altro, fa è disseppellire e rendere ragione dei materiali di civiltà collassate su loro stesse. E per ricostruire la sensibilità e l’esperienza di tradizioni interrotte, nessun loro portatore cosciente può fornirgli testimonianza. Un archeologo è solo nel confronto coi dati. Per giocare col titolo di Oliver Sacks, è sempre “un archeologo su Marte”».
Lei, invece, è archeologo cosmopolita per formazione. Laurea in Lettere classiche alla Cattolica, PhD a Chicago, cattedra a Los Angeles. Quali sono stati i suoi maestri?
«A Milano ho imparato l’ebraico da Giovanni Rinaldi. A Chicago il mio supervisore in assiriologia fu Ignace Gelb. Ma ho studiato anche filosofia, a Innsbruck e a New York con Dietrich von Hildebrand».
Finché nel 1973 fonda l’Istituto di Archeologia all’Università della California, oggi tra i più importanti al mondo…
«Ero molto giovane e, benché lavorassi già come archeologo, insegnavo soprattutto linguistica e storia. Immaginavo una scuola che esaltasse il dialogo fra le tre discipline. Una profonda vocazione interdisciplinare che è rimasta ».
Lei è stato tra i primi a utilizzare il computer negli scavi archeologici.A cosa le è servito?
«L’archeologia è l’unica scienza dove non si può ripetere l’esperimento. Il computer consente di registrare i momenti dello scavo e di ottenere una grammatica della stratigrafia. Ma il computer non è solo un mezzo di lavoro: ha inciso sulla mente umana più di ogni altro strumento. Introducendo un “pensiero digitale” fatto di ipertesti, registri paralleli e, soprattutto, di nessi inediti».
La maggior parte delle persone, però, si accontenta della mobilità virtuale. Invece a lei andava stretta anche la carriera accademica. Perché? Nasconde forse uno spirito da Indiana Jones?
«No, no (ride), non ho mai subito il fascino dell’esplorazione in quanto tale. Il fascino della conoscenza, quello sì. Se ho potuto avvicinarmi al mondo degli scavi, è perché conoscevo il babilonese. Ma l’archeologia ha sempre attratto il cinema. Qualche anno fa, Martin Sheen ha festeggiato il suo compleanno con noi a Urkesh».
Aveva allestito una scenografia degna di Hollywood…
«Per lui era così, ma io preferisco pensarmi come un direttore d’orchestra. Gli strumenti sono i reperti: affinché suonino, rievocando l’atmosfera di una civiltà antica, a me tocca disporli con armonia nel sito. La difficoltà è che, per riuscirci, non c’è spartito su cui possa contare».

La Repubblica 10.01.14

"Se un giovane su quattro decide di assumersi da solo", di Dario Di Vico

La parola chiave è autoimpiego e dovremo imparare a farci i conti. L’alfabeto della ricerca di lavoro cambia anche se il dibattito politico sull’occupazione, seppur vivace, continua a restare concentrato sui temi del lavoro dipendente. Ma tra i ragazzi che escono dalle superiori o dall’università molte cose stanno cambiando e i dati di flusso lo dimostrano. Nei primi nove mesi del 2013 il 34% delle imprese aperte ha un titolare under 35 e la stima dell’Unioncamere ci dice che un giovane su 4, terminati gli studi, si rivolge verso l’autoimpiego. Sono ragazzi che hanno perso le aspettative di un tempo e hanno maturato una consapevolezza diversa. Vogliono evitare la via crucis dei contratti a tempo determinato e degli stage senza speranze e preferiscono misurarsi direttamente con il mercato. Anche se non lo chiamano così e sono totalmente aideologici, riconoscono che la meritocrazia si sposa meglio con una propria iniziativa piuttosto che con una scrivania in un ufficio pubblico.
Lo stock di imprese con un titolare sotto i 35 anni ammonta a 675 mila unità e rappresenta l’11% dell’universo delle aziende italiane, ma la tendenza al ringiovanimento è fortissima come dimostra il dato sui flussi. «Alcuni si rivolgono all’autoimpiego perché hanno respirato aria di impresa in casa — spiega Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere —, non dimentichiamo che in Italia una famiglia su 4 ha a che fare con l’attività imprenditoriale». Ma non sono solo i figli di commercianti e artigiani a scommettere su se stessi, la successione a un familiare riguarda appena il 4,2% dei titolari under 30 di nuove imprese. La pura necessità di trovare un primo/nuovo sbocco lavorativo o comunque un lavoro stabile è la causa dell’autoimpiego per il 36,4% dei giovani sotto i 30 anni. Ad aggravare la difficoltà di trovare un’occupazione pesa l’assorbimento pressoché nullo di diversi settori, dal pubblico impiego passando per editoria, scuola ed enti locali. Le trasformazioni del mercato hanno poi determinato una drastica riduzione del peso contrattuale di molte lauree e la conseguente definitiva scissione tra percorso formativo e tipologia di occupazione. I laureati nell’ingegneria rivolta al settore manifatturiero, quelli dell’area medica e di economia continuano a puntare sul lavoro dipendente, invece per chi esce con una laurea umanistica l’autoimpiego appare come la prospettiva più concreta. Se il sociologo americano Richard Sennett ha scolpito il concetto di «corrosione del carattere» per indicare il contraccolpo psicologico della precarizzazione, l’autoimpiego almeno da un punto di vista psicologico è mobilitante, suscita energie. Tanto è vero che il 47,1% degli under 30 con attività avviata nel 2013 indica nell’autorealizzazione la motivazione principale della sua scelta.
Secondo i dati diffusi dall’osservatorio del ministero dell’Economia ogni mese vengono aperte 45 mila nuove partite Iva (la metà sono under 35) e un quarto abbondante di loro corrisponde a un’iniziativa commerciale. Dopo il successo di Grom c’è stato un boom di gelaterie, la ristorazione registra continue nuove aperture di locali così come i servizi di fisioterapia e pilates. Restano ancora sottostimate le chance di fare impresa nell’estetica, nei servizi di lavanderia e nella cura degli anziani. Il professor Emilio Reyneri nel suo libro «Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi» parla, però, a questo proposito di una «terziarizzazione distorta a favore di settori arretrati».
Comunque il 12% circa delle nuove partite Iva si muove verso attività professionali anche se bisogna tener presente che almeno per architetti e avvocati si tratta di uno sbocco obbligato vista la quasi totale impossibilità di trovare un lavoro dipendente in linea con il titolo conseguito. «È chiaro che i giovani si rivolgono in prevalenza al commercio e alla ristorazione — commenta il sociologo Costanzo Ranci, autore del libro “Partite Iva” — perché sembra più bassa la barriera all’ingresso al Sud come al Nord. Ma attenzione anche tra i laureati settentrionali e ad alta qualificazione la tendenza all’autoimpiego è elevata e non solo per uno stato di necessità». Sale anche per motivazioni legate all’autorealizzazione personale che si sposano con una forte propensione alla mobilità territoriale. «Secondo rilevazioni di fonte Isfol il 50% dei giovani è pronto a trasferirsi all’estero e solo il 20% non vuole muoversi da casa».
La dinamica di autorealizzazione è testimoniata da molte storie pubblicate sul blog Nuvola del lavoro ma anche da una analoga iniziativa di Unioncamere che ha raccolto in un sito racconti di neoimprenditori che magari come l’Andrea dell’ultimo libro di Silvia Avallone («Marina Bellezza») scelgono di tornare in montagna per produrre formaggi come il nonno. «Colpisce in queste storie — sottolinea Gagliardi — l’incrocio di innovazione e tradizione che porta a cambiare mestieri come il sarto, il falegname e più in generale l’agricoltore».
Ma di fronte a queste novità, al mix rappresentato dalla mobilitazione individuale, l’assunzione del rischio e la riduzione dell’ingorgo all’ingresso del lavoro dipendente, come risponde il sistema economico? Come ripaga questi giovani per la loro coraggiosa scelta di autonomia? Gagliardi sostiene che «dobbiamo loro qualcosa, quantomeno fornirli di un supporto ordinario di servizi e assistenza». Il rischio, infatti, sta nella mortalità precoce delle nuove imprese come sembra trasparire dalla veloce rotazione degli esercizi commerciali nelle città. In verità, forse per un effetto-ritardo, i dati non sono così tremendi. Secondo Unioncamere nei primi nove mesi del 2013 ha chiuso il 7% delle aziende degli under 35 contro una media generale del 5%. Comunque l’esigenza di accompagnare l’autoimpiego si sta facendo largo. Da segnalare l’iniziativa della Confcommercio di Milano che ha predisposto un punto accoglienza per i neoimprenditori che si chiama «I Marcopolo» e ha pubblicato «Le bussole», manuali rivolti a chi sta facendo la sua prima esperienza. Anna Soru, presidente di Acta, l’associazione delle partite Iva del terziario avanzato, ha scritto l’e-book «Post lauream», diretto ai giovani che finiscono gli studi e si chiedono se valga la pena orientarsi verso il lavoro autonomo.
Il primo problema che emerge dalla sua ricognizione è trovare i soldi per aprire l’impresa e secondo i racconti si ricorre spesso al prestito familiare. Più del 50% parte con un capitale inferiore ai 5 mila euro e solo il 3% inizia con una dotazione di risorse maggiori di 50 mila euro. Si avverte la necessità di strumenti di microcredito perché pochi neoimprenditori utilizzano la banca. La legge di Stabilità ha rifinanziato l’agenzia per il sostegno alle start up dopo che nel 2013 il bando era stato chiuso perché ad aprile aveva già prosciugato i fondi, ma la dotazione resta bassa: 80 milioni di euro per tre anni. «Assieme all’inadeguatezza dei meccanismi di finanziamento mancano anche politiche di agevolazione fiscale del nuovo lavoro autonomo — dice Soru —. Prendiamo l’esempio del forfettone per le partite Iva fissato a 30 mila euro l’anno: chi si muove bene sul mercato e magari sta per sforare finisce per rinunciare a prendere una nuova commessa e vista la crisi che attraversiamo è veramente paradossale che ciò accada».
Tra le forme di accompagnamento all’autoimpiego sta incontrando molto favore il franchising perché garantisce un know how sperimentato, un più facile accesso al credito, la possibilità di accedere alla formazione e più in generale si presenta come un mix vantaggioso di organizzazione centrale e spirito individuale d’impresa. Altrettanto interesse sembra attirare la formula cooperativa: secondo un’indagine Swg sono 700 mila i giovani disposti a dar vita a un’esperienza imprenditoriale di questo tipo.

Il Corriere della Sera 10.01.14

"L’argine dei populismi", di Michele Prospero

Che le grandi coalizioni siano un terreno fertile per i populismi, non è una scoperta di Le Monde. È storicamente accertato che le forze antisistema proliferano, con lo stile dell’antipolitica, in presenza di un governo di larghe intese. Proprio in rivolta contro le ammucchiate partitocratiche, che nel dopoguerra vedevano insieme la Dc e il Pci, in Italia nacque il movimento populista del commediografo Giannini.

Tornato in scena il grande conflitto politico, con la cacciata delle sinistre dall’esecutivo, la frattura dell’Uomo Qualunque fu subito riassorbita dalla Dc. Era necessario recuperare delle truppe fresche per l’edificazione degasperiana della diga contro il comunismo minaccioso dopo le forche di Praga. E i qualunquisti furono reclutati in fretta.

Anche il secondo populismo, quello raccolto con notevole abilità dal comico Grillo, non avrebbe sfondato così facilmente nel corpo elettorale, sino a diventare dal nulla il primo partito, senza il quadro favorevole fornito dalla sospensione del conflitto politico. Con il varo del governo dei tecnici, appoggiato dalla strana maggioranza Pd-Pdl, divenne propizia l’occasione per l’insorgenza di un nuovo e dirompente movimento antisistema capace di rompere gli argini abituali.

Quindi un nesso tra populismo e larghe intese esiste. In Austria e in Italia (in parte pure in Grecia, dove però la coalizione tra conservatori e socialisti durò solo 5 mesi prima delle elezioni del 2012, che portarono Alba Dorata in parlamento) l’inferenza è confermata e in termini trasparenti. Però, vista sul più ampio terreno comparato, la questione appare assai più complessa rispetto al quadro di Le Monde. La Germania è un sistema politico in cui il populismo è contenuto nella sua travolgente espansione elettorale, e dove un soggetto antipolitico non è ancora riuscito a penetrare (seppure per un soffio) in parlamento. Eppure la Germania è il sistema delle larghe intese come rimedio in fasi di emergenza e di ingovernabilità, ed è stata appena varata la terza esperienza di grande coalizione (la seconda nel giro di pochi anni).

Certo, l’Spd è stata amputata dalla precedente fase di coabitazione con il centro democristiano, precipitando al suo minimo storico (22 per cento) e smarrendo in maniera pesante il suo profilo di grande partito operaio e di affidabile garante della giustizia sociale. Però il volto di un populismo di destra che si fa largo tra le muraglie delle grandi coalizioni non appare nitido in Germania, anche per la capacità di tenuta complessiva del sistema di partito e per la presenza di una sinistra radicale in grado di canalizzare il disagio e la protesta che è ancora forte nelle aree dell’est.

Il problema analitico principale, che stranamente Le Monde trascura del tutto, è racchiuso proprio nel caso francese. La Quinta Repubblica è una nemica giurata delle larghe intese. Eppure, malgrado la secca dialettica bipolare destra-sinistra che vi domina, proprio in Francia, e da un trentennio ormai, esiste il più significativo partito populista carismatico, quello di Le Pen (padre e ora figlia), stimato peraltro dai sondaggi in preoccupante ascesa per la prossima tornata europea.

Se è vero che le grandi intese tra destra e sinistra appannano i sistemi ideologici e solleticano istinti di rivolta contro le omologate caste al potere, non è però adeguata una spiegazione del voto antisistema condotta solo nei termini di una meccanica competitiva oscurata e quindi occasione di diffuso risentimento. Il vero lievito dei populismi è rappresentato dall’usura storica di un modello trentennale di democrazia in grado di coniugare crescita e diritti sociali e quindi di esprimere una politica strutturata con partiti di massa dotati di ideologie e di organizzazioni solide per l’integrazione. Questo antico mondo perduto costringe la politica europea alla difficile impresa di convivere con lo Stato di austerità permanente e con partiti che, ormai privi di ideologia legittimante, perdono la capacità di mobilitazione e rappresentanza dei ceti operai e popolari, divenuti sempre più sensibili ai richiami dei conflitti di cultura (sull’immigrazione), di legalità (sulla corruzione). I partiti populisti, ovunque riescano ad insediarsi, diventano il primo partito operaio.

Se il ripristino di una esplicita polarità destra-sinistra è la condizione minimale per sterilizzare la forza d’urto del populismo, questa riesumazione del normale gioco dell’alternanza è tuttavia sterile senza un ripensamento delle idealità della sinistra europea. Percepita ovunque come una tradizione ormai integrata anch’essa nel paradigma dominante del liberismo, la sinistra ha dinanzi a sé il compito di recuperare una aggiornata capacità di critica ideale del capitalismo e un ruolo di progettualità politica. Altrimenti il laboratorio europeo è solo un lontano ricordo.

L’UNità 10.01.13

"E i democratici convergono sulla proposta del leader", di Vladimiro Fruletti

Questa volta si sta guardando più alla luna che non al dito». Matteo Renzi con i suoi collaboratori si mostra soddisfatto delle reazioni suscitata dal suo Jobs Act. Soprattutto da quelle che stanno arrivandogli da dentro il Pd. Del resto lo stesso Renzi ha costruito, assieme a Marianna Madia e Filippo Taddei, un documento che non mette in primo piano il «dito» della possibile discordia. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non viene mai citato. E tutta la questione sulle nuove regole contrattuali è messa in coda preceduta da indicazioni su come creare posti di lavoro. Insomma si notano più capitoli per un piano di politica industriale che non indirizzi giuslavoristici.

Così in vista della direzione del 16 gennaio in cui la bozza, apparsa mercoledì sera nella sua e-news sotto forma di titoli e intenzioni anche un po’ generiche, diventerà un vero e proprio piano, il segretario democratico può rilanciare via twitter la richiesta di suggerimenti e anche critiche alla sua email (matteo@matteorenzi.it). Proprio perché, eccezion fatta per le parti più estreme della sinistra (da Ferrero a Cremaschi, ai sindacati di base), non è arrivata nessuna bocciatura. Anzi. La Cisl ha già dato il suo via libera e la Cgil e la stessa Fiom (con Camusso e Landini) vogliono andare a vedere le carte di Renzi, ma già salutano come un fatto positivo che il Pd abbia rimesso al centro della propria azione politica il lavoro. Disponibilità che rendono ovviamente più agevole il confronto interno al Pd che con la Cgil non avrà sicuramente più alcuna cinghia di trasmissione ma, almeno in una sua parte assai rilevante, condivide un comune sentire. Concret mente questo significa che al di là del caso Fassina il confronto fra Renzi e l’area che ha sostenuto Cuperlo dovrebbe portare a una posizione comune giovedì prossimo in direzione. Lo stesso presidente dell’assemblea Pd coi suoi ha spiegato che non c’è alcuna «contrarietà pregiudiziale» ma anzi la volontà di entrare nel merito del documento al fine di evitare che «diventi qualcosa d’altro». «A me interessa che non vengano scongelate vecchie proposte e che tutto non si riduca ad una discussione sulle regole» è la posizione di Cuperlo che appunto guarda alla luna. E non è un caso che si sentano più battimani dalle parti dei Giovani Turchi che non da quelle di Pietro Ichino che pure era stato uno degli ispiratori delle proposte renziani ai tempi delle primarie contro Bersani. Infatti il parlamentare di Scelta Civica annota un eccessiva cautela nelle proposte del segretario-sindaco: ad esempio sul contratto di inserimento sottolinea come sia preceduta dall’espressione “processo verso” «pericolosamente tratta dal sindacalese».

All’opposto c’è il «positivamente sorpreso» Fausto Raciti, Giovane Turco del Pd, che pure poche settimane fa aveva espresso, assieme a Matteo Orfini e altri, più di una contrarietà alle mosse di Renzi sul lavoro. Certo Raciti spiega all’Huffington che è stato il segretario Pd a avvicinarsi alle loro posizioni e tuttavia (anche evitando di mettersi a contare chi abbia fatto passi verso chi) il dato oggettivo è che le distanze si sono se non annullate di certo molto accorciate. «A noi non interessano – dice – i giochini di maggioranza e opposizione nel partito. Se Renzi dice A noi non diremo automaticamente Z». E infatti an- che Matteo Orfini giudica «condivisibile l’impianto» tirato su da Renzi proprio perché «non è solo giuslavoristico», ma parla «a 360 gradi di come si crea lavoro». Ovviamente poi nel merito Orfini così come l’ex responsabile la- voro della segreteria Bersani, Cesare Damiano, avanza interrogativi ancora irrisolti. Tuttavia puntualizza come il Pd debba uscire con una proposta forte e con dei «paletti» ben precisi per evita- re di «partire bene ma arrivare male». Paletti cioè da rendere invalicabili nel momento in cui questo piano per il lavoro diventerà oggetto di contrattazione nella maggioranza di governo visto che lì ci sono forze politiche e personalità che «hanno idee molto diverse dalle nostre».

Ecco, molta freddezza semmai si rscontra fra i ministri. Sia quello del lavoro, Giovannini, che quello allo sviluppo economico, il bersaniano Zanonato, smorzano facili entusiami richiamando la questione dei costi troppo alti per rendere praticabili le misure ideate dal Pd. E Alfano parla di «solita zuppa» targata Cgil condida da un po’ di inglese. Obiezioni che non sorprendono Renzi. Che però, come twitta il fidatissimo Da- vide Faraone, spera che «entrino in campo e ci diano una mano gli amanti del bel gioco e stiano in panchina i cultori del catenaccio».

L’Unità 10.01.14

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«La direzione è giusta, ma svegliamoci»di Laura Matteucci

«Questo Paese ha bisogno di ridefinirsi, di decidere che cosa vuol essere tra 15, 20 anni. Siamo il nono Paese al mondo per produzione di Pil, il 56esimo per competitività. C’è bisogno di un proget- to nuovo, va chiarito innanzitutto il tra- guardo, a quel punto si capisce anche come arrivarci». Parla Marco Boglio- ne, patron dei marchi Robe di Kappa, K-Way, Superga.

Intende dire che la bozza del Piano di Renzi per il lavoro non la convince? «No, no, anzi: le indicazioni sulla politica del lavoro che dà Renzi penso vadano nella direzione giusta. È che vanno inserite in un progetto complessivo di lungo periodo. Il contratto unico a tute- le crescenti? Sono d’accordo, è un approccio intellettualmente corretto, lo pensiamo in molti. Tra l’altro, io sono convinto che il contratto a tempo indeterminato sia una schiavitù per i giovani, perché mentre dovrebbero rischiare, macinando esperienze, finiscono invece per vivere sotto ricatto. Dovrebbe essere un punto di partenza, non l’obiettivo conclusivo. Ma oggi, rinunciare ad un contratto a tempo indeterminato per creare un’impresa, inseguire un sogno differente, verrebbe vista come una follia. E guardi che non è un problema della singola persona, perché se i giovani spengono il cervello il rischio lo corre l’intero Paese». Questo forse con un mercato del lavoro infinitamente più vivace e più prospero del nostro. Qui la disoccupazione continua a salire, quella giovanile è al 41%. «Se vogliamo un mercato vivace lo dobbiamo liberalizzare. Dobbiamo velociz-

zare il sistema, dare un taglio drastico alla burocrazia che ci ingessa e ci irrigidisce: siamo considerati tra i primi 10 Paesi al mondo per pesantezza della burocrazia, e se Steve Jobs si fosse chia- mato Stefano Lavori non sarebbe andato molto lontano. Ci facciano pagare, a noi imprenditori, una tassa in più per creare un fondo nazionale di sostegno ai disoccupati, ma ci liberino dal vincolo di dover tenere in azienda qualcuno di cui non abbiamo più bisogno». Torniamo al Piano di Renzi: il taglio dei costi dell’energia, quello del 10% dell’Irap, sono proposte che la trovano d’accordo, giusto?

«Certo, tutte cose giuste da fare. Io sono un grande tifoso di Renzi, ma il punto è che senza una visione globale del Paese, una strategia complessiva di lungo termine, queste proposte rischiano di non servire a molto».

Non mi dica che il sistema imprese non ha responsabilità…
«Non glielo dico. Però aggiungo: negli Usa, ma anche in Norvegia o in Svizzera sono al 25% di tassazione. Qui, tra le tasse sul reddito e gli annessi e connes- si, viaggiamo sul 67%. Giuro che è impossibile competere».

Lei la ripresa la vede?

«Ci siamo stabilizzati, ma non si può parlare di ripresa. Da metà 2012 a metà 2013 si è inchiodato tutto, a parte lo spread che si è impennato; adesso è passato lo shock, vediamo che siamo sopravvissuti, la maxispeculazione sui mercati finanziari è rallentata. Tutti da- ti positivi, ma non è ancora successo niente che possa far sperare in una ve- ra inversione di tendenza. Del resto, la ripresa può avvenire in due modi: attraverso la domanda interna – e adesso la gente è immobilizzata dalla paura – o perché il Paese è competitivo ed esporta. E qui si torna al problema della burocrazia e dell’eccessiva tassazione». Per l’occupazione che anno sarà? «Visto che non è cambiato nulla, temo non potrà migliorare molto».

L’Unità 10.01.14

"Scatti, per finanziarli il Miur tenta la carta a sorpresa", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Evitando di prelevare tutto dal Mof, il Ministero recupererebbe un bel po’ di consensi: per studiare le possibilità sono al lavoro diversi tecnici di entrambi i ministeri. A confermarlo è lo stesso ministro Carrozza. Intanto, al Miur si sta cercando di “neutralizzare” la norma dello scorso agosto che ha consentito al Mef di chiedere la restituzione degli scatti già pagati.
Per sovvenzionare gli scatti automatici, il Miur starebbe tentando soluzioni alternative. In modo da non privare gli istituti una parte del Mof. A dirlo all’Unità, stavolta senza giri di parole, è il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, all’indomani dell’ottenuto successo nella vicenda che ha visto il Mef procedere in modo davvero troppo autonomo.
”Stiamo facendo delle verifiche con i tecnici per trovare risorse che non comportino l’uso dei fondi per il miglioramento dell’offerta formativa”, ha detto Carrozza. Per poi aggiungere: ”La scuola è all’osso e non è facile trovare le risorse”.
Non è facile, ma nemmeno impossibile. Per questo motivo, un gruppo di dipendenti e dirigenti dei ministeri dell’Istruzione e dell’Economia sono da mercoledì 8 gennaio al lavoro per trovare la soluzione tecnica che consentirà di uscire concretamente dall’impasse. Il problema è che non è di certo possibile modificare il Dpr 122, che ha bloccato per tre anni sia il rinnovo dei contratti sia gli scatti d’anzianità. Mentre a viale Trastevere si sta seriamente pensando di attuare un provvedimento di legge per “neutralizzare” la norma dello scorso agosto che di fatto ha consentito al Mef di chiedere la restituzione degli scatti già pagati. In parallelo la via da percorrere sarebbe quella già seguita in passato. Con una trattativa tra governo e sindacati si stabilì, infatti, alla luce del blocco, che una quota delle risorse che si ottenevano con il contenimento degli organici potesse essere utilizzata per la valorizzazione del personale e per la scuola si optò per il ripristino degli aumenti legati agli scatti di anzianità.
Della “copertura” relativa al 2012 mancherebbero circa 100 milioni di euro. Che potrebbe essere attinte dal 30% di risparmi derivanti dai tagli dell’era Gelmini (per il 2012 ci sono 120 milioni). Per il 2013 (gli oneri per le anzianità stipendiali si aggirano sui 370 milioni) si “pescherebbe” invece dal Mof, il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa: “l’atto di indirizzo che prevede questa ipotesi – ricorda l’Ansa – è già stato inviato al ministero della pubblica amministrazione ed è la base per aprire una trattativa con i sindacati all’Aran”.
Una prima tranche del Mof (521 milioni di euro) é già stata dirottata alle scuole; restano disponibili – spiegano i sindacati – 463 milioni. Anche il sottosegretario all’Istruzione, Gian Luca Galletti, ha fatto intendere che i giochi non sono ancora fatti.
Nel frattempo, i sindacati mettono le mani avanti. “Si cancelli la norma che nell’ottobre dell’anno scorso ha aggiunto un altro anno, il 2013, a quelli ‘sterilizzati’ dal governo Berlusconi nel 2010, determinando il pasticcio poi evitato in extremis dal Governo” chiede il segretario generale della Cisl scuola, Francesco Scrima. E la Flc si dice nettamente contraria al taglio del Mof per ripristinare gli scatti del 2012 e 2013 nella scuola. “E’ necessario – afferma il segretario generale, Mimmo Pantaleo – che il Governo reperisca risorse aggiuntive per ripristinare gli scatti. L’ipotesi di riduzione del Mof per pagare gli scatti del 2012 è consistente e impraticabile. Infatti il fondo si ridurrebbe a meno di 600 milioni di euro anche a seguito del taglio già effettuato per pagare gli scatti 2011. Si colpiranno ulteriormente e pesantemente studenti, personale e famiglie”. “Scippano il fondo d’istituto” é l’allarme lanciato dall’Unicoba. Mentre la Gilda ha nel mirino il ministro Saccomanni, reo di un altro intervento a danno della scuola: “prima della pausa natalizia, il Miur ha concluso tutte le operazioni necessarie per i pagamenti ai supplenti precari e ha comunicato alle scuole la disponibilità dei fondi, così da poter liquidare subito gli stipendi. Ma tutto si è bloccato perché il sistema informatico del Mef per i pagamenti delle scuole, risulta inaccessibile. Sorge il dubbio che questo blocco sia legato alla questione degli scatti e dei famigerati 150 euro che potrebbe aver assorbito tutte le attenzioni di via XX Settembre”.

La Tecnica della Scuola 10.01.14

"Ma quanto sono falsi gli anni di piombo in tv", di Antonio Di Pollina

Forse è il momento di una moratoria per le fiction di ricostruzione storica. Intendiamo quelle che tralasciano qualsiasi spunto narrativo fondante e fanno invece da surrogato a un libro di storia recente. Il caso limite del Commissario degli
Anni spezzati di RaiUno è una specie di punto di non ritorno, uno slalom lungo quattro ore a evitare la tale questione e a inserirne un’altra, a saltare un punto di vista e a squadernare atti giudiziari: se anche, grazie magari al buon Solfrizzi, si vuole raccontare una parabola umana e tormentata e tragica, conviene lavorare di richiami e rimandi. È del tutto chiaro che il marchio a fuoco della fiction italiana per il grande pubblico (presunto e non raggiunto, sempre più spesso) condiziona tutto e tutti. Come per le vite di personaggi famosi strette in miniserie da due puntate: si obbedisce a codici precisi, per cui alla fine in quella di Padre Pio ti sembra di ritrovare lo stesso passo di certi momenti della fiction su Walter Chiari.
Si somigliano tutte perché c’è un dettato comune a cui si obbedisce, salvo rivendicare il merito di richiamare l’attenzione dei giovani e di chi non c’era. A parte che i giovani chissà dov’erano in queste sere, c’è una pretenziosità di fondo che ormai urta: alla fine si scontentano tutti — per il Commissario una specie di plebiscito al contrario — e non si centra nemmeno l’operazione di centralità del racconto sulla prima rete. Logica vorrebbe che vicende impossibili come gli anni 70 venissero prese di striscio mettendo invece al centro storie minori o di fantasia, lasciando intendere a chi vuole intendere. Ogni tanto ci si riesce. Ma questa del “vieni qui che ti racconto in tv la storia” è ormai una tentazione da lasciare lontana il più possibile. Non siamo capaci punto e basta. O servirebbero ben altri calibri e orizzonti e scritture da
mettere in gioco.

La Repubblica 10.01.14

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“Troppe caricature sul caso Calabresi”, di Aldo Grasso

Quando si affrontano certi temi bisogna avere il coraggio di assumersi alcune responsabilità, non bastano le buone intenzioni. La trilogia de «Gli anni spezzati» affronta fatti che grondano ancora sangue (la strage di Piazza Fontana, l’omicidio del commissario Calabresi, il terrorismo politico, gli intrighi di Stato…); ma raccontare i dieci anni «che hanno sconvolto l’Italia» significa innanzitutto prendersi una responsabilità storica (Raiuno, martedì, 21.10).

La Rai ha la forza di dire com’è morto Pinelli? Gli sceneggiatori, al di là dei libri a cui si ispirano, hanno l’autorevolezza per far luce su quelle tenebre? L’impressione, vedendo «Il commissario», è che gli sceneggiatori Graziano Diana, Stefano Marcocci e Domenico Tommasetti si siano limitati a mettere in fila i fatti di cronaca eludendo ogni risposta decisiva. Ma la responsabilità più grande che viene a mancare è quella della scrittura. A parte la scelta iniziale di far raccontare la storia a un giovane militare di leva romano, Claudio Boccia (Emanuele Bosi), assegnato alla caserma Cadorna, tutto il resto è insipienza narrativa.

Le figure del commissario Calabresi (Emilio Solfrizzi), di Giuseppe Pinelli (Paolo Calabresi), o quelle di Pietro Valpreda, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa, Giangiacomo Feltrinelli spesso stingono in caricatura, anche visiva, non hanno alcuna profondità, né umana né storica. I dialoghi sono improbabili e, soprattutto, il materiale di repertorio, nella sua sfrontata secchezza, mette in serio imbarazzo i tentativi scenici di ricostruzione.
Come fossero due epoche differenti. Uno dei compiti principali della fiction del Servizio pubblico sarebbe quello di raccontare il nostro passato, avendo però la forza di esprimere una linea editoriale, qualcosa che faccia riflettere, distolga lo spettatore dall’indolenza espressiva. Qui si naviga fra la più astratta aridità dei luoghi comuni e il garbuglio dei buoni sentimenti.

Il Corriere della Sera 10.01.14

"Come creare posti di lavoro", di Tito Boeri

Come ci ha spiegato Dale Mortensen, Nobel per l’economia scomparso ieri dopo una malattia che ce lo ha portato via in pochi mesi, i posti di lavoro, i
jobs, vengono creati dalle imprese ma non vengono
riempiti immediatamente. Ci vuole del tempo per l’incontro fra domanda e offerta e più segmentato è il mercato, più lungo il tempo che passerà prima che il posto di lavoro vacante si traduca in impiego effettivo, dando un lavoro a chi lo cerca. Questo aumenta la disoccupazione e ne allunga la durata. L’incontro fra lavoratore e impresa può migliorare nei benefici che arreca ad entrambi, ma può anche peggiorare nel corso del tempo, spingendo l’uno o l’altra a porre fine al rapporto di lavoro. Quando questa separazione avviene, ci sono costi sociali che vanno al di là di quelli sostenuti dal datore di lavoro e dal lavoratore. Bisogna pagare un sussidio di disoccupazione a chi è stato licenziato e questa persona si troverà a competere con altri disoccupati nella ricerca di un impiego. Meglio perciò non porre limiti a priori alla durata di un rapporto di lavoro, meglio non avere troppi contratti temporanei. Creano congestione in entrata e impediscono di investire nel migliorare la produttività del lavoro.
Il Jobs Act di Matteo Renzi è, per il momento, solo un elenco di titoli. Sono quelli giusti. Il piano mette al centro la domanda di lavoro e oggi è proprio da quel lato del mercato che risiede il problema: troppe persone in cerca di lavoro, pochi posti vacanti. Coerentemente con questa impostazione che vuole incoraggiare le imprese a creare opportunità di impiego, si propone di concentrare le risorse disponibili in un taglio non simbolico delle tasse sul lavoro e di ridurre i costi di creazione di nuove imprese, ad esempio abolendo l’obbligo (e ancor più gli oneri) di iscrizione alle Camere di Commercio. Si vuole ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, riducendo il numero e la complessità delle tipologie contrattuali, un approccio diametralmente opposto a quello seguito negli ultimi 20 anni da Treu, Maroni e Sacconi, che avevano moltiplicato le figure contrattuali, dando poi, dulcis in fundo, facoltà alle Regioni di intervenire con normative differenziate. Era un modo di creare impiego solo per i consulenti del lavoro. Ora si sceglie la strada della semplificazione. Si intende anche creare un
canale di ingresso nel mercato del lavoro che permetta di sperimentare la qualità dell’incontro fra impresa e lavoratore senza imporre a priori limiti di durata a questo rapporto di lavoro. Ci si propone di rendere questa l’entrata principale, quando oggi solo il 20 per cento delle assunzioni (il 10 per cento tra i più giovani) avvengono con contratti a tempo indeterminato. La segmentazione viene combattuta anche tra chi perde il lavoro, istituendo un sussidio di disoccupazione accessibile da parte di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa, dal settore o dal contratto.
Le premesse sono dunque quelle giuste. Perché se ne possa discutere in modo serio bisognerà al più presto affinarle, a partire dal chiarire quali coperture verranno trovate per le misure che in questo pacchetto non sono a costo zero. Bisognerà, in questo perfezionamento, avere cura dei dettagli senza perdere la visione d’insieme e senza venire distratti da improbabili piani industriali sui settori che dovrebbero creare lavoro. Dopotutto, come scritto nella bozza, «non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli imprenditori». Occorrerà fare in fretta per evitare che le premesse diventino promesse. Di queste ultime non si sente certo il bisogno. Gli annunci cui non seguono fatti concreti sono molto pericolosi nel mercato del lavoro. Le imprese, ad esempio, possono sospendere le assunzioni, aspettando che entrino in vigore le nuove regole, deprimendo ulteriormente un mercato del lavoro già in ginocchio. Le promesse creano, inoltre, aspettative soprattutto fra i giovani che continuano ad essere presi di mira in Italia, come ci dimostra anche il fatto che si intervenga per contenere i costi del pubblico impiego solo bloccando gli scatti, le carriere. Le loro speranze non devono venire disattese: di slogan e di contratti con gli italiani mai rispettati sono lastricate le vie di quella politica italiana che si vorrebbe cambiare.
Il difficile viene adesso. Ma comunque è già un sollievo che il confronto pubblico non sia solo su Ici, Imu, Tari, Tasi, Tares, Taser, Trise, Tuc e Iuc. È il momento di occuparsi del problema numero uno, quello del lavoro.

La Repubblica 10.01.14