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Precari Pa, la Corte Ue censura le norme italiane: possibile stabilizzazione per 230mila lavoratori, da www.ilsole24ore.it

La legislazione italiana sui contratti flessibili della Pa finisce nel mirino della Corte di Giustizia europea, che a dicembre ha deliberato due provvedimenti (una ordinanza ed una sentenza) che potrebbero mettere in discussione tre lustri di provvedimenti tampone per risparmiare sulle spese del personale pubblico. E, secondo i sindacati, costringere l’Italia a rivedere in fretta la normativa interna sui precari pubblici ma soprattutto aprire la strada all’assunzione a tempo indeterminato di oltre 230mila stabilizzazioni tra scuola (oltre 130mila unità), Sanità (30mila) ed Autonomie (80mila).

Violata la Direttiva 70/1999 sul lavoro pubblico temporaneo
Precari spesso “storici”, spiegano, assunti in violazione della Direttiva 1999/70/CE sui paletti al lavoro determinato nel pubblico impiego. Secondo i principi della giurisprudenza comunitari, l’ordinanza Papalia (causa C-50/13) e la sentenza Carratù (Causa C-361/12), entrambe del 12 dicembre scorso, sono decisioni su casi specifici (un maestro “a tempo” della banda municipale contro il Comune di Aosta, un dipendente temporaneo vs Poste Italiane), che si riflettono però sui casi simili, anche in termini di applicazione da parte dello Stato edella giustizia italiana.

Cgil: Italia obbligata ad una «revisione epocale» delle norme sui precari
Nel primo caso, la Corte di Giustizia Ue ha dichiarato «l’illegittimità della legislazione italiana in materia di precariato pubblico, accertando che l’Italia e la normativa interna non riconoscono e non garantiscono ai lavoratori pubblici precari le tutele e le garanzie previste dal legislatore europeo». Sotto accusa, in particolare, la norma italiana che – nel caso di utilizzo abusivo da parte del datore di lavoro pubblico di una serie di contratti a tempo determinato – preveda per il lavoratore danneggiato solo il diritto di chiedere un risarcimento del danno subito previa la (difficilissima) dimostrazione di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di lavoro, e senza possibilità di trasformazione del lavoro precario in lavoro stabile. Secondo la Cgil, che sottolinea la rilevanza dei risvolti della sentenza «sia nei confronti della tutela dei lavoratori a tempo determinato, sia nei confronti della giurisprudenza resa sul punto dalla Corte di Cassazione», un’indicazione netta all’Italia per «una revisione epocale» della normativa di riferimento.

Poste Italiane società pubblica e non privata
Censura gli abusi della nostra normativa interna anche la sentenza con cui la Corte di Lussemburgo ha bocciato la sanzione introdotta dalla legge n. 183/2010 (legge delega su lavoro e occupazione) con effetti retroattivi sui processi in corso di Poste italiane: confermando la tesi del Tribunale di Napoli, la Corte Ue ha stabilito infatti che la Direttiva comunitaria sul lavoro precario può essere applicata anche a Poste italiane, da considerare una società pubblica e non una impresa privata. E che allo Stato si applica soltanto il Dlgs n. 368/2001 (che ha recepito nel nostro ordinamento nazionale la Direttiva 1999/70/CE) e non le norme successive approvate dal Legislatore italiano per aggirare di fatto la sua adozione.

Pacifico (Anief) contro le norme estive del Governo sui bandi riservatiai precari
Per Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, le due pronunce dovrebbero indurre il Governo italiano a rivedere radicalmente la propria linea, dopo aver concesso questa estate alle amministrazioni pubbliche la possibilità di bandire concorsi con riserva di posti (massimo il 50%) per chi, alla data di pubblicazione del bando, abbia maturato almeno tre anni di contratti a termine negli ultimi dieci anni. «Un tentativo del tutto inutile, secondo Pacifico, di sfuggire alle perentorie regole comunitarie», destinato ad infrangersi di fronte alle espressioni dei tribunali di giustizia, «i quali stanno ripetutamente confermando che le ragioni finanziarie non possono essere assunte come giustificazioni per aggirare le norme sovranazionali». Pacifico conclude bocciando i concorsi riservati indetti dal Governo: «non hanno alcun senso: semplicemente perché lavoratori precari “storici” non debbono essere più sottoposti ad alcuna nuova selezione. Hanno i titoli per essere assunti nei ruoli dello Stato. Quello stesso Stato che non può utilizzarli a suo piacimento, quando ne ha bisogno, licenziarli e poi richiamarli per un numero imprecisato di volte».

da www.ilsole24ore.com

"Sui pulpiti, le prediche e i chierici di De Anna" di Antonio Valentino

Giuste e sacrosante le argomentazioni di Franco De Anna a proposito delle posizioni e degli appelli, maturati in questi giorni, circa i criteri per la scelta, da parte del Ministro, del nuovo Presidente INVALSI. Giusta la distinzione tra ricerca pedagogica e ricerca educattiva; giusto il richiamo a non fraintendere i compiti e le funzioni del “sistema” della ricerca educativa. Opportuno e sacrosanto anche sottolineare che la “valutazione” messa in capo all’INVALSI ha come caposaldo le rilevazioni dei livelli di apprendimento attraverso le somministrazioni standard relative a Italiano e Matematica. E, soprattutto, che queste “non hanno a che fare con la “valutazione degli alunni”, che è invece “prerogativa insostituibile dell’esercizio professionale ( …) del docente”.

Ma veniamo al senso della sua polemica, “puntuta”, come spesso gli capita, contro “il mondo pedagogico”. Reo, a suo dire, di voler contrastare, nella conduzione dell’INVALSI, la prevalenza di “economisti” e di “statistici”, perché tutto teso – il mondo pedagogico – a far valere la messa in primo piano delle competenze educative, pedagogiche, ecc….

Riconosciuto il valore delle tue considerazioni, ti propongo, ora, caro Franco, un approccio diverso alla questione. Che prende le mosse da aspetti molto concreti con cui è fondamentale, per tutti quelli che operano nel sistema scuola, fare i conti.

In primo luogo osservo che, dietro le posizioni con cui tu polemizzi, non c’è solo il “mondo pedagogico” (che anzi mi sembra decisamante minoritario, se con esso, ti riferisci, come ho pensato, a chi studia e coltiva pedagogia, e non a chi pratica e organizza l’insegnamento).

Dietro queste posizioni, c’è innanzi il mondo della scuola (o sue parti consistenti); soprattutto dirigenti scolastici (ma anche insegnanti e formatori), impegnati a ridare dignità al nostro sistema scolastico. La cui polemica non penso voglia essere aprioristica contro la presenza prevalente di economisti e statistici nella direzione dell’INVALSI, ma, piuttosto, contrastare modalità operative che in questi anni tendevano a prescindere dai “luoghi” nei quali e per i quali si svolgono le rilevazioni.

La seconda considerazione si allaccia alla prima. La percezione che il mondo della scuola ha del lavoro dell’INVALSI, conosciuto in questi anni, non è di quelle catalogabili sotto le voci: diffusa condivisione e apprezzamento. L’INVALSI ha continuato ad essere estraneo alle scuole e la collaborazione – che pure non è mancata – è stata sempre considerata dalla scuola come un atto dovuto, di cui non sempre si coglievano senso e prospettiva. E questo perché non è stato favorito un approccio diverso al riguardo. È certamente vero che la ricerca educativa la fa l’INVALSI; ma è innegabile che nelle procedure di rilevazioni – e non solo – centrano le scuole. E la qualità delle procedure molto dipende dal livello di consapevalezza dell’importanza delle rilevazioni e dalla condivisione (o, almeno, dell’esatta comprensione) degli oggetti valutativi (se non delle modalità di rilevarne la padronanza).

Ora, io penso che un indicatore significativo del declino – passami il termine – del nostro sistema sia anche il fatto che la maggior parte delle scuole viva in modo marginale un’esperienza – quella delle prove standardizzate – che, con tutti i limiti propri di un “progetto giovane” (non pochi i Paesi europei che hanno cominciato parecchio tempo prima di noi), avrebbe potuto far crescere la cultura valutativa di docenti e dirigenti (non solo riferita agli apprendimenti, ma anche al contesto, ai suoi contenutori, al suo clima, al suo “progetto”). Cultura valutativa diffusa che costituirebbe risorsa importante anche per le stesse rilevazioni dell’INVALSI.

Quindi non penso che le scuole siano immuni da “colpe” e responsabilità. Anche se, a cercarle più in alto, se ne troverebbero di più attendibili.

Terza e ultima considerazione. L’INVALSI è soggetto, certamente fondamentale, del Sistema nazionale di valutazione. Il senso e il valore delle rilevazioni e delle valutazioni sono in funzione del miglioramento del sistema. E il miglioramento non può che essere riferito alle finalità generali e specifiche del fare scuola, oltre che alle prospettive del sistema. Perché è vero – per limitarmi solo al primo aspetto – che le rilevazioni afferiscono solo ad alcune aree di apprendimento, ma è innegabile come la padronanza in tali aree condizioni, nel bene e nel male, il successo o meno nelle altre materie di studio.

Una interlocuzione dell’intero sistema nazionale col mondo della scuola non può pertanto essere un optional. Essa va non solo voluta (le buone intenzioni, senza gambe, se le porta il vento) ma anche progettata e perseguita da chi ha interesse e responsabilità al riguardo. E non per allungare i tempi; ma per dare valore a quello che si mette in pentola.

Ognuno deve fare la sua parte – hai certamente ragione -. Ma la propria parte la si gioca bene, “agendo” fino in fondo le proprie prerogative e i propri compiti istituzionali; ma anche – e perciò stesso – conoscendo i propri limiti e le interazioni e collaborazioni di cui si ha bisogno per raggiungere meglio – e possiblmente prima – i propri obiettivi.

Amo pensare che nessuno voglia in questa situazione rivendicare il primato della cultura pedagogica. Ma solo mettere in primo piano le ragioni per cui esiste un Sistema Nazionale di Valutazione. Che sono quelle di offrire dati e valutazioni attendibili ai decisori politici ai vari livelli (e in primo luogo a quello nazionale); ma anche alle scuole. nel confronto con se stesse e con le altre realtà vicine e lontane.

Tutti siamo consapevoli che il Sistema nazionale di valutazione ha bisogno di una pluralità di risorse, tutte ugualmente importanti e tutte di qualità. Rivendicare primati di alcune competenze rispetto ad altre è insensato, oltre che controproducente. Ma penso, comunque, che a dettare l’agenda, come si dice, non può che essere la sua “ragione sociale” (come diresti tu): a chi serve e perché. Un economista può valere quanto un pedagogista, come presidente, se la figura scelta si muove in questa logica e con questa prospettiva.

Ragionamenti, caro Franco, a botta calda sui punti caldi; e soprattutto senza pretese.

Quanto poi alla Storia, beh, lei fa quello che vuole. Forse. Come la storia – quella con la s minuscola che si occupa di ricostruire eventi,– continua a raccontarci. Forse. (“Insegnarci” è termine troppo grosso e impegnativo).

Comunque pensare, almeno in qualche caso, a cambiarne il corso, può risultare, tavolta, addirittura divertente. Non pensi?

da ScuolaOggi 07.01.14

"In Spagna lo scudo anti femminicidio", di Gian Antonio Orighi

Uno scudo fatto di tecnologia, coraggio legislativo e un senso di «solidarietà collettivo» di fronte all’emergenza. È quello che ha costruito la Spagna negli ultimi dieci anni attorno alle donne vittime di violenza, con i governi di destra e di sinistra. Uno scudo che ha quasi fermato i femminicidi. La tecnologia è, per esempio, quella degli smartphone di ultima generazione messi a disposizione delle vittime a più alto rischio.
Basta schiacciarlo e la più vicina centrale di polizia viene avvertita, rintraccia con il Gps l’esatta posizione della donna e può inviare una volante in pochi minuti.
È «l’arma segreta», per esempio, di Marta. Una mamma di 45 anni che le ha provate tutte per sfuggire al marito, appena uscito dal carcere dopo una condanna a sette anni per violenza di genere che in Spagna chiamano anche violenza machista o terrorismo domestico che ora ha giurato di farla fuori. Ma il suo «tasto de panico» (così viene chiamato» la fa sentire finalmente sicura.
La storia di Marta, classificata, insieme ad altre 5 donne, «a rischio estremo», spiega bene la determinazione del governo di centro-destra del premier Rajoy per frenare il flagello del femminicidio in Spagna.
Dal 2003, sono 700 le donne ammazzate e 37 i bambini trucidati da ex mariti, fidanzati o conviventi; 48 quelle uccise solo l’anno scorso, assieme a loro anche 5 bambini.
È una crociata bipartisan contro la violenza domestica (che in 10 anni ha fatto più vittime delle autobombe dei terroristi baschi dell’Eta), cominciata dall’ex premier socialista Zapatero nel 2004 con la legge sulle Misure di Protezione Integrale contro la Violenza di Genere. Da allora, in ogni commissariato della Polizia di Stato e della Guardia Civil esistono le Upap, Unità di Prevenzione, Assistenza e Protezione contro i Maltrattamenti alla Donna.
Dal 2007, per le donne «a rischio estremo», è possibile cambiare identità, figli compresi, per far perdere le proprie tracce. E dal 2008, le Viogen (squadre anti-violenza) delle forze dell’ordine classificano, dopo un test, 4 casi di pericolo: basso, medio, alto ed estremo.
Negli ultimi due casi, viene affidata alla vittima una scorta. Secondo gli ultimi dati del 2013, le denunce di «malos tratos» sono state 140 mila. La vigilanza dello Stato segue 63.497 vittime, tra cui 47.811 a basso pericolo, 2.812 a rischio medio, 134 a rischio alto.
Marta è rinata 7 anni fa, quando si è decisa a denunciare il marito dopo l’ennesimo massacro. La picchiava tutti i giorni e arrivava quasi a strozzarla ogni volta, con lacci e cinture. In un caso l’aveva trascinata in strada con un collare da cane.
Un giudice, con il vincolo del segreto, ha cambiato nome e cognome sia a lei che al figlio, i loro luoghi di nascita, persino le generalità dei genitori, e le ha consegnato nuovi documenti. Marta ha un nuovo numero della Previdenza Sociale, un nuovo conto bancario. Nessuno sa il suo passato nella città in cui si è trasferita.
All’inizio, una pattuglia la proteggeva sotto casa 24 ore su 24: il torturatore era appena uscito dalla galera e la stava cercando. «Per evitare che l’aggressore possa scoprire la sua nuove identità, si è deciso di iscriverla all’anagrafe con un nome falso», ha deciso il giudice.
Adesso Marta è rinata, anche se la paura non la abbandona mai: «Esco per strada e guardo dappertutto. Ci sono bimbi nella scuola di mio figlio che assomigliano al mio ex marito e quando li vedo mi vengono attacchi di panico. Ho dovuto cambiare casa, amici, la mia città, la mia vita. E continuo a temere che mi possa uccidere».
Nell’ultimo anno sono finiti in carcere 6 mila uomini violenti e, grazie alle massicce campagne su tv, giornali e Internet, sembra stia finalmente cambiando la cultura machista della Spagna. Tutti i media consigliano di denunciare già la prima aggressione e telefonare al numero verde contro il terrorismo domestico, gestito solo da donne, 24 ore su 24. Ogni giorno arrivano 200 telefonate.
L’Ine, l’Istat di Madrid, registra minuziosamente i casi di violenza, e recentemente pure gli orfani. E sembra funzionare anche il Prefetto per la Violenza di Genere: le donne sanno che basta chiamare la polizia e denunciare per far scattare l’arresto preventivo di 72 ore.

La Stampa 07.01.14

"Quell’onda di odio che viaggia sul web", di Stefano Bartezzaghi

“Finalmente una bella notizia”. La notizia è l’ictus che ha colpito Pierluigi Bersani e questo è il più soave e frequente fra i commenti malevoli che la notizia stessa ha ricevuto in rete ancora prima che l’ex segretario Pd fosse sotto i ferri, per un intervento chirurgico dagli esiti oltremodo incerti. Ad Angela Merkel, vittima di un incidente sciistico non gravissimo, è ancora andata bene: ma qualcuno ha rimpianto che non le sia toccata la sorte di Michael Schumacher. Per l’ischemia di Bersani si sono invece registrati messaggi di esultanza, insulti, auguri di morte lenta, incitamenti al male pari a quelli al Vesuvio e all’Etna quando minacciano eruzioni. Commenti apparsi dappertutto, sul blog di Beppe Grillo, sulla pagina Facebook del Fatto quotidiano, ma anche su quelle di altri giornali, fra cui Repubblica: atrocità.
Dopo l’esperimento che fece Radio Radicale mandando in onda i messaggi ricevuti nella sua segreteria telefonica (nel 1986 e poi nel 1993) ogni sgomento su quanto un cittadino possa dire, quando sente di poter parlare liberamente e avere ascolto, risulterebbe se non ipocrita almeno di maniera. Le interpretazioni possibili sono variegate: volontà di sfregio, goliardia, satira, occasione di dirla grossa, sfogo di «vera rabbia » (da comprendere, se non giustificare), fino all’ovvio «colpa di Internet».
Ma il problema non è Internet, per quanto la rete dia visibilità immediata e a fare notizia sia ovviamente solo la categoria dei messaggi estremi (in verità molti altri grillini hanno contestato gli sciacalli, e ieri mattina anche Beppe Grillo ha scritto un post di auguri). La rete è semplicemente sempre aperta e sempre visibile, i controlli e la moderazione non sono facili e a volte sembrano maliziosamente tardivi. Il vero salto di qualità, però, consiste nel coro di invocazioni di morte su un avversario, nel momento in cui egli rischia effettivamente la vita. Lì siamo arrivati, qualche gradino sopra ai «devi morire» per il centravanti che mugola in area falciato da un difensore, o ai cappi sventolati in Parlamento. Oggi siamo alla morte augurata a chi la sta effettivamente rischiando, e il fatto è che il caso di Bersani non è neppure il primo. Di poco lo ha preceduto, ed è forse ancora più impressionante, quello di Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria che una settimana fa ha difeso le ragioni di una corretta sperimentazione animale (a cui, malata, deve personalmente svariati anni di vita) e di conseguenza ha ricevuto insulti e soprattutto schiette dichiarazioni il cui senso era: meglio che morissi tu, piuttosto che innocenti cavie di laboratorio. In questo caso opera un rancore puro e impersonale. Questo significa che oggi, in Italia, l’augurio di morte può saettare, e da un numero significativo di tastiere, in maniera paradossalmente spassionata.
Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio. Non l’altrui ma neppure il nostro. Bersani, anzi “Gargamella”: una parola. Angela Merkel, due parole. Schumacher, un brand. Il nostro nome-e-cognome, un account. Inventare la battuta più efficace, o l’insulto, vale al massimo come sfogo, non ci si preoccupa neppure delle conseguenze penali che possono derivarne. Nell’epoca che magnifica l’empatia come suprema qualità umana, cosa davvero sia il dolore a cui alludono con precisione le parole di una diagnosi, o quelle di una maledizione (comunque, di una condanna), non pare interessante né pertinente.
In un immaginario spaventosamente monocorde siamo tutti vittime di soprusi, il potente che cade ha finalmente avuto il fatto suo. «Anche mio nonno è stato in ospedale ma nessuno se n’è fregato», ha scritto un tizio a proposito di Bersani. Nel suo pauroso candore, la protesta indica la soglia che si è varcata, anno 2014. La nostra morte sarebbe indifferente a chiunque e quindi la morte di chiunque ci è indifferente, anzi ben venga. Questo è il limite che abbiamo raggiunto oggi. Il prossimo?

La Repubblica 07.01.14

"Tunisi, uomo e donna pari per legge" di Virginia Lori

Sarà parità tra uomini e donne davanti alla legge e «senza discriminazioni». Lo prevede l’articolo 20 della bozza del- la nuova Carta costituzionale approvato ieri dall’Assemblea nazionale del Paese con 159 voti a favore su 169. «Tutti i cittadini maschi e femmine hanno gli stessi diritti e doveri. Essi sono uguali davanti alla legge senza discriminazioni» recita l’articolo a suo modo rivoluzionario per un Paese nord africano, anche se è fin dagli anni cinquanta, quando conquistò l’indipendenza dalla Francia, che la Tunisia si è contraddistinta per essere stata il Paese arabo più progressista sulle questioni dei diritti delle donne.

Si temeva che il governo guidato dagli islamisti potesse mettere in discussione questo primato. Ma malgrado tensioni e un confronto molto duro tra le formazioni politiche di centrosinistra e quelle islamiche, così non è stato. Il partito che guida il governo, l’islamista Ennahda, – che ha promesso di farsi da parte non appena la Costituzione sarà approvata – aveva, infatti, tentato di far passare l’idea di «complementarietà» di genere, piuttosto che «uguaglianza», ma ha dovuto fare marcia indietro.

Critiche all’articolo 20 sono venute, però, dalle associazione a tutela dei di- ritti umani, come Amnesty International e Human Rights Watch. Hanno sottolineato come «limiti la tutela ai diritti dei cittadini, senza garantire gli stranieri» e «non specifica i motivi per cui è vietata la discriminazione », come «la razza, il colore, il sesso, il linguaggio, la religione o le opinioni politiche». Di di- verso parere sono stati, invece, le organizzazioni tunisine per i diritti delle donne. «Speriamo che vengano aggiunti altri dettagli che impediscano discriminazioni anche in base al colore della pelle» ha osservato Ahlem Belhaj, ex presidente della associazione tunisina delle donne democratiche che considera una vittoria il testo approvato.

PER AMNESTY NON BASTA

Al vaglio dell’Assemblea nazionale vi sono ancora articoli della bozza di Costituzione importanti per assicurare una piena parità tra uomini e donne co- me l’articolo 45, che garantisce «la tu- tela dei diritti delle donne da parte dello Stato» e «la parità di opportunità tra uomini e donne». L’intero capitolo 2 della bozza che conta circa 30 articoli, è dedicato «ai diritti e alle libertà», quindi ai rapporti uomo-donna, alla libertà di espressione, al diritto di manifestare e di scioperare.

La nuova Costituzione dovrebbe entrare in vigore il prossimo 14 gennaio, nel terzo anniversario della fine del regime del dittatore Zine el Abidine Ben Ali che diede il via alla «primavera araba», che in Tunisia ha visto prevalere formazioni dell’islamismo moderato, eppure tentato da un passo indietro di natura oscurantista, specialmente sui diritti della persona. Tra una decina di giorni, quindi, l’Assemblea nazionale dovrebbe concludere l’esame della «bozza». Una volta che i parlamentari avranno votato articolo per articolo il progetto di legge, la Costituzione dovrà essere approvata da due terzi dei 217 membri del Parlamento; in caso non ottenesse il quorum, dovrà essere confermata dal referendum popolare.

L’Assemblea costituente ha respinto la sharia, la legge islamica, come fondamento del diritto del Paese, ma ha approvato due articoli che definiscono l’Islam come religione di Stato. «La Tunisia – recita l’articolo 1 non emendabile – è uno Stato libero, indipendente e sovrano. L’Islam è la sua religione, l’arabo è la sua lingua e la repubblica è la sua forma di governo». L’articolo due, invece, prevede l’instaurazione di «uno Stato a carattere civile basato sul- la cittadinanza, sulla volontà del popolo e sul primato del diritto». Si dice sì alla libertà d’espressione, ma resta in vigore la pena di morte.

L’Unità 07.01.14

"Nuove regole per gli immigrati", di Tito Boeri

Ha fatto bene Matteo Renzi a porre la riforma delle politiche dell’immigrazione al centro dell’agenda politica in vista delle elezioni europee. Servirà anche a prepararci meglio al semestre italiano di presidenza dell’Ue, dato che per salvare l’euro ci vuole una maggiore mobilità del lavoro fra i paesi dell’Unione.
I predecessori di Renzi alla guida del maggior partito di centrosinistra hanno sempre evitato di parlare di immigrazione in prossimità di campagne elettorali. A parole, perché temevano di dare spazio alla Lega o ad altri movimenti xenofobi. In verità perché per un partito di centrosinistra è sempre difficile trattare di immigrazione, un tema su cui l’ideologia di chi vorrebbe sempre e comunque aprire le frontiere ai più poveri si scontra con gli interessi economici della base elettorale. Per evitare divisioni laceranti, si è preferito perciò lasciare l’iniziativa agli altri, limitandosi al massimo ad agire di rimessa, contrastando i palesi errori fatti dagli altri anziché avanzare proprie proposte. E non è un caso che sin qui lo stesso Renzi abbia parlato di riformare la legge Bossi-Fini quando in realtà gran parte delle nostre normative sull’immigrazione si regge ancora sull’impianto della legge Turco-Napolitano.
È perciò opportuno che le proposte di riforma che verranno formulate siano capaci, da una parte, di parlare all’ideologia della solidarietà senza frontiere e, dall’altra, di rivedere con sano pragmatismo l’intero impianto delle nostre politiche dell’immigrazione, distinguendo fra le competenze (e responsabilità) che spettano al nostro paese e quelle che richiedono livelli di governo sovranazionali.
Chi vorrebbe aprire le frontiere a tutti i poveri non tiene conto del fatto che la solidarietà è un bene che si regge sulla coesione sociale. Non si può allargare a dismisura la platea dei beneficiari senza rischiare di corrompere alla base lo spirito solidaristico. Si tratta di qualcosa che si accetta di fare in prima persona (o si delega a uno Stato) mettendo in secondo piano i propri interessi individuali, solo a condizione di circoscrivere il novero di coloro che ne potranno beneficiare. Devono essere parte di un gruppo magari anche molto grande, ma di cui ci si sente di far parte, anche perché la solidarietà ha spesso un contenuto assicurativo: si aiuta pensando che un giorno potrebbe toccare a noi essere dalla parte di chi riceve anziché dare. Per questo l’immigrazione senza controlli uccide la solidarietà. Le politiche dell’immigrazione servono proprio a permettere che i flussi migratori avvengano con i tempi necessariamente lunghi dell’integrazione sociale dei nuovi arrivati. L’immigrazione senza restrizioni conosce brusche accelerazioni e può andare contro gli interessi degli stessi immigrati che, in assenza di solidarietà, rischiano di trovarsi peggio che nel loro paese d’origine, come prova il trattamento riservato in alcuni dei nostri “centri di accoglienza”.
La riforma dell’immigrazione dovrebbe perciò imporre gradualità negli ingressi di immigrati proprio mentre si investe nella loro integrazione. Noi sin qui abbiamo fatto esattamente l’opposto. Non abbiamo cercato di contenere gli arrivi, ma abbiamo in tutti i modi dissuaso la permanenza, sottoponendo chi rimaneva da noi per un periodo superiore a quello di un contratto stagionale a una burocrazia infinita e a vessazioni continue. I decreti flussi dei governi di centrodestra sono stati in genere molto generosi in quanto a numero e tipologia di ingressi, venendo spesso più incontro alle esigenze delle imprese che a quelli delle famiglie italiane, ma hanno sistematicamente ricercato una disparità di trattamento fra immigrati e popolazione autoctona. Al punto che gli indicatori di integrazione degli immigrati recentemente compilati dall’Ocse mostrano come l’Italia sia molto in ritardo e fatichi soprattutto a dare istruzione di qualit à e opportunità di impiego agli immigrati di seconda generazione, quelli che generalmente si integrano più facilmente.
La nuova politica dell’immigrazione dovrebbe cercare di prosciugare il bacino dei cosiddetti overstayers, immigrati che rimangono da noi alla scadenza del permesso di soggiorno, autorizzando il lavoro legale in base alle segnalazioni dei datori di lavoro entro un numero programmato senza aspettare il prossimo decreto flussi e senza imporre agli immigrati già da noi di tornare nel loro paese d’origine per poi rientrare legalmente da noi. Anacronistico anche imporre che i permessi vengano accordati solo a chi ha già un lavoro prima di venire, come se i nostri fatiscenti servizi di collocamento fossero in grado di operare nei paesi da cui provengono gli immigrati: deve essere possibile avere un permesso temporaneo mentre si cerca un impiego. Al tempo stesso si potrebbero aprire una serie di canali per la stabilizzazione del soggiorno (prima ancora che per la concessione della cittadinanza), ad esempio per minori stranieri nati in Italia o che abbiano completato con profitto in Italia un intero ciclo scolastico. Importante favorire in questo processo gli immigrati di seconda generazione, impedendo che paghino per errori compiuti dai loro genitori (magari perché segnalati alla pubblica sicurezza in quanto arrivati illegalmente da noi) e garantendo loro comunque il diritto allo studio.
Con una riforma dell’immigrazione di questo tipo potremmo avere le carte in regola per contribuire ad una migliore gestione del fenomeno a livello europeo, con costi dei controlli alle frontiere meglio ripartiti e con una gestione comune del problema dell’accesso ai sistemi di protezione sociale. Durante la presidenza italiana ci si potrebbe infatti accordare per pagare con il bilancio comunitario l’assistenza sociale ai cittadini Ue che si sono appena trasferiti in un altro paese dell’Unione senza trovare lavoro, prendendo come riferimento il livello di assistenza nel paese d’origine. È un modo per scoraggiare il cosiddetto “welfare shopping”, impedire la gara al ribasso fra paesi Ue nel fornire assistenza ai poveri e favorire al tempo stesso l’integrazione e la mobilità del lavoro, fondamentale nell’ambito di una unione monetaria in presenza di andamenti divergenti delle diverse economie. In questa battaglia la Germania potrebbe essere, per una volta, al nostro fianco. Oggi la paura che gli immigrati abusino dei sistemi di welfare è ciò che mette in difficoltà Angela Merkel di fronte alla rimozione delle residue barriere alla mobilità di bulgari e rumeni, i cui arrivi, in provenienza soprattutto da Spagna e Italia, si sono quintuplicati dall’inizio della crisi.

La Repubblica 07.01.14

Bologna – Epilessie: informazione vs disinformazione

Circolo Ufficiali – Palazzo Grassi
Via Marsala 12
Bologna

IV European Epilepsy Day

Circolo Ufficiali – Palazzo Grassi
Via Marsala 12
Bologna

La partecipazione è gratuità, per confermare l’adesione alla Segreteria Organizzativa
Iscrizione: www.epilessieinformazione.it info@epilessieinformazioni.it

PROGRAMMA

Apertura dei lavori Saluto Autorità cittadine
Rosa A. Cervellione Presidente FIE

9.15 – 11.00 PARTE PRIMA
Moderatore: Carlo Gargiulo

1. Le Epilessie, Rima Nabbout
2. Prestazioni sportive e farmaci:influenze reciproche, Maria P. Canevini
3. Quale sport per quale epilessia, Giuseppe Capovilla

11.00 – 11.15 COFFEE BREAK
11.15 – 12.45 PARTE SECONDA
Moderatore:Claduio Arrigoni

1 La normativa di riferimento e le necessarie riforme, (previsto intervento dirigente Coni)

TAVOLA ROTONDA
LO SPORT:
• Strumento di miglioramento della qualità di vita della persona con epilessia a livello individuale e sociale
• Strumento di integrazione
• Veicolo di integrazione
…..giornalisti, psicologi testimonianze di persone con epilessia e di sportivi……

12.45 – 13,30 Dibattito aperto

13.30 – 14.30 BUFFET LUCH

POMERIGGIO EVENTO SPORTIVO

Il venerdì sera spettacolo teatrale “TORNO SUBITO” con l’attore Stefano Bicocchi in arte “VITO”.

Moderatori, Relattori e Testimoni

Rosa Cervellione, Presidente FIE Federazione Italiana Epilessie

Carlo Gargiulo, Medico e giornalista

Cluadio Arrigoni Giornalista

Paolo Tinuper, Responsabile Centro per lo studio e la cura dell’Epilessia “G.M. Corsino”IRCCS Università di Bologna

Giuseppe Capovilla, Direttore U.O. di Neuropsichiatria Infantile presso l’Azienda Ospedaliera C. Poma di Mantova

Angelo Pizzi Direttore U.O. Medicina dello Sport ASL 12 Versilia
Responsabile Commissione Medica AIA-FIGC
Professore Corso Laurea Scienze Motorie e Magistrale Università Pisa

Maria Paola Canevini Direttore U.O. di Neurologia Azienda Ospedaliera San Paolo di Milano

Paola Milani, Servizio di neuropsicologia U.O di neurologia Az. Osp. Universitaria Arcispedale “Sant’Anna” Ferrara

Rima Nabbout Centre de Reférènce Epilepsies Rares et STB

Renzo Ulivieri Preparatore Atletico