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"Quelle piccole soluzioni per tutelare i ragazzi", di Mariapia Veladiano

Il punto esatto della questione è che in questo momento non c’è un modo semplice per uscirne. La realtà dei docenti precari nella scuola viene da un’accozzaglia di errori perpetrati con scientifica determinazione per ignoranza, piaggeria, leggerezza, calcolo politico, a seconda delle persone e delle epoche di cui si parla. In disordine sparso: c’è chi, politici si intende, ha promesso e permesso troppo, troppi corsi di laurea univocamente orientati all’insegnamento ad esempio, quando ormai era chiaro che non ci sarebbe stato spazio nella scuola per decenni; c’è chi, e son sindacati, a volte di consistenza quasi omeopatica, ha trovato la sua unica ragione di esistere nel patrocinare i ricorsi degli esclusi, dai concorsi o dalle graduatorie; c’è chi, e stavolta son ministri, non ha fatto concorsi per vent’anni, permettendo che il precariato della scuola diventasse una variante non così lontana dal ruolo; c’è chi poi, ancora ministri, ha scagliato di volta in volta soluzioni sentendosi ciascuno come Dio nel primo giorno della creazione. Come se le professionalità comunque accumulate attraverso il precariato fossero nulla per la scuola. E allora nuove selezioni, nuovi concorsi e concorsoni, che non tenevano conto dei precedenti e alimentavano speranza nuova sotto il segno del “luogo ai giovani” e insieme rinnovata disperazione di chi dopo SSIS e corsi abilitanti e decenni di insegnamento vedeva tutto annullato. E allora nuovi ricorsi. Precari antichi contro precari recenti.
Il risultato è devastante e non si può lasciar correre perché si parla di scuola, il nostro bene comune.
Ci sono i ragazzi, e il loro diritto a una continuità di insegnamento che è anche continuità di metodo, di progetto educativo, di rapporto: tempo dato alla propria crescita, che può essere riconosciuta se c’è qualcuno che la accompagna nella sua durata. E ci sono questi docenti precari, uno su sette, il 15 per cento del totale, che intanto insegnano, avviano progetti, fanno i vicepresidi, lavorano all’Università anche, ma sempre sospesi, senza poter vedere il risultato del loro operare, ogni anno spostati qua e là, e molti anche no, oggi lasciati fuori dal taglio delle classi, che vuol dire classi oversize,
dove è irreale poter creare quel luogo delle opportunità per tutti che è la vocazione civile e sociale della scuola.
Qui è davvero impensabile applicare decisioni massimaliste di qualsiasi segno. Azzerare tutto è impossibile e non è sensato. È un groviglio che richiede una grande sapienza politica L’esercizio dell’arte politica e nobile della mediazione. Si deve mediare fra la necessità assoluta di non dissipare competenze già acquisite, presenti e disponibili, e la necessità di assicurare una buona scuola agli studenti e ancora la necessità di scaricare la scuola dalle tensioni interne, la guerra dei precari, appunto. E dire la verità:
che per tutti non c’è posto, ma che si fa il possibile, insieme, per evitare ingiustizie. E poi per il futuro, un reclutamento commisurato al bisogno reale e capace di selezionare sulle competenze didattiche e non su discutibili abilità nel superare… i test di selezione.
Ora però vuole un’alleanza con i docenti e i sindacati, inventare percorsi leggeri e nuovi che tengano ben ferma soprattutto la necessità di insegnare bene. Il Trentino, d’accordo con i sindacati, ha ad esempio la figura dei supplenti “triennalisti”. Il supplente firma un contratto che lo impegna a stare per tre anni nella scuola che sceglie. I ragazzi hanno la continuità didattica, il docente pure, in cambio perde il diritto ad avvicinarsi a casa, qualora dovesse liberarsi una scuola a lui più comoda. Una piccola soluzione al turbine di rotazioni annuali dei docenti. E poi si deve arrivare a una modalità concordata di utilizzo delle graduatorie esistenti per, banalmente, risolvere le situazioni più vistose e ingiuste. Recuperare almeno nella scuola la concertazione, rinunciando al tutti contro tutti.
E ancora, reinvestire nella scuola almeno nel tornare a un numero decente di studenti per classe. Se di risorse si parla, e non ci sono si dice, allora da un lato bisogna ripeterci che rinunciare alla scuola vuol dire rinunciare al futuro, e dall’altro bisogna ricordarci che ogni studente costa allo Stato 8.000 euro l’anno (fonte Anp, Associazione nazionale presidi) e che il tasso di dispersione annua è in Italia intorno al 10 per cento. Questi sono studenti che poi ripeteranno. Vien da pensare che il risparmio immediato su classi o organico sia probabilmente un pessimo affare anche sul piano economico, oltre che sicuramente un dissennato atto di incoscienza civica e di ingiustizia verso i ragazzi più deboli, che sono spesso anche i più poveri sul piano culturale e sociale.

La Repubblica 06.01.14

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“Maestri con la valigia”, di MARIA NOVELLA DE LUCA

Dicono che la loro è una vita ad ore, anzi una vita a punti. Graduatorie, classifiche, e il sogno di una cattedra che non arriva mai. Precari, supplenti, docenti a “cottimo” laureati e specializzati: nel grande bacino dell’incertezza sono il volto oscuro della scuola italiana, un esercito di migliaia di insegnanti malpagati, sfruttati, senza futuro. Poche settimane fa l’ultima beffa: finito il fondo d’istituto al “Pacetti” di Prato lo stipendio degli insegnanti è stato tirato a sorte, i primi cinque hanno vinto, per gli altri tredici è stato un Natale amarissimo, fino a che il ministero non ha inviato i soldi. Ma la “riffa del supplente” non è una umiliazione nuova: era già accaduto in altre scuole d’Italia, semplicemente nessuno aveva denunciato. Precari con i capelli bianchi, precari da sempre, uno scandalo così grave, 130mila supplenti su settecentomila insegnanti in totale, per cui l’Italia è stata più volte richiamata dalla comunità europea. Perch é ogni anno è peggio, ormai non vengono più nemmeno pagate le ferie, hanno gridato in migliaia a Bologna gli insegnanti a tempo, che ogni estate sperano di vincere la lotteria dell’incarico annuale, e se va male si aggrappano allo spezzatino delle ore di supplenza.
Lucia ogni notte parte alle quattro da Villa Literno per essere in classe a Roma alle 8,30, Simone da tecnico si è improvvisato insegnante di sostegno, Rita a Siena racconta di classi pollaio e ragazzi smarriti. Professione supplente: il paradosso che nessun ministro dell’Istruzione è riuscito a sanare, ma che seppure tortuosamente fa camminare il sistema scuola. Storie di resistenza umana, di paghe da sopravvivenza, di docenti costretti a saettare da una scuola all’altra cercando di rastrellare più ore possibile, tra ragazzi confusi che non sanno più che faccia ha il prof.
Lucia Galassi ha quarant’anni, un’incredibile riserva di ottimismo, e la sveglia che ogni notte suona alle 3,20. «È quando il treno delle 4,30 da Villa Literno si scassa e si ferma in campagna, e ci fanno stare lì, stretti e in piedi come su un carro di bestiame, e fa freddo, che penso che non ce la faccio più, che questa non è vita. Poi miracolosamente arrivo a Roma, raggiungo la scuola, entro in classe, guardo i miei allievi, e dimentico la stanchezza e faccio la maestra, che per me è ancora un mestiere bellissimo…».
Da dieci anni Lucia Galassi, insegnante precaria di scuola primaria di Cancello e Arnone, provincia di Caserta, si alza nel cuore della notte e insieme ad altre decine di colleghi e colleghe si mette in viaggio verso Roma, su treni regionali sporchi, che spesso si rompono e allora, racconta, «il tragitto diventa infinito ». Lucia è riuscita ad avere più supplenze annuali, «ma ricordo quando non avevo l’incarico, partivo nella notte lasciando mio figlio piccolo e mio marito, sperando che nel viaggio qualche preside mi chiamasse, invece arrivavo a Termini e per quel giorno non c’era nulla, o peggio, mi convocavano così tardi che era impossibile raggiungere la scuola… Così prendevo un cappuccino e tornavo a casa, dopo aver buttato la giornata… E mio figlio si era inventato un videogioco in cui bombardava Roma, perché Roma voleva dire la mamma in viaggio».
Nell’esercito dei supplenti le maestre pendolari (nelle primarie sono donne il 90 per cento dei docenti)
«Arriviamo già stanche e affrontare una classe elementare è una prova ardua. Ho molte colleghe che si sono fermate, che ci hanno rimesso la salute. Io continuo, è la passione che mi sostiene, le lettere dei miei allievi, l’esperienza nelle scuole difficili di Tor Bella Monaca, il ricordo della ragazza rom che abbiamo portato fino alla terza media, e quando vado al campo a trovarla per tutti sono “la maestra” e nessuno si azzarda a toccarmi la borsa o il cellulare. Niente di eroico, è il nostro sono una storia nelle storie.
lavoro, che però da un giorno all’altro può svanire, lasciandoti a mani vuote».
Voci da un mondo dove la certezza è un miraggio, e così la costruzione di una vita, poter chiedere un mutuo, comprare una casa. Simone Bogi, 47 anni, di Siena, la butta sull’ironia e dice che la sigla della sua specializzazione è “Itc”, insegnante tecnico pratico, da lui tradotto in “insegnante a tempo perso”. «Sono precario dal 1986. Pur di lavorare sono andato ovunque, fisica, impiantistica, informatica, poi la riforma Gelmini ha tagliato i laboratori, per la mia materia sono rimaste pochissime ore, ho provato per la prima volta sulla mia pelle cosa vuol dire la disoccupazione totale. Per sopravvivere mi sono trasformato in insegnante di sostegno, oggi seguo cinque ragazzi disabili ».
Tra le tante beffe della condizione precaria non ci sono soltanto le casse vuote dei fondi d’istituto o il mancato pagamento delle ferie.
L’ultima famigerata riforma della scuola targata Maria Stella Gelmini, accorpando classi e spazzando via materie, non solo ha scaraventato l’istruzione italiana nel fondo delle classifiche Ocse, ma ha tagliato un’infinità di posti di lavoro. «Mi sono appassionato al mio nuovo mestiere: in ognuno di questi ragazzi con ritardi cognitivi ci sono possibilità da sviluppare, ho visto quanto la Rete può aiutarli, ho messo a frutto la mia esperienza nell’informatica. Ma tra poco il mio
contratto scadrà, tutto si fermerà di nuovo, per me e per loro…».
L’altra faccia del precariato è questa, il prezzo pagato dagli studenti, che subiscono il turnover di maestri o professori che possono cambiare anche sei o sette volte in un anno. «Mi dispiace abbandonare la mia professione — dice ancora Simone — ma ricomincio con una start up di informatica, pensate che mi darà lavoro una mia ex allieva». Rita Petti, anche lei toscana, racconta che nessuno meglio di un supplente può toccare con mano quanto sia naufragato in Italia non soltanto il sogno di don Milani, ma il progetto stesso di una scuola pubblica e democratica e di livello. «Sono docente di Storia dell’arte, una di quelle materie quasi spazzate via dall’ultima riforma. Forse perché insegniamo ai giovani a capire la bellezza, il senso delle cose, diamo fastidio, anche per la geografia è stato così. Ma io ho scelto di restare nella mia materia, e per mettere insieme uno stipendio decente faccio supplenze in tre scuole diverse. Impossibile un progetto di vita privata ma impossibile anche un progetto didattico: tanto degli studenti, soprattutto se adolescenti non importa nulla a nessuno, sono troppo giovani per votare».
Non ha paura di definire il precariato «un mostro creato per mille interessi differenti» Rita Petti, che ha 48 anni, una figlia e tante estati passate ad aspettare la “chiamata” del provveditorato. «Mi trovo ad insegnare in aule di 35 alunni, accorpate per tagliare cattedre e posti di lavoro. Nelle scuole è tornata la divisione sociale, le classi differenziali: nei tecnici i ragazzi che arrivano da nuclei disagiati, nei licei i figli di famiglie che possono sostenerli e pagare lezioni private. Purtroppo».
E se oltre ad essere precario, il supplente è anche una voce contro, la vita diventa davvero dura. Vittorio Lima ha 52 anni, insegna italiano e latino a Padova, e in una cattedra
spera ancora. «Sono in cima a tutte le graduatorie, ho insegnato nelle carceri e negli ospedali, da anni mi viene rinnovato l’incarico nello stesso liceo dove ormai faccio parte stabilmente del corpo docente. Eppure, quando provo a ricordare ai miei colleghi che il nostro compito è quello di formare degli individui, non dei latinisti o dei grecisti bocciando senza criterio, allora si fanno venire in mente che sono un supplente, un precario e dunque per me sarebbe meglio tacere… ».
Piccole miserie di un mondo dove per lavorare bisogna sperare che il titolare di una cattedra si ammali, o la docente di ruolo vada in maternità. E c’è tutta la storia del Sud senza lavoro nelle parole di Maria Pirrotta, 46 anni di Palermo, anche lei prof di Lettere. «Ho viaggiato chilometri per raggiungere le scuole con le supplenze, ho visto condizioni spaventose, edifici fatiscenti, aule dove non c’era nemmeno la lavagna, parcheggi per giovani che aspettano i 16 anni per abbandonare e ingrossare le fila della dispersione scolastica. E su di noi in Sicilia si è abbattuta la scure del ministero. Se non avessero tagliato le cattedre sarei di ruolo già da tempo. Resistere è difficile: ma poi capita una scuola buona, un gruppo di ragazzi che si appassionano alla mia materia, e la voglia di insegnare ritorna. Sembra incredibile, ma è così».

La Repubblica 06.01.14

"L'anno più lungo", di Simone Collini

Il Toscano penzola dall’angolo destro della bocca, il sorriso s’intuisce da quello sinistro arricciato all’insù, ma soprattutto dagli occhi, un po’ strizzati: «Oggi è il giorno di Renzi, non dico niente». E via dal padiglione della Fiera di Milano, anche se la verità è che già da un po’ ha scelto di non dire niente. Metà dicembre, prima Assemblea nazionale Pd dell’era Renzi, l’anno si va chiudendo e il bilancio per Pier Luigi Bersani non è dei migliori.

La «non vittoria» alle politiche di febbraio, i franchi tiratori e la banda dei 101 nel passaggio del Quirinale, le dimissioni da segretario tanto sofferte quanto inevitabili. E poi i mesi passati a cercare di «dare una mano» alla «ditta», stando però attento a non appari- re troppo e al tempo stesso non ritirandosi mai veramente dall’attività politi- ca. Comunque. Anche quando la «ditta» viene sempre meno sentita tua, anche quando si fa fatica a riconoscerla.

Il 2012 sì che si era chiuso bene, con la vittoria alle primarie «non contro, ma con Renzi». «Un grazie a Matteo» è la prima frase che Bersani fa in un affollato Teatro Capranica in quella notte del 2 dicembre. Bandiere che sventolano, entusiasmo, ottimismo. L’ottimismo di chi è convinto di aver trovato una parte di quel «senso» iniziato a cercare con le primarie del 2009, che lo hanno incoronato segretario del Pd. L’ottimismo di chi ha ap- pena ricevuto l’investitura a candidato premier da tre milioni di persone e ora si prepara ad affrontare una campagna elettorale tutta in discesa.

Ma così in discesa non è, se il ritmo giusto non si trova, se gli ostacoli che dovevano essere superati in fretta so- no sempre lì davanti a dar fastidio. O forse lo è troppo, e il piede va in fallo, qualche scivolata fa davvero male. Berlusconi ancora una volta conferma di dare il meglio nella campagna elettorale, il «giaguaro» invece di essere «smacchiato» gli cade addosso con tutta la pesantezza di un peluche sbucato dal salotto di Vespa. Grillo si muove su e giù per l’Italia riempiendo piazze, fino alla chiusura col botto a San Giovanni, luogo simbolo della sinistra stavolta ceduto all’avversario senza colpo ferire.

E poi ci sono gli alleati e i nemici dei nemici, che non sempre sono amici. L’abbraccio con Vendola, ma stando attento a non rompere con Monti, perché quando si governerà (quando si governerà) ci sarà da affrontare «la crisi più grave dal dopoguerra» e solo potendo contare sullo schieramento più ampio possibile si potranno affronta- re le sfide. Gli amici più stretti, i consiglieri più ascoltati, i collaboratori più fidati, tutti gli consigliano una campagna dai toni pacati, niente strappi o effetti speciali, c’è solo da gestire un consenso già incamerato e aspettare il buon risultato di lunedì 25 febbraio. Insomma è una strategia «non tirar fuori conigli dal cilindro», non è che fosse «un po’ spompo», come dirà in estate Renzi, col quale aveva organizzato tre tappe (Firenze, Torino e Palermo) di campagna elettorale che non hanno lasciato troppo il segno. Anche l’appuntamento con i leader dei parti- ti socialisti europei, che l’anno prima a Parigi era servito a lanciare la volata a Hollande per l’Eliseo, si svolge senza troppo clamore (nonostante alla fine entri anche un videomessaggio del presidente francese) e con un carattere quasi seminariale.
La chiusura della campagna elettorale Bersani la fa stretto tra la platea e il palco del teatro Ambra Jovinelli, con militanti e simpatizzanti che si ritrovano costretti fuori, sotto una pioggerella fastidiosa, mentre dentro Nanni Moretti annuncia il suo voto per il Pd «nonostante lo slogan del giaguaro» e «ma questa volta approvatela la legge sul conflitto d’interessi», che magari voleva essere d’aiuto e però l’effetto è quello che è. Sabato in famiglia. I sondaggi dell’ultima ora sono strani.

«Governo e cambiamento vanno tenuti insieme, e il Pd è l’unico partito che può farlo». Domenica 24 febbraio, intervista a l’Unità. C’è la consapevolezza che la campagna elettorale «non è riuscita a svolgere il tema, che è co- me usciamo dalla crisi». E quella che a determinare il risultato sarà la percentuale ottenuta da Grillo: «Le sue parole d’ordine, le sue proposte sono totalmente destabilizzanti e irrealistiche, propagandistiche e oniriche». Ne ha incontrate di persone che votano Grillo, in queste settimane? «Certo, molte anche giovani». E cos’è che gli ha detto? «Che con loro sono pronto a discutere di tutto, che io sono il primo a pensare che in questo Paese ci sia molto da cambiare». Dirà lo stesso ai parlamentari del Movimento 5 Stelle. «Ma certo».

La notte del 25 febbraio è più fredda del previsto. «Non abbiamo vinto, nonostante siamo arrivati primi». E allora quella discussione con i Cinquestelle va avviata subito, partendo da proposte a cui non possono dire no, come quella sulla scelta di Boldrini e Grasso a presidenti di Camera e Senato, o sugli «otto punti» (dalle norme sul lavoro alla legge sul conflitto di interessi) attorno a cui far lavorare un «governo di cambiamento». Ma la strategia fallisce. E la diretta streaming delle consultazioni chiesta e ottenuta dai Cinquestelle serve solo a mostrare l’inutilità di interloquire con quegli interlocutori. Seguono giorni confusi in cui neanche i costituzionalisti sono d’accordo, se Bersani abbia ottenuto dal Quirinale un incarico, un preincarico, un incarico condizionato. Ma questo non è niente, in confronto a quello che sta per succedere. Perché a metà aprile c’è da eleggere il nuovo presidente della Repubblica.

I franchi tiratori che affossano la candidatura di Marini e i 101 che impallinano Prodi è la pagina più raccontata e meno capita del post voto, la più discussa e la meno chiarita. È la pagina che per Bersani si chiude con una sola parola: dimissioni. «Messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, abbiamo mancato la prova». È ancora un’intervista a l’Unità, la prima dopo il passo indietro. Proprio sul passaggio del Quirinale «nell’inconsapevolezza di tanti di noi è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento», dice puntando il dito contro «l’irrompere di ritorsioni e protagonismi spiccioli». Se li è caricati sulle spalle, insieme all’effetto che hanno prodotto, e si è tolto dalla testa del Pd.

Il passaggio del testimone a Guglielmo Epifani, lo schierarsi con Gianni Cuperlo, la partita congressuale giocata in modo defilato. Uscite sempre più rare, senza però far mancare la sua voce quando serve. Come alla vigilia del- le primarie dell’8 dicembre, quando si teme un mezzo flop ai gazebo e Bersani lancia un appello alla partecipazione nonostante sia chiaro a tutti che più saranno i votanti e più sarà alta la percentuale di Renzi. E più concreto il rischio di vedere la «ditta» cambiare forma, sbiadirsi dietro all’«uomo solo al comando». O forse no. Forse, come dice la notte del 2 dicembre del 2012, «dobbiamo avere fiducia nella nostra gente». Comunque. Anche quando il «senso» non è quello previsto, indicato, cercato.

E poi ci sono le volte in cui «un senso» non sembra esserci affatto. Come ora. Come è sempre con storie come questa. Ma Bersani ci ha fatto lo slogan delle prime primarie che ha vinto, affidandosi al suo amato Vasco Rossi. «Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia, un senso non ce l’ha».

L’Unità 06.01.14

"Pompei, un progetto in salita", di Antonello Cherchi

Inizia questa settimana il conto alla rovescia per Pompei, che entro la fine del 2015 dovrà essere rimessa a nuovo grazie alla dote di 105 milioni – 74,2 messi a disposizione dall’Europa e 29,8 dall’Italia – con cui procedere a opere di restauro, di adeguamento dei servizi e di messa in sicurezza dell’area archeologica. È una corsa contro il tempo quella che Giovanni Nistri – generale dei Carabinieri con un passato di comandante del Nucleo di tutela del patrimonio culturale e fino all’altro ieri responsabile della scuola ufficiali della Benemerita – si prepara a disputare in qualità di direttore del «Grande progetto Pompei», nomina arrivata il 9 dicembre ma formalizzata in questi giorni. Alla scadenza del 31 dicembre 2015, infatti, tutti i cantieri dovranno essere chiusi e i soldi spesi, pena la restituzione alla Ue delle somme inutilizzate.
Una vera e propria scommessa, visto che di interventi urgenti sistematici sul famoso sito si parla da marzo 2011, quando, dopo il crollo della Domus dei gladiatori, il Governo varò un decreto legge (il 34/2011) con una prima serie di misure per proteggere Pompei dall’inarrestabile degrado. Un anno dopo, quegli interventi hanno ricevuto l’iniezione dei fondi europei e ha preso corpo il Grande progetto, che però al momento è riuscito a far partire cinque cantieri, per un importo di poco meno di 7 milioni di euro. Il grosso, insomma, è ancora da fare. Senza dimenticare che ci si muove in una zona dove opera anche la criminalità organizzata, a cui gli appalti milionari per ricostruire l’immagine di Pompei fanno gola.
Un’impresa non da poco, dunque, in cui Nistri sarà coadiuvato da Fabrizio Magani, che lascia la soprintendenza regionale dell’Abruzzo per assumere l’incarico di vicedirettore del Grande progetto. I due, però, attendono ancora la struttura di supporto, di non più di venti persone, che si sarebbe dovuta creare – così come vuole la legge Valore cultura (legge 112/2013) – in contemporanea con la loro nomina. Entro l’8 dicembre, infatti, sarebbe dovuto arrivare un decreto ad hoc con il quale dare corpo allo staff, chiarire nel dettaglio i compiti di Nistri e Magani e specificare i mezzi a disposizione. Il provvedimento è stato messo a punto dai Beni culturali ed è stato spedito alla Presidenza del consiglio, che lo deve emanare (si tratta, infatti, di un Dpcm). A via del Collegio Romano contano di chiudere la partita entro fine mese. Per ora, dunque, a Nistri e Magani non resta che aspettare. Un problema in più per chi sa che il count-down solo all’apparenza dispone di un tempo lungo. Con tutto quel che c’è da fare, due anni sono infatti un attimo.
Tanto più se si ha il fiato sul collo non solo della Ue, ma pure dell’Unesco, che ha preteso di vedere entro fine 2013 un piano di gestione di Pompei che assicurasse al sito – inserito nell’elenco dei patrimoni dell’umanità – un futuro dignitoso. Altrimenti – aveva minacciato l’Unesco – l’area sarebbe stata depennata dalla lista dei tesori mondiali.
Quel piano è arrivato sul filo di lana: è stato firmato dai Beni culturali e dai rappresentanti degli enti locali il 23 dicembre scorso. E anche di questo protocollo Nistri e il suo vice dovranno tener conto, soprattutto quando si tratterà di disegnare, entro ottobre prossimo, il piano strategico per rivitalizzare il territorio in cui si trovano Pompei, Ercolano e Torre Annunziata. L’obiettivo è la riqualificazione ambientale e urbanistica della zona così da poterla rilanciare turisticamente.
Anche di questo si dovrà occupare Nistri attraverso l’Unità grande Pompei, che sarà dotata di autonomia contabile e amministrativa, avrà propri mezzi e personale (massimo dieci addetti). Tutto appartiene, però, ancora al futuro, perché la struttura dell’Unità la deve disegnare quello stesso decreto che deve dare forma all’ufficio del Grande progetto Pompei. E intanto, il conto alla rovescia è partito.
C’è poi da sistemare la partita delle soprintendenze con cui Nistri e il suo vice Magani dovranno avere a che fare. La legge Valore cultura ha voluto che la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei si dividesse in due uffici. E così il 23 dicembre sono ufficialmente nate la soprintendenza speciale di Pompei, Ercolano e Stabia e quella di Napoli (non speciale, cioè non dotata di autonomia organizzativa e contabile). Ora si tratta di trovare i dirigenti. La selezione è stata avviata e le candidature dovranno essere inviate al ministero entro domani. Va da sé che la nomina alla soprintendenza di Pompei è delicata, perché chi vi arriverà dovrà essere pronto a dialogare con i responsabili del Grande progetto.
Non sarebbe, infatti, la prima volta che tra soprintendente e commissario o city manager – come sono stati, prima che si passasse al direttore generale, appellati gli “esterni” che hanno cercato di fermare il degrado di Pompei – ci si è guardati in cagnesco.
D’altra parte la telenovela del salvataggio di Pompei ha quasi trent’anni. Il primo intervento straordinario è del 1976: vengono stanziati 3 miliardi di lire, a cui nel 1985 se ne aggiungono altri due. Nel 1997 la soprintendenza diventa autonoma e arriva il primo city manager. L’accoppiata soprintendente e manager, però, produce soprattutto guasti. Nel 2008 altro stato di emergenza: arriva un super-commissario, con una dote di 21 milioni di euro. La gestione finisce in tribunale.
Adesso è la volta del direttore generale, che deve vedersela con problemi sempre più grandi e con il tempo che inesorabile ha iniziato a scorrere.

Il SOle 24 Ore 06.01.14

"Tre condizioni per la crescita", di Paolo Guerrieri

Invocare la necessità di un ritorno alla crescita per il nostro Paese è divenuta quasi una ovvietà. Ma quando si passa alle terapie ci si continua a dividere tra chi vede nelle riforme interne la sola via d’uscita dalla crisi e chi ripone le possibilità di ripresa solo in una netta inversione di tendenza delle politiche di austerità dell’eurozona.

Un po’ come avvenuto più di recente in occasione della discesa dello spread al di sotto dei 200 punti base, con la divisione tra chi ha attribuito il calo alla rete protettiva stesa lo scorso anno dalla Bce e da Mario Draghi e coloro che hanno sottolineato la rinnovata stabilità politica ed economica dell’Italia quale fattore determinante. È una contrapposizione sterile, in realtà. Perché sono vere tutte e due le tesi. Si dovrebbe in realtà ormai prendere atto dei destini come dire incrociati che legano da qualche tempo l’area dell’Euro e l’Italia. È vero che non ci sarà futuro per la nostra economia al di fuori del rilancio della crescita europea, ma è altrettanto vero che solo aggredendo le numerose inefficienze strutturali che ci affliggono da tempo saremo in grado di contribuire e sfruttare il ritrovato volano europeo. Ed è questa consapevolezza che dovrebbe animare nelle prossime settimane la cosiddetta Agenda 2014 ovvero il patto di programma che verrà sottoscritto per rilanciare l’azione del governo e sfruttare di qui alla primavera 2015 il periodo di tempo relativamente favorevole assicurato dall’espansione economica internazionale, prima del previsto rialzo dei tassi.

Serviranno scelte di politica economica forte, tutt’altro che scontate, sia sul fronte domestico sia in Europa. E questo perché l’Italia resta un Paese sul filo del rasoio, racchiuso nel binomio debito-crescita. A questo riguardo l’obiettivo chiave è innalzare quest’anno la ripresa della nostra economia – oggi accreditata dalle previsioni più recenti di un assai modesto 0,5% – quanto più possibile verso l’1,1%, in linea con la media dell’area euro e con quanto stimato ufficialmente dal governo. Solo una tale dinamica ci consentirebbe di contenere il deficit pubblico nominale (2,5-2,7%) e anche il debito/Pil italiano rimarrebbe in questo caso pressoché costante (in area 132-3%), pur se a un livello ancora molto elevato. A questo scopo vanno programmate misure a breve dirette a intervenire sulla domanda interna ma ancorate alla creazione di nuovi volani della crescita, attraverso politiche d’offerta in grado di rafforzare l’indebolita capacità produttiva della nostra economia. A questo fine va rafforzato il percorso di riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese (cuneo fiscale) unitamente a interventi diretti a rendere operativi da subito i meccanismi di garanzie sui prestiti alle imprese approvati di recente per cercare di lenire quella severa stretta creditizia (credit crunch) che rappresenta oggi il maggiore freno alla domanda di famiglie e imprese.

In questo contesto possono aiutare misure per migliorare le condizioni del mercato del lavoro (introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, avvio della riforma degli ammortizzatori sociali, rafforzamento dei servizi per l’impiego) non solo e non tanto per cercare di creare nuovi posti di lavoro ma anche per favorire una più efficiente allocazione delle risorse, accrescendo la produttività dell’economia. Certo non si tratta di provvedimenti a costo zero. Per finanziarli sarà fondamentale ricorrere ai risparmi liberati dalla «spending review» attraverso il riordino della spesa pubblica e la riduzione di quella improduttiva, avvalendosi altresì di misure di valorizzazione e dismissione del patrimonio pubblico. Detto questo è evidente che senza un contesto più espansivo in Europa tali misure interne per quanto utili e necessarie non riusciranno ad assicurare al nostro paese una ripresa davvero più robusta. Serve un cambio di passo anche in Europa e il nostro Paese può e deve contribuire a realizzarlo. Anche in vista del semestre di nostra presidenza europea. A questo riguardo, serve a poco affermare genericamente la possibilità di sforare il vincolo del 3% del rapporto tra deficit e Pil, col rischio di ricadere sotto procedura di infrazione e essere relegati nuovamente in una posizione marginale rispetto alle scelte di governance europea. Vanno in realtà individuati sulla politica dell’euro temi di primaria importanza per il nostro Paese e formulate delle proposte di strategia. In questa fase sono soprattutto tre. Sull’Unione bancaria, in quanto non basta il passo avanti fatto nell’ultimo Consiglio europeo a dicembre: esso non assicura un adeguato finanziamento del meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie nella fase di transizione e potrebbe penalizzare il nostro sistema bancario in occasione degli stress test della Bce. In secondo luogo vanno assicurate a livello europeo condizioni di aggiustamento di bilancio più favorevoli alla crescita in termini sia di tempi (oggi troppo stretti) sia di modalità (forte asimmetria e nessuna clausola di esenzione per gli investimenti). La terza condizione riguarda la Bce, perché modifichi nel rispetto della sua autonomia una politica monetaria che non è sufficientemente accomodante nella fase attuale e ha finito per favorire un pericoloso rafforzamento dell’euro (ipotesi di tassi negativi e una sorta di «quantitative easing» europeo). Sono solo tre esempi di misure che servirebbero a rilanciare la domanda e la crescita interna europea ribadendo così le ragioni di una scelta del governo di coalizione in favore dell’Europa e allo stesso tempo di un cambiamento delle politiche europee. Servirebbero altresì a contrastare, anche in vista delle elezioni europee, i vari populismi di chi addosserà tutte le colpe all’Europa e proporrà scorciatoie semplici ma disastrose come l’uscita dall’euro.

L’Unità 06.01.14

"Famiglia e diritti non sono nemici", di Chiara Saraceno

Prima il sostegno alla famiglia e poi eventualmente, si può discutere dei diritti degli omosessuali a veder riconosciuti i propri legami di coppia e le proprie famiglie. È ormai un riflesso condizionato. Ogni volta che si parla del diritto al riconoscimento sociale e giuridico delle coppie omosessuali, chi è contrario evoca una gerarchia di priorità, quando non di mutua esclusione, tra i “diritti della famiglia” e quelli delle coppie omosessuali e delle loro famiglie, senza, peraltro, chiarire dove starebbe la contrapposizione tra l’una e l’altra cosa e perché riconoscere le coppie omosessuali indebolirebbe la possibilità di fornire sostegni alle famiglie.
Questi, infatti, riguardano politiche abitative e di trasferimenti monetari e di servizi, principalmente, anche se non esclusivamente, a favore di chi ha famigliari a carico — figli minori, persone non autosufficienti e bisognose di cura. Proprio quelle politiche di cui sono stati molto avari tutti i governi italiani dal dopoguerra a oggi, nonostante siano stati per lo più retti da maggioranze in cui prevalevano i “difensori della famiglia” che si sono fin qui opposti a ogni riconoscimento delle coppie omosessuali e delle loro famiglie. Quelle politiche che negli ultimi
anni sono state ulteriormente ridotte, proprio quando i bilanci delle famiglie erano in maggiore sofferenza, con i tagli drastici effettuati a carico della spesa sociale. Per non parlare delle politiche economiche, che hanno reso sempre più difficile ai giovani formare una famiglia — di qualsiasi tipo — se lo desiderano e a chi ne ha formata una di riuscire a mantenerla adeguatamente. L’evocazione della “priorità della famiglia”, sembra servire solo come paravento per nascondere quanto poco si faccia a favore delle famiglie concretamente esistenti, mostrandosi come campioni dei “valori”, purché a costo zero. O meglio, a costo dei diritti di libertà e del riconoscimento di un pluralismo etico e nel modo di definire e realizzare progetti di solidarietà, intimità, amore.
Questi difensori a oltranza dei “valori” e della “famiglia” univocamente e monoliticamente intesi, tuttavia, rischiano di essere spiazzati proprio da chi riconoscono come guida in questo campo o, più prosaicamente, vogliono compiacere per un qualche calcolo politico. Le chiese cristiane, infatti, stanno mostrando un forte dinamismo riflessivo. Il fenomeno è più evidente, e più consolidato, nelle chiese protestanti, anche italiane, che hanno ormai riconosciuto che non esiste una “famiglia naturale”, bensì forme storico-culturali di intendere famiglia e matrimonio. Perci ò parlano di concetto plurale di famiglia, ove tutte le varie forme, incluse quelle basate su una coppia omosessuale, sono ugualmente dotate di valore.
La chiesa cattolica si addentra con maggiore lentezza e prudenza in questo terreno, almeno sul piano dei documenti ufficiali (anche se il dibattito teologico non è in realtà molto distante dalle posizioni protestanti richiamate sopra). Tuttavia sta manifestando crescenti aperture alla varietà delle forme famigliari, innanzitutto sul piano pastorale, soprattutto per merito di papa Francesco e della sua insistenza su una chiesa inclusiva piuttosto che giudicante ed esclusiva. Si è anche aperto un piccolo varco a chi, nella chiesa cattolica, sarebbe disponibile ad accettare una qualche forma di riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, etero e omosessuali.
Certo, siamo molto lontani dalla accettazione che il matrimonio sia consentito anche alle coppie omosessuali. E c’è spesso una insistenza quasi ossessiva nel sottolineare che la famiglia è una sola, quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, salvo dover fare i conti con il fatto che molti genitori divorziano e si risposano e altri convivono, senza che per questo sia loro che i figli siano “senza famiglia”. Tuttavia, a differenza degli Alfano e dei Lupi, non solo singoli parroci, o teologi più o meno marginali, ma anche parte della gerarchia cattolica, incluso il responsabile della Pastorale per la famiglia, non escludono che sia venuto il momento di dare un qualche riconoscimento a queste coppie, se non altro per cercare di frenare la richiesta di matrimonio.
Questa, piccola, apertura, può non bastare alle persone omosessuali, che legittimamente chiedono pari opportunità anche nel fare famiglia. Ma segnala che anche nei piani alti della gerarchia della Chiesa cattolica italiana le posizioni non sono più così monolitiche come un tempo. E infatti le controversie e gli attacchi dei conservatori dell’ortodossia non sono mancati. Sarebbe tuttavia singolare che i difensori a oltranza nostrani della famiglia unica e della insanabile opposizione tra questa difesa e l’allargamento dei diritti sostenessero la propria posizione con argomentazioni che sono messe in dubbio anche nelle sedi che tradizionalmente le hanno elaborate e divulgate.

La Repubblica 06.01.14

"L'anno orribile dell'ex segretario", di Goffredo De Marchis

IL 23 dicembre, ultimo giorno di lavoro alla Camera, Bersani non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle il 2013 e rifugiarsi per le vacanze a Piacenza, il luogo del cuore: la sua casa, i suoi affetti, i suoi amici. Con la solita espressione ironica raccontava alcune vicende familiari e rideva, pensando a come affrontare una nuova sfida tutta personale. Così l’ex segretario del Pd si preparava al 2014, chiudendo l’anno delle grandi sconfitte.
E’ arrivato a un passo da Palazzo Chigi quando il 22 marzo Napolitano gli ha affidato l’incarico di formare un governo. Un mese dopo aveva perso tutto: il governo, la partita dell’elezione del presidente della Repubblica, la segreteria del Pd. Il 20 aprile si è dimesso dall’incarico che aveva conquistato nel 2009, ma che era virtualmente concluso già dopo la “non vittoria” del 25 febbraio, alle elezioni politiche. Quel giorno è cominciato il cammino di un uomo che ha provato a imporre il “governo del cambiamento” scontrandosi con i voti degli elettori e un’Italia profondamente mutata dalla crisi e dalla caduta di credibilità della politica.
Dopo l’incredibile pareggio del voto nazionale, Bersani rimane ben 24 ore chiuso nella sua casa al centro di Roma. Un silenzio eloquente. Il suo è un appartamento accessibile solo ai fedelissimi, dove, seduto sul divano, il candidato premier del centrosinistra, scorrendo i dati elettorali, attende fino all’ultimo una sorpresa che non arriva. Sono ore davvero misteriose, solo in parte narrate nel libro che ripercorre l’annus horribilis di Bersani scritto dal portavoce Stefano Di Traglia e dalla direttrice di Youdem Chiara Geloni (Giorni bugiardi). Si cerca una strada per arrivare comunque a una svolta della politica italiana, ma il tentativo è una parete verticale.
Un giorno dopo la fine dello spoglio, Bersani si presenta ai giornalisti con una faccia lunga così e dichiara la “non vittoria” che poi diventerà il mantra sarcastico
dei suoi nemici, soprattutto quelli interni. E’ il rigore sbagliato a porta vuota di cui parla sempre Matteo Renzi, l’avversario che alla fine del 2013 gli prenderà il posto al vertice di Largo del Nazareno. Un’altra sconfitta perché Bersani quel ragazzo fiorentino non lo ha mai amato. Meglio, non si fida, non lo considera leale. Ne ha una prova quando il fedelissimo renziano Graziano Delrio propone un governo di larghe intese con il centrodestra nel pieno delle montagne russe percorse da Bersani per convincere Grillo, Berlusconi e la Lega a far partire un governo guidato da lui.
Ma le ore e i giorni drammatici del 2013 sono davvero tanti. Un’intera esperienza politica consumata nel giro di dodici mesi. Il 25 febbraio ha la conferma di aver sottovalutato il fenomeno Grillo e di aver sbagliato la campagna elettorale. Il 18 aprile: quando Franco Marini viene impallinato sul sentiero del Colle dai parlamentari del Pd e il massimo della vendetta di Bersani per questo primo tradimento sarà una frase pronunciata dopo un discorso dell’ex presidente del Senato: «Nessuno mi convincerà che non sarebbe stato un grande capo dello Stato». Il 19 aprile, l’affondamento: viene travolto anche Prodi da 101 franchi tiratori dopo che una riunione democratica si era conclusa con l’acclamazione per il Professore. E’ chiaro: il bersaglio è anche Bersani, che annuncia le dimissioni non prima di aver condotto in porto il bis di Napolitano.
Poi arrivano le larghe intese. Bersani ci crede poco ma è legato da un vincolo di fedeltà a Enrico Letta. Loro sono una «coppia di fatto», come dice sempre l’ex segretario, e la lealtà non viene mai messa in discussione. Anche per questo Bersani si fa da parte. Non disturba il manovratore. Partecipa alle feste dell’Unità, gradisce i cori “c’è solo un segretario”, spiega e rispiega la fine della sua avventura per Palazzo Chigi, ammette gli errori («aver sostenuto fino all’ultimo Monti, aver sottovalutato la frattura sociale che ha dato fiato ai 5stelle»). Puntualizza: non mi sono sentito umiliato dalla consultazione con i grillini, come ripete Renzi. Non reagisce agli attacchi personali.
Ma c’è un’altra sfida del 2013: le primarie per la segreteria del Pd. Bersani e D’Alema non si parlano da mesi. Il secondo rimprovera al primo di non averlo candidato al Quirinale, ma soprattutto di essersi piegato alla rottamazione renziana non candidando alcuni big al Parlamento. E’ una rottura profonda. Eppure Bersani, contro Renzi, decide di sostenere il candidato dalemiano Cuperlo. Sarebbe un colpo di testa fare altrimenti e l’ex segretario non è il tipo. Pragmatismo è la sua parola d’ordine, pure troppo. Per questo si aggrappa alla parodia di Crozza che lo rende più umano ma lo inchioda alle metafore in bersanese tipo «smacchiare il giaguaro», condanna della quale non si è ancora liberato.
Bersani si espone poco per Cuperlo, sapendo di fargli un piacere. Di D’Alema ha sempre detto: «Il suo pregio? Che ci mette la faccia. Il suo difetto? Che ce la mette troppo». Lui non commette lo stesso errore. Però Cuperlo subisce una sconfitta storica che travolge anche un pezzo della sinistra e della sua storia. E Renzi stravince dopo aver straperso contro di lui un anno prima. Scompare la «ditta», altra similitudine dell’ex segretario, sostituita da nuovi linguaggi, nuovi volti. Oggi però la «ditta», dal segretario in giù, torna unita e si stringe intorno a “Pierluigi”.

La Repubblica 06.01.14

"Progetto Pompei, lo stallo e il rischio camorra", di Jolanda Buffalini

White list e protocollo di legalità sono gli strumenti di prevenzione del rischio di infiltrazione criminale che lo Stato si è dato a tutela delle grandi opere e degli appalti pubblici. Ma le White list, a cui le imprese possono iscriversi volontariamente, sono state un flop (l’Unità del 4 gennaio). Ma cosa succede nelle situazioni di grande importanza e delicatezza come il grande progetto Pompei, con i 105 milioni resi disponibili dall’ Europa? A Pompei, dove si sarebbero dovuti spendere 50 milioni per la fine del 2013, è stallo, sostengono il segretario regionale della Fillea Giovanni Sannino e la stampa locale. Non solo per la fatica che gli strumenti per il rispetto della legalità fanno a mettersi in movimento. Le imprese napoletane non hanno ritenuto appetibile l’opportunità di costituire White list che, aggiornate di anno in anno, dovrebbero rendere più agevole l’affidamento dei lavori, senza il rischio di una interdittiva antimafia che arriva quando i lavori sono avviati. Sul progetto Pompei pesa anche il cambio di governance: escono il prefetto Fernando Guida e la soprintendente Teresa Cinquantaquattro, si separano le soprintendenze archeologi- che di Napoli e Pompei, entrano – ma il passaggio di consegne non è ancora avvenuto – il generale Giovanni Nistri e l’alto dirigente del Mibac Fabrizio Magani. Lo stallo, però, rischia di gettare discredito sugli stessi strumenti anti-camorra. Il protocollo di legalità in vigore dal 2012 prevede la partecipazione del sindacato per un solo aspetto, quello previsto dall’articolo 11, che riguarda i flussi di manodopera. «Ci sono state solo due riunioni – racconta Sannino – la prima si è conclusa con un nulla di fatto, nella seconda è stato assunto l’impegno a non fare gare al massimo ribasso». D’ora in poi, perché nelle cinque gare espletate finora, tre cantierate e due ancora da cantierare, i vincitori hanno ottenuto il lavoro con ribassi superiori al 50%.

Il rischio più grande è che la lentezza si trasformi in un boomerang addossato ai controlli di legalità oppure che le istituzioni non si sentano sufficientemente serene rispetto all’assalto della camorra. Anche perché, come ha scritto Luca Del Fra su l’Unità, il grande business non è tanto nell’area archeologica propriamente detta, dove operano imprese storiche e specializzate, quanto nel “buffet”: accessi, alberghi, infrastrutture da Torre Annunziata a Ercolano, da Napoli a Salerno. I costruttori napoletani hanno presentato progetti da 350 milioni di euro con soli finanziamenti privati. Un master plan che fa il paio con quello di riqualificazione della zona delle raffinerie (300 milioni). «A Napoli – ragiona Sannino – sono due i soggetti che hanno soldi da investire, i padroni (costruttori, finanzieri) e la camorra. Con la crisi tante imprese sane sono state soppiantate da quelle che vivono di usura. Il rischio di inquinamento è serio, come è avvenuto con la vendita della ex partecipata dei trasporti di Caserta. Ma l’immobilismo delle amministrazioni non è una risposta. Ci deve essere massima attenzione alla legalità ma l’economia deve ripartire».

L’Unità 05.01.14