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"Trent’anni di proposte finite nel cassetto dai Pacs ai Dico, le leggi diventate tabù", di Fabio Tonacci

Pacs, Dico, Didore e Cus. Ovvero la filastrocca dell’Italia che da trent’anni non riesce ad approvare una norma sulle unioni civili. L’Italia che ha buttato nel cestino almeno 44 proposte di legge senza nemmeno discuterle in Aula. Che è in ritardo su tutti, sugli altri Paesi dell’Unione europea, sulle sentenze della Corte di Cassazione che riconoscono le famiglie di fatto, sulle risoluzioni votate a Bruxelles. Sulla società, in una parola. E il putiferio che ha scatenato l’annuncio del segretario del Pd di voler
inserire nel patto di coalizione anche il ddl sul riconoscimento delle coppie di fatto etero e gay, già depositato al Senato dal renziano Marcucci, spiega bene quanto il dibattito politico sia tradizionalmente influenzato dal peso del Vaticano e da calcoli spiccioli di partito.
Raccontano le cronache parlamentari che si è sempre trovato un motivo, un cavillo, per non mettere all’ordine del giorno in Commissione giustizia le proposte di legge sulle unioni civili. Serviva, e serve, l’ok di un capogruppo di maggioranza o di opposizione. Al dunque, non se ne trovava mai uno. Ci riuscì Anna Finocchiaro nel 2005, con i Patti civili di solidarietà, i Pacs, una delle tante sigle che gli italiani hanno imparato a conoscere con la stessa velocità con cui poi se le sono dimenticate. «Il Vaticano fece partire una campagna contro i Pacs che io avevo presentato — ricorda Franco Grillini, ex deputato e presidente onorario dell’Arcigay — c’erano cardinali che telefonavano ai miei colleghi per convincerli a non votarli. Addirittura chiedevano le registrazioni dei lavori della Commissione».
I Pacs, che garantivano alle coppie di fatto (omo ed etero) diritti quali la reversibilità della pensione o il subentro nell’affitto, non sarebbero mai passati,
con Berlusconi e il centrodestra al governo: franarono con la legislatura, nell’aprile del 2006. In tempo però per vedere la Margherita di Rutelli, contraria a «forme simili» al matrimonio tra omosessuali, lanciare l’alternativa: i Css, contratti di convivenza solidale. Ebbero vita brevissima.
È il destino comune di tanti progetti legislativi in materia. Il primo risale al 1986 e porta la firma di una maestra di Castellammare di Stabia, Ersilia Salvato, senatrice del Pci. Proposta timida, la sua, si parlava di “generica convivenza”. Presidente del Consiglio era Craxi, il governo si reggeva, a stento, sul Pentapartito. Nemmeno fu presa in considerazione. Due anni dopo la deputata Alma Agata Cappiello portò alla Camera un testo sulle “famiglie di fatto”. La Chiesa si oppose, Giovanni Paolo II gli dedicò addirittura un Angelus e in Parlamento nessuno ebbe il coraggio di inserirla nell’ordine del giorno.
Intanto però il mondo andava avanti. Nel 1989 il governo della Danimarca, peraltro conservatore, introdusse la «partnership registrata » per i non sposati. Non dava la possibilità di adottare né di sottoporsi alla fecondazione assistita, ma era un enorme passo in avanti. Nel giro di un decennio Francia, Germania, Olanda, Belgio e Svezia seguirono l’esempio. La risposta italiana arrivò da Empoli nel 1993, quando il comune istituì il primo Registro delle unioni civili. Ne seguirono altri, con scarsa fortuna. Attualmente è adottato in 137 città, ma si sono iscritte appena 2mila coppie di fatto sulle 897mila presenti nel Paese.
In Parlamento, dal 1996 al 2001, non si è mosso niente. Quattordici proposte di legge sulle unioni civili nell’arco della legislatura, nessuna discussa. Una portava la firma del senatore Luigi Manconi, attuale presidente della Commissione diritti umani: «Sicuramente pesava l’influenza della Santa Sede, ma non solo — spiega — non ci siamo mossi nell’unica prospettiva che avrebbe fatto maturare il dibattito, cioè la pari dignità delle persone, a prescindere dal loro orientamento sessuale. È come se l’intera materia fosse stata trattata prevalentemente in un’ottica sindacalistico- economicistca: anche chi era favorevole finiva per sostenere che sarebbe bastato modificare alcuni articoli del codice civile per ottenere gli stessi scopi».
Nel 2006 c’è Romano Prodi al governo, i tempi sembrano maturi. Prima vengono ripresentati i Pacs, «ma Dario Franceschini — ricorda Grillini — non volle portarli alla Camera, dove la maggioranza era più forte, e non se ne fece nulla». I Pacs diventarono Dico nel consiglio dei ministri dell’8 febbraio 2007: “DIritti e doveri delle persone COnviventi”, un ddl scritto da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini. Tra i diritti riconosciuti, anche alle coppie gay, l’assistenza in caso di malattia e l’ingresso nella successione legittima. «Non servono», disse l’allora presidente dei vescovi Angelo Bagnasco. Avvenire arrivò a evocare il “non possumus” di Pio IX. Ma anche nell’Ulivo l’ala teodem, Paola Binetti e Enzo Carrà, remavano contro. I DiCo morirono, e nemmeno la metamorfosi in Cus, ovvero Contratti di unione solidale proposta dal senatore Cesare Salvi, servì a resuscitarli.
E oggi? Tra Camera e Senato ballano ancora otto progetti di legge, tra i quali quello voluto da Renzi. Non si sa invece che fine abbiano fatto i Didore, DIritti e DOveri di REciprocità dei conviventi, lanciati nel 2009 dall’allora ministro Renato Brunetta. E affossati da Berlusconi, che proprio in quel periodo, per le famose cene eleganti, aveva qualche problema di credibilità con il Vaticano.

La Repubblica 05.01.14

"Il record dell’abbandono scolastico", di Flavia Amabile

I dati sono sempre pessimi. Nel 2011/12 si sono persi 7.800 allievi, afferma l’Annuario Statistico dell’Istat pubblicato due settimane fa. La tendenza negativa è al quarto anno consecutivo. Ci sono anche segnali positivi – in dodici mesi la scolarizzazione è passata dal 90% al 93% – ma la Commissione europea ci riporta alla nostra difficile realtà: l’Italia è tra le peggiori cinque d’Europa (su 28) per abbandoni: lasciano i banchi troppo presto il 17,6% di alunni contro la media Ue del 12,7%. Insomma c’è sempre meno voglia di andare a scuola, sono sempre di meno quelli che ci credono.

Infatti il governo quest’autunno ha previsto una serie di iniziative nel tentativo di combattere la piaga della dispersione scolastica. A settembre ha stanziato 15 milioni di euro da destinare alla lotta contro la dispersione scolastica in due anni: 3,6 per il 2013, 11,4 per il 2014. Servono a finanziare lezioni pomeridiane nei luoghi in cui è maggiormente presente il fenomeno dell’abbandono e in particolare nella scuola primaria.

Ma quei soldi sono poca cosa rispetto alla crisi di credibilità della scuola presente in una parte degli italiani e testimoniata dalle cifre e dal confronto con gli altri Paesi europei. Il tasso di abbandono scolastico in Italia è del 17,6% molto alto rispetto alla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa al 12,7%, e all’obiettivo del raggiungimento del 10% entro il 2020, ci sono ancora cinque Paesi ancora molto lontani dalla meta. Tra questi l’Italia, la Spagna (24,9%) Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%).

Eppure, andando oltre le cifre, e cercando nelle periferie, c’è ancora chi crede nella scuola e vale la pena di essere raccontato perché supera ostacoli di ogni tipo pur di studiare. Ad aiutarli trovano associazioni e organismi presenti nel sociale, come la Cooperativa Sociale Onlus Santi Pietro e Paolo che aiuta di pomeriggio decine di ragazzi delle zone più a rischio di Roma. Oppure c’è la Comunità di sant’Egidio che dal 2008 ha previsto delle borse di studio a sostegno delle famiglie che si impegnano a far frequentare la scuola con serietà. La Comunità si impegna a fornire alla famiglia un contributo di 100 euro al mese a patto che siano rispettati alcuni obblighi. Non si devono superare tre assenze mensili non giustificate, bisogna adempiere rigorosamente tutti i doveri scolastici e le attività extrascolastiche comprese quelle del periodo estivo, si deve avere almeno un colloquio mensile con gli insegnanti, e bisogna educare il figlio, in ogni circostanza, al rispetto degli altri e dei loro diritti ed alla convivenza civile.

La Stampa 05.01.14

Renzi: il Pd non può permettersi che il governo stia fermo", di Vladimiro Fruletti

Noi siamo il Pd, tre milioni di persone non ci hanno assegnato una responsabilità di governo, ci hanno detto che questa è l’ultima occasione per cambiare davvero. Se c’è bisogno di discutere, di trovare una sintesi, va bene. Ok. Ma se l’obiettivo è di perdere tempo si sappia che noi non ci stiamo». Matteo Renzi non toglie il piede dall’acceleratore. Dopo la lunghissima riunione fiorentina della sua segreteria, quasi sei ore di discussione compresa una pausa panini acquistati dal dirimpettaio Eataly («il conto? 17 euro a testa» precisa), il segretario-sindaco fa capire che l’azione del Pd non è destinata a rallentare. Anzi. Sia sulla riforma elettorale che sul patto di governo l’intenzione è di affondare ancora di più, visto che il contropiede del 2 gennaio è fin qui ampiamente riuscito. «Sulla legge elettorale in tre giorni si sono fatti passi in avanti che non si erano fatti in tre anni» annota annunciando che entro la prossima settimana si potrà «da tirare la rete». Per poi avviare il percorso formale da concludere al massimo entro marzo. Renzi appare ottimista viste le disponibilità fin qui incassate dagli alleati di Ncd e Scelta Civica, e da Forza Italia, Sel e anche Fratelli d’Italia. Quanto a ai 5Stelle più che su Grillo punta su i suoi parlamentari. Il che però, avverte, non vuol dire che il Pd sia disposto a trattare. Quelle tre proposte (doppio turno, mattarellum corretto e spagnolo con premio) sono dei prendere o la- sciare, non basi di partenza su cui fare spezzatini che poi non garantiscano alternanza e governabilità.

Insomma la priorità è la nuova legge elettorale. E quindi è evidente che qualsiasi tentativo di temporeggiare verrebbe respinto. A maggior ragione se arrivasse dagli attuali alleati di governo. Che poi è quello che Renzi teme stia tentando di fare Alfano alzando la polemica sull’immigrazione e sulle unioni civili. «Non vorrei che fossero usate come armi di distrazioni di massa» per distogliere, appunto, l’attenzione dalla legge elettorale. Che in fondo è l’unica vera garanzia che un’eventuale caduta del governo non avvenga senza alcuna rete.

Certo Renzi assicura che nessuno nel Pd vuole mettere in discussione il governo, ma i problemi non mancano. Come dimostrano le dimissioni di Fassina. In effetti a una domanda sul rimpasto di governo che un giornalista ha introdotto ricordando le parole di Fassina, il segretario ha risposto con un «chi?». Una battuta, dicono i suoi, scelta più per scartare di lato sul rimpasto che per offendere il viceministro. E il portavoce Lorenzo Guerini si dice dispiaciuto che, a fronte di una segreteria che ha affrontato le priorità per il Paese, Fassina «esprima in questo modo il suo disagio riguardo alla sua presenza nel governo». Ma il presidente del Pd Gianni Cuperlo chiede più rispetto: «In un partito servono le idee ma, assieme, serve il rispetto per le persone. La battuta del segretario del nostro partito non è stata una traduzione felice di questo spirito. Mi auguro si tratti di un incidente e nulla più».

Comunque a Renzi più che un rimpasto interessa che nel governo il Pd porti a casa risultati concreti. Bene quindi lo spread sotto i 200 punti anche se il merito, sottolinea non casualmente, va riconosciuto soprattutto «al condottiero» Mario Draghi. Ma si può fare di più. Anche mettendo in discussione con l’Europa il tetto del 3% del rapporto debito-pil, purché prima si facciano le riforme comprese quelle istituzionali (via Senato, province e un bel po’ di burocrazia) per tagliare 1 miliardo di costi della politica. Da qui l’importanza dell’agenda decisa ieri in segreteria e che sarà messa nel patto di coalizione. «Il governo lo mette in difficoltà chi lo vuole tenere fermo non chi gli chiede come il Pd di risolvere i problemi degli italiani».

Sulle coppie gay ad esempio il segretario del Pd trova sgradevole che Alfa- no vi contrapponga il tema della famiglia dopo averne azzerato (nei governi di cui faceva parte, assieme a Formigoni e Giovanardi) i fondi di sostegno. La proposta del Pd, precisa, è quella scelta dagli elettori con le primarie, cioè le civil partnership alla tedesca che non prevedono le adozioni: «nel mio partito mi dicevano che ero moderato ora sono diventato un estremista». Stesso principio sulla Bossi-Fini e sul diritto dei figli degli immigrati a diventare cittadini italiani sui è disposto a discutere di una gradualità legata a cicli scolastici completati. E in questo capitolo che chiama dei «doveri civili» ci saranno anche le nuove norme sulle adozioni (dopo il ca- so delle 24 famiglie in Congo) e sul volontariato per cui propone che chi finanza una onlus abbia gli stessi sgravi fiscali di chi dà i soldi a un partito. Inoltre conferma che il 16 in direzione presenterà il piano per il lavoro. La responsabile Marianna Madia assicura che articolo 18 e contratto unico «se ci saranno, saranno marginali» perché il progetto è tutto incentrato sulla crescita, quasi una specie di piano di politica industriale. Insomma il Pd sta chiedendo al governo Letta non poche cose. Ma alternative per Renzi non ci sono: «se questa coalizione deve portare cambia- menti all’Italia non si può pensare che il Pd stia ad assistere per mesi a un estenuante balletto come è accaduto sull’Imu».

L’Unità 05.01.14

"La nostra destra senza argomenti", di Ivan Scalfarotto

La strategia dell’arrocco di Alfano sul tema dei diritti civili è veramente inspiegabile. La posizione di totale chiusura su una legge che riconosca alle coppie gay e lesbiche diritti e doveri equiparabili a quelli matrimoniali schiera Ncd a destra di tutte le destre democratiche europee. Ci sono fior di paesi guidati da esponenti da esponenti del partito Popolare Europeo, anche di chiara estrazione cattolica, nei quali vigono leggi anche molto più radicali di quella proposta in questi giorni dal Partito democratico.

Rajoy in Spagna, Passos Coelho in Portogallo, e dalla prossima estate anche David Cameron in Inghilterra e nel Galles, governano paesi in cui il matrimonio, senza apparenti traumi per la politica o la società, è aperto indifferentemente alle coppie etero o omosessuali. Così, sul fronte del centro-sinistra europeo, bisogna sottolineare che le Unioni civili che Matteo Renzi propone di inserire nell’accordo di governo sono uno schema che è in vigore in Germania e nel Regno Unito da quasi dieci anni, e costituiscono una proposta sicuramente più prudente e attenta alle preoccupazioni di parti della società italiana di quella fatta propria da François Hollande durante la campagna presidenziale in Francia e rapidamente trasformata in legge sul matrimonio ugualitario.

L’esigenza del Partito democratico in questa fase è dunque quella di dotare l’Italia di una forma di legislazione che la allinei alla maggior parte dei paesi occidentali (Sud America incluso) e che risponda anche agli inviti pressanti che ci giungono in questa direzione da più parti: dagli innumerevoli atti dell’Unione Europea, in particolare dal Parlamento di Strasburgo, alla Corte Costituzionale che, con una storica sentenza del 2010 ha ricompreso le coppie omosessuali tra le “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione e ha chiesto alla politica italiana di legiferare in questa direzione superando la discriminazione che esiste nel nostro Paese tra le coppie eterosessuali regolarmente coniugate e quelle formate tra omosessuali conviventi. Senza contare i casi concreti che già oggi si parano davanti alla magistratura italiana: dal caso del Tribunale di Reggio Emilia che riconobbe qualche tempo fa al cittadino extracomunitario sposato in Spagna da un italiano il diritto a ricevere il permesso di soggiorno, alla recente sentenza del Tribunale di Bologna che ha stabilito l’affidamento di una minorenne a una famiglia omosessuale.
Se poi si volesse scavare nelle motivazioni addotte dai nostri alleati di governo per non affrontare il problema, si scoprirebbe che nessuna delle questioni sollevate sembra avere quel minimo di fondamento che ci si aspetterebbe davanti a un’opposizione così netta. È francamente poco credibile, infatti, che Alfano o Sacconi dicano che questa non è una priorità e che lo motivino brandendo le ragioni delle famiglie eterosessuali. In primo luogo perché si sa che il “benaltrismo” (quella posizione per cui quando c’è da fare una riforma c’è sempre “ben altro” più urgente di cui occuparsi) è la dottrina di coloro che vogliono che in questo Paese nulla cambi: precisamente il contrario per cui Renzi ha preso due milioni di voti l’otto dicembre.

Se poi volessimo andare a fondo sul tema, allora bisognerebbe dire che governi in cui Sacconi si è occupato del Welfare sono stati quelli per i quali i fondi a disposizioni delle famiglie e le politiche a sostegno delle stesse, ci hanno visti ultimi in Europa: Nel 2010 i dati Eurostat davano la spesa sociale per la famiglia all’1,4% del PIL, contro il 2,5% della Francia, il 2,8% della Germania e il 3% della Svezia. Dati del 2013, citati di recente dal Forum delle Famiglie, rivelano che l’Italia è ultima in classifica per ciò che attiene alle spese in favore della famiglia, dell’infanzia e per l’edilizia sociale, dietro anche alla Croazia, ultima arrivata dell’Unione.
In Italia, insomma, non si fa nulla per le famiglie gay ma chi dice che questo è dovuto a troppo amore per la famiglia eterosessuale mente sapendo di mentire.

Quanto al ruolo di difensori della fede, che pare sempre vedersi in trasparenza nella determinazione che ogni politico della nostra destra mette nel frapporsi a qualsiasi soluzione ragionevole su questo tema, credo che la rapidità degli eventi che stiamo vivendo abbia spazzato via anche quest’ultima ipocrisia.

Dopo che proprio ieri Papa Bergoglio, lontanissimo dal lanciare qualsiasi anatema, ha parlato delle “sfide educative” che giungono alla Chiesa dalle coppie gay, si può dire tranquillamente che Alfano si è scoperto anche più papista del Papa: difensore di una posizione tutta d’un pezzo la cui rigidità ideologica, se messa a confronto con le aperture di Francesco, imbarazza per la miopia politica e per il distacco che dimostra dalla realtà del nostro paese e del nostro tempo.

L’Unità 05.01.14

"Matteo, di’ qualcosa di europeo", di Gian Enrico Rusconi

Dopo anni di retorica europeista è arrivato un generalizzato risentimento anti-europeo, perché la dura realtà sociale ed economica viene da molti imputata univocamente «all’Europa» o a «Bruxelles». Le elezioni europee ci piomberanno addosso interamente strumentalizzate in questo senso e si sovrapporranno fatalmente alle elezioni italiane. Sintomatica è la mossa di Forza Italia, disposta a trattare le proposte elettorali di Renzi solo a patto che si arrivi ad un election day che faccia coincidere le consultazioni nazionali con quelle europee. E’ una mossa insidiosa. La possibilità di sfruttare tempestivamente il crescente malumore anti-europeo porterà Berlusconi a non insistere troppo sui dettagli del nuovo sistema elettorale – pur di sfruttare l’occasione a proprio vantaggio. In questa direzione si muoverà lo stesso Grillo dietro la cortina fumogena delle sue aggressive esternazioni.

Il Pd è molto debole sulle questioni europee. Renzi ribadisce genericamente la possibilità di «sforare il vincolo del 3% del rapporto tra deficit e Pil» come se fosse una bazzecola. Sulla politica dell’euro, sul ruolo delle istituzioni europee si sentono solo affermazioni benevolmente generiche. Come pure sulla Germania, la nazione che di fatto è in grado di determinare l’orientamento europeo. In proposito Renzi non ha mai detto nulla di significativo e soprattutto di comunicativamente efficace – come ci si attenderebbe dal suo stile mediatico. In realtà sull’Europa e sulla Germania non si possono fare battute. Occorre un discorso articolato e convincente per l’elettorato del Pd che è molto perplesso. Non mi è chiaro se Renzi è in grado di farlo.

Nell’area di maggioranza, tutte le proposte avanzate per rimettere in moto la politica e l’economia nazionale danno per acquisito e immutabile il quadro contestuale europeo così come è oggi, con i suoi vincoli. In questa ottica si muove il governo di Enrico Letta preoccupato innanzitutto di dimostrare la sua lealtà europea. Dopo le contraddittorie e velleitarie mosse dell’ultimo Mario Monti, travolto poi dai suoi stessi errori, l’Italia non ha una linea profilata e attiva sulle questioni europee. Per la stampa tedesca l’unico «italiano» che conta è Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Ma lo scrive con ambivalenza.

Sin tanto che le cose staranno così, l’Italia non uscirà mai dalla sua posizione marginale sulle questioni europee. Manca un discorso pubblico adeguato. Su questo punto l’offensiva comunicativa di Renzi è assente. Ma non può non sapere che l’anti-europeismo (comunque declinato) sarà uno dei motivi dominanti della prossima campagna elettorale.

Essere anti-europei oggi è sin troppo facile, mentre ribadire le ragioni dell’Unione europea è diventato molto impegnativo, perché non può coincidere con la semplice accettazione dello status quo. Anche i critici più benevoli non possono negare che sono emersi «errori di costruzione», in parte risalenti agli stessi Trattati di Maastricht che esigono di essere corretti – senza sfasciare tutto come temono i tedeschi.

Occorre reinterpretare criticamente la fortunata affermazione di Angela Merkel, con la quale la cancelliera ha vinto le ultime elezioni tedesche e continua a condizionare i partner europei – «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». E’ una tesi efficace che ha tuttavia il sottinteso non detto che l’euro di cui parla la Merkel, l’euro che non deve fallire, è quello che segue puntigliosamente le regole, le norme e i vincoli che hanno funzionato sinora. Esasperano le differenze, anziché promuovere convergenze solidali – come era stata la promessa della moneta unica. Ostacolano ogni proposta correttiva e soprattutto ogni forma di allentamento del cosiddetto «rigore» (eurobonds, iniziative sospette della Bce ecc.) con il ricatto che altrimenti tutto si sfascia.

Su tutto questo vigila la Germania della cancelliera Merkel che, preservando legittimamente il suo efficiente sistema produttivo, gode di uno straordinario consenso popolare e del sostegno delle sue autorevoli istituzioni (dalla Corte costituzionale alla Bundesbank). La Germania oggi è un’autentica fortezza democraticamente fondata. Contro questo paradosso non sta in piedi nessuna facile demagogia anti-tedesca.

E’ in grado Renzi di affrontare questa problematica e di spiegarla agli elettori del Pd? A questo proposito il partito democratico potrebbe fruttuosamente stabilire rapporti di lavoro con la socialdemocrazia tedesca, che con la formazione della Grande Coalizione ha conquistato una posizione molto importante. Certo: la coalizione guidata dalla cancelliera Merkel è fondata sullo «scambio politico» per cui la Spd può dedicarsi alla realizzazione di una coraggiosa politica sociale interna purché non interferisca con la linea politica del rigore per quanto riguarda l’Europa e «la difesa dell’euro», nel senso appunto inteso dalla Merkel. Ma molti socialdemocratici nutrono forti critiche verso questa linea. Condividono molte idee e proposte che possono essere sostenute anche dal Pd: dal «fondo salva-stati» dotato di maggiori poteri e ancorato al Parlamento europeo, a modifiche dello statuto Bce perché si avvicini al modello della Federal Reseve americana, e altre proposte in tema di fiscalità, riforma bancaria ecc.

Ma al di là delle singole proposte, occorre ricreare convergenze tra le grandi forze progressiste europee per uscire dallo stallo politico in cui si è cacciata l’Unione europea. Scongiurare che il prossimo Parlamento europeo venga paralizzato dalla presenza chiassosa e irresponsabile di forze ostili alla rifondazione di un’Europa che ha il coraggio di apprendere dagli errori che hanno portato alla sua crisi attuale.

La Stampa 05.01.14

“Lancio un referendum sul web adesso diteci che scuola volete”, di Corrado Zunino

Nella pasticceria Salza, Borgo Stretto di Pisa, praticamente casa sua, il ministro Maria Chiara Carrozza spiega davanti a un tè caldo il 2014 della scuola e dell’università italiane. Fuori piove. Come da tweet di fine anno, inizia dalla Costituente della scuola. Ministro, che cosa sarà?
«La Costituente della scuola sarà la più grande domanda, e mi auguro la più grande risposta, sulla scuola italiana contemporanea. Non parliamo di un convegno né di stati generali, non sarà neppure una consultazione tra addetti ai lavori. Vogliamo aprire un dibattito in tutto il paese su questo bene primario che è la scuola. Cosa ne pensano, e come la vorrebbero, presidi, insegnanti, studenti, genitori, partiti, fondazioni, associazioni. Domande semplici
su dieci temi. Non si è mai fatto prima».
Si rischia di scrivere il più grande libro dei sogni mai scritto.
«Vorrei capire, confesso che su alcuni temi non so come gli italiani la pensino. La valutazione, per esempio. I genitori vogliono che le scuole frequentate dai loro figli siano valutate secondo standard internazionali?
E con le scuole, gli insegnanti? O ritengono la valutazione una violazione della privacy, un metodo poco significativo? E l’autonomia scolastica è un bene, un’opportunità, un disastro? Da ministro ho le mie idee, ma se non capisco quelle del paese non posso elaborare l’ultima riforma della riforma della riforma. Vorrei fare insieme agli italiani la grande e giusta riforma della scuola italiana».
Che tempi si è data per capire?
Davanti a sé al massimo ha un anno e mezzo.
«Ci siamo messi al lavoro subito dopo Natale, in queste ore stiamo scegliendo i dieci temi cardine. Invieremo il questionario e chiunque, fino a maggio, potrà intervenire: risposte sul sito del ministero che resteranno anonime. A giugno renderemo pubblici i risultati, a settembre diremo quali indicazioni il ministero ha recepito».
Ha detto che le idee, lei, se le è formate. Sull’autonomia scolastica, per esempio?
«Oggi la scuola italiana è fortemente centralizzata, ma il funzionamento dei singoli istituti dipende dai singoli presidi. Se sono capaci, le loro scuole funzionano. È così, ma non saprei dire perché: le consultazioni mi aiuteranno».
Scusi il cambio di passo, ma ha letto che abbiamo gli adolescenti più pigri d’Europa? Ultimi in Europa per pratica sportiva.
«Ho intenzione di dirottare fondi europei sull’attività fisica. So quanto serve, da studente sono stata una buona praticante: sci, tennis, basket ».
Perché le scuole italiane non sono quasi mai aperte il pomeriggio e mai in estate?
«Sono molto favorevole all’apertura prolungata, ma il punto è il solito: trovare i soldi per garantirla. Si può pensare ad aperture senza costi con affidamenti, per sport e cultura, a soggetti esterni».
In Italia, e forse solo in Italia, si tengono aperte per 15 anni graduatorie per le classifiche degli insegnanti che devono entrare in cattedra. L’ex ministro Profumò annunciò un lavoro di pulizia di queste graduatorie: c’è chi si è sistemato altrove, chi non vuole più fare l’insegnante.
«Profumo aveva ragione, ma il lavoro non si è fatto. Dobbiamo riprenderlo in mano».
Gli istituti tecnici superiori, gli Its riservati a chi ha un diploma tecnico e vuole aggiungere due anni di alta specializzazione, sono stati un successo: il 59 per dei diplomati ha trovato subito un lavoro.
«Vogliamo estenderli. Le autorizzazioni spettano alle Regioni ma penso che l’anno prossimo nasceranno una quindicina di nuovi Its, soprattutto in Toscana e Lombardia. Gli istituti tecnici e professionali, superiori e no, riguardano il 40 per cento dei nostri studenti e durante il semestre europeo a guida italiana l’istruzione professionale sarà al centro del dibattito continentale».
Non c’è troppo poca storia dell’arte negli orari scolastici?
«Sì e noi faremo un investimento sulla storia dell’arte, anche qui attingendo a fondi europei. I due semestri Ue, Grecia e poi Italia, rilanceranno la cultura umanistica».
Alla fine che cosa manca alla scuola italiana?
«La diffusione del digitale e un investimento su laboratori, biblioteche, palestre».
L’università continua a perdere finanziamenti: 6,2 miliardi contro i 6,5 del 2012.
«Sono i tagli del governo Monti. Nel 2014 riporteremo a casa 191 milioni e cambieremo il modo di distribuire le risorse. Finanziamento generale, premi e assunzioni vanno fatti insieme, all’inizio dell’anno accademico».
Il segretario del Pd, Renzi, sostiene che metà delle università italiane devono essere cancellate, servono solo ai baroni.
«Io credo che non si debba cancellarne neppure una: oggi laureiamo pochi giovani. Agli atenei che hanno usato male i soldi, fanno poca ricerca e non richiamano i professori migliori il ministero deve solo togliere autonomia».
Finanzierà ancora le universit à tematiche non statali?
«Certo. Scienze gastronomiche di Pollenzo è stato un successo e vedrei con favore università tematiche destinate allo studio energetico e alla biomedicina».
Lo sa che a due anni dall’introduzione dei prestiti d’onore 19 milioni non sono stati ancora toccati? Solo 500 studenti hanno chiesto il prestito.
«Il prestito d’onore non mi piace, in America ha creato un mare di guai. Preferirei introdurre l’education bond, un prestito privato non vincolante: lo studente lo restituirà solo se sarà in condizioni di farlo, senza rischiare nulla».
È sicura che il prossimo test di ammissione a Medicina sarà nazionale?
«Combatto per quello, anche se le pressioni nei miei confronti sono fortissime».

La Repubblica 05.01.14

"Mafia, il flop delle white list", di Jolanda Buffalini

A un anno dalla legge solo 38 prefetture su 105 hanno gli elenchi delle imprese per gli appalti puliti.̀ . E’ sconcertante il sito della prefettura di Reggio Calabria, lì per lì si apre il cuore: il sito reggino è l’unico, sulle cinque province calabresi dove la ‘ndrangheta è un virus endemico, in cui è presente la White list delle imprese che possono dichiarare di non avere subito infiltrazioni mafiose. Imprese fornitrici a cui i vincitori di a palti pubblici possono rivolgersi senza timore di brutte sorprese. Però, quando apri il file lo trovi vuoto. A un anno dalla approvazione della legge «per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», a sei mesi dalla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale del decreto attuativo, a cinque dall’entrata in vigore dell’obbligo di istituire gli elenchi, l’operazione «White list» sembra essere un vero e proprio flop. L’osservatorio sulla legalità della Fillea Cgil ha realizzato un monitoraggio dal quale risulta che «su 105 prefetture, solo 38 hanno pubblicato gli elenchi, in 3 prefetture le White list non vengono neanche menzionate». Ed è impressionante che proprio nei territori a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, camorristica, ’ndranghetista le White list mancano quasi del tutto: in Sicilia solo nella provincia di Enna c’è una lista consultabile, in Campania, su cinque province, c’è una sola ditta iscritta, la «Adrenalina srl», ad Avellino. A L’Aquila, dove la White list era stata istituita prima dell’obbligo di legge, per rafforzare i controlli post terremoto, ce n’è una decina, certamente un numero molto al di sotto delle ditte effettivamente coinvolte nei cantieri della ricostruzione. Nel Lazio e in Liguria, due regioni in cui la presenza della criminalità organizzata è in ascesa, il panorama è altrettanto desolante. A Torino una sola ditta ha sentito la necessità di iscriversi. C’è da sperare che, in realtà, le richieste di ingresso nelle White list siano di più ma che, ancora, le prefetture non siano riuscite a fare gli accertamenti necessari. Anche questo, però, dimostra che negli Utg (gli uffici territoriali di governo), se hanno applicato la lettera della legge, non ne hanno capito lo spirito, la pubblicazione della richiesta di accedere al gruppo delle imprese pulite, accompagnata dall’autocertificazione richiesta, sarebbe un passo avanti verso la trasparenza e l’etica d’impresa.

Per le imprese non c’è obbligo (che invece vale per le prefetture che devo- no istituire le liste), l’iscrizione è su base volontaria, eppure le White list dovrebbero rappresentare un vantaggio, un bollettino di qualità capace di influire positivamente sul piano materiale (più facile accesso ai finanzia- menti pubblici, ad esempio) e immateriale, la reputazione è, infatti, un valore d’impresa.

Facciamo un passo indietro, per spiegare l’importanza, nel contrasto della lotta alla mafia, che le White list dovrebbero rappresentare. Le imprese che vincono appalti pubblici hanno l’obbligo della certificazione antimafia, tale obbligo, però, si ferma quando si arriva ai fornitori di beni e servizi: confezione e trasporto di calce- struzzo, movimento terra, nolo, tra- sporto rifiuti a discarica, smaltimento. Tutte attività nelle quali, l’esperienza ha dimostrato, si annidano le illegalità ma che, poiché formalmente non percepiscono denaro pubblico, non sono soggette alla legislazione antimafia. La legge del 2012, spiega il prefetto Bruno Frattasi che, al ministero delle infrastrutture dirige il comitato alta sorveglianza sulle Grandi opere, «ha alzato l’asticella». Ma si è anche cercato di farlo senza appesantire ulteriormente i tempi di avvio di un cantiere: «L’iscrizione a una White list si estende a tutto il territorio e ha il valore di una liberatoria», ogni anno la richiesta va rinnovata, poiché «non può esserci – spie- ga il prefetto Frattasi – una posizione di rendita ». Imprese grandi e piccole lamentano la lunghezza degli adempimenti antimafia ma se le White list funzionassero, non ci sarebbe il problema di aspettare le autorizzazioni e non ci sarebbe il rischio del sopraggiungere, fatte le verifiche, di una «interdittiva» che obbliga a rescindere il contratto con la ditta in odore di mafia, a trovarne un’altra e a ricomincia- re tutto l’iter. Altri benefici, per chi si sottopone alla verifica preventiva, sarebbe un più facile accesso al credito (L’Abi si è dichiarata in linea di principio favorevole al rating di legalità, anche se, brutti e cattivi o belli e buoni, di questi tempi ricevere crediti non è facile per nessuno) e ai finanziamenti pubblici.

L’impressione, dice Salvatore Lo Balbo, della segreteria nazionale Fillea, è che «all’entrata in vigore della legge non corrispondano azioni positive, politiche attive, per implementa- re le nuove norme». La situazione è tanto più preoccupante «se si incrociano i dati sulle White list con quelli dei protocolli di legalità». «Abbiamo sottoscritto – aggiunge Lo Balbo – 92 protocolli in tutta l’Italia, 31 di questi riguardano le grandi opere, eppure proprio in molte delle prefetture che li hanno sottoscritti mancano le White list». In sostanza la collaborazione fra istituzioni, imprese, sindacati per evitare che il denaro pubblico vada a rimpinguare le casse della criminalità organizzata rimane lettera morta, impressa su scartoffie chiuse nei cassetti a prendere polvere. È da capire dove sia l’intoppo, non ci credono le prefetture o non ci credono le imprese? Oppure sono le pubbliche amministrazioni ad essere poco interessate alla pulizia delle aziende che realizza- no le opere?

Sul fronte del contrasto economi- co alla criminalità organizzata, intanto, si sta tentando un’altra strada, complementare ma che potrebbe rivelarsi sostitutiva degli elenchi fin qui creati. Si tratta della banca dati prevista dal codice unico antimafia, a cui, ancora una volta, sta lavorando il prefetto Frattasi. Una volta che la banca dati sarà operativa, ogni pubblica amministrazione, ogni stazione appaltante, potrà accedere e conoscere le caratteristiche delle imprese censi- te, le quali saranno ordinate in tre li- ste distinte, le White, le grey e le black. Il passaggio dall’uno all’altro elenco, sostiene Frattasi, «è il segno di vitalità dell’accertamento antimafia». L’interfaccia delle pubbliche amministrazioni sarà il front office, un back office dovrà, via via arricchire la banca dati già esistente. Può accade- re, infatti, che alcune delle ditte delle associazioni temporanee d’impresa non siano censite ma, alla seconda o terza richiesta di informazioni il data- base sarà aggiornato. Il regolamento è scritto, l’architettura informatica del sito che si potrà avvalere delle altre banche dati, a cominciare da quelle delle forze di polizia, è pronta. Si sta aspettando il parere del garante per la privacy, che dovrebbe arrivare per la metà di gennaio.

Resta da vedere se l’etica d’impresa e la legalità faranno passi avanti nel consenso del paese, perché – senza sollecitazione delle parti sociali – la moneta cattiva scaccia la buona.

L’Unità 04.01.14

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Emilia Romagna, l’eccezione conferma la regola

L’Emilia Romagna della ricostruzione post terremoto è, dal punto di vista delle White list l’eccezione che conferma la regola. C’è infatti una norma del decreto (poi trasformato in legge) per la ricostruzione secondo la quale non può percepire pagamenti o prendere appalti, o ricevere affidamenti, la ditta che non abbia, quanto meno, fatto domanda di iscrizione all’elenco delle «white». Nemmeno in Emilia Romagna c’è l’obbligo che non è richiesto dalla legislazione nazionale. Però la volontarietà è fortemente incentivata dalla disciplina più restrittiva voluta da Vasco Errani in qualità di commissario straordinario alla ricostruzione.

È di due giorni fa la notizia che «quasi 600 ditte, di cui circa 550 con sede in provincia di Modena hanno fatto richiesta di iscrizione. Nelle ultime due settimane sono state inoltrate agli organi investigativi oltre 150 richieste di informazioni che stanno pervenendo e che consentiranno, a breve, in assenza di cause ostative, di iscrivere un ulteriore rilevante numero di aziende».

Il successo dell’Emilia Romagna, ha spinto il governo a valutare l’obbligatorietà dell’iscrizione alle White list e l’ipotesi è allo studio del ministero delle Infrastrutture. La proposta trova, però, i sindacati contrari per una ragione di principio e per una pratica: quella di principio è che un cittadino o una impresa non devono avere l’obbligo di dimostrare preventivamente di essere per bene. La ragione pratica è che sembra più razionale puntare sull’unica banca dati nazionale prevista dal codice antimafia, anziché affidarsi alle diverse prefetture che operano ciascuna in modo difforme dall’altra.

L’Unità 04.01.14