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«Lavoro? Marchionne dovrebbe triplicare la produzione», di Massimo Franchi

«Solo per riportare al lavoro tutti gli operai ora in cassa integrazione Marchionne dovrebbe triplicare la produzione di vetture in Italia. Se lo farà sarò il primo a lodarlo, ma faccio molta fatica ad immaginare come: rilanciare Alfa Romeo non basterà». Il sociologo Luciano Gallino non minimizza «l’importanza» dell’acquisizione della Chrysler da parte di Fiat, ma avverte: «In questo modo si è portata a termine la ritirata produttiva cominciata dalla famiglia Agnelli 20 anni fa».

Professor Gallino, è Fiat ad aver comprato tutta Chrysler o è vero esattamente il contrario?
«La proprietà è indubbiamente del Lingotto. Però cervello e muscoli sono negli Stati Uniti, il baricentro è spostato tutto al di là dell’oceano. Basta osservare la sproporzione nei livelli di produzione: il gruppo nel 2013 ha prodotto 5 milioni di auto, di cui 3,5 milioni Chrysler e solo 1,5 milioni Fiat. Di queste solo 370mila in Italia. E cioé meno che in Paesi come la Slovacchia o il piccolo Belgio. Se pensiamo che nel 1993 nel nostro Paese si produce- vano due milioni di auto e che nel 2003, anno dell’arrivo di Marchionne, si arrivò ad un milione, vediamo come la Fiat è in ritirata dall’Italia da almeno vent’anni, una strategia pianificata anche prima dell’arrivo di Marchionne. Si tratta di un processo unico che non ha eguali al mondo: i tedeschi, i francesi continuano a produrre nei loro Paesi…»

Veramente il professor Berta a l’Unità ha sostenuto che a parte i tre primi produttori (Toyota, Gm e Volkswagen) gli altri sono costretti a diventare globali per non uscire dal mercato…

«Non capisco la differenza. Fiat-Chrysler è un gruppo globale, ma testa e muscoli stanno negli Stati Uniti. La Fiat è l’unico gruppo in cui il Paese di origine ha una capacità produttiva pari al 65% del potenziale: dei 25mila lavoratori rimasti in Italia gran parte lavora pochi giorni al mese, il resto è in cassa integrazione. Ripeto: è un caso unico al mondo».

Quando Fiat entrò in Chrysler ci si vantò del fatto che le piattaforme produttive italiane, molto più avanzate, sarebbero state usate negli stabilimenti americani. Ora succederà il contrario? I centri di ricerca e gli enti centrali di Torino sono a rischio?

«Nella produzione di auto gli ingegneri devono essere vicini alla produzione. Ahimè, se la gran parte della produzione rimarrà negli Stati Uniti anche i centri di ricerca saranno spostati lì. L’unica speranza è che si decida di aumentare fortemente la capacità produttiva in Italia. Ma va tenuto conto che l’idea di spostare la produzione italiana verso i segmenti alti, fino al cosiddetto Polo del lusso, comporta meno necessità di lavoro e molto esternalizzazione della produzione. In più negli ultimi anni, a causa della crisi, la tecnologia è molto cambiata, la robotizzazione e l’automazione dei processi ha portato al fatto che per produrre una vettura servono sempre meno ore lavoro, ormai anche meno di 20, si può stimare che per riportare al lavoro tutti i 23mila dipendenti italiani serve triplicare la produzione del 2013, arrivare almeno ad 1,2 milioni di auto».

Il piano di Marchionne sembra essere quello di puntare sul rilancio dell’Alfa Ro- meo. Basterà?
«Da quando Fiat acquisì, sappiamo tutti come, Alfa Romeo, ha prodotto auto bellissime, come la “156”. Un modello di grande successo. L’operazione di esportarla in Germania però fallì miseramente. Ecco, l’Alfa è un nome così famoso che ancora ha sicuramente mercato. Che basti da sola a rilanciare la produzione in Italia mi sembra però irrealistico».

E allora come spiegare i giudizi trionfali quasi unanimi sull’importanza dell’accordo e sulle ricadute occupazionali di sindacati e politica?

«L’acquisizione di un’azienda estera non può che essere benvenuta. Ma se poi i posti di lavoro si producono in Ontario o in Minnesota, il senso della festa tende a scomparire».

E il ruolo del nostro governo? Nel suo ultimo libro («Il colpo di Stato di banche e governi») lei li descrive sempre più deboli…
«Non mi ricordo chi sia il ministro dello Sviluppo (sorride, ndr). Bisognerebbe chiedere a lui. Il successo dell’auto in Germania, in Francia ma anche in Inghilterra dove impera la finanziarizzazione, è sempre figlio di un intervento pubblico esplicito, come nel caso di Obama, o meno, come nel caso tedesco. In tutti i casi c’è alle spalle una politica industriale. In Italia non è stato fatto nulla, ci si è accontentati dei comunicati stampa del Lingotto in cui si promettevano investimenti. Sarebbe interessante se il governo italiano si destasse chiedendo finalmente a Marchionne numeri, dati, impegni precisi per i prossimi 2-3 anni».

Non mi sembra molto ottimista…

«Manca la volontà. E anche il personale: in Germania al ministero dell’Economia ci sono dozzine di esperti che si occupano di tecnologia perché sanno che le ricadute occupazionali sono decisive. Da noi non c’è nessuno».

Lei vive a Torino. Si dice che Marchionne potrebbe lasciare. Com’è stato il suo rapporto con la città? Che cosa ne sarà degli Agnelli dopo di lui?

«Nei primi anni si diceva che Marchionne giocava a carte con Chiamparino. Poi non si è più visto. Il rapporto non esiste. Gli Agnelli hanno portato avanti il loro piano di dismissione della produzione di auto. Ahinoi, andranno avanti così. A meno di un miracolo. A cui non credo ».

L’Unità 04.01.14

"L’Italia, i diritti e una destra troppo antica", di Gianni Riotta

Il leader della diaspora berlusconiana, Angelino Alfano, ha il difficile compito di dare ai propri parlamentari identità e cultura politica nella stagione che ci separa dalle elezioni. Impresa che si è rivelata dura per un veterano come Pierferdinando Casini e, al centro, impossibile per il senatore a vita Mario Monti. Sbaglia per ò Alfano a pensare – o ad ascoltare chi in tal senso lo indirizza – che schierando il suo movimento su posizioni «dure», demagogiche, «di destra», guadagnerà voti, consensi, attenzione. Al contrario, perder à stime, considerazione, spazio. Chi vuol menare gli immigranti, sbattere tutti in galera, usare la famiglia non come nido ma come spaventapasseri, ha già i suoi riferimenti a destra, e spesso tra i 5 Stelle.

Sperare che il no del Nuovo centro destra alle unioni civili tra omosessuali, proposte dal Partito democratico del neo segretario Matteo Renzi, ringalluzzisca la base cui guardano Alfano, Lupi, Mauro, è illusorio. L’Italia si è rivelata dai tempi dei referendum sul divorzio e l’aborto, mezzo secolo or sono, allergica alla politica dei valori, confermando che l’antico buon senso di casa nostra sa evitare le polemiche che a lungo hanno diviso l’America, per esempio, sull’interruzione di gravidanza. Due grandi regioni meridionali, la Sicilia e la Puglia, hanno eletto, con notevole presenza di voti cattolici e tradizionali, presidenti omosessuali, Crocetta e Vendola.

La destra occidentale ha ormai accettato, dalla Francia alla Gran Bretagna, culture di tolleranza e inclusione. In America, dove lo stesso Ronald Reagan trattò con compassione la morte per Aids dell’attore Rock Hudson fermando gli estremisti, i repubblicani sono divisi da febbri ideologiche, ma perfino le figlie dell’ex vicepresidente Dick Cheney, due conservatrici Doc, si dividono sulle nozze gay, ne parlano, non discriminano o tacciono.

La proposta di Renzi è soft, non si tratta di matrimoni omosessuali – pur ormai routine in tante metropoli da New York a Los Angeles -, ma di unioni civili che cancellano solo le più odiose discriminazioni a danno dei cittadini gay. Bloccarla non rende Alfano e il suo Ncd bastione credibile dei valori tradizionali, ma al contrario palcoscenico petulante, dove risuona la grancassa populista. Il voto cattolico in Italia è stato studiato a lungo, da Mannheimer a D’Alimonte, e non rivela correnti di maggioranza contro l’integrazione dei cittadini.

Nel suo libro «Il ventennio», l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini riflette con amarezza sulla strada aspra che la destra italiana deve compiere per diventare definitivamente occidentale e liberale, amarezza tanto politica quanto esistenziale. La disattenzione di Silvio Berlusconi ai temi etici, l’accordo meccanico tra centrodestra e gerarchia della Chiesa italiana nel recente passato, hanno seminato confusione e opportunismi. Oggi il clima è diverso, dal Vaticano, alla Cei, alle parrocchie, ai movimenti, Comunione e Liberazione di don Carron in testa. Papa Francesco incanta il mondo restando saldo sulla strada maestra della Chiesa, ma ammonendo che essa va percorsa da «tutti i peccatori», senza barriere o protezionismi dell’anima. Il grido neo francescano «Chi sono io per discriminare quel peccatore…?» commuove le anime, ci parla di fratellanza per chi non condivide la nostra etica, la nostra condotta personale. Insomma la scommessa di Alfano è perdente nella tattica della politica e disastrosa nella strategia dei valori. E – se ci possiamo permettere – stride anche con la sua personalità, che non ha rivelato finora il difetto dell’astioso settarismo.

La Stampa 04.01.14

"Napolitano batte Grillo o la Tv batte Internet?", di Giovanni Valentini

La progressiva demolizione del bipolarismo a opera di Napolitano si corona oggi con tutti i partiti della maggioranza spaccati a metà tra filogovernativi e antigovernativi. (da “Viva il Re!” di Marco Travaglio – Chiarelettere, 2013 – pag. 15)
È un dato di fatto, preciso, incontrovertibile. Il “messaggio del tavolino” di Giorgio Napolitano, trasmesso in tv a reti unificate la sera del 31 dicembre, è stato visto da 9 milioni 991 mila spettatori contro i 9 milioni 702 mila del 2012: 279 mila in più, con un aumento del 2,8%, come hanno già riferito tutti i giornali. Nonostante l’appello al boicottaggio lanciato dal Movimento 5 Stelle e da Forza Italia, il discorso del presidente della Repubblica ha registrato quindi un significativo successo di pubblico. Tanto più che solo sulle reti Rai è stato seguito da 7 milioni 149 mila spettatori, con un incremento di audience del 12,2% rispetto all’anno precedente che ha compensato largamente il calo sulla rete ammiraglia del partito-azienda(-460 mila su Canale 5).
Eppure, all’indomani di Capodanno, il Minculpop grillino ha contestato polemicamente la veridicità di questi dati, sulla Rete e in particolare su Twitter, diffondendo una serie statistica dell’Auditel da cui risulta che nell’arco di otto anni, dal 2006 al 2013, gli ascolti del messaggio presidenziale si sono ridotti dal 66,1% fino al 53,1 (-13%). «La differenza tra audience positiva e share negativa — spiega il sociologo Francesco Siliato — è dovuta al maggior numero di persone presenti davanti a un televisore acceso». E poi bisogna calcolare la flessione di tutta la tv generalista da allora a oggi, a favore degli altri canali televisivi e di Internet, che ha prodotto una contrazione dell’intera “torta”. Da qui, è partita però un’altra valanga di improperi e di insulti ai giornalisti, accusati in massa di essere “bugiardi” o di “falsificare la realtà”.
Faute de mieux, in mancanza di argomenti migliori, i più faziosi sono arrivati perfino a sostenere che il boom dell’audience presidenziale dipende dal fatto che molti si aspettavano l’annuncio in diretta delle dimissioni di Napolitano. Oppure, più banalmente, dalla “consuetudine dell’80% degli italiani di tenere accesa la tv per il discorso a reti unificate”. Ma si tratta, com’è evidente, di modeste “pezze a colori”.
In un Paese in cui la tv — per parafrasare la celebre frase del generale Carl von Clausewitz applicata alla guerra — è diventata la prosecuzione della politica con altri mezzi, non c’è da meravigliarsi più di tanto che l’oggettiva convergenza del populismo mediatico di Berlusconi e della “qualunquologia” picaresca di Grillo (qualunquismo più demagogia) possa produrre un effetto del genere. Questa volta, però, il tele-boicottaggio s’è trasformato in un boomerang per i suoi stessi artefici, “sensibilizzando il pubblico della seconda e terza rete Rai a un ritorno all’ascolto più istituzionale”, come dice ancora Siliato. Ognuno, dunque, può giudicare liberamente se è stato Napolitano a battere Grillo oppure se è stata la televisione a battere Internet, dove il leader del M5S s’è esibito in un comizio elettorale “urbi et orbi”.
Ora si può legittimamente criticare il capo dello Stato per i suoi “strappi”, per le sue scelte presidenzialiste o magari per i suoi errori: fra questi, a parere di chi scrive, l’errore capitale è stato quello di aver “salvato” il governo Berlusconi nel dicembre 2010, concedendogli un mese di tempo che il Cavaliere utilizzò per la sua campagna acquisti in Parlamento, mentre le mozioni di sfiducia presentate da Pd, Idv, Udc e Fli avrebbero potuto già metterlo in minoranza. E si può pure vagheggiare l’impeachment, come minacciano congiuntamente il M5S e la rediviva Forza Italia nel segno di un’alleanza che dovrebbe essere imbarazzante per entrambi, sebbene sia arduo individuare sul piano giuridico l’ipotesi di ”alto tradimento” o di “attentato alla Costituzione” nei comportamenti del presidente Napolitano.
Quello che però non si può fare impunemente è distorcere e piegare la realtà ai propri fini propagandistici. Non è vero che in Italia è vietato criticare il presidente della Repubblica né tantomeno che si commette un “reato di lesa maestà”: basterebbe ricordare le campagne di stampa condotte dal settimanale L’Espresso, prima contro Giovanni Leone e poi contro Francesco Cossiga. A quei tempi, Beppe Grillo frequentava ancora gli studi televisivi della Rai o calcava i palcoscenici dei teatri di varietà, mentre alcuni “pennivendoli” mettevano a rischio il posto e la carriera.

La Repubblica 04.01.14

"Il segretario: sui diritti non cedo di un centimetro", di Tommaso Ciriaco

Ha acceso la miccia, Matteo Renzi. E non sembra pentito: «Sia chiaro, non ho mai parlato di unioni gay, ma di civil partnership. Ma su questo io non mi muovo. Neanche di un centimetro ». Non arretra, il segretario. Manca un mese alla stesura del nuovo patto di governo e la maggioranza sembra gi à intrappolata nella gabbia dei veti incrociati.
CHI più soffre, di fronte a questa escalation, è Angelino Alfano: «È vero, il Pd è il partito principale della coalizione. Ma l’esecutivo non può essere un monocolore democratico… «.
Non tutto poteva filare liscio. Non l’accelerazione del leader del Pd sulle unioni civili, né l’annuncio
di un reset della Bossi-Fini o il rilancio sullo ius soli. E infatti la reazione scomposta del Nuovo centrodestra ha dato il via alle ostilità. Eppure, il brusco stop del vicepremier non sembra turbare Renzi: «Mi attaccano — ricorda ai suoi — ma in questi anni che hanno fatto loro sulla famiglia?». La risposta è ruvida, netta: «Nulla».
Il segretario sente alle spalle il vento delle primarie dell’otto dicembre. E sempre a quel passaggio fa riferimento: «Abbiamo vinto su questi temi. Preso un impegno, bisogna realizzarlo. Vale anche per lo ius soli e per la Bossi-Fini». Poco importa che l’arco di governo abbia iniziato a oscillare pericolosamente: «È un problema di serietà », taglia corto con i fedelissimi. Il suo ragionamento è brutalmente aritmetico: «Questo governo è guidato da un esponente del Pd. La gente attribuisce a noi questo esecutivo e non può passare l’idea che trenta deputati del Ncd ci dettino la linea ». Tradotto: «Si fa come dice il Pd».
Chi osserva con fastidio questa dinamica è Enrico Letta. Certo, considera gli scossoni «fisiologiche tensioni» figlie di una trattativa. Ma sa di non poter tentennare oltre, limitandosi a restare ancora nella scia del sindaco. Il presidente del Consiglio è pronto allora a guidare un primo giro di consultazioni bilaterali. Già dopo la Befana, se dovesse riuscire a superare le resistenze di chi — come Renzi — preferirebbe non farsi imbrigliare in schemi che giudica datati.
Armato di pazienza, Letta non si scoraggia: «Tocca a me mediare — è il ragionamento — E ci riuscirò, se tutti avranno la volontà di proseguire nel cammino intrapreso». Ieri sera, non a caso, il premier è piombato nelle case degli italiani con un messaggio rassicurante.
E attraverso gli schermi del Tg1 ha fissato un promemoria utile a chi meditasse agguati all’esecutivo: « Lo spread sotto i 200 punti è il frutto di un lungo lavoro che va perseguito». Come a dire, niente scherzi.
Non tutti, nella maggioranza, la pensano però così. Anzi, qualcuno già sussurra che terminata l’emergenza del differenziale diventi più praticabile il ritorno alle urne anticipate. Di certo, Letta è pronto a mediare per frenare una spirale dannosa. Non a caso si spenderà per limitare il campo del patto di governo. «Alcuni temi andranno nel programma — ha tracciato lo schema nelle ultime ore — altri saranno rimessi al cammino parlamentare. Ciò che esula dal perimetro, rientrerà nel patto solo se ci saranno le condizioni».
Fissare dei paletti è per il presidente del Consiglio un’inevitabile conseguenza di un governo di larghe intese: «Tutti conoscono la natura di un esecutivo che è frutto non di un successo elettorale di un partito, ma di un’intesa a tempo fra forze con programmi contrapposti ». Sono concetti che stridono parecchio con l’impostazione renziana. Il leader toscano riunirà già oggi la segreteria dem, annunciando una serie di proposte da sottoporre poi al voto della direzione del partito, il prossimo 14 gennaio. Sarà la piattaforma per l’anno 2014. Una scossa, per Palazzo Chigi: «Non può entrare tutto quel che chiede Renzi — frena Barbara Saltamartini per l’Ncd — il segretario ha vinto le primarie, mica le Politiche».
Le prossime settimane serviranno a Letta per tentare di accorciare un divario che oggi sembra incolmabile. Alfano — pure pronto a minacciare la crisi di governo per restringere il perimetro dell’intesa — resta comunque fiducioso. E ricorda: «Ciò che più conta è aver dato il via libera al timing sulla legge elettorale. Alla fine una soluzione si troverà… «. Che è poi quel che spera la pattuglia montiana. «Sono certo — profetizza Benedetto Della Vedova — che il premier accetterà la sfida di Renzi e prender à l’iniziativa per dare il via alla fase due».
Intanto, però, c’è da sciogliere quanto prima il nodo della legge elettorale. Il segretario democratico attenderà la Befana, poi inizierà a consultare le forze politiche. Infine trarrà le conclusioni, avanzando una proposta destinata comunque ad alterare gli equilibri della maggioranza. E mentre Berlusconi sembra orientato a sposare il modello spagnolo, Scelta civica chiederà di approvare il Mattarellum ritoccato o il sistema del “sindaco d’Italia”. Come il Nuovo centrodestra, pronto alle barricate in caso di riforma sgradita: «Al Senato tutti — va ripetendo Alfano — dovranno fare i conti con noi».

La Repubblica 04.01.12

"Giro del voto in tre proposte", di Stefano Ceccanti

Sulla riforma elettorale, dal punto di vista del metodo, Matteo Renzi ha iniziato in modo non solo efficace ma anche corretto: offrendo alle forze di maggioranza e a quelle dell’opposizione disposte ad assumersi le proprie responsabilità (ammesso che poi esistano davvero) non una proposta secca da prendere o lasciare, ma un ventaglio di soluzioni tra cui scegliere.
Proposte diverse ma tutte ispirate alla medesima logica di una democrazia governante che affida all’elettore il ruolo di arbitro del sistema.

Prima di esaminare le tre proposte di Renzi bisogna però segnalare i vincoli politici e costituzionali in cui ci troviamo ad operare e che si intrecciano tra loro. Quelli politici sono dati soprattutto dall’esistenza di tre schieramenti maggiori quasi equivalenti, un dato che per le elezioni che si svolgono sul piano nazionale (le politiche, le europee) potrebbe non essere transeunte almeno quanto sembra esserlo invece sul piano amministrativo, dove invece sono più solidi il centrosinistra e il centrodestra. Per avere dal voto un risultato chiaro alla sera delle elezioni, l’obiettivo fondamentale giustamente perseguito

da Renzi, avremmo pertanto bisogno di tenere conto di questo fattore e quindi di avere un sistema fortemente maggioritario che traduca i voti in seggi con una logica marcatamente bipolare. Qui intervengono però i vincoli costituzionali, peraltro ancora non del tutto chiari: è probabile che la Corte costituzionale abbia abbattuto non tanto il premio di maggioranza in sé, ma il fatto che esso, se assegnato in turno unico e senza una soglia, sia eccessivamente distorcente. Su tutti i sistemi resta poi la spada di Damocle del bicameralismo paritario, il cui superamento è stato proposto in modo netto da Renzi: senza di esso qualsiasi riforma elettorale è appesa all’alea di maggioranze diverse tra Camera e Senato, un rischio tutt’altro che teorico.

Poste queste premesse, dei tre sistemi proposti da Renzi quello che supera pienamente la prova di costituzionalità ed anche quella di efficacia (a parte la questione del bicameralismo) è il terzo: lo spareggio nazionale tra i

primi due schieramenti. Chi vince ed è portato così al 55% dei seggi, ha preso nel turno decisivo ameno il 50% dei voti. Né regge l’obiezione che una parte dei votanti del primo turno per schieramenti minori potrebbe astenersi: ad essi è comunque data la possibilità di tornare in gioco per il voto decisivo come in qualsiasi ballottaggio, ad essi la scelta se essere determinanti oppure no, ma il sistema deve solo dare tale opzione, non può imporla.

Dal punto di vista costituzionale credo che potrebbe reggere anche il secondo sistema proposto da Renzi, la legge Mattarella corretta modificando le proporzioni: 75% di maggioritario uninominale, 15% di premio eventuale nazionale, 10% di proporzionale incomprimibile. Un sistema comunque meno distorsivo di quelli inglese e francese, che assegnano tutto col maggioritario. In fondo il 15% sarebbe solo una clausola di garanzia maggioritaria. Nel contesto dato, però, in caso di grande equilibrio nelle

vittorie di collegio tra i tre schieramenti, il risultato potrebbe non essere decisivo: a differenza del caso precedente qui c’è un incentivo forte, ma non c’è una garanzia piena di risultato. Il problema si rafforza col primo sistema proposto da Renzi: lo spagnolo integrato con un premio del 15%. Se alla base del sistema non mettiamo collegi uninominali ma plurinominali con tre seggi o più, ciascuno dei tre schieramenti prenderebbe seggi nelle circoscrizioni (almeno uno a testa) e il premio non sarebbe poi quasi sicuramente sufficiente a dare un vincitore.
Fin qui l’analisi dal punto di vista della democrazia governante. A ciò si aggiunge il nodo della scelta dei singoli candidati. Non è ancora chiaro se la Corte abbia precluso del tutto l’adozione delle liste bloccate o solo quelle che vadano al di là di una certa lunghezza. Se avesse fatto la scelta più netta, il sistema spagnolo non sarebbe adottabile perché si basa su liste bloccate corte, altrimenti anche quello

potrebbe essere percorribile. Nessun dubbio di costituzionalità, invece, per gli altri due sistemi, fondati su collegi uninominali o preferenze. Pur trascinando con sé problemi seri per le candidature di coalizione, i collegi a turno unico appaiono decisamente superiori alle preferenze, le quali comportano problemi ancora maggiori in termini di spese elettorali e di divisioni interne ai partiti e ai gruppi parlamentari. Problemi che sarebbero pressoché insolubili dopo l’inserimento del nuovo reato di «traffico di influenze» da parte della legge Severino.

Giunti al termine dell’esame delle tre proposte e ferma restando la necessità della riforma del Senato, è quindi evidente che il modello migliore sarebbe quello che risulta dai collegi uninominali della seconda proposta col ballottaggio nazionale della terza. A Renzi non manca la forza per tentare di avere i voti sul meglio, a partire dal confronto serrato con gli alleati di governo.

L’Unità 03.01.14

"Il dovere di cambiare", di Claudio Tito

Forse un po’ in sordina, senza riferimenti espliciti, ma ieri è di fatto partita la lunga campagna elettorale che attende il Paese. Lunga perché probabilmente durerà più di un anno. Ma avrà diverse tappe fondamentali. A cominciare da quella del voto europeo del maggio prossimo. Ed è a quell’appuntamento che bisogna guardare per capire cosa sta succedendo nei partiti e nel governo in questi primi giorni del 2014. Compresa la mossa di Matteo Renzi.
Il simbolo virtuale che ha accompagnato la sua ascesa alla guida del Pd è stata la “rottamazione”. L’ha usata per sconfiggere la vecchia classe dirigente del centrosinistra. Lo ha fatto intercettando un vento che soffiava da tempo nel Paese e nell’elettorato progressista. Ma proprio perché risponde a un’esigenza ormai radicata, il concetto di “rottamazione” a questo punto non può essere solo associato alla crescita di un nuovo gruppo di comando dentro il Partito democratico. Si tratta di archiviare anche alcune procedure e liturgie che hanno caratterizzato la prima e in parte la seconda Repubblica. Soprattutto la lentezza nell’assumere decisioni.
Le proposte avanzate ieri dal leader pd rispondono esattamente a questa necessità. Ha bisogno di distinguersi e soprattutto di non farsi avviluppare nel consolidato cerimoniale della politica. L’idea di essere fagocitato in un tavolo di trattative, in estenuanti vertici di maggioranza o in gruppi tematici, per Renzi equivale a perdere la carica e l’immagine innovativa conquistata nell’ultimo anno. Significa anche disperdere la potenziale attrazione di elettori che in passato non hanno votato per il centrosinistra. Il sindaco fiorentino in una parola teme di essere “omogeneizzato” con chi viene percepito come l’ultimo anello di congiunzione con il passato. E allora gioca d’anticipo, scompagina il libro della sua coalizione in continuazione. «Se non lo faccio — ripete spesso — gli altri mi bloccano con le catene».
Per questo ieri ha forzato i tempi. Ha messo sul tavolo sia la riforma elettorale, sia la nuova agenda del governo per uscire da un solco già scavato da altri. Per la prima volta da molto tempo un leader del centrosinistra riesce a imporre l’agenda del confronto politico come riusciva a fare Silvio Berlusconi anche nei passaggi più difficili e complicati. Ma è evidente che rischia di essere anche un gioco pericoloso. La ricerca della discontinuità, se viene sistematicamente sterilizzata, può diventare un paradosso. E in più contiene il rischio di uno scontro endemico con Enrico Letta.
Al di là dei formali convenevoli, il rapporto tra i due non è affatto sereno. Non si fidano. Il premier teme che le scosse assestate alla sua coalizione possano portare allo schianto finale. O comunque compromettere la sua immagine a favore, appunto, di quella del segretario in una sorta di mors tua vita mea.
Senza contare che il presidente del consiglio accusa il nuovo segretario democratico di non riconoscergli il merito di aver pilotato l’uscita di scena di Berlusconi. Senza scontri frontali, ma con un risultato effettivo.
Renzi, al contrario, sospetta il tentativo del capo del governo di allungare i tempi di ogni scelta per garantire la sopravvivenza dell’esecutivo. Vede nell’azione di Letta un disegno volto a blindare la strana maggioranza delle larghe intese anche in assenza di obiettivi realmente conseguiti. O, peggio, nella volontaria stagnazione finalizzata a non turbare il difficile e precario equilibrio raggiunto.
Questa partita adesso entra nel vivo. Non si tratta solo di approvare finalmente una legge elettorale decente o di siglare un nuovo patto di governo magari ufficializzandolo con un rimpasto di ministri. Il punto è che ieri lo sguardo si è improvvisamente rivolto alle date della campagna elettorale. Nella quale il concorrente che ha più da perdere è proprio Renzi. Prima del voto politico, ci sono almeno due tappe che possono rivelarsi esiziali per il leader pd. A maggio, se come sembra non si scioglierà il Parlamento in primavera, i cittadini saranno chiamati a eleggere il Parlamento europeo. La legge proporzionale prevista per Strasburgo offrirà una precisa fotografia dei rapporti di forza tra i partiti. E se il Partito democratico dovesse ridurre i suoi consensi, la colpa ricadrebbe solo ed esclusivamente sul neosegretario. Stesso discorso, anche se in misura ridotta, per le amministrative di primavera e per le elezioni in Sardegna del prossimo febbraio (Walter Veltroni si dimise dopo la sconfitta di Soru). Il sindaco ha quindi bisogno di spendere subito qualche risultato. La riforma del Porcellum, l’avvio dell’abolizione del Senato e un’agenda per l’esecutivo più efficace. Tutto questo gli serve entro il 25 maggio. Farsi paralizzare in questa prima parte del 2014 è per lui molto più pericoloso che non aspettare il ritorno al voto politico nel 2015.
Anzi, Renzi si è in parte convinto che accorpare europee e politiche a maggio non rappresenta più una soluzione praticabile. Ha scelto di evitare lo scontro frontale con Napolitano confermandogli la sua intenzione di sostenere il governo Letta. Ma deve esigere dall’esecutivo una road map stringente. Altrimenti in pochi mesi la forza del cambiamento si sarà già esaurita.

La Repubblica 03.01.14

"Immigrazione. Dalle tragedie alla speranza", di Luigi Manconi e Valentina Brinis

E’ successo il 21 dicembre. Le bocche cucite dei profughi trattenuti nel centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria, sdraiati su sottili materassini di gomma, coperti dai sacchi neri della spazzatura, sono forse l’immagine simbolica più significativa della questione-immigrazione nel corso dell’anno 2013: rappresentazione crudele di come, nel nostro disgraziato Paese, l’accoglienza possa slittare rapidamente verso la privazione della libertà e trovare nell’autolesionismo la sola forma, esasperata e disperata, per comunicare la sofferenza.

Un’altra immagine è quella del ministro italiano nato in Africa, Cécile Kyenge (28 aprile) che, prima ancora delle gigantesche difficoltà del suo ruolo, ha dovuto affrontare l’ostilità e talvolta il disprezzo degli avversari. Ma un’altra foto ancora da ricordare è quella del deputato democratico Khalid Chaouki, italiano nato in Marocco, che tra- scorre tre giorni (22-24 dicembre) nel centro di accoglienza di Lampedusa per denunciarne il degrado e perché sia garantito a chi chiede asilo di ricevere asilo e assistenza e protezione. Chiaroscuri, dove prevalgono largamente le ombre e i toni tetri, ma dove pure qualche esilissima prospettiva meno cupa sembra potersi delineare.

Dunque, se da quella galleria di immagini e sequenze, volessimo ricavare le linee di una strategia generale, è proprio vero che la tematica dell’immigrazione ci offre una descrizione puntuale dei tormenti di questa legislatura e del suo futuro. Appena ieri il neo segretario del Pd, Matteo Renzi, ha confermato la decisa intenzione di modificare la legge Bossi-Fini e altri messaggi in tale direzione sono giunti nelle ultime settimane, pur all’interno di un quadro sociale, normativo e politico che resta assai contraddittorio e connotato dall’incertezza. Progetti di profonda riforma e lentezze estenuanti, qualche atto opportuno e tanta prudenza.

Andando a ritroso, vengono in mente le immagini girate in quello stesso centro di Lampedusa che riprendevano una mortificante pratica di presunta disinfestazione (17 dicembre); nei fatti, una procedura degradante.

Dunque l’isola continua a essere il crocevia e il punto di caduta, il luogo-simbolo e la sequenza horror delle tragedie dell’immigrazione.

LA TRAGEDIA DEL 3 OTTOBRE

Basti pensare allo scorso 3 ottobre quando persero la vita, davanti a quella costa, oltre 360 perso- ne principalmente di nazionalità eritrea, naufragate nel tentativo di raggiungere l’Italia e l’Europa. Si tratta di uomini e donne che avrebbero potuto chiedere asilo e che, in ragione della loro provenienza, avrebbero ottenuto comunque una qualche forma di protezione. Lo dicono i fatti: nel 2013 è quella eritrea la nazionalità alla quale è stato riconosciuto più frequentemente lo status di rifugiato (230 sul totale degli 840 rilasci).

Da queste considerazioni e da questi dati prende origine la proposta che abbiamo chiamato di «ammissione umanitaria» per i richiedenti asilo provenienti dall’Africa. Diverse ipotesi che convergono tutte su un punto fondamentale: l’anticipazione geografica del momento della richiesta di tutela e di concessione della protezione, per ridurre il numero dei morti causati dalla traversata del Mediterraneo in condizioni di totale precarietà. Ciò prevede la realizzazione di presidi dell’Unione Europea e dei singoli Stati nei Paesi dove i flussi migratori si formano o transitano (Tunisia, Egitto, Giordania, Libano, Algeria, Marocco e Libia). È un’ipotesi che il governo italiano sembra voler considerare, ma per ora i provvedimenti adottati sono stati quello che prende il nome di Mare Nostrum (rafforzamento dei pattugliamenti e dei soccorsi in mare) e l’attuazione di progetti europei quali Frontex ed Eurosur (15 ottobre).

Enrico Letta durante la conferenza stampa di fine anno (23 dicembre), ha annunciato che già da gennaio sarà opportuno provvedere alla «revisione di alcuni aspetti della Bossi-Fini». Certo, le resistenze dichiarate in proposito dal ministro dell’In- terno e vice premier Angelino Alfano sembrano particolarmente ruvide, ma lo spazio per una battaglia politica si è finalmente aperto. E su alcuni punti cruciali i risultati positivi non sembrano impossibili: la riduzione drastica dei tempi di permanenza nei Cie (passati dai 30 giorni originari ai 18 mesi attuali), e l’attribuzione a un tribunale e non più al Giudice di Pace del potere di convalida del trattenimento.

Altrettanto importante è l’abrogazione del reato di immigrazione irregolare che, dal 2009, ha portato alla criminalizzazione di numerosissimi stranieri (solo ad Agrigento nell’ultimo anno ne sono stati indagati 16mila). È questo che costituisce, in particolare nella percezione dell’opinione pubblica, la «giustificazione» dell’esistenza dei Cie: se lo senta una minaccia sociale e un pericolo per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini, essi vanno «contenuti», classificati come criminali, reclusi. Nei Cie, appunto.

Nel corso del 2013, quei centri hanno subito un’accelerata decadenza, rivelandosi inefficaci rispetto allo scopo prioritario (appena quattro su dieci dei trattenuti vengono effettivamente espulsi), troppo onerosi e gravemente lesi- vi della dignità umana. Sembra che si vada verso un loro tacito esaurimento (già chiusi o in via di chiusura quelli di Crotone, Bologna, Gradisca, Modena e Milano), che pure non ne annulla l’attuale funzione di abbruttimento della persona e di mortificazione dei suoi diritti.
Esito non migliore ha avuto la cosìdetta Emergenza Nord Africa. Un provvedimento che si è concluso all’inizio del 2013 (28 febbraio) e che ha dimostrato tutta la sua inefficacia.

E il grande spreco di risorse, dal momento che la quasi totalità delle persone accolte ad un costo pro-die procapite di 46euro, anche a causa di disservizi dovuti alla cattiva gestione, non ha ricevuto un trattamento equivalente a quel costo.

Oltretutto, una volta uscite dai centri, quelle persone non hanno potuto andare all’estero in quanto la normativa europea in materia non permette a chi ha già rilasciato le impronte in un Paese, di trasferirsi altrove. Una parte di esse ha trovato occupazione nelle pieghe del nostro mercato del lavoro: dai servizi all’edilizia, dalla mungi- tura alla raccolta dei pomodori. Ed è proprio nel settore agricolo che la presenza di manodopera straniera ha raggiunto il 23%, senza calcolare il dato relativo al lavoro nero.

MORIRE DI FREDDO A ROSARNO

Di questo fenomeno si ha una drammatica percezione per via delle numerose testimonianze che arrivano da luoghi come le campagne del Lazio e della Calabria. È qui, ancora a Rosarno, che il 30 novembre si è consumata l’ennesima tragedia, ovvero la morte causata dal freddo, di un liberiano di trentun anni. Un altro comparto di produzione che ha rivelato tutte le sue contraddizioni è quello del tessile che ha visto la morte di sette lavoratori cinesi all’interno di un laboratorio clan- destino di Prato (2 dicembre). Si tratta di una problematica decisamente particolare, dove i tratti propri dell’immigrazione e le relative criticità si sovrappongono a un sotto-sistema economico illegale, parallelo a quello legale e intrecciato a quest’ultimo. E dove l’immigrazione si inserisce in un ambiente e in strutture di natura «etnica», che la tutelano e allo stesso tempo la sfruttano. Di conseguenza, qui la questione cruciale, più che l’accoglienza, è la legalità, in una duplice direzione: come primato del nostro ordinamento giuridico sull’intero territorio, comprese le sue enclaves non visibili; come contrasto alla tratta, allo sfruttamento e alla riduzione in schiavitù di stranieri da parte di stranieri. Problemi enormi e di ardua soluzione, che vanno ben oltre il fenomeno migratorio classico e quello contemporaneo.

Considerato tutto questo, è possibile fare un primo bilancio di quanto, in materia di immigrazione si è fatto finora e si potrà fare nel tempo residuo dell’attuale legislatura? L’inizio è stato particolarmente vivace: numerosi disegni di legge sulla riforma della cittadinanza sempre più verso l’introduzione dello ius soli, ma è difficile prevedere se potranno tradursi in una nuova legislazione. Così come è stato importante che la com- missione Giustizia del Senato abbia approvato l’abrogazione del reato di clandestinità anche se i promotori dell’iniziativa (il Movimento 5 Stelle), rimbrottati e messi in castigo dai loro leader, so- no impegnati in una precipitosa marcia indietro. Vedremo.

Il 19 dicembre, il Consiglio dei ministri approva il rilascio del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo anche ai beneficiari di protezione internazionale (rifugiati e titolari di protezione sussidiaria), favorendo il loro movimento all’interno dell’Unione Europea.

È questa – piccola e pur significativa -, l’eredità che il 2013 lascia all’anno che viene. Il paradosso di un anno funestato da tragedie, immagini sconvolgenti di grandi disastri umanitari e di quotidiane ingiustizie, ma che rivela – se non altro – nei discorsi pubblici una maggiore consapevolezza dell’insostenibilità delle attuali normative in materia di accoglienza, protezione umanitaria e pro- cessi di integrazione. I morti di Lampedusa, e anche i sopravvissuti, le condizioni dei Cie, ma anche le intimidazioni nei confronti della ministra Kyenge, sono lì a ricordare quanto ci sia ancora da fare.

L’Unità 03.01.14