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"Il confine fra legami e libertà", di Mariella Gramaglia

Non paia un partito preso ingeneroso verso il governo. È solo semplice e cruda realtà. Il decreto legge presentato in Parlamento in agosto e convertito in legge il 15 ottobre 2013 non ha, per ora, sortito l’effetto di ridurre, o quanto meno di contenere, il femminicidio. Le fonti su cui si basa La Stampa ci dicono che siamo passati da 93 femminicidi nel 2012 a 103 nel 2013. La casa delle donne di Bologna, che usa lo stesso metodo di ricerca, basato sulle notizie di giornale e sui lanci di agenzia, dichiara invece 130 casi nel 2013. La differenza è dovuta alla definizione: «per femminicidio si intende un assassinio – precisa la Crusca – in cui l’uccisore è un uomo e il motivo per cui la donna è uccisa nasce dal fatto di essere donna». Così alcuni calcolano come «borderline» i casi legati a rapine o a follia dei figli, altri no. Il dibattito, non essendoci fonti pubbliche attendibili come nel caso dell’interruzione di gravidanza, è completamente aperto.

In teoria, dall’anno prossimo tutto cambia: stando alla legge, il ministero dell’Interno «elabora ogni anno un’analisi criminologica della violenza di genere» e la ministra della pari opportunità, entra il 30 giugno, relaziona sull’utilizzo delle risorse stanziate (modestissime: dai sette ai dieci milioni all’anno) per i centri anti violenza.

«Il più sicuro, ma il più difficile mezzo per prevenire i delitti é perfezionare l’educazione»: studiavamo così da ragazzi sui testi degli illuministi. Il mezzo, proprio perché è difficile, è passato di moda: non fa notizia, non infiamma, non produce consenso. Mentre una legge come questa, basata per i quattro quinti sul diritto penale, sull’esemplarità e sulla deterrenza, lì per lì fa rumore. Ma, se inefficace, facilmente finisce in quel coacervo di sfiducia che ormai separa cittadine e cittadini dallo Stato: «parlano, parlano … e non cambia mai nulla». La novità pratica – a parte l’inasprimento delle pene, compreso quello altamente simbolico verso il persecutore legato alla vittima da matrimonio o da rapporto affettivo – è una maggiore libertà ed efficienza di azione per gli agenti di polizia giudiziaria nell’allontanare dalla casa l’uomo violento, nel vietargli di avvicinarsi, nell’informare la vittima di dove si trova il maltrattante, se agli arresti, a piede libero o in un programma sociale di riabilitazione. Le operatrici dei centri anti violenza riconoscono volentieri i meriti di una polizia più sensibile. Con il tempo, speriamo, ne vedremo i frutti.

Intanto la distribuzione spaziale e temporale dei delitti fa riflettere. Pi ù Nord che Sud, più megalopoli (Milano e Napoli in particolare) che piccoli centri, meravigliosa quiete in Basilicata e nel Nord della Sardegna. E’ finito il tempo del clan, degli zii e dei fratelli che puniscono la reproba ( sono questi la maggior parte dei femminicidi in Afghanistan e Pakistan) ed è in crescita lo strazio postmoderno dell’amore-non amore, che non sa riconoscere i confini fra legami e libertà. Quel misterioso mese di settembre, quando i delitti aumentano, di cosa è il segno? Di separazioni mal sopportate, di nuovi inizi di lavoro e di cura, sempre più faticosi e frustranti mentre la crisi fa il suo giro?

Forse. Molto ancora c’è da capire e studiare se si pensa a una riforma sociale e morale. Spiace che anche papa Francesco, nell’impostare le 38 domande da discutere nelle parrocchie in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia del 2014, abbia pensato a tutto, dai divorziati alle coppie gay, ma non alla violenza sulle donne. Non è per delegare. E’ che la società civile laica è così stanca e rinsecchita che forse uno stimolo dalla comunità cristiana non le avrebbe fatto male.

La Stampa 03.01.14

Sorpresa, più laureati che matricole l’università celebra il sorpasso “È la prima volta dal dopoguerra”, di Salvo Intravaia

Più laureati che matricole. Il sorpasso appena avvenuto nell’università italiana è storico e dimostra l’efficienza dei nostri atenei, anche se il Belpaese resta in coda alla classifica internazionale per giovani laureati. Anzi, retrocede di qualche posizione rispetto al 2000. Ma secondo i dati forniti dall’Anagrafe degli studenti del Miur — il mastodontico ministero guidato da Maria Chiara Carrozza — e confermati dall’Istat, per la prima volta dal dopoguerra il numero di laureati sfornati dal nostro sistema universitario supera le new entry dello stesso anno accademico.
Nel 2011/2012, a fronte di 280.164 nuovi ingressi si sono registrati infatti 291.688 laureati. Un dato che, dopo la raffica di tagli imposti dalla riforma Gelmini e le innumerevoli proteste degli ultimi anni, fa ben sperare. Nel 2010/2011 le matricole superavano ancora di seimila unità i laureati.
Atenei più efficienti o semplice calo degli immatricolati? Forse tutti e due gli effetti. Perché se è vero che in cinque anni le immatricolazioni sono diminuite di 50mila unità è anche vero che i laureati — complice la riforma del 3+2 entrata in vigore nel 2000/2001 — in meno di tre lustri sono quasi raddoppiati. Luigi Berlinguer, ministro dell’Istruzione proprio quando il primo governo D’Alema varava la riforma, non riesce a nascondere la soddisfazione. «Le statistiche stanno sconfiggendo i soldati di sventura che difendevano il passato», dice Berlinguer. L’ex inquilino di viale Trastevere ricorda che fare passare la rivoluzione del 3+2 non è stato facile. «La riforma — continua — è passata nonostante una buona parte del mondo accademico fosse contrario. Ma chi difendeva il vecchio sistema difendeva l’enorme sacca di dropout che in quel momento produceva l’università » . Nel 1997/1998 a fronte di 320mila immatricolati gli atenei italiani riuscivano a laureare appena 140 giovani. «Quella nostra è stata la prima riforma dell’università che ha articolato i livelli di studio. Un sistema inventato dagli anglosassoni e che paga perché la società chiede questo. Questa nuova articolazione — conclude Berlinguer — si confà all’Europa contribuendo anche a creare un sistema universitario europeo». «Dal dopoguerra ad oggi — spiega Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori — la popolazione studentesca è cresciuta di circa sei volte, è quindi normale che all’inizio gli ingressi all’università fossero di gran lunga superiori alle uscite. Adesso siamo arrivati a regime». Per Paleari sono tre i fattori che hanno contribuito al sorpasso. «La riforma del 3 più 2, il calo che purtroppo ha interessato gli immatricolati negli ultimi anni e le politiche universitarie che hanno indotto gli studenti a laurearsi prima, evitando di sostare inutilmente all’università. Penso — dice il presidente della Crui — alle politiche sulle contribuzioni: i fuori corso pagano tasse più alte di coloro che sono in regola».
Ma, nonostante il sorpasso, siamo ancora in coda alla classica europea per numero di laureati. In Italia, la quota di 30/34enni in possesso di un diploma di laurea è del 21,7 per cento, contro una media Ue a 28 paesi del 35,7 per cento. Nel 2012, secondo Eurostat, il nostro Paese occupava il penultimo posto, seguito soltanto dalla Turchia. Nel 2000, ci seguivano anche la Romania, il Portogallo, la repubblica Slovacca e Malta, che in pochi anni ci hanno superato. Secondo Paleari, “occorre avviare una riflessione di sistema per vedere quali sono i colli di bottiglia”. «Quando si fa fatica a modificare i dati vuol dire che occorre intervenire sui fattori strutturali, anche dell’economia di questo paese». Ma gli studenti non sono d’accordo. «Il vero dato eclatante è il gigantesco crollo delle iscrizioni — meno 20 per cento in dieci anni — che la dice lunga sulla fallimentare attuazione italiana del sistema 3+2», replica Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Unione degli universitari, «tanto più che nel conteggio di questi immatricolati non sono conteggiati i 100mila iscritti per la prima volta ai corsi di laurea magistrali biennali. Il giudizio politico — conclude Scuccimarra — sullo stato e la gestione dell’università italiana si può riassumere nel tasso di passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università, che dal 66,3 per cento del 2007 è passato al 58,2 per cento del 2012: il vero volto di un paese che sta rinunciando a basare il proprio sviluppo sulla conoscenza e sull’innovazione».

La Repubblica 03.01.13

"La vera rivoluzione è nelle riforme possibili", di Stefano Folli

Chi di “web” ferisce, di “web” perisce. E le regole della società mediatica sono spesso crudeli per coloro che credono di maneggiarle in esclusiva. Dopo i reiterati inviti al boicottaggio, il messaggio di San Silvestro del capo dello Stato ha ottenuto un indice di ascolto mai così alto. Segno che gli italiani avevano bisogno di sentire la voce delle istituzioni, mentre non erano altrettanto interessati ad assecondare certe iniziative goliardiche. È una piccola lezione per l’opposizione anti-sistema, chiamiamola così: quel variegato mondo che in Grillo ha ormai il suo vero punto di riferimento, ma raccoglie in ordine sparso anche berlusconiani intransigenti e leghisti. Una singolare coalizione che si è data come missione la definitiva messa in crisi delle istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica, ma che l’altra sera ha subito una sconfitta piuttosto evidente. Napolitano ha trovato il tono giusto per parlare agli italiani, riconoscendo loro doti di coraggio, tenacia e sopportazione che costituiscono la vera carta su cui investire per risalire dall’abisso. Il presidente ha indicato un percorso privo di scorciatoie, ma di cui s’intravede l’approdo se le forze politiche si dimostreranno per una volta all’altezza delle loro responsabilità verso la comunità nazionale. Viceversa gli assedianti, coloro che puntavano al boicottaggio e perseguono solo la destabilizzazione, hanno da proporre poco o nulla. Un caos creativo, si potrebbe dire, una sorta di “tutti a casa” senza che nessuno senta il dovere di indicare in concreto cosa accadrebbe dopo alla società, all’economia, forse anche alla democrazia.
Sta di fatto che prima di arrendersi c’è da esplorare fino in fondo la strada delle riforme. Questo ha voluto dire il capo dello Stato nel momento in cui ha respinto con determinazione le manovre di chi tenta di intimidirlo. E quell’accenno, peraltro non nuovo, alla volontà di non restare a lungo al Quirinale non è un atto di debolezza, bensì un modo per rigettare con più forza le pressioni, sollecitando al tempo stesso i partiti ad agire. Perché questo era l’impegno assunto dal Parlamento quando, otto mesi fa, rielesse un recalcitrante Napolitano.

Il sottinteso di quel passaggio eccezionale era che si sarebbe subito avviato il progetto riformatore. Così non è stato. E ora è rimasto poco tempo per mettere da parte la rissosità inconcludente e porre mano al rinnovamento delle istituzioni. Si tratta semplicemente di “avviarlo”, tale processo, cioè definirlo nelle sue linee guida, insieme al varo di una decente legge elettorale.
Anche sotto questo profilo il discorso di Napolitano è apparso innovativo. Non è un caso che Matteo Renzi ci abbia letto un sostegno alla sua linea riformatrice. Vedremo nei prossimi giorni. Non ci sarà da attendere molto, visto che il primo e cruciale impegno nel nuovo anno sarà proprio il tentativo di mettere a punto un nuovo (e si spera non solo retorico) patto di programma all’interno della coalizione guidata da Letta. Un altro anno perso sarebbe davvero troppo: un lusso che come italiani non possiamo più permetterci. D’altra parte, è difficile credere che in dodici mesi colmeremo tutti i ritardi e completeremo un percorso di rinascita politica e istituzionale che di fatto non è nemmeno cominciato. Quello che conta è fare i primi passi, dare all’opinione pubblica il senso di una svolta, di un reale cambiamento. Ne deriva che la riscrittura del patto di governo non pu ò essere solo uno stanco rituale politico, come è accaduto troppe volte in passato. Questa volta dovrà offrire risultati concreti sul piano degli impegni economici e istituzionali, risultati che siano percepibili dall’opinione pubblica in tempi brevi. È il terreno su cui saranno messi alla prova sia Letta sia Renzi. Entrambi chiusi nel “cliché” degli irriducibili rivali, ma in realtà legati da un interesse convergente. Il primo, il premier, ha l’occasione di compiere il salto di qualità indispensabile per restituire agli italiani quella speranza che il suo governo non sempre ha saputo alimentare. Il secondo, il giovane neo segretario del Pd, ha l’opportunità di dimostrare la sua stoffa di uomo politico, se non ancora di statista.
È quasi stucchevole ripetere che le riforme, sempre invocate e mai attuate, sono la priorità assoluta dell’anno che si apre. Le riforme, non una corsa al buio verso elezioni anticipate che al momento non si sa nemmeno con quale modello legislativo dovrebbero svolgersi. In fondo la contesa del 2014 è fra un riformismo concreto, capace di trasmettere al Paese qualche certezza e chi il sistema vuole abbatterlo. Renzi sembra schierato senza esitazioni (certo, con il suo carattere impetuoso e non esente da errori) dalla parte dei riformisti. Non è poco. Oggi c’è la possibilità di restituire alla politica la sua identità qualificante: ossia la capacità di decidere, di compiere scelte di fondo. In un Paese paralizzato quasi ad ogni livello questa sarebbe la vera rivoluzione dell’anno appena iniziato.

Il Sole 24 Ore 02.01.13

"Ripartire dal coraggio dell'industria che innova", di Marco Fortis

Tra i temi economici toccati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel tradizionale discorso di fine anno agli italiani spicca il suo autorevole riconoscimento alla vitalità con cui molti settori produttivi della nostra industria hanno saputo reagire alla crisi con l’innovazione e l’export. Un processo che parte da lontano, già dagli inizi degli anni Duemila, quando l’Italia ha dovuto rapidamente cambiare la sua specializzazione dovendo fare i conti col mutato scenario competitivo imposto dall’avvio dell’euro e dalla fine delle svalutazioni competitive, dalla globalizzazione e dalla prepotente ascesa dei Paesi emergenti in diversi settori di base. Un processo che da allora è proseguito costantemente e non si è interrotto nemmeno durante l’attuale recessione. Il peso dei settori tradizionali dei beni per la persona e la casa nell’export italiano, pur restando importantissimo (così come il ruolo di tali settori nelle fasce di più alto valore aggiunto in cui restiamo leader) è diminuito in termini relativi, mentre è straordinariamente aumentato quello di altri comparti che ci hanno resi più moderni e vincenti.
I settori manifatturieri italiani che negli ultimi 12 anni di più sono emersi nel nostro interscambio con l’estero possono essere ricondotti ai seguenti, che chiameremo qui, per semplicità, le Nuove specializzazioni italiane (Nsi): innanzitutto l’automazione-meccanica (macchinari e apparecchi non elettrici ed elettrici, più i mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli), poi i metalli e i prodotti in metallo, gli articoli in gomma e plastica ed anche la stessa raffinazione-chimica-farmaceutica, che, pur in leggero deficit, ha aumentato il suo export in misura assai superiore all’import conquistando nuove nicchie nelle specialità.
La prova più evidente di questo cambiamento nella specializzazione internazionale dell’industria italiana è che nel 2012, su circa 105 miliardi di surplus manifatturiero del nostro Paese, escluse auto ed elettronica (comparti tradizionalmente deficitari), le Nsi rappresentavano ormai il 71% del totale, mentre nel 2000 il loro peso era pari solo al 41 per cento.

Straordinario è stato l’aumento del surplus della sola voce macchine ed apparecchi non elettrici, che era di 22 miliardi nel 2000 ed è salito a 48 miliardi nel 2012. In questo settore ormai l’Italia vanta il più alto attivo con l’estero al mondo dopo i giganti Germania e Giappone.
Non è dunque per mancanza di competitività sui mercati che l’Italia non cresce, come dimostrano i successi delle Nsi, bensì a causa del declino progressivo del potere d’acquisto delle famiglie e più recentemente del crollo della domanda interna. Né vi possono essere dubbi sul fatto che l’Italia, nonostante tutti i suoi problemi, abbia grandi mezzi sul piano dell’apparato produttivo che, se ben indirizzati, possono permetterle di uscire gradualmente dalla crisi. Si tratta di valorizzare tali mezzi con opportune politiche economiche che riducano l’opprimente peso delle incrostazioni statal-burocratiche nell’economia e liberino risorse anche per la crescita della domanda interna e dei servizi, mettendo le imprese nelle condizioni di poter finalmente esprimere tutto il loro potenziale. A cominciare da quello dell’industria manifatturiera che – come ha ricordato il Capo dello Stato – «ha reagito col coraggio dell’innovazione». Una parte di tale industria si è affermata «in nuove specializzazioni» ed ha «così guadagnato competitività nelle esportazioni, ed esibito eccellenze tecnologiche, come dimostrano i non pochi primati della nostra manifattura nelle classifiche mondiali».
Questa industria così vitale e reattiva, al pari dei «semplici cittadini» che hanno sopportato con rispettosa dignità le nuove tasse e i duri sacrifici della crisi, merita anch’essa «rispetto», come ha sottolineato il direttore del Sole 24 Ore nel suo editoriale del 24 dicembre scorso. È un capitalismo silente e laborioso, di cui essere fieri, ben diverso da quello delle rendite facili e delle commistioni con la politica e le maglie larghe della spesa pubblica. Un capitalismo che ha smentito le “cassandre” del declinismo, che ha cambiato radicalmente la specializzazione italiana nel commercio internazionale e che ha portato il nostro Paese ad avere il maggior numero di piazzamenti dopo la Germania nelle graduatorie Itc-Wto della competitività.
Ma anche altri indicatori statistici, ancor più dettagliati, dimostrano gli immani sforzi fatti in questi anni difficili dalla nostra manifattura per reagire alla crisi, sviluppare nuovi prodotti, conquistare nuove nicchie ed aggredire nuovi mercati. Secondo una analisi di Fondazione Edison, su circa 5.500 prodotti in cui si può suddividere statisticamente il commercio mondiale, l’Italia nel 2011 poteva vantare 1.438 beni in cui era tra i primi 5 Paesi al mondo per attivo commerciale con l’estero (con 235 primi posti, 390 secondi posti, 321 terzi posti, 264 quarti posti e 228 quinti posti), per un controvalore complessivo di tali surplus pari a 221 miliardi di dollari. E, restringendo l’analisi ai soli circa 4.000 beni manifatturieri, l’Italia è, dopo la Cina, il Paese che nel 2011 ha battuto più volte la super-competitiva Germania per surplus con l’estero, in 1.215 prodotti.
Questo capitalismo italiano sano e innovativo, irriducibile e sempre più proiettato internazionalmente, non chiede “aiuti” ma semplicemente meno burocrazia e un programma concreto ed ampiamente condiviso dalle forze politiche e sociali per ridurre su un orizzonte temporale certo le tasse su imprese e lavoratori. Un qualunque Paese “normale” che avesse una manifattura forte come la nostra, con una straordinaria meccanica (che spazia dalle macchine per imballaggio alla rubinetteria, dalle pompe agli scambiatori di calore, dalle macchine per l’industria alla meccatronica), che potesse vantare il dominio mondiale nei beni di lusso per la persona e la casa che noi abbiamo, nonché un importante turismo, beni culturali e artistici di valore inestimabile ed una agricoltura di qualità in prodotti vincenti come il vino, l’olio d’oliva, la frutta e gli ortaggi, tutte cose che l’Italia possiede, da tempo avrebbe già fatto precise scelte di politica economica per rilanciare l’economia su tali basi. Non starebbe ancora a chiedersi in una sterile successione di dibattiti, tentennamenti o rimpalli di responsabilità su che cosa puntare prioritariamente per ritrovare la via della crescita e dell’occupazione. La risposta è una e una sola possibile per chi vuole realmente capire su cosa l’Italia deve investire e scommettere: bisogna puntare sulla manifattura, sull’economia reale del made in Italy e sul suo indotto di servizi. È, questa, l’Italia da “rispettare”, che tutto il mondo ci invidia ma che la nostra classe politica non sa valorizzare.
È «in questo nucleo forte, vincente dell’industria e dei servizi» – per usare le parole del Presidente della Repubblica – che si possono trovare «esempi e impulsi per un più generale rinnovamento e sviluppo della nostra economia, e per un deciso ritorno di fiducia nelle potenzialità del paese».

Il Sole 24 Ore 02.01.13

Muzzarelli: "terremoto e ricerca, il punto di fine anno"

Continua l’attività di ricostruzione nelle aree colpite dal sisma del 2012. Con fondi nazionali di 60 milioni di euro saranno finanziati investimenti produttivi per 705 imprese, mentre sono state assegnate risorse per attività di ricerca e crescono costantemente le cifre della ricostruzione registrate dai sistemi Mude e Sfinge. «Questa è un’accelerazione per la ricostruzione e per sostenere la ripresa. Credo che oggi sia estremamente importante sottolineare che col gioco di squadra che abbiamo messo in campo, Regione e Governo, riusciamo a rispondere ad una grande esigenza dell’economia della nostra regione. L’impegno è mettere al centro il lavoro e costruire ancora opportunità perché l’Emilia-Romagna possa essere un locomotore forte per la nostra ripresa e di quella dell’intero Paese. Queste misure consentono di puntare ad un 2014 con imprese, dall’edilizia al biomedicale, dall’agroalimentare alla meccanica cioè la forza dell’Emilia-Romagna in grado di rimettersi in gioco per puntare a nuova occupazione e nuovo lavoro».

Fondi per investimenti

Grazie a un emendamento approvato nella legge finanziaria del Governo, tramite le risorse destinate al Commissario per la ricostruzione la Regione garantirà investimenti produttivi per 705 imprese dell’area
colpita dal sisma con 60 milioni di euro. Si tratta della seconda tranche di un bando regionale già chiuso e in finanziamento, che nella prima tornata aveva destinato risorse europee per circa 23 milioni di euro di cui sono state destinatarie 187 imprese. Con questa seconda fase di sostegno, che esaurirà le imprese ammesse a finanziamento (in complesso sono 894 che con i complessivi 83 milioni di contributo attiveranno 280 milioni di incestimenti), si stima un impatto nell’area che produrrà oltre 1300 posti di lavoro in aggiunta ai circa 300 già scaturiti con la prima fase Destinatarie le piccole e medie imprese di tutti i settori, escluse quelle che operano nella lavorazione e prima commercializzazione di prodotti agricoli. Le tipologie d’investimento oggetto di concessione di contributi riguardano gli investimenti per ampliamenti della capacità produttiva, nuove localizzazioni produttive, riqualificazione degli spazi dedicati alla produzione e commercializzazione, innovazione e ammodernamento tecnologico dei prodotti o processi produttivi, compreso il miglioramento dell’efficienza energetica o ambientale.

Sostegno alla ricerca

Sono state assegnate risorse per attività di ricerca destinata alle aree del sisma. Le proposte approvate sono tre. La più rilevante riguarda un programma di ricerca per l’avvio del Tecnopolo – laboratorio sui materiali innovativi per il biomedicale – che si insedierà a Mirandola nell’infrastruttura provvisoria localizzata all’interno del polo scolastico dove sono ospitati gli Istituti Galilei e Luosi. L’iniziativa, promossa e coordinata da Democenter, prevede oltre all’installazione di attrezzature tecnico scientifiche, l’impiego di 20 ricercatori a tempo pieno che opereranno sotto il coordinamento scientifico dell’Università di Modena e Reggio Emilia, in collaborazione con altri laboratori della rete e con due unità ospedaliere (Modena e Sant’Orsola Bologna). Il contributo riconosciuto è pari a 3 milioni e 825 mila euro, a fronte di 4 milioni e 250 mila euro di spesa prevista. Le altre due proposte ammesse integrano programmi di ricerca della piattaforma edilizia e costruzioni e riguardano attività di ricerca sperimentale relativa alle tecnologie anti-sismiche applicabili nei processi di ricostruzione, sia in ambito industriale che civile e delle infrastrutture. E’ previsto il coinvolgimento di 12 ricercatori e la sperimentazione dei risultati entro giugno 2015. Il contributo previsto per ciascuna delle due iniziative, promosse rispettivamente dal Centro Interdipartimentale dell’Università di Bologna e dalConsorzio Ricos con sede a Bologna, è pari a 405 mila euro a fronte di una spesa prevista pari a 450 mila euro.

Mude e Sfinge

Sono 2.270 le ordinanze emesse presso gli istituti bancari per il pagamento dei contributi per la riparazione delle abitazioni: le ordinanze hanno raggiunto un importo di circa 294 milioni di euro: le unità abitative coinvolte nelle pratiche accettate ammontano a quasi 10 mila, per un totale di oltre 15 mila abitanti interessati. Per quanto riguarda le imprese le richieste di contributo, registrate dal sistema telematico Sfinge, sono 729, equivalenti a 679,4 milioni di euro. Ben 260 sono i decreti di concessione del contributo approvati (per 124,5 milioni euro, di cui 43 milioni in liquidazione). Le richieste sul fondo Inail (prima e seconda finestra di domande), riguardanti le imprese che abbiano carenze strutturali nei capannoni e per le quali occorra intervenire per aumentarne la sicurezza, sono oggi 461 per un ammontare complessivo di 22,5 milioni di euro.

http://www.giancarlomuzzarelli.blogspot.it/

Renzi: «Non c’è tempo da perdere: le nostre proposte su legge elettorale e riforme», da corriere.it

Pronti, via. Anno nuovo, si riparte. Matteo Renzi , neosegretario Pd, non perde tempo e comincia il 2014 proponendo alle altre forze politiche le opzioni su cui il Partito democratico sarebbe disponibili a trovare un accordo in materia di legge elettorale e riforme istituzionali. Renzi chiede «un accordo serio, istituzionale, su tre punti: legge elettorale, riforma del bicameralismo e una riforma del titolo V».
La riforma del titolo V consiste nell’abolizione del Senato e la sua sostituzione con la Camera delle autonomie la modifica di alcuni poteri delle Regioni da riportate allo Stato.

LEGGE ELETTORALE – Sulla legge elettorale «rinunciamo a formulare la nostra proposta ma offriamo diversi modelli alle forze politiche che siedono insieme a noi in Parlamento» scrive sul suo sito lo stesso Renzi nella prima enews dell’anno, elencando tre modelli: quelli della legge elettorale spagnola; della legge Mattarella rivisitata; e del doppio turno di coalizione dei sindaci.

DIRITTI CIVILI – Nel patto di coalizione , spiega ancora Renzi, il Pd chiederà inoltre «che ci sia un capitolo Diritti Civili» con le modifiche alla Bossi Fini, le unioni civili per persone dello stesso sesso, la legge sulla cooperazione internazionale, i provvedimenti per le famiglie e una disciplina più efficace delle adozioni». Altre proposte arrivano da Renzi anche in materia di riforma della Costituzione.

ORA O MAI PIU – Il segretario del Pd twitta: «Nonci sono più alibi». E linka la enews in cui tra le altre cose si legge: «Il mandato delle primarie dell’8 dicembre è fortissimo e non accetta compromessi: subito una legge elettorale seria, riforma della politica con tagli per un miliardo di euro, provvedimenti immediati sul lavoro perché torni un briciolo di speranza nel futuro dell’Italia. Bene, allora tiriamo giù le carte». APPELLO AI PARTITI – «Pronti a cambiare verso alla politica italiana, rimpicciolita nelle proprie ambizioni da anni di pigrizia e conservazione» scrive il segretario del Pd nella enews nella quale ha allegato anche una lettera da lui scritta ai partiti con le proposte di riforma elettorale. «Da noi i cittadini oggi esigono rapidità di decisione e chiarezza delle posizioni. Oggi, primo giorno lavorativo del 2014, dobbiamo dimostrare di aver chiaro che non possiamo perdere neanche un secondo» aggiunge Renzi nella lettera ai partiti.

JOB ACT – «La direzione del Pd sarà convocata per il 16 gennaio. In quella sede mostreremo anche come vogliamo procedere per il Jobs Act che è un documento molto più articolato di quello che si è letto fino ad oggi».

Ecco il testo della e-news:

« Sulla politica nazionale, penso che sia inutile aspettare le stanche liturgie di sempre, i tavoli, le riunioni di coalizione. Credo sia maturo il tempo di lanciare in modo chiaro e trasparente le nostre proposte perché le altre forze politiche ci dicano la loro. Qualcuno mi ha detto “Scusa Matteo, ti abbiamo votato l’8 dicembre e non hai ancora abolito il Senato e nemmeno hai cambiato la legge elettorale”. Hanno ragione loro. Perché il mandato delle primarie dell’8 dicembre è fortissimo e non accetta compromessi: subito una legge elettorale seria, riforma della politica con tagli per un miliardo di euro, provvedimenti immediati sul lavoro perché torni un briciolo di speranza nel futuro dell’Italia. Bene, allora tiriamo giù le carte. Mi hanno detto: “Matteo almeno aspetta il ponte. Fino all’Epifania stai fermo”. Non scherziamo! Sono vent’anni che la classe politica sta facendo il ponte. Partiamo dai.

Ho scritto oggi a tutti i leaders degli altri partiti. Per fare le riforme il PD è decisivo, senza il PD non si fanno. Ma il PD da solo non basta. Le riforme non si realizzano da soli, come la moda di oggi di farsi da soli le foto con il telefonino: la riforma selfie non esiste. E meglio così, perché le regole si scrivono insieme. Quando si fanno le riforme si chiamano tutti gli altri partiti. Poi se uno non ci vuol stare, lo dice. Ma senza troppi giri di parole. E lo dice davanti all’opinione pubblica. Nella lettera – che vi allego in anteprima, fedele al rapporto particolare che ci lega ormai da 380 enews – propongo tre possibili soluzioni alle altre forze politiche sulla legge elettorale. Togliamo gli alibi agli altri: sono tre soluzioni molto diverse l’una dall’altra ma tutte e tre con la fondamentale caratteristica di rispettare il mandato delle primarie dell’8 dicembre che costituisce il riferimento fondamentale mio e del PD. Doppio turno come i sindaci, modello spagnolo con premio di maggioranza e circoscrizioni piccole, rivisitazione della legge Mattarella con premio di maggioranza al posto del recupero proporzionale. Vediamo gli altri se ci stanno o vogliono solo perdere tempo, noi su una delle tre siamo pronti a chiudere. Perché tutte e tre garantiscono governabilità. Alternanza. Chiarezza. Sono tutte comprensibili da chiunque. Sono chiare e restituiscono fiducia nella politica. La settimana prossima il PD sarà a totale disposizione dei singoli partiti per incontri bilaterali che aiutino a precisare, approfondire, modificare la proposta migliore. Poi, la settimana che inizia il 14 gennaio la Commissione Affari Costituzionali della Camera entra nel vivo. E per regolamento ha pochissimo tempo per decidere. Dunque, se vogliamo fare le cose sul serio, eccoci. In quindici giorni la politica può recuperare la faccia che ha perso in questi anni. In questi giorni ho fatto una chiacchierata con Federico Geremicca (su La Stampa del 29 dicembre) e una con Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano di oggi. Ho chiesto al Presidente dei Senatori del PD, Luigi Zanda, di incontrare i senatori il prossimo 14 gennaio così ci parliamo in faccia, senza troppi giri di parole, circa la necessaria trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie e quindi la cancellazione di incarichi elettivi e retribuiti in Senato. E la Direzione del PD sarà convocata per il 16 gennaio. In quella sede mostreremo anche come vogliamo procedere per il Jobs Act che è un documento molto più articolato di quello che si è letto fino ad oggi. Votandomi, mi avete chiesto di dare una bella spinta, accelerata, alla politica italiana. Ci provo. Se mi date una mano, anche semplicemente dicendomi cosa ne pensate, mi fate felice. L’email come sempre è matteo@matteorenzi.it. Pensierino della Sera. Ieri ha preso servizio il nuovo sindaco di New York City, Bill De Blasio. Premessa: io credo che Bloomberg sia stato un grande sindaco e negarlo sinceramente richiede un atto di coraggio. De Blasio ha dalla sua una straordinaria spinta ideale e passionale. Ieri ha detto una frase che mi è piaciuta molto: Non vogliamo punire il successo, ma creare più storie di successo. Per me questa definizione è fantastica. Perché dice della differenza tra una sinistra rancorosa e perdente e una sinistra delle pari opportunità e del merito. Good Luck, Mister Mayor! Il mio migliore augurio per un 2014 entusiasmante».

Questa è la lettera che ho inviato ai partiti:

Gentilissimi, nei giorni scorsi quasi tre milioni di italiani mi hanno affidato l’incarico di guidare il Partito Democratico attraverso le primarie. Si tratta di una responsabilità molto bella che cercherò di adempiere con il massimo della dedizione, del coraggio, della fantasia. Non credo di esagerare quando dico che il voto delle primarie è un messaggio per tutta la classe dirigente, non solo per noi. Il 2013 che si è appena chiuso è stato un anno terribile per la politica. Il passaggio elettorale non ha prodotto un vincitore certo, la coalizione di maggioranza si è assottigliata prima di procedere a riforme significative, forte è il clima di disgusto dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti. Le primarie hanno impegnato il mio partito, il PD, primo partito nel voto del 2013 e in termini di rappresentanza parlamentare a prendere l’iniziativa, in modo rapido e chiaro. E credo giusto farlo senza tattiche e secondi fini. Da noi i cittadini oggi esigono rapidità d decisione e chiarezza delle posizioni. Oggi, primo giorno lavorativo del 2014, dobbiamo dimostrare di aver chiaro che non possiamo perdere neanche un secondo. Il mio Partito chiede alle forze politiche che siedono in Parlamento, a tutte e ciascuna, di uscire dalla tattica e provare a chiudere un accordo serio, istituzionale, su tre punti. 1) Una legge elettorale che sia maggioritaria, che garantisca la stabilità e l’alternanza, che eviti il rischio di nuove larghe intese. 2) Una riforma del bicameralismo con la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie Locali e la cancellazione di ogni indennità per i senatori che non vengono più eletti ma diventano tali sulla base dei loro ruoli nei Comuni e nelle Regioni. 3) Una riforma del titolo V che semplifichi il quadro costituzionale e istituzionale, che restituisca allo Stato alcune competenze oggi in mano alle Regioni (per esempio l’energia) e che riduca il numero e le indennità dei consiglieri regionali al livello di quello che guadagna il sindaco della città capoluogo. Per essere ancora più stringenti e rispettare la tempistica che ci viene dal Regolamento della Camera, dove la Commissione Affari Costituzionali sta esaminando la legge elettorale, il PD fa un ulteriore passo in avanti. Pur consapevoli del ruolo di partito di maggioranza relativa, rinunciamo a formulare la nostra proposta ma offriamo diversi modelli alle forze politiche che siedono insieme a noi in Parlamento, convinti come siamo che ciascuna di queste tre proposte rispecchi il mandato assegnatoci dagli elettori delle primarie. Pur essendo il primo partito non imponiamo le nostre idee, ma siamo pronti a chiudere su un modello tra quelli qui sommariamente esposti. I. Riforma sul modello della legge elettorale spagnola. Divisione del territorio in 118 piccole circoscrizioni con attribuzione alla lista vincente di un premio di maggioranza del 15% (92 seggi). Ciascuna circoscrizione elegge un minimo di quattro e un massimo di cinque deputati. Soglia di sbarramento al 5% II. Riforma sul modello della legge Mattarella rivisitata. 475 collegi uninominali e assegnazione del 25% dei collegi restanti attraverso l’attribuzione di un premio di maggioranza del 15% e di un diritto di tribuna pari al 10% del totale dei collegi III. Riforma sul modello del doppio turno di coalizione dei sindaci. Chi vince prende il 60% dei seggi e i restanti sono divisi proporzionalmente tra i perdenti. Possibile sia un sistema con liste corte bloccate, con preferenze, o con collegi. Soglia di sbarramento al 5% Il PD è pronto a recepire suggerimenti, stimoli, critiche su ciascuna di queste tre proposte. Ma chiediamo certezza dei tempi e trasparenza nel percorso: la politica non può più fare passi falsi. Nella prossima settimana sarà nostra cura chiedere

appuntamenti bilaterali a chi di voi sarà disponibile a incontrarsi. L’obiettivo sarà capire in modo semplice e trasparente se esiste la possibilità di chiudere rapidamente un accordo istituzionale. Non servono molti giri di parole: volendo, in qualche ora si chiude tutto. Volendo, però. E il PD dimostra di volerlo nel momento in cui non si attesta su una sola posizione secca, prendere o lasciare, che sarebbe irrispettosa delle altre forze politiche, ma apre a più possibilità chiedendo solo di non perdere neanche un minuto. Vi auguro un 2014 migliore del 2013. Per voi, per le vostre famiglie, certo. Ma anche per il nostro Paese. Nel rispetto dei diversi ruoli, abbiamo una straordinaria responsabilità: un accordo alla luce del sole, il più rapido e vasto possibile, sulla legge elettorale sarebbe un segnale semplice ma chiaro che iniziamo l’anno nel migliore dei modi. Perché prima dei destini personali e dei rispettivi partiti, viene l’Italia e vengono gli Italiani. Il PD è pronto ad accettare la sfida. Un saluto cordiale Matteo Renzi

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Renzi: “Caro Beppe, insieme faremmo grandi cose”
Intervista a Matteo Renzi di Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Matteo Renzi ci prova sul serio: un`alleanza con il Movimento Cinque Stelle, non per il governo, ma per singoli provvedimenti, cominciando da una drastica riforma del Senato, “si può risparmiare un miliardo di euro, se i senatori Cinque Stelle sono d`accordo lo facciamo domani”. Notte di Capodanno in piazza Stazione a Firenze, sul palco con Max Pezzali, ex 883, poi giornata in famiglia, qualche partita alla Play Station e un po` di corsa. Il 2014 politico di Renzi comincia con una proposta a Grillo e una rottura con il governo di Enrico Letta, pensando alle elezioni europee di fine maggio: “Se all`Europa proponi riforme istituzionali e un Jobs Act che attiri investimenti stranieri, è evidente che il vincolo del deficit al 3 per cento del Pil si può sfondare”.

Segretario Renzi, nel suo messaggio di fine anno Napolitano ha detto che rimarrà “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo faranno ritenere necessario”. Pensa che sia il suo ultimo discorso?

«Non credo. Ma deciderà lui, non altri».

Il Capo dello Stato ha accennato alle polemiche sul suo ruolo e l`eccessivo potere dimostrato.

«Difendo il presidente. Quello di San Silvestro è stato un messaggio che invita al coraggio delle riforme e a occuparsi di lavoro e lo condivido: la classe politica dovrebbe pensare a queste cose invece che perdersi in troppe chiacchiere».

Nel suo contro-discorso Beppe Grillo ha detto che è merito dei Cinque Stelle se Berlusconi non è più senatore, grazie al voto palese, se non è passata la riforma dell`articolo 138 della Costituzione e se sono scesi i costi della politica. É così?

«Mi piacerebbe dirle che è vero, ma non è così. Il Movimento Cinque Stelle da solo non fa nulla. Il voto palese è stata decisione del Pd e determinante è risultato il voto della senatrice Linda Lanzillotta che non mi pare grillina. La riforma del 138 è saltata quando ha cambiato idea Berlusconi, dopo che è uscito dal governo, lo sanno tutti. E sui costi della politica, Grillo ha rinunciato alla propria quota di finanziamento, per circa 40 milioni di euro, ma sul voto che, bloccando le Province, porta a un risparmio come minimo dieci volte più grande, non solo i Cinque Stelle sono stati contrari ma addirittura hanno fatto ostruzionismo agli ordini del compagno Brunetta. Com`è possibile che i ragazzi del Cinque stelle escano dall`Aula quando si vota l`abolizione delle Province? Se Grillo elencando i propri meriti deve dire queste falsità, significa che dentro il Movimento c`è un problema e che ci stiamo perdendo anche lui…».

Quindi i Cinque Stelle si prendono meriti non loro?

«Grillo da solo non può far niente, perché mancano i numeri. Non è colpa sua, è la politica. Alcune battaglie – anche sacrosante – del M5S possono essere portate a termine solo se i cittadini pentastellati fanno accordi. Limitati, circoscritti, in streaming, dal notaio, in piazza, al bar, come vogliono: ma accordi. Da soli si fa testimonianza, ma non si cambia l`Italia. Senza accordi non solo non combina nulla, ma per giustificare i tre milioni di euro al mese che costano i suoi parlamentari, Grillo è costretto a inseguire le scelte di Brunetta o della Lanzillotta. Per i parlamentari Cinque Stelle il 2014 sarà l`anno chiave, quello in cui devono decidere se cambiare forma mentis: ci sono quelli che credono alle scie chimiche e ai microchip nel cervello, e questi fanno ridere, ma sta anche nascendo un gruppo dirigente molto interessante. Se però si limitano a protestare, il massimo che possono fare è rinunciare al finanziamento pubblico per 42 milioni. Un atto di grande efficacia mediatica, ma per l`appunto soltanto 42 milioni…».

Il Pd è pronto a lavorare con il Movimento Cinque Stelle in modo aperto?

«Si sono visti due modi di concepire i Cinque Stelle finora. La vecchia guarda dei nostri li ha trattati come dei parvenu della politica, quasi incapaci di intendere e di volere. Io non la penso così e condivido ciò che ha scritto Marco Travaglio: molti di loro stanno imparando il mestiere. Su alcuni temi hanno fatto cose giuste, sul Milleproroghe, sugli affitti d`oro della Camera. Ma le loro posizioni sono passate solo perché qualcuno del Pd ha deciso che bisognava andare in quella direzione, in altri casi l`iniziativa è stata nostra, come per bloccare l`emendamento sulle slot machine. Vede che degli accordi seri, trasparenti, alla luce del sole, non si può fare a meno?».

Perché, per dare un segnale a Grillo, non rinuncia spontaneamente ai 45 milioni di euro di finanziamento pubblico che spettano al Pd? Senza proporre uno scambio.

«Grillo dice che questi rimborsi sono illegali. Io dico che sono politicamente un errore. Non escludo che lo faremo. Ma come si fa a definire ricatto quella che è una proposta precisa per ridurre i costi della politica?».

E cosa sta aspettando?

«Dal punto di vista tecnico la due diligence dei conti del partito. Dal punto di vista politico che sia chiaro l`iter della proposta del governo. E posso anticiparle che non ci fermeremo qui. Vogliamo occuparci anche dei contributi ai gruppi parlamentari».

Province a parte, su cosa potete lavorare insieme, Pd e M55?

«La madre di tutte le battaglie è la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie locali. Basterebbe un sì dei senatori Cinque Stelle e cambieremmo la storia italiana. Ma loro nicchiano, chissà perché…».

Il Senato riformato avrebbe membri eletti, e quindi cambierebbe poco rispetto a oggi, o solo rappresentanti degli enti locali come membri di diritto?

«Una parte del Pd e tutto Ncd dicono: non possiamo abolire il Senato, facciamo una elezione di secondo grado. Io la penso diversamente: se sei presidente di una Regione o sindaco, sei automaticamente senatore, senza indennità aggiuntive. E in Senato puoi esprimere il tuo parere solo sulle materie, quelle che riguardano gli enti locali. Finisce il bicameralismo perfetto e macchina burocratica drasticamente semplificata. Non capisco come Grillo possa dire di no: chiedere l`abolizione tout court del Senato è il modo migliore per non ottenere nulla».

Il problema è solo che manca il via libera del capo? I parlamentari M55 sono propensi a collaborare?

«Nessuno gliel`aveva chiesto con questa chiarezza, finora. Vedremo. Anche io ho resistenze interne e incontrerò i nostri senatori il 14 gennaio. Ho però un punto di forza: le primarie non le ho fatte sulle mie cravatte, sul ciuffo di Civati o sullo sguardo di Cuperlo, ma sulla base di linee politiche, e io ho espresso con grande chiarezza questa posizione. Quindi la posizione delle primarie è la posizione di tutto il Pd. Però il Pd da solo, paradossalmente, non ce la fa. Noi facciamo lo stesso appello a tutte le forze politiche, ma quello che mi colpisce di Grillo è che questa palla lui ce l`ha pronta. Come fa a rinunciare?».

E se Grillo rifiuta?

«Dovrei pensare che non riesce a convincere i suoi senatori a firmare una legge che serve a cancellare le loro 60 poltrone».

Nel suo video-messaggio Grillo ha evocato un referendum e la possibile uscita dell`Italia dall`Euro. Ci sono margini di dialogo anche su questo?

«No, in modo categorico. Uscire oggi dall`euro avrebbe ripercussioni decisamente negative sulla vita degli italiani, schizzerebbero i tassi di interesse, sarebbe più difficile lavorare per le imprese, si indebolirebbe ancora la capacità d`acquisto delle famiglie. Sono pronto a una discussione, ma nel merito sono in disaccordo. L`eccesso di tecnocrazia nella gestione dell`euro si risolve non eliminando l`euro, ma riportando la politica a fare il suo mestiere».

Il governo Letta continua a difendere il rigore e il rispetto del vincolo del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil. Lei ha criticato più volte quel parametro. In attesa di riformare i trattati, lei sarebbe disposto a violarlo?

«Se all`Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme Costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento. L`Europa ha bisogno di un`Italia viva».

Quindi possiamo sforare?

«È evidente che si può sforare: si tratta di un vincolo anacronistico che risale a 20 anni fa. Non è l`Europa che ci ha cacciato in questa crisi, ma la mancanza di visione. Lo ha detto bene il Censis: l`emergenza continua è diventata la polizza assicurativa di una classe politica che solo grazie alla crisi, vera o presunta, giustifica il proprio potere. Se c`è una leadership con una visione, non vedo problemi a superare il tetto del deficit, anche se poi va fatta una battaglia per cambiare le regole. Non solo sui conti pubblici».

Pensa alla web tax, per far pagare più imposte alle grandi società che vendono servizi su Internet?

Anche. Tutti devono pagare le tasse, ma le modalità con cui questa battaglia è stata impostata da qualche nostro parlamentare sono un errore. Per come era scritta, la legge non apriva un dibattito, ma una procedura di infrazione europea. E chi lo paga poi il conto?».

Hanno detto che lei ha preso questa linea sotto l`influenza di Google e delle lobby americane.

«Spero che chi lo ha fatto, dopo aver parlato, abbia posato il fiasco».

A proposito di grandi aziende, lei ha denunciato spesso la privatizzazione di Telecom degli anni Novanta, ma non si è mai espresso sull`attuale passaggio di controllo dai soci italiani agli spagnoli di Telefònica.

«Su Telecom e Monte dei Paschi il segretario del Pd sconta il peso di una eredità: in passato su queste vicende chi aveva responsabilità nella sinistra non si è comportato in modo politicamente inappuntabile, per usare un eufemismo. Su Monte Paschi, se fossi stato sindaco di Siena, e quindi di fatto azionista della banca, avrei detto la mia. Il mio silenzio da segretario del Pd non è di chi non ha niente da dire, ma di chi anzi ne avrebbe troppo. Ma tace, per rispetto delle istituzioni preposte a risolvere il problema».

Il governo cosa può o deve fare su Telecom e Monte Paschi?

«Prescindendo dai tecnicismi, un governo ha un potere enorme di moral suasion, che non è banale, indipendentemente dagli appigli legislativi. Nella vicenda Telecom il governo dovrebbe usarlo per chiarire che lo scorporo della rete è una priorità, o che comunque bisogna avere l`assoluta garanzia di investimenti sull`infrastruttura, attraverso i meccanismi più vari. Su questo settore abbiamo perso troppo tempo. E su Mps il governo dovrebbe usare la moral suasion per evitare che i soldi prestati dai contribuenti italiani vengano messi a rischio».

Lei è più d`accordo con il senatore Pd Mucchetti che voleva cambiare la legge sull`Opa per costringere gli spagnoli a pagare qualche miliardo per Telecom o sta con Letta che quella norma l`ha affossata?

«Che la legge sull`Opa vada cambiata è un dato di fatto. Che cambiarla adesso dia l`impressione di un intervento a gamba tesa, prendendo le posizioni di un giocatore contro un altro è altrettanto vero. Non si cambiano le regole in corsa. Ma il governo su Telecom può giocare un ruolo molto più deciso, nel rispetto delle regole, del mercato, degli azionisti. Presenti e futuri».

Nel duro scontro tra il presidente di Mps Profumo e quello della Fondazione, Mansi, lei con chi sta?

«E secondo lei mi schiero in un derby tra banchieri? A me interessa che il denaro dei cittadini italiani sia speso bene e il quadro delle regole, ma non entro nelle vicende gestionali. Posso chiedere di cambiare la legge sulle fondazioni bancarie, ma non sostituirmi a chi ha responsabilità gestionali».

Nel 2014 si apre una stagione di importanti nomine pubbliche in società controllate dal Tesoro, su tutte l`Eni. Se ne occuperà?

«Il Pd non è interessato alla discussione sui nomi. Ma alle strategie aziendali sì. E su questo abbiamo molto da dire, vedrà».

Su cosa si fonda la sua intesa con Maurizio Landini, la Fiom sembra più renziana della Cgil…

«Non è renziano neanche il Pd, figuriamoci la Fiom. Certo, su alcune cose potrebbe esserci condivisione: dalla legge sulla rappresentanza alla presenza di persone elette dai lavoratori nei consigli d`amministrazione. E poi condividiamo un concetto semplice: chi ci ha portati fino a qui, con polemiche ideologiche e scarsi risultati, non è adatto a portarci fuori da qui».

Lei non parla più di pensioni. Si possono chiedere sacrifici a chi beneficia del sistema retributivo?

«Si possono chiedere contributi – non parlerei di sacrifici – a chi usufruisce di una pensione d`oro senza aver versato tutto il corrispettivo. Non perché ciò cambierà il bilancio italiano, ma perché è giusto. Si può, si deve. È un principio di equità sociale, non una punizione divina: se prendi 10 mila euro al mese di pensione e sei andato in pensione a 55 anni con il retributivo, puoi darci una mano così che il tuo contributo lo mettiamo a disposizione di chi non cela fa più? Ma solo per le pensioni d`oro, non per tutte le pensioni retributive».

Tra pochi giorni presenterà il Jobs Act. Ci sarà il contratto unico di inserimento?

«Ci saranno molte cose. Il Jobs Act non è un trattato giuslavoristico, come pensa chi lo ha criticato senza aspettare di leggerlo, ma un documento con alcune cose concrete da fare subito e altre più di prospettiva. Nei prossimi giorni iniziativa sulle riforme, poi presentiamo il Jobs Act. Non c`è molto da aspettare».

Il Fatto Quotidiano 02.01.14

"Femminismo 4.0", di Elena Stancanelli

Inclusivo, cioè aperto anche agli uomini, e collaborativo. Sono queste le due novità del femminismo di ultima generazione, scrive Kira Cochrane sul quotidiano britannico Guardian. Che si interroga sulla sessualizzazione dei messaggi mediatici, la pornografia estetica, l’incremento della violenza sulla donne. La cosiddetta “cultura dello stupro”, spiegata con precisione in un bel saggio uscito un paio di anni fa, Bambole viventi, di Natasha Walter.
Questo femminismo, che la scrittrice chiama di quarta generazione (scrive wave, ondata, riprendendo una definizione di Rebecca Walker e Maggie Humm), sceglie quindi di abbandonare il principio del separatismo, teorizzato intorno agli anni Ottanta come pratica necessaria alla riflessione libera delle donne. Le nuove battaglie si combattono da entrambi i lati, con l’appoggio ideologico e tattico degli uomini. Così come il fronte dei diritti, spiega Cochrane in un istant book intitolato
All the rebel women, deve essere allargato fino a comprendere qualsiasi minoranza intersecabile con il femminile e in attesa di vedersi riconosciuta: lesbiche, transessuali, nere.
Un esempio di questa tendenza è il movimento One billion rising, promosso da Eve Ensler (l’autrice dei celeberrimi “Monologhi della vagina”) che si propone di unire donne di ogni parte del pianeta, decise a ottenere giustizia su vari fronti. Il 14 febbraio prossimo, così come l’anno scorso nella stessa data, è previsto un flash mob mondiale, con danze e canti.
La prima ondata di femminismo, lo sappiamo, nasce dalle lotte delle suffragette gli inizi del secolo scorso. Ha una data di inizio: il 4 giugno 1913. Giorno in cui Emily Wilding Davison fu uccisa dalla polizia mentre manifestava per il diritto di voto. Dopo le due guerre arriva la seconda ondata. A partire dalla pubblicazione de
Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Controllo delle nascite, aborto, riconoscimenti civili e giuridici sono le questioni, ma anche l’analisi e l’identificazione dei modelli femminili in corso, possibili e impossibili: sposa, madre, prostituta, lesbica, narcisista, innamorata.
Nel 1963 esce La mistica della femminilità di Betty Friedan. E mentre si discute di ruoli e opportunità in America viene messa in commercio la pillola anticoncezionale. Sesso, maternità, matrimonio: tutto cambia. E intanto si discute sulla legge che consenta l’interruzione di gravidanza. In Italia viene approvata il 22 maggio 1978. Da adesso in poi, sulla strada dei diritti delle donne, il corpo acquisisce un ruolo strategico,
come strumento di emancipazione e come spazio violato, aggredito, contrattato. Nel 1970 Germaine Greer pubblica
L’eunuco femmina e raduna intorno a sé il cosiddetto femminismo radicale: Kate Miller, Anne Koedt, Shulamith Firestone. Quest’ultima, meno nota in Italia, era nata in Canada nel 1945. E’ l’autrice de La dialettica dei sessi,
il saggio nel quale si sostiene che nemica della donna è la natura, che ci ha creato schiave, e nostre alleate sono invece scienza e tecnologia: solo la cultura ci renderà libere. Shulamith Firestone è morta nell’agosto 2012. La
ricorda in un bellissimo articolo sul New Yorker Susan Faludi. Che a sua volta pubblica nel 1991 un libro che segna un passaggio, Contrattacco. La guerra non dichiarata contro le donne.
Da qui in poi entriamo nella terza ondata. Sono gli anni delle Riots girls, delle Spice Girls, delle punk band femminili. Sono anni nei quali, come scrive Faludi, si raccolgono i frutti di quello che è stato un vero e proprio attacco alle conquiste delle donne, messo in atto surrettiziamente nel precedente decennio. Racconta che l’idea per questo libro le venne leggendo un articolo di
Newsweek nel quale si diceva che una donna laureata di trent’anni aveva «migliori possibilità di restare vittima di un attacco terroristico che non di sposarsi». Un’affermazione tendenziosa, e anche falsa, scrive Faludi, pensata per insinuare il sospetto che la liberazione femminile porti con sé una perdita di femminilità. E’ arrivato, scrive Faludi, il momento di contrattaccare. Forse è proprio questo lo snodo cruciale, quello in cui si inasprisce il conflitto, si sfuocano le identità maschili e femminili secondo le definizioni tradizionali. Entra il crisi il maschio, si dice, e da questa crisi nasce una recrudescenza di irrazionalità, che comprende rabbia e violenza.
A questa crisi risponde quello che Kira Cochrane identifica come quarta ondata del femminismo. Che, ovviamente, cresce intorno alla rete. Con alcuni siti strategici, come Fworld, Jezebel o Charge.org, il sito delle attiviste sudafricane. Ma anche in opposizione, mettendo in evidenza le forzature, i pericoli. Le immagini rubate che finiscono esposte sul web, i ragazzini travolti dalla maldicenza sui social. Le donne ballano, cantano, scrivono, combattono. Alcune usano la comicità, come Nadia Kamil, altre le rubriche sui giornali, come Caitlin
Moran. Le femministe islandesi, per arginare l’invasione dei club di strip-tease, hanno aperto alcuni locali dove gli uomini pagano per guardare donne che cantano, ballano e raccontano storie.
E gli uomini che fanno? Qualche giorno fa Christian Raimo ha scritto in un articolo interessante sul quotidiano
Europa che mancano i modelli maschili utili, c’è un spostamento dello scontro dal pubblico al privato, ma soprattutto è saltata la capacità si simbolizzare la rabbia e il conflitto. Il fallimento, scrive Raimo, è quindi sia sul piano pratico che su quello linguistico.
Se davvero, come scrive Kira Cochrane, questa quarta ondata di femminismo è e sarà inclusiva, avremo finalmente la possibilità di ottenere un affresco completo, una visione d’insieme che ridefinisca termini e questioni. Specie su battaglie complicate come per esempio quella contro il femminicidio. Nella speranza che si inauguri una reciprocità, e che i maschi imparino a loro volta a essere inclusivi su temi ritenuti fino a oggi inspiegabilmente solo maschili.

La Repubblica 02.01.14