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"Ricerca italiana tra le più citate. Ma fanno notizia solo le classifiche negative", di Francesco Sylos Labini

Questa è una notizia, apparsa sulla rivista Nature, che non è passata sui giornali italiani. La riporto per intero: Gli Stati Uniti stanno scivolando verso il basso nella classifica della qualità della ricerca, misurata attraverso l’impatto citazionale relativo dei suoi articoli [scientifici]. Questo è quanto viene mostrato da uno studio commissionato dal governo britannico. In particolare, gli analisti della casa editrice Elsevier mostrano che gli Stati Uniti sono stati superati nella classifica (normalizzata per disciplina) dal Regno Unito nel 2006 e dall’Italia nel 2012, anche se gli Stati Uniti rimangono ben avanti in termini di quota mondiale del top 1% degli articoli più citati.

In pratica significa che il surrogato della misura della qualità della ricerca, rappresentato dal numero di volte che un articolo scientifico è stato citato, per l’Italia ha superato l’analogo indicatore per gli Stati Uniti – fermo restando che quest’ultimi sono avanti quando si considera solo l’1% degli articoli più citati.

Inoltre dallo stesso studio si trova anche che l’efficienza della ricerca italiana è ottima: ad esempio il numero di citazioni ottenute per unità di spesa in ricerca e sviluppo è secondo solo al Regno Unito e pari a quello Canadese, dunque maggiore di Francia, Germania, Usa, ecc. Certamente questo studio si riferisce solo a quei campi che vengono censiti dalle banche dati bibliometriche come Scopus: ma questi includono tutte le discipline tecnico-scientifiche e bio-mediche, dunque si tratta di un dato assolutamente rilevante.

Insomma questo dovrebbe essere un risultato riportato con una certa visibilità: finalmente un settore in cui primeggiamo, addirittura se rapportati agli Usa, oltre che essere sempre avanti nelle classifiche dei paesi pi ù corrotti, ecc. E invece nessuno ne parla: perché? Perché invece appena esce una nuova classifica delle università, in cui notoriamente gli atenei italiani non occupano le prime posizioni, se ne parla su tutti i giornali, il ministro di turno promette interventi drastici per riportare in vita la ricerca e l’accademica italiana, ogni volta additati per la sentina dei vizi nazionali?

In realtà dovrebbe accadere il contrario. Infatti, le classifiche basate sulle citazioni di articoli scientifici riportano un dato piuttosto affidabile poiché confrontano, per macro-insiemi di ricercatori, un indicatore semplice da misurare, in determinate banche dati, e relativamente rilevante. Considerando che inoltre la spesa complessiva per l’istruzione superiore in Italia è un terzo di quella degli Usa (metà della Francia, Germania, ecc.) bisognerebbe riconoscere l’efficienza del sistema, nonostante che i docenti di ruolo siano i più anziani dei paesi sviluppati, che gruppi di pressione possano agire con la complicità della politica e che fenomeni di malcostume siano piuttosto frequenti nella gestione dei ruoli di potere accademico.

Invece le classifiche delle università confrontano pere con mele: sono stilate in basi a criteri piuttosto arbitrari, non hanno consistenza scientifica poiché la posizione è calcolata in base ad un mix di parametri del tutto questionabili (dalla produzione scientifica, al numero di studenti per docenti) e soprattutto non tengono conto di un non marginale dettaglio. Per capire quale basti ricordare che nel 2012 le spese operative della sola università di Harvard, frequentata da qualche decina di miglia di studenti, solitamente ai primi posti di queste classifiche, equivalgono al poco meno della metà di tutto il fondo di finanziamento ordinario dell’intera università italiana: il problema non è che Harvard sia prima, il problema sarebbe che non lo fosse.

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"Le riforme e gli sfascisti", di Claudio Sardo

Per il presidente della Repubblica deve essere stato il discorso di fine anno più difficile. Di sicuro è apparso come il più drammatico. E non solo per le contestazioni di Grillo, di Berlusconi e della Lega, che quotidianamente usano contro il Quirinale l’arma dell’ingiuria e della delegittimazione allo scopo di colpire la legislatura e di farla crollare senza riforme. A dare drammaticità alle parole di Napolitano era soprattutto la miscela tra questa rottura istituzionale e la crescente sofferenza sociale indotta dalla crisi. Una miscela della cui pericolosità il presidente si è mostrato ben consapevole, prima leggendo le lettere dei cittadini sul lavoro che manca, sugli affanni di tante famiglie che non arrivano alla fine del mese, sui giovani derubati del loro futuro, poi arrivando a dire che, senza un cambiamento coraggioso, è la nostra stessa democrazia che rischia la «delegittimazione».

La storia ci insegna che da una crisi epocale e di sistema si può uscire ricostruendo il tessuto nazionale oppure precipitando in una catastrofe. Ma siamo fermi davanti al bivio ormai da qualche anno. Giorgio Napolitano non pensava, non voleva pronunciare questo suo ottavo discorso di fine anno. La nostra Costituzione non esclude il secondo mandato presidenziale, ma lo considera un evento assolutamente eccezionale, che mal si concilia con il carattere parlamentare del sistema. Peraltro, nel suo settennato aveva già dovuto affrontare un passaggio quanto mai pericoloso: la crisi dell’autunno 2011, quando il fallimento del governo Berlusconi aveva spinto il Paese sull’orlo del precipizio finanziario. Allora Napolitano fu costretto – anche dalle pressioni dell’Europa, degli Usa, dei mercati – ad assumersi responsabilità enormi, usando quella flessibilità dei poteri che, per fortuna, la nostra Costituzione consente nei momenti di paralisi politica.

Il presidente divenne il garante della transizione anche davanti al resto del mondo. Le elezioni politiche però vennero indette troppo tardi. Non si doveva consentire a Berlusconi, proprio a lui, di sfiduciare Monti. In ogni caso l’esito di quel voto popolare fu lo stallo politico. Mentre la crisi mordeva sempre più, seminando sfiducia, delusione, rabbia. Quando, alle presidenziali, sono caduti i nomi di Marini e Prodi siamo arrivati al collasso del sistema. Se il presidente non avesse acconsentito alla rielezione – richiesta allora da tutti i leader del centrosinistra e del centrodestra – avremmo probabilmente smarrito persino quella trama costituzionale, che vuole il Capo dello Stato garante dell’unità nazionale e non leader di uno schieramento politico. Senza quel «sacrificio» di Napolitano, il vuoto istituzionale sarebbe stato colmato con una scelta di rottura, quella sì oggettivamente di segno presidenzialista. Forse anche il Pd si sarebbe spaccato: e la Costituzione avrebbe subito un’ulteriore torsione.

Altro che presidente-monarca. Altro che semipresidenzialismo di fatto, voluto da Napolitano. Le accuse di strapotere che oggi gli vengano rivolte si fondano sull’ignoranza della Costituzione. E non a caso servono ad alimentare quell’asse anti-sistema, che ha in Grillo e in Berlusconi i suoi architravi. I poteri di indirizzo del presidente sono tanto più forti quanto più è debole la maggioranza di governo: così hanno voluto i costituenti per evitare l’infarto della democrazia parlamentare. Ma l’espansione dei poteri presidenziali resta tutta all’interno del sistema parlamentare, in qualche modo ne costituisce la garanzia estrema. I governi Monti e Letta, benché nati dall’iniziativa del presidente in assenza di una coalizione politica, sono tutti, per intero, da addebitare alla responsabilità del Parlamento. Quando Berlusconi ha deciso di far cadere Monti, Napolitano non ha avuto alcun potere di fermarlo. E così non potrebbe tenere in vita il governo Letta, se venisse meno la maggioranza in Senato. Ovviamente, ogni singolo atto del presidente è discutibile e criticabile, ma temiamo che gli attacchi pregiudiziali a Napolitano spingano verso un esito autoritario, e non già verso un ritorno alla Costituzione. Nei suoi deliri, l’altra sera Grillo ha addirittura sostenuto che bisognerebbe abolire la Corte costituzionale. Ma lo sa che anche in Francia, patria della legge come espressione sacra e inviolabile della volontà del popolo, i poteri del Conseil constitutionnel si stanno espandendo?

Il dramma dell’Italia è che il cambiamento è necessario, ma rischia di apparire impossibile. La battaglia contro le forze dello sfascio è apertissima. Nessuno può sottovalutare le conseguenze di una campagna elettorale europea con Berlusconi, Grillo e la Lega, tutti concordi con i Le Pen nel denigrare l’Unione e nell’auspicare la fine dell’euro. Napolitano ha chiesto coraggio, solidarietà e innovazione. Ha chiesto che il 2014 sia un anno di riforme. Il governo Letta è un’opportunità (anche perché nasce da una frattura con la destra populista). Ma non possiamo permetterci un altro fallimento. Se il governo giungesse a fine 2014 senza realizzare le riforme istituzionali, la sconfitta sarebbe rovinosa. Bisogna fare i conti prima, e molto bene.

Il presidente ha chiesto di provarci. Ha ricordato che la stabilità ha un dividendo economico e che oggi sarebbe un delitto sprecarlo. Il secondo mandato presidenziale sarà breve e comunque legato alle riforme necessarie: se il percorso si interrompesse, Napolitano ne trarrebbe subito le conseguenze. Il messaggio di fine anno, letto con voce roca, era comunque un messaggio battagliero: «Non mi lascerò condizionare da campagna calunniose, da ingiurie o minacce». A molti ha ricordato lo Scalfaro del «non ci sto». Il presidente che ha garantito la tenuta delle istituzioni, a fronte dei ricatti del condannato Berlusconi, non rinuncerà a fare la sua parte. Ma il fronte degli sfascisti è più ampio di ieri. E la battaglia non si vince senza una sinistra all’altezza del suo ruolo nazionale.

L’Unità 02.01.14

"Operazione credibilità", di Marcello Sorgi

Se avesse dovuto pronunciare ieri, e non ieri l’altro, il suo messaggio televisivo, Napolitano avrebbe forse aggiunto alle sette storie di italiani oppressi dalla crisi economica, scelte per il suo discorso, l’ottava. Cioè la decisione del governo indiano – attesa ma purtroppo confermata, così da segnare negativamente l’inizio dell’anno -, di annullare il contratto da 560 milioni di euro con Finmeccanica per la fornitura di dodici elicotteri Agusta Westland.

Non fosse che per la sfortunata coincidenza temporale, non ci sarebbe alcun punto di contatto tra la grave, ancorché prevista, notizia che arriva da New Delhi e gli sfoghi a cui il Capo dello Stato dal Colle ha voluto dar voce, del piccolo imprenditore che ha chiuso l’azienda, dell’esodato, del quarantenne che ha perso il lavoro e non lo ritroverà, della laureata disoccupata, dell’agricoltore che tira la cinghia, dell’impiegato pubblico che deve scegliere tra far la spesa e pagare le tasse, dell’anziano che ricorda l’epoca della ricostruzione e si domanda perché sia perduto, speriamo non definitivamente, l’entusiasmo e la voglia di fare di quegli anni.

Effettivamente niente può collegare la perdita di una grande commessa internazionale con le vicende della gente comune: se non un aspetto, che pur impropriamente le accomuna. Malgrado tutti gli sforzi che il governo ha messo in atto, e malgrado la timida inversione di tendenza dei dati macroeconomici della crisi, l’Italia e la sua classe dirigente infatti non riescono da tempo a godere, né della fiducia interna degli italiani, né di quella di partners e osservatori internazionali.

Non basta la buona fede dei singoli, si tratti del premier Letta o di alcuni dei suoi ministri; e neppure l’ansia di rinnovamento di Renzi, il più giovane leader affacciatosi sulla scena da molti anni. Né serve separare la parte propagandistica, dal legittimo diritto di critica e di denuncia delle opposizioni. La sensazione diffusa rimane quella di una barca che naviga nell’incertezza, senza accorgersi di una falla che rischia di portarla a fondo. Un Paese consapevole di quelle poche cose, delle due o tre riforme che basterebbero a rimetterlo in carreggiata. Ma che tuttavia non riesce a realizzarle, e invece di superarlo continua a girare attorno all’ostacolo.

È questo sentimento, che Il Presidente coglie quotidianamente nel contatto con i cittadini – un rapporto, sia detto per inciso, che a giudicare dai dati d’ascolto del messaggio a reti unificate non ha affatto risentito della campagna di boicottaggio lanciata da parte di centrodestra e Lega. E che ha voluto esplicitare scegliendo, tra le molte missive che riceve, sette lettere particolarmente significative. Così, per la prima volta, il discorso di auguri del Presidente agli italiani s’è trasformato nel messaggio dei cittadini alla classe politica, con un portavoce d’eccezione impersonato da Napolitano.

Sarebbe significativo, certo, che se non proprio nella prima settimana dell’anno, ma magari nel primo mese, governo e Parlamento fossero in grado di affrontare almeno una delle questioni poste dalla gente che scrive al Quirinale. Per dire, una volta e per tutte, il problema degli esodati. Oppure, almeno in tendenza, quello dell’accesso al lavoro dei giovani disoccupati. O ancora quello della riduzione, non simbolica ma effettiva, del carico fiscale a carico delle classi meno abbienti. Purtroppo non c’ è da illudersi: anche se da domani, ci si può scommettere, fioccheranno promesse pubbliche di ogni tipo e in qualsiasi ambito, finché il sistema italiano rimane bloccato non ci sono grandi possibilità che una s oluzione, anche una soltanto, sia trovata.

In sintesi, è ciò che Napolitano ha riconosciuto nella seconda parte del suo discorso, ripercorrendo con evidente amarezza gli otto mesi trascorsi dalla sua rielezione: chiesta, come ha ricordato, da un arco larghissimo di forze politiche e votata dalle Camere riunite con una maggioranza di oltre il 72 per cento, ma accompagnata purtroppo fin qui dall’inutile rete di veti reciproci degli stessi che l’avevano voluta, da un nulla di fatto in materia di riforme e dall’incapacità di realizzare quel che si deve e si sa che è necessario.

È in questo quadro sconfortante che il Presidente ha rinnovato il suo appello: a concordare e approvare al più presto la riforma elettorale, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il Porcellum; ad avviare, almeno avviare, il processo delle riforme istituzionali, dato che i tempi di una legislatura nata morta come l’attuale non consentiranno di portarle a termine; e insomma a ritrovare uno straccio d’intesa, che consenta ai partiti di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e ricostruire un minimo di credibilità di fronte agli elettori.

Ancora una volta Napolitano ha legato a quest’obiettivo il suo impegno e quel che resta del suo mandato. Un mandato breve, come ha confermato, ma non tale da vedersi imporre scadenze da campagne «ridicole», così le ha definite, come quelle degli ultimi mesi di Grillo e Berlusconi, dichiaratamente mirate a intimidirlo. Senza conoscere, e senza valutare, l’incognita del carattere dell’inquilino del Quirinale, e della sua testardaggine nel voler portare l’Italia fuori dalla crisi in cui s’è impantanata.

La Stampa 02.01.14

"Perchè al paese serve una politica energetica", di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

La questione energetica rappresenta uno dei punti critici che condiziona sia lo sviluppo economico sia la sicurezza del nostro Paese poiché oltre l’80% dei consumi viene soddisfatto attraverso le importazioni. La dipendenza dall’estero determina deflussi di capitali per circa 60 miliardi di euro all’anno penalizzando la bilancia commerciale e compromettendo le possibilità di investimento sul territorio nazionale.
Negli anni ’60 il tentativo di Enrico Mattei e Felice Ippolito di rendere l’Italia più indipendente dal punto di vista energetico e quindi più autonoma dal punto di vista politico non ebbe fortuna: Mattei, che stava cercando di sottrarsi all’influenza delle “sette sorelle”, morì in un oscuro incidente aereo, mentre Ippolito, che aveva puntato con decisione sull’energia nucleare, fu messo in carcere con delle accuse del tutto infondate.
Nel periodo attuale le fonti rinnovabili costituiscono una grande occasione per ridurre le importazioni e abbattere i prezzi dell’energia. Però, crediamo che la transizione da un sistema basato sui combustibili fossili verso un sistema alimentato in misura maggiore con le fonti rinnovabili non possa essere lasciata solo al gioco degli incentivi e all’azione delle “forze di mercato” ma debba essere guidata dal governo per evitare che si creino delle situazioni insostenibili. Se consideriamo il settore elettrico possiamo osservare che oggi in Italia i prezzi sono tra i più alti in Europa ed esiste una sovraccapacità strutturale di generazione, superiore al 30% dei consumi. Ciò è avvenuto perché negli ultimi dieci anni non c’è stata alcuna programmazione mentre venivano costruite decine di centrali a gas ad alto rendimento e, grazie ai generosi incentivi, aveva luogo una fortissima espansione dell’elettricità prodotta con le energie rinnovabili. Ma la crescita rapidissima dell’offerta si è infranta sugli scogli della recessione che ha determinato il crollo della domanda di elettricità portando fuori mercato diversi impianti a combustibili fossili. E la situazione sarebbe stata ancora più grave se fosse partito il programma nucleare propagandato dal governo di centrodestra e sponsorizzato dai grandi industriali del nostro Paese.
Il problema dell’eccesso di offerta di elettricità dunque non dovrebbe essere affrontato in modo estemporaneo mantenendo artificialmente in vita le centrali inattive con i sussidi oppure abbandonandole con i conseguenti fenomeni di inquinamento e degrado del territorio. Mario Pirani in un articolo su questo giornale ha suggerito di considerare la trasformazione e il riutilizzo degli impianti attraverso un adeguato programma di investimenti. Queste centrali, infatti, rischiano di rimanere definitivamente ferme sprecando la dotazione di infrastrutture — reti elettriche, impianti di trattamento delle acque, porti e strade — ad esse collegate. Si tratta di un problema molto delicato in quanto i costi di dismissione e di riconversione dei vecchi impianti sono consistenti e oltretutto si viene a determinare un problema di occupazione che deve essere ricollocata in altri settori.
Per questi motivi la futura espansione dell’elettricità da fonti rinnovabili dovrebbe essere inserita nell’ambito di una programmazione energetica che preveda l’evoluzione della domanda e del-l’offerta di elettricità e che metta a punto un piano di dismissione e di riconversione delle centrali termoelettriche fuori mercato, a partire da quelle più vecchie, inefficienti e inquinanti. Ovviamente il settore privato potrebbe avere un ruolo centrale sia nella stesura del piano che nel cofinanziamento degli investimenti.
Inoltre, dovremmo realizzare nuove soluzioni tecnologiche per avere un’offerta non inquinante, inesauribile, a basso costo e con contenuti tempi di ritorno degli investimenti. Pertanto, l’Italia dovrebbe elaborare in tempi brevi una politica industriale per promuovere il settore di produzione delle tecnologie rinnovabili. L’obiettivo è quello di sostenere lo sviluppo di una filiera che va dalla ricerca all’industria proprio per far sì che i generosi incentivi per le energie rinnovabili abbiano ricadute positive sulla produzione e sull’occupazione nazionale.

La Repubblica 02.01.13

"La voce del disagio", di Massimo Giannini

L’ottavo messaggio di Giorgio Napolitano è lo specchio dell’anomalia italiana. Lo è in senso aritmetico: per la prima volta nella storia un mandato presidenziale si proietta oltre l’arco naturale dei sette anni. Lo è in senso politico: mai come oggi l’Italia scissa tra piazza e Palazzo sopravvive suo malgrado sul crinale instabile del «semipresidenzialismo di fatto».
Il discorso di fine anno del Capo dello Stato riflette le ombre di quel «Paese senza » descritto da Ilvo Diamanti. Un Paese senza patrie grandi o piccole e senza riferimenti comuni e condivisi, una società lontana dalla politica e orfana delle istituzioni. Entrambi alla deriva, costretti ad aggrapparsi all’unico appiglio che ancora resiste. Nonostante i deliri sull’impeachment (relegati finora al circuito della propaganda) e gli inviti al boicottaggio (smentiti dai dati sugli ascolti).
Chi si aspettava moniti dolorosi o annunci clamorosi sarà rimasto deluso. Il presidente della Repubblica, pur riaffermando l’urgenza delle riforme economiche e costituzionali, ha giustamente rinunciato ai rituali ma purtroppo sempre più sterili «appelli» a un establishment cieco e sordo. E pur riconfermando la natura straordinaria e dunque provvisoria del suo secondo mandato, ha opportunamente evitato di usare in modo esplicito l’arma delle dimissioni come una minaccia, o peggio un «ricatto». Ha usato un registro nuovo, cercando un equilibrio costante tra tensione morale e attenzione istituzionale. E l’ha trovato.
La tensione morale si coglie nel racconto in presa diretta di questa Italia stanca e impoverita. Il Capo dello Stato ha rinunciato a parlare in prima persona, e ha preferito far parlare direttamente i cittadini, da Vincenzo dalle Marche a Veronica da Empoli, attraverso le lettere che arrivano ogni anno al Quirinale. Un modo efficace, per dare voce al disagio profondo che attraversa un Paese sospeso tra recessione e disoccupazione, e per dare un nome e un volto a un popolo sfiduciato e sofferente, che esprime attraverso il Colle le sue ansie quotidiane e le sue speranze tradite. Implicitamente, è come se Napolitano dicesse a chi lo critica o lo accomuna alla Casta: le mie saranno anche frasi retoriche, ma riflettono davvero lo stato d’animo della gente comune, che magari non urla nei Vaffa-day e non agita forconi nelle strade, ma non per questo, o forse proprio per questo, non merita risposte adeguate e immediate. E così, ancora una volta, nonostante l’inevitabile calo di fiducia che secondo il sondaggio Demos colpisce in parte anche il Quirinale, Napolitano tenta di tenere vivo il suo legame con l’opinione pubblica. Al controllo indiretto esercitato su partiti ormai incapaci di assumere un orientamento autonomo (per dirla con Mauro Calise), il presidente della Repubblica è in grado di aggiungere la forza che gli viene da un rapporto diretto con i cittadini. Ed è per questo che resta comunque un punto di riferimento credibile per una nazione disgregata in quella che Giuseppe De Rita chiama la «poltiglia antropologica».
L’attenzione istituzionale è invece racchiusa da un lato nell’incitamento sempre pressante, rivolto al governo e al Parlamento, a fare quelle «riforme obbligate e urgenti» senza le quali la democrazia è «a rischio destabilizzazione», ma dall’altro lato nel riconoscimento dei «limiti» che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Forse per la prima volta, dopo mesi di oggettivo protagonismo presidenziale, il Quirinale sembra fare quasi un passo se non indietro di lato, rispetto al conflitto politico. Conferma il sostegno convinto al governo Letta, ma lo invita a scuotersi dalla sindrome del galleggiamento e attraverso scelte «lungimiranti e continuative». Ribadisce il primato del Parlamento, ma lo incita a varare «qui ed ora» le riforme «sollecitate dai cittadini stessi» e a dotarsi in fretta di «nuove regole». Rilancia il ruolo dei partiti, ma li ammonisce a fare gli stessi «sacrifici» imposti ai contribuenti, e ad approvare subito quella nuova legge elettorale senza la quale è impensabile e irresponsabile evocare il voto anticipato.
Qui, sul piano più strettamente politico, c’è forse l’unica vera novità del messaggio presidenziale. Correggendo quello che aveva sostenuto nelle scorse settimane, Napolitano parla di riforma elettorale da varare «a larga maggioranza». E dunque, con tutta evidenza, anche al di là del perimetro delle Strette Intese che reggono le sorti di questo scorcio di legislatura. Un buon viatico per Renzi, che pur di superare il proporzionale cerca il dialogo con Berlusconi e con Forza Italia. Purché il leader del Pd non dimentichi la lezione amara di Veltroni, che nel 2008 si bruciò le mani nel vano tentativo di firmare il «patto col diavolo ». Ma a parte questa apertura, nell’insieme l’impressione è che dopo una lunga fase di «casti connubi» (per ripescare una formula morotea) Napolitano ora cerchi di recuperare la «giusta distanza» rispetto al «triangolo » istituzionale, e di ristabilire una corretta gerarchia delle responsabilità politiche. implicitamente, è come se il Capo dello Stato dicesse ai partiti: tocca a voi, non a me, modernizzare l’Italia, riscrivere la Costituzione e rifondare la democrazia.
Non lo ascolteranno, purtroppo. Ma fissare questo paletto serve al Capo dello Stato a sferrare l’attacco finale a Beppe Grillo. A respingere con forza le «campagne calunniose» e le «minacce» del capo-comico genovese. A liquidare come «ridicole » le accuse di una sua riconferma sul Colle dovuta a mire di «strapotere personale». Quel «non mi farò condizionare» tuonato in diretta tv da Napolitano ricorda il famoso «non ci sto» che in tutt’altra epoca e in tutt’altre condizioni scandì in Parlamento Oscar Luigi Scalfaro. Allora come oggi, il solo «movente » dell’uno e dell’altro è il senso di responsabilità. Ed è vero, come scrive Adriano Sofri nel suo magnifico libretto su Machiavelli, che «il senso di responsabilità è il farmaco fatale del potere, medicina e veleno, guai a mancarne ma guai a restarne prigionieri». Ma è ancora più vero che quel senso di responsabilità sembra l’ultimo e l’unico antidoto contro i populismi e gli sfascismi della mai nata Terza Repubblica.

La Repubblica 02.01.14

Tasse sisma, Ghizzoni e Vaccari “E' proroga, ma solo di un anno”

“Rimane inalterato il nostro impegno per ulteriori dilazioni nei prossimi provvedimenti”. La dilazione fiscale per le imprese e i cittadini dell’area del cratere sismico è finalmente legge: la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del provvedimento è avvenuta, infatti, il 30 dicembre. La formulazione finale della norma è, però, difforme da quella per cui avevano lavorato con pervicacia i parlamentari Pd: la dilazione, infatti, non è di tre, ma di un anno. “Era un obiettivo molto atteso – spiegano i parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari – a forte impatto sociale: pensavamo di averlo raggiunto dopo l’approvazione al Senato dell’emendamento nel decreto Enti locali, ma la scelta di non convertirlo in legge ci ha riportato al punto di partenza. Come già nel 2013, anche per il 2014 il nostro impegno prioritario rimarrà quello di portare a Roma le esigenze dei nostri territori: rimane quindi inalterata la nostra determinazione nel cercare di inserire una ulteriore dilazione nei prossimi provvedimenti utili, insieme all’approvazione delle altre norme che il territorio ancora attende”.

Un obiettivo atteso e finalmente conseguito, anche se la formulazione finale del provvedimento non è quella per cui, con pervicacia e determinazione, i parlamentari Pd avevano lavorato in questi mesi. La dilazione fiscale per le imprese e i cittadini delle aree del cratere sismico è finalmente legge: la norma è stata, infatti, inserita nel decreto legge n. 150 del 30 dicembre 2013 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo stesso giorno. Si è così riusciti ad evitare che coloro che avevano acceso un mutuo bancario per pagare le tasse fossero costretti all’esborso per la prima rata già dalla fine del 2013, ancora in piena crisi e in piena fase di ricostruzione. La dilazione ottenuta, però, non è di tre anni come recitava l’emendamento che, grazie all’impegno dei parlamentari Pd e del commissario Errani, si era riusciti a inserire nel decreto Enti locali, ma di un anno, rientrando nel più generale richiamo del presidente Napolitano al rispetto della prassi legislativa che per le proroghe è in genere appunto annuale. L’art. 2 comma 8 del decreto recita infatti testualmente: “La restituzione del debito per quota capitale al 1º gennaio 2014, comprensivo della rata non corrisposta alla scadenza del 31 dicembre 2013 ai sensi dell’ultimo periodo del presente comma, è prorogata di un anno rispetto alla durata massima originariamente prevista, assicurando la compatibilità con la normativa europea sotto il profilo di sovracompensazioni di danni, tenuto conto anche degli indennizzi assicurativi, nonché previa modifica dei contratti di finanziamento e connessa rimodulazione dei piani di ammortamento, con conseguente adeguamento delle convenzioni in essere da parte di Cassa depositi e prestiti Spa e Associazione bancaria italiana… La rata per capitale e interessi in scadenza il 31 dicembre 2013 è corrisposta unitamente al piano di rimborso dei finanziamenti rimodulati ai sensi del presente comma”. “Era un obiettivo molto atteso – spiegano i parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari – a forte impatto sociale: pensavamo di averlo raggiunto dopo l’approvazione al Senato dell’emendamento nel decreto, ma la scelta di non convertirlo in legge ci ha riportato al punto di partenza. Fino all’ultimo avevamo sperato che il termine di tre anni, rispettoso delle esigenze dei territori colpiti dal sisma, potesse essere mantenuto, ma l’assalto alla diligenza a cui abbiamo assistito nella fase di conversione del decreto Enti locali, stigmatizzato anche dal presidente Napolitano, aveva finito per mettere a rischio anche quei provvedimenti, come il nostro, che venivano incontro alle sacrosante esigenze dell’area colpita dal terremoto del 2012. Non abbiamo, comunque, desistito anche in questi giorni di festività, – concludono Ghizzoni e Vaccari – e alla fine siamo riusciti ad ottenere, in extremis, questo importante risultato. Come già nel 2013, anche per il 2014 il nostro impegno prioritario rimarrà quello di portare a Roma le esigenze dei nostri territori: rimane quindi inalterata la nostra determinazione nel cercare di inserire una ulteriore dilazione nei prossimi provvedimenti utili, insieme all’approvazione delle altre norme che il territorio ancora attende”.

"Tania che ha difeso il Dna", di Pietro Greco

Ora lavora alla Casa Bianca, come assistente della direzione per le scienze forensi nell’ambito dell’Ufficio che si occupa di politica della scienza e della tecnologia. È una biologa, con un master in energia e risorse. Ma la rivista «Nature» l’ha eletta a personaggio scientifico tra i 10 più rappresentativi dell’anno per le sue capacità giuridiche. Si chiama Tania Simoncelli ed è lei che ha messo insieme le giuste argomentazioni che lo scorso mese di giugno hanno convinto la Corte Suprema degli Stati Uniti a giudicare non brevettabili i geni semplicemente individuati e isolati dal Dna di un organismo vivente. Una sentenza storica, che pone fine a 30 anni di prassi contraria in voga negli Stati Uniti.
Per affermare questo principio, nel corso degli ultimi tre decenni, sono scesi in campo molti sostenitori del principio secondo cui «non si brevetta la vita». La Corte Suprema non ha detto questo. Non ha distinto tra vita e non vita. Ma tra invenzione e scoperta. Ha riconosciuto, però, che è possibile brevettare le invenzioni, in cui c’è un elemento di novità prodotto dall’uomo, non le semplici scoperte.
Il merito di Tania Simoncelli è di aver impegnato l’American Civil Liberties Union (ACLU), un’organizzazione non governativa che si batte per i diritti civili, in una battaglia legale contro un’azienda, la Myriad Genetics, che avendo isolato i geni umani BRCA1 e BRCA2 coinvolti in alcuni tipi di tumori, pretendeva salate royalties da chiunque li volesse utilizzare. Tania Simoncelli, che ha chiare origini italiane, ha convinto la Corte Suprema che la pretesa – fondata sulla mera scoperta e non su un’autentica invenzione – offende sia i diritti degli individui sia la libertà di ricerca. E ha vinto. Segnando una tappa storica nel rapporto tra diritto e genetica.
La sua bravura ha convinto la Casa Bianca ad assumerla.

L’Unità 01.01.13